Venticinque anni fa l’addio al visionario Philip Dick
Il grande scrittore di fantascienza morì il 2 marzo del 1982, proprio nel momento in cui «Blade Runner» stava per consacrarlo profeta del nostro tempo. Scrisse anche molti romanzi non di genere, tra cui, a ventun anni, «Il paradiso maoista», ora tradotto per la prima volta da Fanucci, che anticipa il suo talento nella costruzione di universi inquieti e claustrofobici
di Tommaso Pincio (il manifesto, 02.03.2007)
Nel 1976, dopo essere stato dimesso da un ospedale della California, Philip K. Dick tracciò un breve ma eloquente bilancio: «Mi ritrovo qui, dopo venticinque anni di carriera come scrittore di fantascienza, con la prospettiva di vedermi tagliare acqua, luce e gas se non pago il dovuto entro tre giorni; allora mi domando: a che cosa è servito?» Il bilancio si intitolava Breve e felice vita di uno scrittore di fantascienza. Un titolo profetico, visto che non molto tempo dopo, il 2 marzo 1982, ad appena cinquantaquattro anni lo scrittore sarebbe scomparso, stroncato da una serie di attacchi cardiaci.
Chissà se aveva davvero messo in conto di andarsene prematuramente. Certo è che il tema della morte lo ispirava parecchio, basti pensare a romanzi come Ubik e In senso inverso, dove le persone decedute continuano in qualche modo a esistere alterando il mondo dei vivi. Ma ancora più curioso è forse il fatto che Dick abbia ambientato le sue opere più importanti negli anni ’80 e ’90. Gli anni in cui avrebbe vissuto la sua vecchiaia se non fosse morto anzitempo. Gli anni che lo hanno consacrato come il più grande autore di fantascienza di tutti i tempi.
In principio toccò a un cane
Philip K. Dick pubblicò il suo primo racconto nel 1951, ad appena ventitrè anni. Era la storia di un cane che individua negli uomini che passano a prendere la spazzatura una razza aliena. Il cane fa quel che può per avvertire gli umani ma i suoi tentativi sono fatalmente vani. Il racconto fu pubblicato su Fantasy & Science Fiction, una delle tante riviste pulp che uscivano allora. Malgrado fosse un appassionato del genere, Dick aveva però ben altre ambizioni. Voleva diventare uno scrittore «serio», mainstream come si dice in America. La sua ferma determinazione in questo senso veniva purtroppo sistematicamente mortificata dagli editori, che rispedivano al mittente i suoi manoscritti con lettere di rifiuto.
Sembra abbia scritto decine e decine di romanzi seri. Alcuni furono dati alle stampe postumi. Altri, la maggior parte, sono andati per sempre perduti. I primi tentativi di Dick risalgono addirittura alla fine degli ’40. Nel 1947 abbozzò un romanzo, mai portato a termine, sulla dirompente forza del sesso che egli aveva da poco scoperto. In seguito, probabilmente due anni dopo, scrisse Gather Yourselves Together, ambientato nell’allora emergente Cina maoista (pubblicato ora per la prima volta in Italia con il titolo Il paradiso maoista, Fanucci, trad. Giuseppe Costigliola, pp. 364, euro 16).
«C’è un tema vagamente politico» - rileva Lawrence Sutin nella sua fondamentale biografia di Dick (anch’essa edita da Fanucci). I cinesi paragonati ai primi cristiani per via del loro ardore e gli Stati Uniti assimilati alla decadenza della Roma imperiale. In effetti, tutto ciò è poco più che evocato e serve da inconsueto sfondo a un contorto ménages à trois che vede coinvolti tre dipendenti di un’azienda americana che sta essere nazionalizzata dal governo cinese. C’è un uomo cinico e disilluso che a suo tempo ha sottratto la verginità a una ragazza, lasciandola nella più completa amarezza. C’è la ragazza che cerca senza molto riuscirci di superare il trauma. E c’è un giovanotto che viene sedotto dalla ragazza, la quale crede così di prendersi una specie di rivincita.
I dialoghi protratti allo sfinimento e l’uso eccessivo e meccanico del flashback non ne fanno certamente un capolavoro. Al di là delle inevitabili ingenuità stilistiche - stiamo pur sempre parlando di uno scrittore appena ventunenne e per giunta autodidatta - il romanzo si fa comunque leggere e lascia filtrare in controluce un talento visionario per nulla scontato. I conflitti interiori dei personaggi, l’atmosfera cupa e il senso di fine incombente sono già quelli che caratterizzeranno l’opera più matura dello scrittore.
L’elemento più dickiano in assoluto è il contesto nel quale di svolge l’azione. Tutto si consuma in un luogo che, per pochi giorni, è come un limbo astratto dal resto del mondo. I tre personaggi si ritrovano soli in un grande complesso industriale deserto. Tutti i colleghi hanno fatto ritorno in patria, loro sono stati lasciati lì dai dirigenti ad attendere l’arrivo delle truppe cinesi che prenderanno in consegna i locali. È questa dimensione lontana da tutto a scatenare la tensione tra i tre personaggi.
Dick si servirà spesso di questo meccanismo. Romanzi ben più famosi come Occhio nel cielo, Labirinto di morte, Follia per sette clan prendono le mosse in situazioni particolari che vedono un gruppo di persone costrette a passare del tempo assieme in uno spazio irreale o quantomeno isolato dal consorzio sociale, il koinos kosmos o «mondo condiviso» come Dick era solito chiamarlo.
Lo scenario del Paradiso maoista ricorda da vicino Il deserto dei tartari di Buzzati o l’indeterminatezza di certe narrazioni di Kafka, rivela giustamente Carlo Pagetti nella sua introduzione. E, in effetti, tra le tante citazioni presenti nel testo, una tira in ballo proprio un celebre racconto dello scrittore praghese. Vista l’ambientazione, il racconto non può che essere La muraglia cinese. Rimane comunque il fatto che lo scenario claustrofobico e quasi metafisico nel quale i tre protagonisti si aggirano come fantasmi in pena contiene già tutti gli elementi degli inquieti e traballanti universi del Dick fantascientifico, quello che nell’ultimo quarto di secolo è prepotentemente entrato nell’immaginario popolare.
Quel che resta di una ambizione
Lo scrittore morì proprio nel momento in cui Blade Runner stava per consacrarlo profeta del nostro tempo. Ma chissà, forse Dick non voleva affatto essere consacrato. Forse una vita da misconosciuto scrittore di fantascienza non era esattamente ciò in cui sperava da giovane, ma era ciò che il destino gli ha aveva riservato. Per cui tanto valeva tenersela questa vita e farla breve: «È triste ma sto invecchiando. Sto invecchiando. Non mi sono rappacificato con la società ’regolare’, ma allo stesso tempo sono troppo fiacco, troppo sfibrato dalla malattia e dalla paura, per riuscire a far altro che quadrare i conti - cioè pagare la bolletta dell’acqua, del gas, dell’elettricità».
Per approfondimenti:
a) Philip K. Dick, si cfr. Wikipedia
b) Visioni dal futuro. Il caso di Philip K. Dick (F, Chiappetti, Fara Editore, Rimini 2000)
c)Philip Dick, ESEGESI 1 - «Un autolavaggio spirituale«» di Giuliano Spagnul ("La Bottega del Barbieri")
d)RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
e) LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
f)CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
g) Sul problema della "feconda immaginazione", si cfr. L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
h) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. LA LEZIONE DI KANT... *
Il casco di Dio e la mela: la logica vinta dalla “matematica del mistero”
C’è una razionalità orizzontale e una verticale: la prima crede di dominare il reale, la seconda esce dai binari del già scritto e comprende la totalità. È lo strumento per compiere la nostra umanità
di Raul Gabriel (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
Il termine “razionale” viene usato spesso a sproposito. In sé non identifica alcuna categoria certa. La razionalità è una materia talmente malleabile che può schiudere visioni sorprendenti o ingabbiare in strutture di ragionamento rigide da cui non si riesce più a uscire. Tutto dipende dalla qualità della razionalità. E la qualità dipende in buona parte dall’asse su cui si sviluppa.
Ognuno di noi è razionale, e non è escluso che, sia pure con le limitazioni del caso, la razionalità possa essere estesa anche al mondo animale. L’interpretazione della parola “razionale” si infiltra nei labirinti sinaptici per strade che possono essere molto diverse. Persino in contraddizione tra loro.
Qual è il punto critico? Il fatto che alcuni sviluppano una razionalità orizzontale, caratterizzata da grande ricchezza di informazioni organizzate in maniera estremamente meccanica, rafforzata non di rado da un autocompiacimento che frena ogni possibile risonanza capace di espandere la struttura del ragionamento. Non è importante che si tratti di storia, arte, biologia, fisica, teologia, critica letteraria e così via. Ciò che importa è la propensione ad articolare il pensiero secondo concatenazioni vincolate e sequenziali che lo rendono simile ai processi produttivi delle macchine di produzione alfanumeriche.
Altri invece sviluppano una razionalità verticale e obliqua che al posto delle meccanicità orizzontali-aritmetiche, ha come fondamentale caratteristica la potenzialità dei salti di intuizione. Il modo verticale, se così possiamo chiamarlo, va spesso in conflitto con il procedimento meccanico. A differenza del modo orizzontale che si accontenta di risultati facilmente dimostrabili a patto di rimanere in prospettive estremamente limitate, non dà sempre garanzia di successo, ma è l’unico che può portare a veri salti cognitivi.
Un collezionista di Milano in visita al mio studio ha detto una cosa di cui sono profondamente convinto. Le intuizioni più potenti vengono praticamente sempre dagli autodidatti. Aggiungerei anche da coloro che hanno un rapporto profondamente conflittuale con gli studi e non ne diventano il breviario noioso e ragionieristico da esporre come una litania stanca per la troppa abitudine. L’intelligenza orizzontale ha molto a che fare con la burocrazia intellettuale, e spesso si sposa più con l’ansia di un facile riconoscimento da parte degli altri che con una sete di indagine.
Il casco di Dio
La ricerca di Michael Persinger, neuroscienziato sviluppatore del cosiddetto “casco di Dio”, originariamente “casco di Koren” da Stanley Koren il suo primo creatore, può essere emblematica della distinzione tra i procedimenti orizzontale e verticale. Soprattutto nelle sue conseguenze. Sono convinto che non molti conoscano Persinger, scomparso di recente e fondatore del Behavioral Neuroscience Program, settore di ricerca sulle neuroscienze che innesta psicologia, chimica, neurologia e biologia in un progetto sperimentale che ha generato branche di studio come la neuroteologia.
Cercherò di illustrare brevemente la sua esperienza. Il “casco di Dio” è un semplice casco da motoslitta dotato di due solenoidi in grado di emettere leggeri campi magnetici. Fatto indossare a una persona in un ambiente isolato senza suoni e stimoli di sorta, produce un leggero campo magnetico sul lobo temporale. La stimolazione porta l’individuo ad avvertire delle presenze. In alcuni casi i soggetti sono in grado di elencare numero e posizioni spaziali di queste presenze.
Durante l’esperimento sono state riferite sensazioni come “uscire dal corpo” e cose del genere. L’esperienza di per sé è estremamente interessante, come indagine conoscitiva e medica. La capacità del cervello, e per esteso del corpo, di sintonizzarsi su forze invisibili ma perfettamente presenti e “corporee”, reagire a esse generando percezioni di varia natura, è sicuramente un campo di indagine molto affascinante.
Ma questo è il dato empirico. In sé non significa nulla. Come tutti i dati sperimentali osserva ciò che succede ma non può dire nulla sul perché succede. Michael Persinger ha applicato alla interpretazione dei risultati ottenuti con questo apparato incredibilmente semplice, quella che definisco “razionalità orizzontale”. Cioè la stessa logica di un rebus da settimana enigmistica. Non voglio essere frainteso. Questo tipo di razionalità può arrivare molto in là nella complessità delle deduzioni. -Ciò che non può fare è uscire da una catena di cause e conseguenze vincolate e sequenziali, che non possono portare a vere novità, ma trovano la strada di un labirinto senza orizzonti, come una cavia addestrata alla ricerca del cibo premio.
Nell’interpretazione di Persinger i risultati degli esperimenti dimostrano l’inconsistenza degli stati caratteristici nelle esperienze mistiche come percezione di presenze, rivelazioni, catarsi, trasporti spirituali. Tutto ciò che si attribuisce a una attività spirituale o extrasensoriale dell’individuo è, secondo Persinger, il prodotto dell’influenza sul cervello di perturbazioni elettromagnetiche in cui ci si può imbattere occasionalmente.
