Questo testo di Jean Baudrillard, inedito per l’Italia, è la base teorica su cui la vedova del filosofo, Marine, ha allestito la mostra fotografica che si inaugura oggi a Reggio Emilia.
Fotografia. L’ombra del reale
È una illusione che l’immagine sia "oggettiva" mentre non è altro che una emanazione del nostro sguardo
Occorre capire che gli oggetti sono sensibili alla ripresa quanto gli esseri umani
Oggi ognuno può credere di veder sfilare lo spirito del mondo davanti al proprio obiettivo
Wittgenstein diceva che in teatro uno scenario di alberi disegnati è meglio degli alberi veri
A volte la violenza estrema messa in mostra rischia di diventare un effetto speciale
di Jean Baudrillard (la Repubblica, 30.04.2009)
In fondo tutte le fotografie sono come le ombre platoniche proiettate sulle pareti della caverna, o come quest’ombra spettrale dell’irradiato di Hiroshima, transverberato dalla luce atomica - esempio perfetto del cliché istantaneo. Stessa proiezione "acheiropoietica" di quella del sudario del Cristo (oggetto indipendente dalla nostra volontà, l’ombra è in sé stessa un segno acheiropoietico). Le immagini più pregnanti sono quelle più vicine a questa scena primitiva di un’iscrizione fantomatica e più lontane dall’intervento umano.
La silhouette atomizzata di Hiroshima, sostanza polverizzata del corpo: un’impronta fossile - volatilizzazione dell’oggetto in una sostanza non carnale, una traccia. I fossili stessi sono altrettanto vicini all’analogon fotografico, sono come dei negativi fotografati da una mano invisibile, come le pitture rupestri del neolitico, quest’arte parietale da cui la figura umana è misteriosamente assente (salvo le mani "in negativo" contornate sulle pareti come a partire da una fonte luminosa). Unica figura moderna erede di queste pitture murali e di una forma "fotografica" del segno - più vicina a una figurazione automatica che al segno rappresentativo - sono i graffiti: anch’essi inseparabili dalle pareti.
La fotografia è l’ombra proiettata sulla pellicola di ciò di cui non avremo mai l’esperienza concreta, oggettiva, e di cui neppure conosceremo mai la fonte luminosa, proprio come i prigionieri della caverna platonica, i quali del mondo esterno e della propria esistenza non conosceranno mai altro che il riflesso.
La sfilata delle ombre (la mia sulla parete ocra, quella degli alberi, quelle dei personaggi sulla parete della Recoleta, o tutte queste sagome silenziose, la notte nelle strade di Venezia), tutto questo teatro d’ombre è come il riflesso di un mondo anteriore in cui non eravamo ancora altro che ombre, di un’età dell’oro crepuscolare in cui gli uomini non sono ancora precipitati verso la luce brutale del mondo reale, verso questo deserto dove tutte le ombre sono vittime della luce artificiale e della realtà virtuale, dove i corpi sono diventati traslucidi in un mondo sovraesposto dall’interno.
La fotografia, appunto, conserva la traccia di una scrittura d’ombra, quale essa è altrettanto che "scrittura di luce", e dunque il segreto di una fonte luminosa venuta dalla notte dei tempi.
Si dice dell’ombra che ci segue, ma di fatto essa ci ha sempre già preceduti, e ci seguirà. Come la morte: noi siamo già stati morti prima di essere viventi, e lo saremo ancora dopo.
Il controsenso più totale, e più generale, è l’ipertecnicità di tutte queste immagini così perfette, così impeccabili, in cui traspare soltanto l’iperrealtà della tecnica come effetto speciale (lo sfocato stesso è un effetto speciale). Di colpo la violenza che esse ci mostrano è soltanto un effetto speciale. Impossibile sfuggire a questo ricatto e di fronte a questa vampirizzazione estetica della miseria resta solo revulsione e repulsione. È come nella scena di condizionamento ottico di Arancia meccanica, in cui si è costretti a mantenere gli occhi aperti su scene insopportabili nell’illusione di purgarne l’immaginazione. Più è atroce, più è estetico, e tutti applaudono, secondo un rituale feroce di compiacimento "professionale".
Del resto, non si sa più a che cosa si applaude: alla morte? alla performance? È per questa ragione che tutte queste immagini non ci toccano più, sono un’arma di distruzione di massa dell’intelligenza e della sensibilità.