Questo ragionamento aritmetico si svolge in un tunnel univoco. Mette gli elementi in fila uno davanti all’altro e trae una conclusione che non si scosta in alcun modo dalla stessa qualità dei dati empirici. Non tiene conto del fatto che i dati dell’esperimento mostrano semplicemente una modalità di interazione del cervello. La meravigliosa capacità del nostro corpo di intercettare visibile e non visibile, pur sempre corporeo, a livelli di finezza sorprendenti. Ma la sua lettura orizzontale non va oltre il dato e la sua ontologica insignificanza etica.
Non produce una sintesi capace di uscire da un labirinto logico privo di orizzonte. Il ragionamento si affanna a tracciare una linea tra i dati mantenendone il medesimo livello qualitativo. Non produce sintesi e salto cognitivo.
La razionalità orizzontale ci dice quello che sappiamo già: che esistono i dati, che hanno quella forma e scansione temporale. Dal punto di vista cognitivo non genera alcuno spostamento. Dire che la nostra vita extrasensoriale o spirituale è il frutto aritmetico della fisiologia del cervello sottoposto ad alcuni stimoli significa scambiare arbitrariamente gli effetti con le cause.
Se le dimensioni percepite a causa del casco sono artificiali, questo non esclude in alcun modo che esistano dimensioni vere e concrete che generano la stessa percezione.
Se Persinger avesse aperto la sua razionalità alla dimensione verticale avrebbe compreso che aveva dimostrato un fatto profondo e toccante: se un Dio esiste, si manifesta proprio attraverso la dote che è stata data al nostro corpo: reagire a quel campo magnetico leggero che a me fa tenerezza, come una carezza delicatissima dentro la nostra carne.
La logica senza frutto del peccato originale
Le considerazioni sul "casco di Dio", le direzioni della razionalità, la loro divisione radicale nel quadro delle facoltà cognitive umane, compresa la sfera spirituale, portano molto in là e possono aprire a ipotesi stimolanti.
Intelligenza orizzontale e verticale aprono a mondi completamente diversi e innescano comportamenti completamente diversi - con un riflesso evidente nel nostro modo di stare al mondo, di interagire con gli altri e nella società. Si tratta non solo di meccanismi cognitivi che si esplicano nel momento del loro esercizio, una sorta di “soluzione” diversa a una domanda. -Le due forme di intelligenza sono la porta verso visioni complessive della realtà totalmente differenti.
Vi è un filo conduttore che riconduce questo tema chiave della razionalità al primo dilemma posto dalla storia simbolica a riguardo dell’intelligenza come forma di contrapposizione e ribellione al divino, verticalità per definizione. Il “peccato originale” è l’enigma cognitivo alla radice della storia umana. Riguarda la natura del bene e del male e, a mio parere, riguarda profondamente la natura della razionalità, che con il bene e il male è indissolubilmente intrecciata.
Forse il frutto con cui il serpente tenta gli abitanti del Giardino primigenio non rappresenta la conoscenza tout court. -Rappresenta invece una conoscenza “orizzontale”, l’adesione a una razionalità meccanica che esclude i salti cognitivi e per questo esclude Dio e la sua presenza ab origine. Esattamente come Persinger, nelle sue affrettate conclusioni sui risultati sperimentali ottenuti con il “casco di Dio”.
Il peccato originale è un primo amalgama tra razionalismo e riduzionismo. La mela è l’intelligenza orizzontale, parziale, escludente, basata su una analisi puramente aritmetica del reale. La sua stessa essenza esclude la visione verticale, la conoscenza complessiva del Giardino. Una volta simbolicamente mangiata, genera istantaneamente le categorie che danno l’illusione della comprensione, forti di un legame in apparenza stringente con il reale.
La mela crea il labirinto orizzontale, privo di elevazione, che esclude dalla visione generale, dalla conoscenza totale. Il labirinto è quello della logica strutturata per concatenazioni incapaci di fare salti. La tentazione è forte. Mostrare la validità del proprio processo logico cognitivo facendo leva su parametri gestibili a distanza ravvicinata che pretendono di mostrare una concretezza inoppugnabile mentre evidenziano una profonda cecità di fondo.
Mangiare la mela della razionalità orizzontale significa rinunciare al proprio destino di umanità compiuta che funziona per logiche tutt’altro che lineari. Per fortuna. Rinunciare consapevolmente alla speranza del compimento del proprio destino significa autodegradarsi in nome di una conoscenza che diventa invece scissione.
Separazione dal Giardino.
Il “peccato” originale è stato questo. Scegliere di muoversi nella realtà come cavie da laboratorio, così impegnate nella progressiva risoluzione dei problemi e dei test da perdere la cognizione della possibilità del salto e della visione d’insieme. La visione di insieme, il Giardino, non sono aritmetici. Sono come un territorio incongruo, apparentemente eterodosso, la cui comprensione richiede un susseguirsi di sfide cognitive che possono essere tentate solo con una continua scommessa, intuibile ma ignota, che risponde a una matematica del mistero, se vogliamo chiamarla così.
Non vi è contraddizione tra intelligenza e divino. Il sapere, in alcuni momenti della storia, ma anche oggi negli anfratti delle sottoculture cristiane e non, viene visto come interferenza nell’ascesi, una sorta di tentativo di capire ciò che non si può capire e quindi tentativo di “essere Dio”.
Invece l’intelligenza è parte integrante del Giardino e dei suoi abitanti. A patto che sia una intelligenza verticale. Perché unico vero strumento per compiere la propria umanità.
L’esclusione dal Giardino non viene irrogata come punizione da un arbitro intransigente per un fallo di gioco. La esclusione è coincidente con la scelta della razionalità orizzontale che degrada gli esseri umani a meccanismi e li tenta semplicemente perché dà loro la impressione di controllare e poter essere controllata.
Non credo che si possa scegliere il proprio tipo di intelligenza. Forse non è neanche un processo volontario. Volontaria è la esibizione della razionalità come teoria di informazioni legate una all’altra, strumento di controllo, potere, narcisismo. Volontario è rivendicare una conoscenza che si crede di poter dimostrare assoluta perché limitata. Il problema è lo stesso delle geometrie euclidee e non euclidee. Con Euclide si può costruire un muro, e non è poco. Ma non si può in alcun modo mettere fuori la testa di più di dieci centimetri a contemplare l’universo di cui Euclide come l’intelligenza orizzontale non è altro che una minima manifestazione.
La mela è la tentazione mortale di fare di un particolare il tutto, rinunciando alla fiducia della scommessa cognitiva dentro la quale, solo, può essere contemplato il Giardino della propria e altrui realizzazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO"
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766. Invito alla rilettura dell’opera del 1766, "I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
La danza della pioggia in ascensore
di Franco Berardi Bifo (Comune-info, 10 Dicembre 2019)
Un tempo si faceva la danza della pioggia. Lo sciamano si vestiva con paramenti sgargianti, ululava, ballava e girava in tondo. Dopo di che talvolta pioveva talvolta no, ma non dipendeva da lui, almeno credo. Rituali propiziatori, esorcismi... Oggi c’è la politica che svolge la stessa funzione del tutto irrilevante ai fini di fermare la catastrofe ambientale, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento della temperatura, ma anche ai fini di rilanciare la crescita, superare la stagnazione eccetera eccetera.
Non è sempre stato così, intendiamoci: per qualche secolo fu possibile decidere in modo collettivo, in forma democratica oligarchica o monarchica, e la decisione poteva determinare qualcosa (non tutto, non molto, ma qualcosa) nella sfera dell’esistenza comune.
Ora non più. Mi duole dirlo, ma la politica non è più in grado di scalfire la superficie degli eventi, perché è diventato impossibile decidere in tempo a causa della velocità infinita dei flussi di comunicazione, ed è diventato impossibile determinare il corso degli eventi, perché la complessità delle relazioni economiche, sociali e psichiche è divenuta tale che nessuna decisione potrebbe in ogni caso dominarle. E perché la macchina tecnica connettiva ha incorporato nelle relazioni linguistiche automatismi cui non è possibile sottrarsi.
C’è qualcosa di patetico, di struggente nella frenetica accelerazione della politica contemporanea. Come un poveraccio che si trovi chiuso in un ascensore che precipita a tutta velocità verso l’inferno, il cittadino contemporaneo schiaccia impazzito pulsanti con su scritto: destra, sinistra democrazia, nazione, popolo e altre parole che non significano niente, ma che offrono ancora (sempre meno) l’illusione di poter salvare noi stessi e le nostre famiglie dal destino inquietante che vediamo ogni giorno più chiaramente, e comincia ormai a farci paura.
Non dico, intendiamoci, che se vince la destra non cambia niente: cambia la truculenza delle parole, la crudeltà dell’esecuzione e la ridicola ferocia delle facce. Tutto qui. La vittoria di Trump ha enormemente peggiorato la qualità del discorso pubblico, esasperato l’efferatezza delle dichiarazioni contro i migranti. Ma Trump ha deportato 80.000 migranti, mentre il gentilissimo bellissimo coltissimo Obama ne aveva deportati 120.000. E tutti abbiamo tirato un respiro di sollievo quando l’orrendo Matteo Salvini è stato scalzato dal serafico Zingaretti. Ma il decreto sicurezza non è stato neppure scalfito (anche se tutti dicono oddio che brutto), la legge dello jus soli non è neppure stata proposta al parlamento, (anche se molti si vergognano e promettono che prima o poi). E la tassa sulla plastica nelle confezioni, un ovvio tentativo di contrastare la trasformazione degli oceani in putridi immondezzai, è stata messa da parte perché altrimenti Bonaccini perde le elezioni (scusa, ma chi è Bonaccini?). Certo Salvini gode ogni volta che un centinaio di africani annegano nel mar Mediterraneo, ma la legge che gli permetteva di giustiziare gli “invasori” l’aveva fatta il civilissimo Marco Minniti.
Dobbiamo concludere che i politici sono tutti bugiardi e mascalzoni? Può darsi che lo siano, ma il problema non è affatto questo. La loro volontà (e la nostra volontà democraticamente espressa) è come la danza della pioggia. La volontà umana conta soltanto quando non deve affrontare processi immensamente veloci, infinitamente complessi, e soprattutto disgraziatamente irreversibili. Come quelli che stanno provocando l’estinzione della civiltà (se non del genere umano). E la politica è l’espressione della volontà umana, che purtroppo oggi non possiede più alcuna potenza.
E allora che occorre fare? Naturalmente non lo so. Forse occorre raccogliersi in meditazione e prepararsi all’estinzione che in fondo non è altro che un evento naturale al quale nel tempo nessuna creatura può sfuggire. O forse inventare una tecnica di trasformazione del rapporto tra la sfera umana e l’universo circostante che non si fondi sulla volontà ma sulla coscienza.
Ma qua si apre un discorso difficile, che dobbiamo affrontare con calma, anche se l’ascensore precipita sempre più rapido verso l’inferno.
LA “CROCE” (“X”) DELL’APOSTOLO ANDREA E LA “BIBLIA PAUPERUM”. A GLORIA DI PRESICCE E IN MEMORIA DEL SUO PATRONO.... *
RICORDANDO CHE “lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre” (cfr. : Sant’ Andrea Apostolo), solleciterei storici e storiche, filologi e filologhe, filosofi e filosofe, a riflettere - visto che Gesù Cristo (dal greco Χριστός, Christós) è morto sulla “croce” - sulla differenza tra la “croce” (“X”) dell’apostolo Andrea e, unitariamente, la “croce” latina dell’apostolo Pietro (“Crocifissione di San Pietro” di Michelangelo Merisi), sia sul piano del significato del simbolismo della figura sia sul significato della lettera dell’alfabeto greco e dell’alfabeto latino.
Al buon-intenditore (del “buon-messaggio” - dell’ “ev-angelo”) poche parole....
Complimenti e buon lavoro
Federico La Sala
* Cfr.: Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano di Andrea Erroi, Fondazione Terra d’Otranto, 30.12.2018.
Scienza e spiritualità
Oltre il reale
di Federico Ferrari (Doppiozero, 08.10.2019)
Nell’arco della vita può capitare di imbattersi in esperienze in cui il percetto, l’oggetto della percezione, supera il concetto, quell’insieme di percorsi razionali che l’intelletto elabora e mette in opera per dare un significato al vissuto. I concetti sono, in fondo, una serie di risposte che, astraendo dal contingente e riducendo l’esperienza al conoscibile, se non al conosciuto, la rendono gestibile. Nella moderna neurobiologia si è individuato nel DMN (Default Mode Network) una rete, presente nel cervello, che svolge questa funzione. Quando questa rete cerebrale va in crisi, quando il concetto non riesce a gestire il percetto, quando appare una mancata coincidenza tra la ragione e l’esperienza, ci troviamo di fronte a qualcosa che resta inspiegabile, se non indicibile. Con un linguaggio più aulico e spirituale, potremmo dire che appare l’ineffabile o, come chioserebbe uno studioso delle religioni, appare il numinoso. Ci troviamo, infatti, di fronte a qualcosa che va oltre l’esperienza del reale, così come siamo abituati a conoscerlo nella vita quotidiana. Si dà, in queste rarissime occasioni, un’eccedenza o una sproporzione che mette in discussione la certezza stessa di cosa sia reale.
Come cambiare la tua mente di Michael Pollan è un poderoso e avvincente resoconto di esperienze di questo genere; esperienze che lasciano una sensazione di spaesamento perturbante, non solo nel racconto di coloro che le hanno compiute, le decine di personaggi che appaiono nel testo di Pollan, ma anche nel lettore che, senza tregua, altalena tra lo stupore di scoprire la possibilità di accedere a dimensioni ulteriori della mente e del reale e la sensazione di trovarsi di fronte a una sorta di allucinazione collettiva in cui la follia diviene norma. Pur su tutt’altro registro linguistico, la lettura di Pollan fa sorgere inquietudini simili a quelle che emergono leggendo la Trilogia di Valis di Philip K. Dick nell’intreccio indissolubile tra biografia e narrazione che si moltiplica nei tre romanzi dickiani in una labirintica proliferazione di piani tra finzione, realtà e ultrarealtà. Dick, come Pollan, narra di un’esperienza “mistica”, esperienza che lo aveva portato oltre la dimensione spazio-temporale ordinaria mostrandogli dettagli di un mondo assai prossimo a quello descritto dalla tradizione gnostica.
All’interno dell’atmosfera onirica, eppur straordinariamente realistica, del romanzo di Dick, che assume connotati davvero inquietanti se letta parallelamente al diario di quegli anni, uscito con il titolo di L’esegesi, più volte viene da chiedersi cosa sia la realtà e se la fiction dickiana non sia piuttosto una parola profetica capace di mostrare, al di là delle apparenze abitudinarie del senso comune, il reale nella sua essenza abissale e vertiginosa. Altrettanto inquietante e gravido di domande analoghe è il libro di Michael Pollan. E anche per Pollan e le sue enigmatiche esperienze di passaggio attraverso il muro della percezione e della realtà vale la frase icastica di Valis: “la realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non svanisce”. Sì, in fondo, sia in Dick sia nei personaggi descritti da Pollan, ci si trova di fronte ad esperienze di oltrepassamento del reale che non necessitano più di una fede. È, potremmo dire, quel che resta della realtà mistica quando non c’è più fede, quando non si crede più. Ci troviamo al cospetto del resto, di quel che resta della tensione verso l’aldilà, in un mondo che non crede più in nulla al di fuori dell’efficacia dei risultati.
Di quali esperienze tratta il libro dell’autore di fortunate opere sulla consapevolezza alimentare, come Il dilemma dell’onnivoro e In difesa del cibo? Il libro di Pollan credo possa essere definito come il resoconto di un cammino iniziatico, quello dello stesso autore, alle sostanze psichedeliche. Aristotele, per descrivere l’esperienza iniziatica, sottolineava che, più che come un insegnamento (didaskómenos), la si dovesse intendere come un’impronta (typoúmenos), un qualcosa che si imprime sull’anima e sul corpo dell’iniziato. E, leggendo i resoconti dei “viaggi” riportati da Pollan, si ha la netta sensazione di assistere proprio a questo tipo di esperienza, un’esperienza che si rivela, per l’appunto, come un’oscura sapienza, che si imprime nella mente di colui che la sperimenta. Non c’è nulla di didascalico in Pollan, ma tutto appare come vivo, come reale, come impossibile da eludere e da dimenticare: un sapere impresso nella carne.
Non è raro che le esperienze psichedeliche raccontate da Pollan abbiano un carattere catabatico, cioè di contatto e scambio con il mondo dei morti. Molto emozionanti sono le pagine dove Pollan descrive l’incontro con il teschio del nonno o l’identificazione dei genitori con due alberi davanti al suo studio, a cui segue la percezione, anzi la certezza, di una continuità indissolubile tra i vivi e i morti, tra la nascita e la morte. Anche qui si ha la netta sensazione del ripresentarsi di momenti canonici dell’esperienza misterico-iniziatica nella quale alla katábasis, alla caduta nelle tenebre, segue l’inesorabile ascesa verso la luce, l’anábasis.
Di pagina in pagina, attraverso una scrittura brillante e coinvolgente, non esente da un’ironia sferzante che fa coppia con una rara capacità di creare empatia tra il lettore e i personaggi (personaggi che, in realtà, sono persone in carne ed ossa, quasi tutte viventi e dotate di nomi e cognomi), Pollan non si limita al proprio percorso, ma ci accompagna tra i più avanzati laboratori di ricerca del mondo, mostrandoci come la ricerca scientifica abbia oggi un estremo interesse a studiare l’efficacia degli psichedelici in moltissimi campi di applicazione. E poi, in un alternarsi di situazioni e di colpi di scena, ci trascina al cospetto di misteriosi mediatori che, confinati nell’illegalità e in un’atmosfera magico-sacrale, fanno vivere a uomini e donne, del tutto normali e alla ricerca di un senso per la propria fin troppo “sensata” esistenza, “viaggi” oltre le porte della percezione, là dove il confine tra l’io e il Tutto vacilla.
Pollan ricostruisce, in questo modo, con grande precisione e dovizia di particolari, le tappe principali della storia di queste sostanze dalla fine degli anni trenta, anni della scoperta accidentale da parte di Albert Hofmann della molecola dell’LSD, sino, nei primi anni del 2000, al loro “rinascimento” (questa l’espressione di Pollan) ad opera di alcuni dei principali centri di ricerca medica e farmacologica del mondo, passando ovviamente per tutta la leggendaria sperimentazione degli anni sessanta da parte di un’intera generazione di hippy ed esponenti della controcultura americana, senza dimenticare l’uso di queste sostanza da parte delle élite del jet set internazionale in una rete di personaggi, più o meno inquietanti, dietro i quali si intravedono le ombre minacciose della CIA e di ancor più discrete società segrete.
Si viene così a delineare, nelle oltre 400 pagine del libro, un composito e sorprendente affresco che narra le sorti, più o meno note, di queste sostanze: dalla loro recente riabilitazione, non solo e non tanto per la cura di patologie resistenti ai farmaci in commercio e alle terapie comuni (patologie come l’alcolismo, le dipendenze o la depressione per le quali gli psichedelici hanno dimostrato, nei primi studi pubblicati, straordinarie percentuali di efficacia terapeutica), per giungere al loro utilizzo per una più vasta e complessa comprensione della mente e delle sue frontiere. Ricerche, queste ultime, che impongono alla scienza perturbanti sconfinamenti nelle dimensioni del misticismo e della fuoriuscita dal sé, spostando i confini del conosciuto alle soglie della scomparsa dell’individualità egoica a favore di una coscienza universale o cosmica.
È su queste ultime dimensioni di sconfinamento tra scienza e mistica che, io credo, sorgono gli interrogativi più interessanti in una più vasta e generale ricognizione sul ritorno di una dimensione spirituale nelle moderne società del tecnocapitalismo avanzato. Adelphi aveva già pubblicato, nel 2018, un interessante testo di Mark O’Connell dal titolo Essere una macchina, nel quale veniva investigato un inaspettato cortocircuito tra lo sviluppo tecnologico e la ricerca di nuove forme spirituali. In quel caso si trattava dei progetti transumanisti di resurrezione dei corpi attraverso le macchine o, nel peggiore dei casi, di trasmigrazione della coscienza in una macchina. In fondo, O’Connell ci mostrava la risorgenza, sotto nuove spoglie, quasi totalmente secolarizzate, della novella cristica dell’avvento del Regno in cui la morte è vinta. Pollan compie un gesto analogo a quello di O’Connell andando ad indagare, attraverso i più avanzati studi scientifici attualmente in corso, la possibilità di un ampliamento delle frontiere della mente e della coscienza.
E, in questa sua indagine, ci porta in terre di confine in cui la scienza, e i suoi derivati tecno-farmaceutici, si trovano ad intersecare il misticismo e antichissime sapienze, rimandando, in modo più o meno consapevole, al rapporto tra l’ātman e il Brahman della tradizione hindu o al Noûs aristotelico e tutte le sue derivazioni averroistiche, secondo le quali vi sarebbe una mente unica, senza forma e senza soggetto, a cui le singole menti non farebbero che connettersi. È ancora a questa mente unica che Aldous Huxley si riferiva quando, parlando proprio delle sostanze psichedeliche, in Le porte della percezione, ipotizzava l’esistenza di un “Intelletto in Genere” più vasto di quello individuale. Si tratta, in fondo e di nuovo, tornando alle pagine di Pollan, della ricomparsa dell’antica necessità umana di oltrepassamento della sfera del quotidiano per accedere a una dimensione altra o, comunque, più vasta della realtà. Non solo della realtà esterna, che la fisica e la chimica contemporanee hanno già dilatato all’inverosimile, tanto verso l’infinitamente piccolo quanto in direzione dell’infinitamente grande, ma anche della realtà cosiddetta interiore, quella della mente e della coscienza. Gli psichedelici appaiono, oggi, alla scienza, come prima erano apparsi a molti sacerdoti e sciamani o, in tempi più recenti, a scrittori e visionari di un mondo alternativo, una possibile via d’accesso per questa espansione dei confini della mente. Gli psichedelici, non più come droghe ricreazionali, ma come potenti mezzi tecnici utili per dare avvio a nuove ricerche e scoperte, allo stesso modo in cui lo furono, per la chimica e la biologia, il microscopio e, per l’astronomia, il telescopio. Quel che davvero sorprende, uscendo dalla lettura di Pollan, è come la scienza si confronti, oggi, con questioni che secondo lo scientismo positivista sarebbero state messe definitivamente “fuori gioco” proprio dall’evoluzione del pensiero scientifico, pensiero che le avrebbe bollate come irrazionali e fondate sulla superstizione e sull’ignoranza.
Così, quando nel 2006 un’equipe della Johns Hopkins University guidata da un neuroscienziato come Roland Griffiths, pluripremiato per il suo rigore e le sue ricerche nell’arco di una lunga carriera, pubblica su “Psychopharmacology” (una delle più importanti e serie riviste scientifiche di settore) uno studio dal titolo Psilocybin can occasion mystical-type experiences having substantial and sustained personal meaning and spiritual significance comprendiamo che si stanno aprendo per la ricerca strade fino ad alcuni anni orsono impensabili. La scienza che certifica l’esperienza mistica! Non a caso, le sostanze psichedeliche - le più note delle quali sono l’LSD, la mescalina, la psilocibina, la MDMA, più conosciuta come ecstasy - vengono oggi spesso chiamate endeogene, cioè che “hanno Dio al proprio interno”.
Il dettagliato racconto di Pollan ci pone, quindi, davanti a una domanda inaspettata: le sostanze psichedeliche che, anche secondo protocolli scientifici, danno accesso a esperienze mistiche ci mostrano che la mistica diventa scientifica o che la scienza diviene mistica? Può sembrare una domanda sofistica ma non credo lo sia. Credo, anzi, che nella risposta che noi, nei prossimi anni, daremo a questa o altre simili domande sia contenuto il destino della futura civiltà umana. Una civiltà che potrebbe portare a una rivitalizzazione dell’esigenza mistico-spirituale dell’uomo all’interno dell’alveo della scienza (una mistica manipolata dalla scienza) oppure a una dissoluzione o ibridazione del metodo scientifico in una miriade di anti-metodi o contro-metodi, per parafrasare il filosofo della scienza Paul Karl Feyerabend.
Se infatti noi riuscissimo a stabilire, cosa che la scienza attualmente sembra in grado di fare o si accinge a fare, che l’esperienza mistica sia dovuta a una inibizione della rete DMN (inibizione causata da processi chimici innescati, tra gli altri elementi possibili, dagli psichedelici) che conclusione dovremmo trarre? La più plausibile è che se l’intero processo dipendesse e fosse causato da principi chimici e fisici allora la mistica sarebbe spiegabile come un fenomeno chimico-fisico e non avrebbe nulla di soprannaturale. Il mondo a cui accederemmo in un’esperienza mistica dipenderebbe in maniera univoca dall’inibizione di flussi ematici e di ossigenazione di alcune parti del cervello. Nulla di più, nulla di misterioso. Verrebbe così a cadere l’idea misterica di un’illuminazione e di un sapere visionario e profetico su una realtà più profonda e vera che l’esperienza mistica mostrerebbe. Non si avrebbe, cioè, una misticizzazione della realtà scientifica ma una scientificazione della realtà mistica, spiegabile secondo regole di causa effetto, al pari di ogni altro processo chimico-fisico. La scienza, in qualche modo, assumerebbe il controllo anche della vita spirituale. Non sarebbe più costretta a relegarla nella sfera della superstizione. Potrebbe, più semplicemente e scientificamente, manipolare lo spirituale, come tutto il resto della natura.