Il controsenso è sempre dell’ordine del realismo, dell’alterazione del senso attraverso l’"informazione" inutile. Viene da pensare a una riflessione di Wittgenstein sulla scena teatrale: uno scenario di alberi dipinti è molto meglio che uno di alberi veri, che distrarrebbero l’attenzione da ciò di cui si tratta. O ancora, nei reportage sulla micidiale canicola del 2003 in cui ci vengono mostrati i vecchi in carne e ossa, frontalmente, nella loro agonia - ben più violenti, ben più pungenti erano le fotografie degli immensi camion di refrigerazione dove sono conservati per vari giorni i corpi che non si possono seppellire, ma che non si vedono. Immagine fredda, obliqua, molto più efficace per l’immaginazione. Ovunque la verità, la veracità tecnica, essa pure inutile, esilia l’essenziale - nella sfera delle funzioni inutili.
Della stupidità realista fa parte non solo la perfezione tecnica delle immagini, ma anche la loro accumulazione.
Sempre più immagini si accumulano in serie, in sequenze "tematiche", che illustrano fino alla nausea lo stesso avvenimento, che si accavallano e si succedono - immagini che credono di accumularsi e di fatto si annullano l’un l’altra.
Ciò che viene completamente cancellato in questa storia è la libertà delle immagini le une rispetto alle altre. Ognuna priva l’altra della sua libertà e della sua intensità. Ora, bisogna che un’immagine sia libera da se stessa, che sia sola e sovrana, che abbia il proprio spazio simbolico (la qualità "estetica" qui non è in causa).
Non si è capito che è in atto un duello delle immagini tra loro. Se sono vive, seguono la legge degli esseri viventi: selezione ed eliminazione. Ogni immagine deve eliminarne un’infinità d’altre. È esattamente nel senso inverso che si va oggi, in particolare con il digitale, dove la sfilata delle immagini assomiglia alla sequenza del genoma.
È vero che oggi ognuno può immaginare di veder passare il Weltgeist davanti al proprio obiettivo e di essere diventato, grazie all’incessante padronanza sulle immagini, una coscienza universale. È il regno dell’espressionismo fotografico - di fronte a degli oggetti che non aspetterebbero altro che di essere visti e fotografati, cioè presi a testimoni dell’esistenza del soggetto e del suo sguardo.
Vi è qui invece un errore totale sulla ripresa e sull’essenza dell’immagine, considerata uno stereotipo oggettivo. Infatti non si tratta affatto di una registrazione, ci sono tante cose che fotografiamo mentalmente, senza necessariamente usare una macchina fotografica (del resto le più belle sono forse quelle che avremmo potuto fare in sogno, ma, ahimè, non avevamo la macchina!). È di una visione fotografica del mondo che si tratta nella fotografia, una visione del mondo nel suo dettaglio, nella sua stranezza e nella sua apparizione. -Talvolta c’è passaggio all’atto, cioè a una ripresa che materializza questa visione delle cose, non così come sono, ma come in se stesse la fotografia le cambia, "just as they look as photographed". Perché la cosa fotografata non è affatto la stessa, e questo sguardo, questa visione, è da essa che emana, così come entra nel campo, nel momento dell’atto fotografico. E ciò che ne risulta - l’immagine - non ha affatto l’aria di quello che le cose sono oggettivamente, ma di quello che assumono "di fronte" all’obiettivo.
Gli oggetti sono sensibili alla ripresa quanto gli esseri umani - da qui l’impossibilità di testimoniare la loro realtà oggettiva. Quest’ultima è un’illusione tecnica, che dimentica che essi entrano in scena nel momento dello scatto, e che ciò che la fotografia può fare di meglio, ciò di cui può sognare, è di catturare questa entrata in scena dell’oggetto (escludendo ogni messa in scena o artificio sti-listico).
Traduzione di Elio Grazioli
Ombre et photo, in François L’Yvonnet (a cura di), Jean Baudrillard, Paris, L’Herne, 2004, pp. 231-232.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La legge del porno
di Vanni Codeluppi (Doppiozero, 11.05.2021).