Questa sembra l’ipotesi più plausibile, ma resterebbe insoluto un ulteriore quesito. Ammesso, infatti, che la coscienza sia frutto di un particolare equilibrio chimico-fisico e che una volta messo in crisi questo equilibrio la coscienza si dissolva avendo accesso a una realtà ulteriore, chi stabilisce se sia più “vero” lo stato di equilibrio o quello di disequilibrio generato dall’uso degli psichedelici? E, ancora più radicalmente, chi stabilisce che la realtà espansa generata dal disequilibrio psichico sia meno reale di quella percepita in una fase di equilibrio? O, detto ancora diversamente, per quale ragione il prodotto di più composti chimici dovrebbe essere più vero di un altro o dei molti altri possibili partendo dagli stessi elementi di base? E infine, per quale ragione la coscienza del sé dovrebbe essere più vera o spiegare meglio il reale della coscienza diffusa di cui parlano i mistici e che può essere generata attraverso un uso specifico di sostanze psichedeliche? Non si tratterebbe solo di due approssimazioni alla pluralità del reale, allo stesso modo in cui cambia la visione del reale se io lo osservo a partire dai campi magnetici che lo costituiscono o dalle lunghezze d’onda della luce percepibili dall’occhio umano? È, per noi, dell’ordine dell’ovvietà che la realtà del campo magnetico di un corpo e la sua realtà visibile sulle frequenze luminose percepibili da un occhio umano siano esattamente la stessa realtà. Ma, a seconda che l’organo percipiente si sintonizzi su una o sull’altra, si generano mondi, visioni del mondo, pratiche di mondo radicalmente diverse. Cosa sarebbe dunque la visione della scienza una volta scoperto - in realtà da millenni e da decine di tradizioni e civiltà disseminate sul globo, ma ora anche dalla scienza - che vi sono altri possibili accessi al reale e altre innumerevoli possibili visioni del cosmo, interno ed esterno, che ne determinano un ampliamento pari a quello dell’espansione dell’universo?
Nel moltiplicarsi di queste domande, e di altre ancora, è probabilmente contenuta la realtà del mondo che verrà. Forse la realtà dell’umanità del futuro si trova tra le pieghe di un’interrogazione, sull’universo e sulla coscienza che lo riflette, non più fideistica né puramente razionale, ma che si inoltra nell’oscuro sapere di una gnosi, arcana e sempre a venire, le cui frontiere sono al di là di ogni dominio e di ogni certezza: una conoscenza in viaggio...
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
Federico La Sala
L’uomo caduto sulla Terra che diventò Philip K. Dick
In “Io sono vivo, voi siete morti” Emmanuel Carrère racconta genio e ossessioni dell’autore che ispirò “Blade Runner”, rivoluzionando la fantascienza
di Emmanuel Carrère (la Repubblica, 28.05.2016)
Tutto doveva essere nuovo in quel periodo: Nouvelle Vague, New Frontier, Nouveau Roman; le cose cambiavano nome, e da una parte e dall’altra dell’Atlantico i vecchi brontoloni sempre pronti a fare del sarcasmo, con la pipa a mezz’asta e gli occhiali sulla fronte, avevano gioco facile a farsi beffe dei tanti parrucchieri diventati improvvisamente stilisti dei capelli. Con lo stesso zelo la fantascienza barattò il suo rozzo appellativo con i più rispettabili speculative fiction, che non voleva dire molto, e new thing, che non voleva dire assolutamente niente, ma almeno lo diceva con maggiore impudenza.
Negli Stati Uniti il più accanito promotore della “nuova cosa” fu Harlan Ellison, ex fan sfegatato divenuto, col sudore della fronte, poligrafo virtuoso ed esperto di pubbliche relazioni. [...] Ellison pensava che Dangerous Visions, la sua antologia manifesto, avrebbe rivoluzionato la letteratura americana. [...]
Contattato verso la fine del 1965 dall’entusiasta Ellison, Dick fu felice di sapere che, se c’era uno che non poteva mancare nel manipolo dei pericolosi visionari, quello era senz’altro lui, e con vivo piacere accettò di scrivere il suo autoritratto.
Ne veniva fuori la figura di una specie di recluso affabile, circondato da amici, che amava il tabacco da fiuto e gli allucinogeni, Heinrich Schütz e i Grateful Dead, affascinava i suoi giovani amici hippy di modesta cultura parlando di Giovanni Scoto Eriugena e adocchiava tutte le ragazze che gli passavano accanto, sotto lo sguardo indulgente della sua giovanissima, timidissima e graziosissima moglie.
L’uomo infelice, tormentato, che a Point Reyes aveva creduto di perdere la ragione nel mondo dominato da Anne e da Palmer Eldritch, si era trasformato, sulla soglia dei quarant’anni, in una sorta di guru bonario, dedito all’uso degli allucinogeni per verificare in prima persona le sue ipotesi teologiche e quelle dei suoi gloriosi predecessori, che ormai citava a ogni piè sospinto, al punto da trasformare anche il più modesto romanzo di fantascienza in un patchwork di epigrafi prese da Boezio, da Meister Eckhart o da san Bonaventura.
Pur non avendo più ripetuto la terribile esperienza con l’lsd, si atteggiava a veterano dell’acido e sosteneva come Timothy Leary che «oggi perseguire una vita religiosa senza l’ausilio delle droghe psichedeliche sarebbe come voler studiare gli astri a occhio nudo». Gli piaceva raccontare che un giorno Leary gli aveva telefonato dalla stanza d’albergo di John Lennon, in Canada, dove i Beatles erano in tournée. Sì, ripeteva con aria solenne, rallegrandosi del brivido di incredulità e di ammirazione che suscitava nel suo interlocutore: proprio dalla stanza di John Lennon! I due, completamente fumati, avevano appena finito di leggere Le tre stimmate di Palmer Eldritch e ne erano entusiasti. Era così! Esattamente così!, biascicava Lennon strisciando sulla moquette. Parlava già di farne un film, il film psichedelico, l’equivalente cinematografico del disco a cui stava lavorando: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Preso alla sprovvista, Dick non aveva avuto il tempo di pensare a un test che gli permettesse di verificare se Lennon e Leary fossero davvero Lennon e Leary e non due mattacchioni che si facevano passare per quegli dèi dell’Olimpo, ma un anno dopo, quando l’album uscì, riconobbe sia il titolo del disco sia quello di una canzone che inneggiava all’acido di cui Lennon gli aveva parlato: Lucy in the Sky with Diamonds.
Da quel momento cominciò ad avere un debole per il name-dropping e si convinse di esercitare sugli altri una sorta di influenza sotterranea, quasi occulta. In effetti, in alcuni ambienti, l’aggettivo dickiano iniziava a essere usato per indicare certe situazioni particolarmente strane e un modo complicato ma preciso di rappresentare il mondo. Stava diventando una specie di parola d’ordine. Giovani non necessariamente appassionati di fantascienza, critici musicali, come Paul Williams, per esempio, o autori di fumetti, come Robert Crumb o Art Spiegelman, nelle loro riviste stampate alla bell’e meglio parlavano di lui come di uno dei geni misconosciuti del loro tempo. [...]
Ma non era affatto così spregiudicato come voleva sembrare. In lui l’eresiarca letterario coabitava con il parrocchiano scrupoloso spaventato dall’inferno, di cui aveva gustato un assaggio grazie all’acido. Se in sua presenza qualcuno riduceva le varie apocalissi bibliche a mere allegorie che, proprio come la Genesi, non andavano prese alla lettera, scuoteva la testa con l’aria afflitta di uno a cui sia toccata la sfortuna di sapere e di sapere che gli uomini si nutrono di vane illusioni. Voleva amare Dio, ma più ancora temeva il diavolo.
Questa sua religiosità gotica, quando gli capitava di parlarne apertamente, gli veniva perdonata volentieri: era considerata una divertente provocazione, una delle sue tante stravaganze. E in quell’ambiente di agnostici vagamente attratti dal buddhismo non ci voleva molto a sembrare stravaganti; non c’era alcun bisogno di essere pelagiani o albigesi: bastava essere cattolici. Neanche Nancy capì subito che Dick non scherzava quando diceva di essere dispiaciuto perché vivevano nel peccato, visto che il suo matrimonio religioso con Anne non era stato annullato, e non poteva accostarsi alla Sacra Mensa. Gli sembrava che, più che per il divorzio, l’esclusione dall’eucarestia fosse una punizione per il sacrilegio di cui si era reso colpevole mettendola in ridicolo nella sua «messa nera» e che ciò lo privasse della sola protezione efficace nella guerra in cui era impegnato. La nostalgia della vita sacramentale lo spinse a inventare diversi sostituti, fra cui il più curioso, il solo che non sia legato alla droga, è la «scatola empatica» merceriana, intorno alla quale ruota la vicenda secondaria di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (tutto si può dire di Dick, tranne che mancasse di fantasia).
Io sono vivo, voi siete morti
Recensione di Martino Ciano *
Quando lessi per la prima volta Ubik di Philip K. Dick ho avuto una folgorazione. Solo Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche ebbe su di me lo stesso effetto. Avevo diciotto anni, frequentavo l’ultimo anno di ragioneria ma grazie alle parole del filosofo tedesco capii che né l’economia, né la partita doppia potevano riempire la mia anima.
Ho scoperto Dick a venticinque anni e le sensazioni sono state le stesse. Ogni pagina risvegliava in me qualcosa. Le sue domande erano anche le mie. Cos’è la realtà? Chi è Dio, un’entità che ci prende in giro o un padre buono che vuole preservarci da una terribile verità?
Prima di leggere Ubik mi ero imbattuto nel famoso Aleph di Luis Borges. Il racconto che più amai fu La scrittura del dio. Mi sentivo come quell’uomo in prigione che trasmigra in diverse realtà che si tramutano in granelli di sabbia.
La tua vita è così, un sogno che giace in un altro sogno, dice il dio di Borges al suo prigioniero. Dick però si spinge oltre, partorisce uno stile unico e non si accontenta di una lettura così cinica. Borges crea labirinti senza via di fuga, Dick invece è convinto che un’uscita ci sia sempre.
Emmanuel Carrère ci racconta la vita dello scrittore americano anno dopo anno, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Ci parla dei suoi complessi, delle sue paure e delle sue paranoie. Ce lo mostra come uomo, artista e profeta. Ma soprattutto ci fa comprendere che Dick usa la fantascienza come mezzo per ricercare Dio e per svelarne le contraddizioni.
Lo scrittore americano è passato per Lsd, per la follia, per l’estasi. Come Dostoevskij ha descritto l’animo umano, trasfigurandolo però in androidi, pazzi e drogati. Tutti i suoi personaggi scoprono che la realtà non è come appare. Solo loro riescono a vedere il vero volto della quotidianità, solo loro possono svelarlo agli altri. Ricevono questo compito dal fato o da un’entità aliena e quasi sempre riescono nell’impresa.
Anche Dick si sentiva un prescelto: doveva dire a tutti la verità. È riuscito a portare a termine il suo compito? Sì, secondo Carrère. Lo scrittore americano è morto nel 1982 e ormai è considerato un autore di culto. Le sue profezie riecheggiano in film che hanno fatto la storia del cinema fantascientifico. Atto di Forza, Minority Report, Blade Runner, The Matrix, giusto per citarne qualcuno.
I suoi libri sono capisaldi della letteratura. La trilogia di Valis, Ubik, La svastica sul sole, Un oscuro scrutare, solo per ricordare quelli che non dovrebbero mancare nella biblioteca di ogni appassionato lettore.
Io sono vivo, voi siete morti di Carrère scruta fino in fondo l’opera di Philip Dick. Non lascia nulla al caso. Adelphi ripropone questo saggio che lo scrittore francese scrisse nel 1993 e che in maniera profetica annuncia la consacrazione dell’autore americano.
Dick è stato messo ai margini, per lui la fama arriverà solo a ridosso della morte. Il suo miracolo è stato quello di parlare della sua personale ricerca di Dio usando il linguaggio della fantascienza. Per Dick Dio è misericordioso, drogato, malvagio, distaccato, a volte impotente. Nella sua opera l’uomo è un soggetto astratto che vive assumendo forme diverse in realtà frammentate. A volte si distacca dal suo sé e crea simulacri: gli androidi che sanno confondersi tra agli uomini provando le loro stesse emozioni.
Ebbene, guardiamoci intorno. Oggi cos’è reale? Quante vite viviamo? Quante realtà esistono? Chi siamo e qual è il senso della nostra vita? Cosa succede quando l’uomo gioca con Dio? A tutte queste domande Dick ha provato a dare una risposta. Carrère ce ne parla magnificamente in questo saggio da leggere.
CI VUOLE UN FILOLOGO E UNO PSICOANALISTA, PER CAPIRE L’AREA X (L’EU-ROPA E L’EV-ANGELO):
Ci vuole un teologo per capire l’Area X
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 16 dicembre 2015)
Quelli della Brigata di Scienza e Spiritismo girano sempre in coppia, ma il fatto strano è che, tra i due, la più incline alla superstizione è la scienziata. Non che l’altro, lo studioso dell’inspiegabile, abbia le idee molto più chiare, tant’è vero che a un certo punto Saul, il guardiano del faro attorno al quale si svolgono le indagini, avrebbe voglia di spiegargli che credere in Dio non significa necessariamente credere nell’occulto. Saul se ne intende, perché prima di finire in quell’avamposto marino nel Sud degli Stati Uniti è stato un predicatore in una qualche congregazione evangelica, nella parte settentrionale del Paese.
Bisogna masticare un po’ di teologia e, più che altro, avere una certa dimestichezza con la Scrittura per orientarsi nei meandri dell’Area X, il luogo/non luogo - organismo senziente, semmai, o distopia cosmica, se non insidiosa creazione di un demiurgo in vena di ironia - che sta all’origine della trilogia dello scrittore americano Jeff Van der Meer tradotta da Cristiana Mennella per Einaudi. Tre romanzi concatenati fra loro, dunque, e tre titoli che anche nell’originale iniziano tutti con la lettera “a”: Annientamento (pagine 186, euro 16,00), Autorità (pagine 286, euro 17,00) e Accettazione (pagine 282, euro 17,00). Sono, a ben vedere, le tappe di un percorso mistico, che i principali personaggi dell’intricata vicenda affrontano da prospettive e con esiti differenti. Ammesso e non concesso che laggiù, nell’Area X, un concetto come “differente” abbia ancora diritto di cittadinanza.
Che cos’è, un’altra saga di fantascienza? Sì e no. Van der Meer, classe 1968, è considerato il capostipite di un genere finora mai documentato, proprio come la flora e la fauna nella quale ci si imbatte esplorando il suo mondo immaginario. È il teorico del New Weird, espressione non semplicissima da riproporre in italiano: weird sta per “strano”, ma anche “inquietante”, “perturbante”. Per farsi intendere il “New York Times” ha suggerito un incrocio fra le mostruose fantasie di H.P. Lovecraft e il naturalismo militante proclamato da Henry David Thoreau nel celeberrimo Walden, o la vita nei boschi.
A noi europei, invece, l’idea di un territorio soggetto a una mutazione inspiegabile, di probabile origine extraterrestre e con terribili conseguenze per i terrestri, non può non ricordare uno dei capolavori cinematografici di Andrej Tarkovskij, Stalker (1979), ispirato al romanzo Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadi e Boris Strugatzki (in Italia è edito da Marcos y Marcos). Allo stesso modo, la presenza di una glottologa all’interno della Southern Reach - l’ineffabile agenzia governativa che studia e sorveglia l’Area X - sembra rimandare alla figura del filologo Elwin Ransom, protagonista della “trilogia spaziale” pubblicata tra il 1938 e il 1945 da C.S. Lewis, lo scrittore inglese amico di Tolkien e autore anche delle Cronache di Narnia.
Il mistero dei misteri da cui tutto nell’Area X sembra dipendere è insieme biologico, linguistico e biblico. Si tratta di una lunga scritta che appare sulle pareti, o membrane, di una caverna, o tunnel, o torre capovolta che di volta in volta appare e scompare dalle mappe della zona. Non diversamente dal sermone del killer Jules in Pulp Fiction di Quentin Tarantino (1994), l’iscrizione non rimanda a una citazione riconoscibile, è semmai un centone di brani scritturistici più o meno orecchiati, più o meno vaticinanti e minacciosi. Il testo comincia così: «Dove giace il frutto soffocante che giunse dalla mano del peccatore io partorirò i semi dei morti per dividerli con i vermi che si raccolgono nelle tenebre e circondano il mondo col potere delle loro vite» e sembra proseguire all’infinito, vergato da una creatura pressoché irriconoscibile, alla quale viene riservato l’appellativo di Scriba.
Analisi di laboratorio e testimonianze registrate da una parte, rituali e superstizioni dall’altra: l’Area X è un posto nel quale il principio di non contraddizione risulta sospeso. È una conseguenza della visione complessiva che sostiene la trilogia, quella di un immanentismo delirante per cui la nozione di Deus sive natura finisce per produrre esiti aberranti e distruttivi. Piovuta da chissà dove (anzi, situata chissà dove), l’Area X assimila tutto e tutti a sé, senza mai rinunciare all’astuzia di mimare l’ambiente di cui si sta impossessando. L’epicentro del processo è rappresentato dal faro in cui Saul - nome biblico, e anche questo non è un caso - ha trovato rifugio. Van der Meer, peraltro, è abbastanza abile da non chiarire se la dimestichezza del personaggio con i temi e le parole del sacro sia un aspetto accidentale e non piuttosto l’elemento catalizzante della mutazione.
Resta il fatto che, una volta di più, un’ambiziosa invenzione narrativa nostra contemporanea si colloca nell’orizzonte di un’immaginazione teologica decisamente eterodossa, ma non per questo meno indispensabile per concepire e abitare un universo di finzione nel quale, però, la realtà si rispecchia. Capita nell’Area X come nei romanzi di Stephen King (che di Van der Meer è ammiratore dichiarato), capita nella galassia di Star Wars e nell’isola della serie tv Lost come nelle avventure del giovane mago Harry Potter. A proposito: il debutto cinematografico di Annientamento, primo film tratto dalla trilogia, è previsto per il 2017, con un cast del quale dovrebbe far parte anche Natalie Portman. Nel frattempo gli appassionati possono fare un salto sul sito della Southern Reach (join.thesouthernreach.com) e controllare se per caso si sta ancora cercando personale per scandagliare l’Area X.
Dick: “Dio m’ha illuminato con un pesciolino d’oro”
Ottomila pagine di appunti, intuizioni iniziatiche, sogni e romanzi: per raccontare il rapporto tra il disegno divino e la Terra degli umani
Philip K. Dick «L’esegesi 2-3-74» (a cura di Pamela Jackson e Jonathan Lethem; trad. di Maurizio Nati) Fanucci pp. 1299, € 50
di Jonathan Lethem (La Stampa, 05/12/2015)
Questo passaggio venne scritto dal romanziere americano Philip K. Dick nel 1980. Presa a sé, questa manciata di righe potrebbe sembrare estratta da un lucido ed elegante trattato sulla metafisica e l’ontologia: un’indagine, in altre parole, sul tema dell’essere e sugli scopi della coscienza, della sofferenza e dell’esistenza stessa. Questo particolare passaggio non suonerebbe a nessuno che abbia una preparazione in campo filosofico o teologico come particolarmente originale, a parte quell’intrigante sequenza di scivolamenti metaforici - impresso, forgiato, estratto, trasformato - e la fusione quasi subliminale dell’universo con un’opera d’arte.
Ciò che rende questo passaggio insolito è il contesto in cui esso emerge e gli altri scritti che lo circondano. Malgrado il tono fortemente conclusivo, esso rappresenta un singolo frammento d’idea che attraversa la notte in mezzo a molte migliaia nella vasta raccolta di resoconti delle sue stesse esperienze e illuminazioni visionarie, che Dick affidò alla carta fra il 1974 e il 1982. Gli argomenti - a parte la sofferenza, la pietà, la natura dell’universo e l’essenza della tragedia - includono alieni con tre occhi, robot creati dal DNA, antichi e dimenticati culti cristiani che nelle loro credenze di base anticipavano le profonde verità della dottrina marxista, il viaggio nel tempo, radio che continuano a trasmettere dopo essere state staccate dalla presa e la vera natura dell’universo come rivelata negli scritti dell’antico filosofo Parmenide, nel Libro tibetano dei morti, in Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes e nel film di Robert Altman Tre donne.
La maggior parte di questi scritti, in altre parole, non sono né familiari, né del tutto lucidi né, in gran parte, eleganti... e nemmeno erano destinati, quasi tutti, alla pubblicazione. Perfino quando Dick, che era un autodidatta di prima categoria, riassume qualche banalità in fatto di speculazione filosofica o teologica, i suoi scritti filosofici e teologici rimangono senza paragone nella loro tumultuosa urgenza, nella loro verve metaforica, nel loro carisma di autosatira, e nella loro appartata intimità (così come nella loro furente ripetitività, cocciutaggine, insicurezza ed elusività). In altre parole sono senza paragone perché Philip K. Dick è Philip K. Dick, una delle menti più brillanti e singolari che si siano mai manifestate al XX secolo, anche prima che questo tesoro (perlopiù inedito) venisse alla luce.
Dick scelse di chiamare questi scritti la sua Esegesi. Il processo della sua produzione fu frenetico, ossessivo e, può essere giusto precisarlo, involontario. La creazione dell’Esegesi fu un atto di sopravvivenza umana di fronte a una crisi sia intellettuale che emozionale, che alterava la vita: la crisi della rivelazione. Per quanto refrattario possa essere a questa nozione antica e fuori moda, per accedere all’Esegesi da qualsiasi angolo un lettore deve per prima cosa accettare che il soggetto è la rivelazione, una rivelazione pervenuta alla persona di Philip K. Dick nel febbraio e marzo del 1974, e che di conseguenza richiese, per il resto della sua vita mortale, di essere capita. Le sue pagine rappresentano l’appassionato impegno di Dick di spiegare la visione dalla quale era stato premiato o maledetto: non per amore della sua stessa psiche, né per la causa della salvezza del genere umano, ma precisamente perché quelle due preoccupazioni gli apparivano come la stessa cosa.
Alla fine il tentativo giunse a riempire oltre ottomila fogli di carta, per la maggior parte manoscritti. Dick scriveva spesso nelle ore notturne, elaborando un’idea fino a un centinaio di pagine nel corso di una o più notti insonni. Queste imprese di scrittura sovrumana sono straordinarie e sedussero anche uno scrittore grafomane di prim’ordine come Dick, che una volta aveva scritto sette romanzi in un solo anno. I temi fondamentali dell’Esegesi non costituiscono una sorpresa. Il corpus delle opere che segnarono la fama di Dick - la quarantina di romanzi realistici e surrealistici scritti fra il 1952 e il 1982, anno della sua morte - propone domande come «Che significa essere umano?» e «Qual è la natura dell’universo?» Questi temi metafisici, etici e ontologici intrappolano la sua opera, fin dall’inizio con i suoi drammi familiari, le avventure fantascientifiche e la vena umoristica, in un’atmosfera di indagine filosofica.
Col tempo Dick giunse a vedere i suoi scritti giovanili - soprattutto i romanzi di fantascienza degli anni Sessanta - come complessi e inconsapevoli antesignani delle sue illuminazioni visionarie. Così cominciò a usarli, alla stregua di qualsiasi testo antico o dell’Enciclopedia Britannica, come fonte per le sue ricerche. Mai, per quanto ne sappiamo, un romanziere ha gravato di tale eccentrica concentrazione la sua opera nel tentativo di scoprirne il codice, quasi da questo dipendesse la sua stessa vita. Gli scritti di queste pagine rappresentano, forse più di ogni altra cosa, un laboratorio di interpretazione nel significato più assoluto e più aperto della parola. Quando Dick cominciò a scrivere e pubblicare romanzi basati sul materiale visionario portato alla luce nell’Esegesi, si mise a interpretare anche quelli. Così, con l’accumularsi di quegli scritti, essi divennero anche autoreferenziali: l’Esegesi è uno studio, fra le altre cose, di sé stessa.
Che interpreti un avvenimento, un ricordo, una visione o un sogno, Dick nella sua frettolosità si preoccupa raramente di annotare gli eventi alla fonte con lo scrupolo che desidereremmo: testimonianza della sua premura di affrontare il suo duro e personale lavoro di scavo del loro significato. In fin dei conti lui sapeva bene a cosa si riferiva.
A parte quei pochi casi fortunati in cui ripercorre i passi verso la fonte, o in lettere scritte da altri che (fortunatamente per il lettore) rappresentano il punto d’inizio di questo folle viaggio, Dick spiega gli eventi, ma raramente li narra.
I curatori di questo volume hanno navigato in un labirinto di perplessità avendo a disposizione soltanto pochi assiomi utili. Uno è che, mettendo da parte qualsiasi peculiarità che contrassegni il suo lavoro o le circostanze della sua creazione, Philip K. Dick è stato uno dei più grandi romanzieri del XX secolo. Questo rende l’eventuale disponibilità pubblica di inediti quali annotazioni, diari, abbozzi e altre carte superstiti non solo desiderabile, ma inevitabile. Questo è vero per l’Esegesi di Dick come lo è per i taccuini di Dostoevskij o di Henry James. Se il destino di questo genere di materiale è quello di attrarre meno lettori di quanti ne attraggano i romanzi - e chi vorrebbe altrimenti? - è nondimeno di palese importanza che esso emerga.
Ci siamo poi attenuti a un altro convincimento: l’Esegesi è una lettura terrificante, di un certo tipo. Potremmo aggiungere «se la prendi per ciò che è», oppure «se ti piace questo genere di cose», ma questo modo di esprimersi genera la domanda «che genere di cosa esattamente sia» e noi non abbiamo una risposta a disposizione. Offrirsi completamente a essa come abbiamo fatto noi stessi richiede un grado di mania e di stordimento che non augureremmo a un altro umano (anche se certamente noi non saremo gli ultimi). E per rimanerne affascinati bisogna desiderarne ancora, e qui entriamo in contraddizione con noi stessi. Un ultimo assioma, per finire: nei compromessi e nei sacrifici che questa impresa, per sua stessa natura, ci ha imposto, finiremo con il non soddisfare nessuno. Abbiamo fatto un altro passo nella scalata dell’Everest, abbiamo raggiunto una quota leggermente più alta di coloro che ci hanno preceduto, ma non la vetta.
La ricerca della verità del 2-3-74 da parte di Dick era destinata, come la freccia di Zenone, a non giungere da nessuna parte. Anni prima della sua morte divenne evidente che queste attività non sarebbero cessate finché la penna non gli fosse caduta di mano, a dispetto dei suoi periodici tentativi di interrompere tutto. «Qui terminano quattro anni e sei mesi di analisi e ricerca» scrisse Dick. «Il tempo viene smascherato come irreale; millenovecento anni vengono rivelati come aspetto di un’unica matrice sottostante... i miei ventisette anni passati a scrivere e riscrivere gli stessi temi vanno al loro posto; il 2-74 e il 3-74 sono comprensibili così come lo è la cacciata di Nixon; le costanti transtemporali sono state spiegate... forse dovrei distruggere l’Esegesi. È un viaggio che ha raggiunto la sua meta.» Dick scrisse queste parole nel 1978; si ritrovano nella prima pagina di un’annotazione e continueranno per altre sessantadue.
Alla fine l’Esegesi può essere vista come un lungo esperimento della mente che riflette su sé stessa. Il rompicapo che Dick non potrà mai risolvere nel suo sforzo è quello dei suoi stessi tentativi esegetici. Questa mente scrive... perché? Sempre più si può avere l’impressione che nel descrivere il macrocosmo Dick descriva l’Esegesi: i due coincidono. Ciascuno cade vittima della ripetizione e dell’entropia, ciascuno cresce reticolando e arborizzando, ciascuno per rinnovarsi richiede un intervento divino in forma di linguaggio. Le stesse domande si applicano a entrambi: che cosa salva l’universo dallo scorrere in cerchi inutili fino a cadere giù? Che cosa separa la scintilla vitale del significato dalla ‘massa vile’ del caos e del rumore? L’universo si evolve o si devolve? Se il sistema è chiuso da dove scaturisce ‘il nuovo’?
Ci ritroviamo colpiti dal concetto che Philip K. Dick sia stato, a dispetto di tutte le sue logorroiche spiegazioni, uno scrittore di aforismi, sulla scia di E. M. Cioran o di Pascal. Ciò che camuffa la sua vena aforistica è semplicemente l’impalcatura che lui ha lasciato sul posto. Ogni impulso, ogni fotone di pensiero si accumula sulla carta: tocca al lettore isolare i momenti più alti.
L’allucinazione non è una faccenda privata. L’”Esegesi” di Philip K. Dick
di Nicola Lagioia *
Il 20 febbraio del 1974, lo scrittore Philip K. Dick, dopo quattro matrimoni falliti, la pubblicazione di una trentina di opere che lo consacreranno presto come un maestro della letteratura nord americana, e un consumo di droghe non quantificabile, si recò in un centro odontoiatrico per farsi estrarre due denti del giudizio. Qualcosa non funzionò con l’anestesia a base di sodio penthotal che il dentista gli aveva praticato, perché già nel pomeriggio Dick era in preda a dolori lancinanti. Così Tessa (la sua quinta moglie) telefonò al dentista per un analgesico.
Poco più tardi, giunse l’addetto alle consegne della farmacia. Andò ad aprire lo scrittore. L’addetto era una ragazza bruna che portava al collo una catenina d’oro con un ciondolo raffigurante un pesce. Alla domanda su cosa rappresentasse quel pesce, la ragazza rispose che era un simbolo usato dalle prime comunità cristiane. Proprio in quel momento, Dick vide partire dal ciondolo un raggio di luce che lo investì provocandogli ciò che in omaggio alla filosofia platonica chiamerà anamnesi, vale a dire la rievocazione di tutta la summa del sapere: “ricordai chi ero e dove mi trovavo. In un batter d’occhio, in un istante, tutto ritornò in me”.
Dick ebbe insomma una visione mistica. Il velo dell’apparenza gli sembrò caduto e con esso l’ostacolo che ci impedisce di vedere il mondo per come è davvero. Un’esperienza al di là del linguaggio, che da bravo scrittore si ripropose di trascinare subito da quest’altra parte, in modo da renderla comunicabile. Si dedicò all’impresa negli otto anni che gli restavano da vivere, a colpi di narrativa (la trilogia di Valis affronta proprio questi temi), nonché attraverso l’insonne, forsennata, maniacale scrittura di uno zibaldone che arrivò a toccare le 8.000 pagine, una raccolta di considerazioni, teorie, aforismi, missive con cui Dick cercò di spiegare e di spiegarsi cosa gli era successo, e che chiamò significativamente L’Esegesi. Rimesso in ordine da Pamela Jackson e Jonathan Lethem (il più dickiano, forse, tra gli scrittori contemporanei), il testo è stato appena pubblicato in Italia da Fanucci con la traduzione di Maurizio Nati.
2-3-74: così Dick battezzò i sorprendenti eventi da cui si sentì invaso per tutto il febbraio e il marzo di quell’anno. Una notte, ad esempio, fu tempestato dalla visione di migliaia “di disegni astratti in forma perfetta” che potevano ricordare i quadri di Kandinskij. Sentì voci inquietanti provenire dalla radio, che continuò a parlargli anche con la spina staccata. Una forma di energia “plasmatica” color rosa lo informò che suo figlio Chris correva un pericolo mortale. Dick portò il piccolo dal medico, e sorprendentemente a Chris fu diagnosticata un’ernia inguinale da operare all’istante.
Poiché siamo nel 1974 (la paranoia regnava sovrana, il 7 aprile uscì un film come La conversazione di Francis Ford Coppola, ad agosto Nixon si sarebbe dimesso) e il luogo è la California post psichedelica rievocata di recente da Paul Thomas Anderson nel bellissimo Vizio di forma tratto da Thomas Pynchon, non esisteva speculazione politica, religiosa o esistenziale sufficientemente strana da suonare inverosimile. Poteva così capitare che il giovane Art Spiegelman (il futuro autore di Maus) andasse a omaggiare lo scrittore del romanzo da cui verrà tratto Blade Runner (Philip Dick morì d’infarto nemmeno quattro mesi prima di diventare, con l’uscita del film di Ridley Scott, un caso planetario), trovandosi davanti un uomo che studiava l’aramaico in un appartamento che sembrava “la versione peggiorata della casa di Philip Marlowe” e gli parlava di come la Terra fosse intrappolata in una “prigione di ferro nera” che impediva alla luce di Dio di arrivare fino a noi.
Perché è questo il succo della rivelazione di Dick, su cui nell’Esegesi non fa che riflettere. L’umanità sarebbe una minuscola parte di un macro-organismo simile a un “sistema di intelligenza artificiale autoriparante”, di cui noi rappresenteremmo disgraziatamente una sottosezione “caduta sotto il livello di trasferimento dei messaggi”, una “bobina di memoria malfunzionante: addormentati, e in un quasi sogno, noi non siamo dove (e quando?) crediamo di essere“.
Secondo Dick percepiremmo insomma a stento una realtà che - se solo si riuscisse a riparare il guasto di ricezione - ci libererebbe da un maligno giogo millenario, restituendoci all’originaria condizione di pace, felicità e concordia universale. Si tratta di una posizione che gioca di sponda con lo gnosticismo cristiano dell’antichità, per come almeno poteva rielaborarlo un geniale autodidatta che si documentava sull’Enciclopedia Britannica e immaginava che nell’America del XX secolo il Deus absconditus potesse tranquillamente annidarsi anche in una bomboletta spray.
Siamo in pieno Matrix con decenni di anticipo, e sono gli argomenti di cui Dick parlò davanti allo sbigottito pubblico del festival di fantascienza di Metz nel 1977, quando affermò che i suoi romanzi erano in un certo senso “veri”. Ma ne L’Esegesi c’è molto più di quanto potrebbe mostrarvi un film sulla “matrice” che durasse due giorni anziché due ore. Leggendolo, potrete pensare che il suo autore sia un fanatico a cui le droghe hanno fatto brutti scherzi, ma è lui per primo a farsi venire il dubbio (“non vorrei fosse un flashback da acido”) e gioca di continuo a confutarsi con un’autoironia che nessun integralista avrebbe, fino a farsi addirittura venire la paranoia che la stessa Esegesi sia un complotto psichico ordito a sua insaputa per allontanarlo dalla visione!
Vi verrà in mente che siamo di fronte a una mente prodigiosa che usa religione e letteratura come schemi narrativi per cingere d’assedio i misteri della fisica contemporanea (ne L’Esegesi Dick si domanda ogni tanto se lo Spirito Santo che gli “parla a ritroso” dal futuro non sia in realtà un pacchetto di tachioni, le ipotetiche particelle in grado di viaggiare nel tempo; così come l’idea di un Dio inaccessibile ma a due millimetri dal naso potrebbe ricordare le teorie del multiverso di cui tra gli altri parla anche un fisico come Brian Greene).
Sospetterete che politica corrotta, finanza e colossi digitali siano oggi il braccio secolare del demiurgo che ha costruito la famosa “prigione di ferro nera”. Collegherete il furore mistico di Dick a quell’epilessia del lobo temporale di cui si dice soffrissero anche personaggi come Van Gogh e Teresa d’Avila. Magari giungerete alla conclusione - come Carmelo Bene per Friedrich Nietzsche - che Dick la sua follia se l’era meritata, mentre fuori le strade sono sempre troppo piene di pazzi a buon mercato.
O forse, più serenamente, prenderete le pagine de L’Esegesi come un’occasione per trascorrere molte ore in una delle menti più straordinarie della letteratura dell’ultimo mezzo secolo, un viaggio in un labirinto le cui pareti ruotano di continuo su se stesse rendendo inutile qualunque filo di Arianna, cambiando il disegno complessivo ma non il messaggio di fondo: la certezza che un mondo migliore (più pacifico, empatico, compassionevole) di quello in cui viviamo sia la nostra missione di specie.
* MINIMAetMORALIA: la Repubblica, 27 novembre 2015
Filosofia, droghe e profezie
Il testamento di Philip K. Dick
Arriva in Italia "L’esegesi", ultimo capolavoro di un autore che ha dedicato la vita a mettere in discussione la realtà. Un testo ironico, smisurato e profondissimo
di Gian Paolo Serino (il Giornale, 19/11/2015)
Nato nel 1928 ha scritto 45 romanzi e 121 racconti: da moltissimi sono stati tratti film di successo, altri hanno ispirato capolavori come Matrix o The Truman Show. Più che compreso Philip Dick è stato saccheggiato: le sue idee sono state considerate quelle di un pazzo mentre era in vita e rivedute solo dopo la sua morte. Oggi Philip Dick ha milioni di lettori in tutto il mondo, ma quando pubblicava i suoi libri -al ritmo di sette all’anno- stentava persino a sbarcare il lunario. Certo questo non gli impedì di sposarsi quattro volte, ma la sua esistenza è sempre stata ad un passo dalla follia. Ora finalmente anche in Italia arriva la sua Esegesi, pubblicata negli Stati Uniti nel Novembre del 2011, in libreria da giovedì 26 novembre, a cura di Jonathan Lethem e Pamela Jackson (Fanucci, pagg.1132, euro 50).
Una raccolta - originariamente di 8000 pagine, oltre due milioni di parole per lo più battute a macchina e corredate di annotazioni, diagrammi, disegni- che vuole essere il testamento filosofico dei suoi scritti tra il 1974 e il 1982. Un’opera che tantissimi lettori aspettavano e che contiene i segreti della poetica di Dick.
Un «laboratorio d’interpretazione del mondo» ricco di dissertazioni filosofiche, paranoie lisergiche, passaggi romanzeschi che indagano gli universi paralleli di Dick e tutte le tematiche dei suoi libri: il concetto di realtà, di diverso, la religione, la politica, la distopia. Philip Dick iniziò a scrivere l’Esegesi dopo anni di vita disperata: continui insuccessi economici, settimane di autoisolamento chiuso in casa ad ascoltare musica (da Mozart ai Grateful Dead) con il perenne timore di essere perseguitato dal fisco e di essere controllato dalla Cia e dall’Fbi.
E poi la dipendenza da droghe e psicofarmaci, i continui tentativi di disintossicazione, i numerosi tentati suicidi.Il suo ultimo tentativo appartiene proprio a quel periodo: Dick ingerì 49 tavolette di digitalina (un medicinale cardiocinetico che a dosi ben minori avrebbe ucciso chiunque), sonniferi, mezza bottiglia di vino, si tagliò le vene del polso destro e si stese nella sua Fiat chiuso dentro il garage con il motore acceso. Non servì a nulla. Dick sopravvisse alla vita, ma non alle sue visioni e da una in particolare che chiamò «2-3-74» (avvenuta il 2 Marzo 1974).
Quel giorno Dick racconta di essere stato invaso da «un raggio di luce dorata» fino a fargli avere quella che definì, in omaggio a Platone, anamnesis: «La rivisitazione o rievocazione dell’intera summa del sapere», quella che i filosofi chiamano «intuizione intellettuale», la percezione diretta di una realtà metafisica oltre il velo dell’apparenza e di aver colto la «vera realtà». Perché come scrive subito nelle prime pagine «Un giorno la maschera cadrà, e tu capirai tutto» mentre a pagina 49 confessa: «Io ho il mio mondo speciale. Immagino sia nella mia testa. Se così fosse, allora rappresenterebbe quello che sono. Mi sembra di vivere all’interno dei miei romanzi, sempre di più: sto forse perdendo il contatto con la realtà? Sento come se fossi stato tanto persone diverse. Molte persone forse si sono sedute davanti a questa macchina da scrivere, e hanno scritto i miei libri».
Da questa presa di (in)coscienza Dick si immerge in dissertazioni filosofiche partendo dalle teorie dei presocratici, di Platone, Meister Eckhart, Spinoza, Hegel, Schopenhauer, Heidegger e Hans Jonas. Non è certo una lettura delle più facili, ma Philip Dick è stato senza dubbio un geniale anticipatore del nostro futuro presente. Come quando scrive, a pagina 88, «La coesione è ciò che il nostro mondo moderno ha perso, a tutti i livelli. Adesso siamo tutti compartimenti stagni. C’è una piccola parte del macrocosmo dentro di noi e questa piccola parte di microcosmo equivale all’intero universo. Il microcosmo contiene il macrocosmo, un altro concetto non pensabile in forma logica. Il Dio dentro di me vede il Dio che c’è fuori; entrambi comuni l’uno all’altro, connessi attraverso la carne. Così Egli, o Esso, non importa, si è reso visibile qui sulla terra. Nel frattempo, Satana fa la fila da McDonald, ordina un Hamburger e un frappè di plastica, illudendosi di mantenere il suo potere». Mentre Dick vuol far cadere il velo che acceca il mondo, nelle pagine finali disvela il proprio, quando a pagina 553 ammette che «Tutti gli artisti sanno di non poter fare a meno di soffrire, e, per questo, forgiano la loro arte nella sfida. Che siano artisti o no, soffriranno. L’arte è l’ultima sfida del Fato»
Dick, un filosofo in garage
Il maestro della fantascienza raccontato attraverso Platone e Heidegger
di Simon Critchley (La Lettura, 17.02.2012) *
Philip K. Dick è probabilmente lo scrittore di fantascienza più importante degli ultimi cinquant’anni. Nella sua breve carriera ha scritto 121 racconti e 45 romanzi. Dick ha avuto successo già in vita, ma la sua fama è cresciuta esponenzialmente dopo la morte nel 1982. Le sue opere sono probabilmente meglio conosciute per i film di grande successo che ne sono stati tratti, come Blade Runner (adattato da Il cacciatore di androidi), Atto di forza (da Ricordiamo per voi), Minority Report (da Rapporto di minoranza), Un oscuro scrutare (dal romanzo omonimo) e, da ultimo, I guardiani del destino (da Squadra riparazioni). Pochi, però, considerano Dick un filosofo o un teorico degno di nota. Questo è un errore, come spero di dimostrare.
La sua vita è costellata di episodi di follia e intossicazione ed è ormai diventata una leggenda, che secondo alcuni, tuttavia, distoglie l’attenzione dalla sua genialità letteraria. Jonathan Lethem scrive (giustamente): «Dick non era una leggenda e non era un pazzo. Ha vissuto tra noi ed è stato un genio». La sua vita continua però a pesare molto nella valutazione delle sue opere.
Tutto ruota intorno a un evento che i fan di Dick definiscono semplicemente «il pesce d’oro». Il 20 febbraio 1974, dopo essere andato dal dentista per un dente del giudizio incluso e aver ricevuto una dose di pentothal, Dick fu colpito con forza da una rivelazione straordinaria. Una ragazza gli portò a casa, a Fullerton in California, un flacone di compresse di Darvon. Aveva una collana da cui pendeva il ciondolo di un pesce d’oro, antico simbolo cristiano che era stato adottato dal Jesus movement alla fine degli anni Sessanta.
Il ciondolo a forma di pesce cominciò a emettere un raggio di luce dorata e Dick improvvisamente ebbe quella che chiamò, in omaggio a Platone, anamnesis: la rivisitazione o rievocazione dell’intera summa del sapere. Dick disse di essere riuscito ad accedere a ciò che i filosofi chiamano «intuizione intellettuale»: la percezione diretta da parte della mente di una realtà metafisica oltre il velo dell’apparenza.
Molti filosofi, da Kant in poi, hanno sostenuto che intuizioni di questo genere sono esperienze religiose o mistiche che possono discendere solo da un oscurantismo fraudolento, come le visioni delle schiere angeliche di Emanuel Swedenborg. Kant le definì, con una bella parola tedesca, die Schwärmerei, una sorta di entusiasmo brulicante, dove l’io è letteralmente fuso con il Dio, con il Theos. Liberandosi bruscamente dalle limitazioni e restrizioni che Kant aveva posto sui differenti domini della ragion pura e pratica, il fenomenico e il noumenico, Dick affermò di pervenire all’intuizione diretta della natura ultima di ciò che chiamò la «vera realtà».
L’episodio del pesce d’oro fu solo l’inizio. Nei giorni e nelle settimane seguenti, Dick ebbe, con indubbio piacere, un paio di visioni psichedeliche che durarono tutta la notte, con tanto di immagini caleidoscopiche e fantasmagoriche. Questi episodi ipnagogici continuarono a presentarglisi di tanto in tanto, assieme a voci e sogni profetici, fino alla morte avvenuta otto anni dopo, all’età di 53 anni. Furono esperienze di varia natura, molto strane (troppe per elencarle qui), tra cui quella di un vaso di argilla che chiamava Ho On o Ho Oh, che gli parlava di profonde questioni spirituali con voce imperiosa e irascibile.
Si era trattato di un brutto viaggio con l’acido o di una bella esperienza con il pentothal? Dick era pazzo? Psicotico? Schizofrenico? (Scrive: «La schizofrenia è un balzo in avanti che non è riuscito»). Le visioni erano semplicemente l’effetto di una serie di convulsioni cerebrali, o crisi di epilessia dei lobi temporali? Possiamo ora spiegare e archiviare le esperienze visionarie di Dick con qualche più aggiornata teoria neuro-scientifica sul cervello? Forse. Ma il problema è che queste spiegazioni meccaniche non colgono la ricchezza dei fenomeni che Dick cercava di descrivere e rischiano di trascurare il suo particolare modo di descriverli.
Sta di fatto che dopo aver vissuto gli eventi che poi chiamò 2-3-74 (gli eventi di febbraio e marzo di quell’anno), Dick dedicò il resto della vita a cercare di capire cosa gli fosse successo. E per lui capire significava scrivere. Dato che soffriva di quel che potremmo definire «ipergrafia cronica», tra 2-3-74 e la morte scrisse più di 8.000 pagine sulla sua esperienza. Spesso scriveva per tutta la notte, anche venti pagine alla volta, battute a macchina o scritte a mano, con righe fitte condotte fino ai margini, cosparse di diagrammi bizzarri e di schizzi criptici.
Dopo la sua morte, questa montagna di carta è stata raccolta in circa 91 cartelle dall’amico Paul Williams, che le ha poi riposte nel suo garage a Glen Ellen, in California, dove sono rimaste per parecchi anni. Sono state chiamate complessivamente Exegesis. Alla fine del 2011 ne è stata pubblicata una selezione di oltre 950 pagine, con un pesce d’oro sulla copertina del volume, che è però solo una piccola parte del tutto.
Dick scrive: «La mia esegesi è un tentativo di capire il mio modo di capire». Il libro è l’atto più straordinario ed esteso di auto- interpretazione mai fatto, una riflessione apparentemente infinita - che noi possiamo cominciare a leggere oggi, a trent’anni esatti dalla morte - sull’evento del 2-3-74, che sembra sempre ricominciare. Spesso noioso, ripetitivo e paranoico, Exegesis possiede anche molti passaggi di autentica genialità ed è sempre contraddistinto da una sincerità assoluta e disarmante. A volte, come nell’epigrafe citata, Dick cade nella melanconia e nella disperazione. Ma in altri momenti, come un moderno Simon Mago, sembra posseduto da un io ipertrofico che lo porta a essere tutt’uno con il divino: «Sono stato nella mente di Dio».
Per capire cosa gli era successo il 2-3-74, Dick utilizzava le risorse che aveva a disposizione e che più amava: la quindicesima edizione completa dell’Enciclopedia Britannica, che aveva acquistato alla fine del 1974, e l’Enciclopedia della filosofia di Paul Edwards, un’opera in otto volumi, probabilmente insuperata, uscita nel 1967 - uno dei documenti filosofici più ricchi e ampi mai prodotti. Dick li leggeva in modo casuale ed eclettico. Le enciclopedie gli permettevano di fare associazioni rapide e spontanee che davano una certa coerenza formale e sistematica alle sue galoppanti ossessioni. Scorrendo e raffrontando diverse voci, Dick trovava ovunque collegamenti e corrispondenze. Gli capitarono tra le mani anche i testi di vari filosofi e teologi - tra cui i presocratici, Platone, Meister Eckhart, Spinoza, Hegel, Schopenhauer, Marx, Whitehead, Heidegger e Hans Jonas. Le sue interpretazioni sono a volte piuttosto bizzarre, ma spesso affascinanti.
Questo mi fa giungere a un punto importante. Dick era un irriducibile autodidatta. Quando era all’università riuscì a resistere meno di un semestre. Nel 1949 si iscrisse a un corso di filosofia a Berkeley, ma lo abbandonò dopo poche settimane. Lasciò la classe disgustato dall’ignoranza e dall’intolleranza dell’insegnante a cui aveva fatto una domanda sulla plausibilità della teoria metafisica delle forme di Platone (che venne poi avvalorata dall’esperienza del 2-3-74). Dick non ebbe una formazione filosofica o teologica. Era un filosofo dilettante o, per usare un’espressione di Erik Davis, era quella cosa meravigliosa che è un filosofo da garage.
La mancanza di rigore accademico e scientifico è in lui più che compensata dalla forza dell’immaginazione e dalla ricchezza delle sue associazioni trasversali. Se fosse stato più colto, avrebbe forse creato concatenazioni di idee meno interessanti. In un’annotazione verso la fine di Exegesis, dice: «Sono un filosofo che scrive narrativa, non un romanziere». Poi aggiunge: «Lo scopo del mio scrivere non è l’arte, ma la verità». Sembra un paradosso, dato che la ricerca della verità, il classico obiettivo del filosofo, non è qui vista in opposizione alla narrativa, ma è essa stessa un’opera narrativa. Dick considerava la sua attività di scrittore di romanzi un tentativo creativo di descrivere quella che a lui appariva la vera realtà. Dice ancora: «Sono sostanzialmente analitico, non creativo, la mia scrittura è semplicemente un modo creativo di condurre l’analisi». (Traduzione di Maria Sepa)
Simon Critchley
Philip Dick, la mistica e la fantascienza raccontate da Carrère
di Goffredo Fofi (Avvenire, 24.03.2007)
Hobby & Work ripropone una biografia del grande scrittore di fantascienza Philip K. Dick, la migliore di cui si disponga, pubblicata da Seuil in Francia nel 1993 e tradotta in italiano poco tempo dopo da Theoria: Io sono vivo, voi siete morti. Philip K. Dick 1928-1982. Una biografia (traduzione di Eva Raguzzoni, pagine 336, euro 17,00). Questo autore è uno dei più intriganti e originali della seconda metà del Novecento, di influenza grandissima sulla cultura post-moderna e con Vonnegut e Ballard, più saggi e longevi di lui, il più grande tra quanti siano venuti da un «genere» popolare per eccellenza e precorritore per definizione. Non si tratta qui di richiamare l’attenzione soltanto sull’opera di Dick, nevrotica e paranoide come il suo autore e però straordinariamente acuta nel raccontare in modo visionario i problemi e i tormenti della nostra epoca, le grandi mutazioni della società e dell’uomo, e tutte le angosce portate da queste mutazioni, ma anche su quella del suo biografo. Un gran numero di film è stato tratto dalle «visioni» di Dick, dichiarando la sua origine come Blade Runner o nascondendola come Truman Show, l’Esercito delle dodici scimmie, Matrix, eccetera.
Quest’opera è disponibile in italiano presso l’editore Fanucci, che se ne è fatto una specialità, e di essa consiglio in particolare gli inquietanti e dirompenti Ubik, La svastica sul sole, I simulacri, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Il cacciatore di androidi, Scorrete lacrime disse il poliziotto, e la Trilogia di Valis, riproposta da poco. E soprattutto il romanzo di Dick che preferisco, Un oscuro scrutare, il cui titolo è né più né meno, nell’originale, che la citazione del fondamentale «come in uno specchio, oscuramente» di San Paolo. Non è uno scrittore realista, Dick, ma ha saputo, come è stato detto, «inventare il nostro futuro». La biografia che gli ha dedicato Carrère è appassionante, e ha l’epicentro nella ricostruzione della sua crisi o «visione» che cambiò negli ultimi tempi la sua vita, una percezione improvvisa ed estrema di una realtà oltre le apparenze, religiosa e mistica. La Trilogia di Valis nacque da questa esperienza.
Romanzi di Carrère, il biografo, come La settimana bianca (Einaudi, sulla pedofilia!), o L’avversario (su una strage di familiari compiuta, nella realtà, da un uomo rimasto senza lavoro, e sul suo recupero dal carcere tramite il morboso incontro con una sorta di «madrina» cattolica che fa riflettere su altri recuperi, per esempio quelli dei terroristi) sono tra quelli in cui la realtà sa diventare romanzo. Come l’ultimo, appena uscito in Francia e che sta provocando molte discussioni. Carrère è figlio di un’accademica di Francia, quella Hélène Carrère d’Encausse che seppe prevedere con i suoi studi la caduta dell’impero sovietico. Il romanzo (edito da Gallimard, titolo: Un roman russe) narra del padre di lei, nonno dell’autore, giustiziato durante la guerra per collaborazionismo: una storia che la madre ha cercato di nascondere e che Emmanuel Carrère ha scritto contro il suo volere, per liberarla, ha detto, dalle ossessioni di questo opprimente segreto.
IL PREZZO E LA GRAZIA: LA SEMANTICA DELLA "CARITà"!
Inchieste. Fondata nel 1954 a Los Angeles, la Chiesa voluta da Ron Hubbard, ex scrittore di fantascienza e patito di cinema, divenne subito una impresa miliardaria. Lawrence Wright la racconta in "La prigione della fede"
di Tommaso Pincio (il manifesto - Alias, 22.11.2015)
Il più grande romanzo di fantascienza, nell’opinione di Philip K. Dick, è il libro dei libri, la Bibbia, e molto di biblico ha, per mole e ispirazione, l’Esegesi, la sua opera definitiva o almeno testamentaria: ottomila fogli di appunti più o meno compiuti, scritti un po’ a mano e un po’ a macchina. Un guazzabuglio nel quale convivono filosofia e esoterismo, deliri onirici e romanzeschi, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti a decenni di distanza dalla morte del suo autore (e tradotto ora da Maurizio Nati, per Fanucci, pp. 1312, euro 50,00).
Questa sorta di «diario notturno» - come lo ha definito Jonathan Lethem, curatore dell’immenso corpus insieme a Pamela Jackson - tenne impegnato Dick dal 1974, anno in cui ebbe visioni trascendenti che lo turbarono profondamente: può essere considerato alla stregua di un testo sacro e, nella sua sconsiderata ambizione di ridefinire la verità del mondo, la bibbia ideale della fantascienza.
Uno stretto legame unisce infatti questo genere letterario alla religione, forse perfino più stretto del legame decisamente appariscente che lo vuole discendere dai lumi della ragione. Il nocciolo di molti classici, dal Ciclo delle Fondazioni, alla saga di Dune, a quella cinematografica di Guerre stellari, emana una tensione mistica più o meno voluta ma sempre molto forte, tanto che parlare di fantareligione sarebbe forse più aderente ai contenuti effettivi. Era dunque nell’ordine delle cose, se non esemplare, che dalla fantascienza nascesse una religione vera e propria, la famigerata Chiesa di Scientology cui Lawrence Wright ha dedicato un’ampia e illuminante indagine giornalistica.
Il titolo originale del libro, Going Clear, è anche quello di un discusso documentario di Alex Gibney fatalmente centrato sugli aspetti sensazionalisti di una realizzazione deviata del sogno americano, vale a dire le discusse vicende che hanno consentito a un’impresa miliardaria di crescere sulle bizzarre fantasie di un ex scrittore di fantascienza.
Del resto, non cedere al sensazionalismo nell’indagare un mondo come quello di Scientology è ai limiti dell’impossibile, poiché significa entrare nella mente e nella torbida vita di un uomo, il suo fondatore, che ha investito gran parte della sua esistenza a falsificare la propria biografia.
È dunque a dir poco esilarante che la Chiesa di Scientology abbia lanciato strali, sostenendo che Going Clear non è un documentario bensì pura fiction perché tratto da un libro basato su rivelazioni mendaci di apostati, contenente «oltre 200 errori e travisamenti dei fatti». In realtà, La prigione della fede (Adelphi, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, pp. 529, euro 28,00) risponde alla migliore tradizione del giornalismo anglosassone: Wright si attiene strettamente ai fatti, astenedosi da qualunque giudizio. È una strategia di avvicinamento all’oggetto della indagine che ricorda quello del precedente libro dedicato all’attacco dell’11 settembre, Le altissime torri, grazie al quale Wright vinse il Pulitzer per la saggistica del 2007.
Tracciare un ritratto complessivo delle persone coinvolte, evitando qualunque ricostruzione speculativa e lasciar parlare i fatti affinché le persone rivelino la propria natura: in questo consistono, in sostanza, il metodo e il fine del libro.
Nel caso di Scientology, malgrado le nebbia fittissime, un fatto è pacifico: il suo fondatore era mosso da brame di ricchezza. «Mi piacerebbe fondare una religione. È così che si fanno i soldi» disse in più di una circostanza, rivelando dunque una natura ben diversa da quella di Philip K. Dick, che non soltanto visse in condizioni molto precarie ma vide in Dio opportunità esclusivamente filosofiche. Esistono ovviamente altri elementi del carattere di Ron Hubbard che possiamo dare per assodati e che emergono con chiarezza dal libro di Wright. Per esempio, è vero che la sua vocazione religiosa era del tutto strumentale ma, per giunta, Hubbard tutto aveva fuorché i tratti del santo. Era un despota per natura, un imbroglione seriale, un poligamo violento che rapì una delle figlie per poi dire alla madre che l’aveva tagliata a pezzettini e gettata in un fiume. Nella richiesta di divorzio, la seconda delle sue tre consorti dichiarò di essere stata picchiata, strangolata, sottoposta a torture sistematiche e sedicenti espertimenti scientifici. Hubbard era insomma un sibarita che adorava abusare delle donne, ed era convinto che ad affollare le prigioni e i manicomi degli Stati Uniti fossero i mancati aborti di madri inibite.
Altro fatto accertato è il numero dei titoli fornito dal Guiness dei primati nell’edizione del 2006: i suoi 1804 ne fanno l’autore con più libri pubblicati al mondo. La stessa Chiesa di Scientology stima che, tra il 1936 e il 1936, come scrittore di narrativa, abbia tenuto un ritmo di centomila parole al mese. Tale era la sua velocità che mise a punto una tecnica molto simile a quella usata in seguito da Jack Kerouac per scrivere Sulla strada: battere a macchina su rotoli di carta da macellaio. «Quando un racconto era finito, strappava il foglio con una riga a T e lo spediva all’editore».
Tanta prolificità obbligò Ron Hubbard all’adozione di vari pseudonimi. Ne collezionò una ventina, la gran parte dei quali in perfetta sintonia con il genere di letteratura che produceva: Mr. Spectator, Legionnaire 148, Joe Blitz, Winchester Remington Colt. Quanto a ciò di cui scriveva, praticò un po’ tutti i generi pulp popolari al tempo della Grande Depressione, ma è nella fantascienza che sfogò meglio la sua incontinenza di scrittore.
A questo proposito è interessante notare che, come altri autori della cosiddetta epoca d’ora della fantascienza, quella dominata da John W. Campbell, direttore della mitica Astounding Stories, Hubbard era molto influenzato dal pensiero di un filosofo polacco naturalizzato statunitense, Alfred Korzybski, ideatore della semantica generale: per lui le parole non sono le cose che descrivono, almeno non più di quanto una mappa non è il territorio che rappresenta. Questa separazione del linguaggio dalle cose nominate, unita all’impossibilità umana di fare tuttavia a meno delle parole, sarebbe - secondo Korzybski Korzybski - la vera fonte dei disturbi psichici e anche di altri problemi e malattie, incluse le carie dentali, che andrebbero perciò curate con un adeguato training semantico.
Tracce di questa audace teoria riafforano in Dianetics, conosciuto tra gli scientologi come il Libro Uno o anche la summa di «cinquantamila anni di pensatori» qualora si preferisca l’immodesta definizione del suo autore. Più concretamente, è un manuale di autoaiuto, il cui metodo dovrebbe produrre «quel tipo di stabilità e sanità mentale che gli uomini sognano da secoli». Malgrado il metodo sembrasse rivendicare una qualche scientificità, Hubbard concesse all’amico Campbell lo scoop di una anticipazione sulla sua rivista, dunque in mezzo a storie di navi spaziali, scienziati pazzi e donnine insidiate da mostri extraterrestri. Il che ha indubbiamente una sua coerenza, sebbene assurda, considerato che secondo la chiesa che ebbe origine da quel libro tutto sarebbe iniziato nella Conferedazione Galattica settantacinque milioni di anni or sono, quando un desposta di nome Xenu spedì sulla Terra i thetan.
Infine, naturalmente, Hollywood: la chiesa fu fondata a Los Angeles nel 1954, sia perché la città offriva da sempre asilo alle fedi più strampalate, sia perché il mondo del grande schermo era una vecchia ossessione di Hubbard. Più di una volta aveva provato a entrarvi come sceneggiatore, proponendo romanzi e racconti con esiti miserevoli. «Non ho abbastanza fascino» si lamentava.
Una volta dotatosi di una chiesa tutta sua poté tornarvi in altre vesti, quelle del guru spirituale, e non è certamente un caso che la fama abbia finito col rappresentare per Scientology quel che per un cristiano è la grazia.
Nella rivista ufficiale della chiesa si incitano i fedeli a fare proseliti tra le celebrità dello spettacolo. Veniva anche fornita una lista di candidati ideali: Marlene Dietrich, Walt Disney, John Ford. Come un simile fenomeno vanti ancora oggi credenti di spicco quali Tom Cruise e si tenga a galla nonostante gli scandali, le palesi assurdità, i lati oscurissimi e finanche la morte del suo messia, lo spiegano l’illuminazione di partenza, il miliardo di dollari in attività liquide, i centodieci ettari di proprietà sparsi per il mondo, l’eredità lasciata da Hubbard in diritti di autore. In una sola parola, i soldi. Con buona pace della fantascienza e delle bibbie.