Come mai Beppe Grillo ha realizzato un video con il quale intendeva scagionare dalle accuse di violenza sessuale suo figlio e invece probabilmente ha inguaiato ancora di più quest’ultimo? Non sappiamo come questa vicenda finirà sul piano giudiziario, ma è interessante chiedersi come mai un comunicatore dalla lunga esperienza come lui è incappato in questo errore. Le ragioni possono essere diverse, ma una è meritevole di riflessione: Grillo probabilmente si è fatto influenzare da quello che pensano i giovani e ha scambiato le idee di questi per qualcosa che viene condiviso dall’intera società. Perciò ha fatto suoi i pensieri dei giovani, ritenendo che giocassero a favore di suo figlio. Nella società invece continua a essere predominante una legge morale che è differente, ma che è quella che trova una traduzione nella legge giudiziaria.
I giovani di oggi ritengono che sia normale adottare quella che possiamo chiamare “la legge del porno”. La possiamo chiamare così perché è frutto di quella massiccia diffusione di contenuti pornografici che è avvenuta negli ultimi anni grazie al sempre maggiore utilizzo del Web ed è stata analizzata da Marco Menicocci in Pornografia di massa (Altravista 2014). I dati disponibili su questo fenomeno sono scarsi, ma si pensi che negli Stati Uniti a novembre 2020 la parola “pornhub” è stata più ricercata su Google di “coronavirus” e “Trump”.
Questo fenomeno è particolarmente grave in un Paese come l’Italia, nel quale da sempre l’educazione sessuale non esiste e il processo di acculturazione dei più giovani rispetto al sesso viene in gran parte svolto da parte dei media. È però ben differente l’acculturazione al sesso del passato, basata sulla lettura occasionale di un fumetto o di un giornaletto illustrato oppure sulla visione di un film in un cinema specializzato, da quella che è presente nell’attuale era digitale. Una volta la società in qualche misura censurava e limitava l’esposizione al materiale pornografico, mentre oggi rispetto a ciò non esiste praticamente nessun vincolo. Va considerato che oggi le persone si rapportano al Web per molte ore ogni giorno, la metà degli adolescenti per più di cinque ore al giorno (DAD esclusa), secondo una recente indagine della Fondazione PRO. Inoltre, la potenza comunicativa dei media digitali odierni è decisamente superiore rispetto a quella dei media del passato.
I nuovi media, infatti, sono estremamente ricchi sul piano linguistico e offrono a un giovane di oggi un gigantesco supermercato liberamente accessibile sui cui scaffali si possono trovare pratiche sessuali di ogni genere. È ovvio perciò che tali pratiche vengano scambiate da persone facilmente influenzabili come i più giovani per la norma condivisa nella società.
Il vero problema però è che da molto tempo i materiali di tipo pornografico contengono una ideologia fortemente maschilista che prevede che la donna rivesta un ruolo subordinato e passivo. Forse perché sono nati come materiali prodotti da uomini per essere consumati da altri uomini . Sta di fatto che, come scriveva qualche tempo fa Pietro Adamo nel volume Il porno di massa (Cortina, 2004), «Almeno da metà anni Novanta la messa in scena hard ha privilegiato una potente e prepotente iconografia della violenza, organizzata in massima parte su meccanismi di esplicita subordinazione della femmina da parte del maschio». Negli ultimi anni, come si è detto, il consumo di materiale pornografico si è ampliato e ciò ha comportato che al suo interno sia entrata anche una audience femminile. Il porno continua però a essere caratterizzato da un’ideologia maschilista e le donne che lo consumano l’accettano solitamente anch’esse come qualcosa di normale.
Con la diffusione del consumo di materiale porno attraverso i potenti strumenti digitali di oggi tale ideologia si è rafforzata. E a volte si traduce in concreti comportamenti violenti, come è dimostrato dai sempre più frequenti stupri di gruppo. La scena di una gang bang in cui una donna si accoppia con molti uomini, se vista tante volte, può diventare qualcosa da praticare in un normale sabato sera. Questo non vuol dire naturalmente che chi guarda del materiale pornografico sia destinato a diventare uno stupratore. Vuol dire però che l’attuale iperconsumo di pornografia via Web “normalizza” in misura crescente la violenza verso le donne.
Perché nella cultura sociale si creano degli standard di riferimento per i comportamenti e questi vengono progressivamente condivisi. Non stiamo parlando dell’esistenza di un rapporto causa-effetto tra un messaggio pornografico e dei comportamenti illeciti sul piano morale, ma del fatto che i messaggi si sommano e sommandosi potenziano i loro effetti nella società. L’influenza di un singolo messaggio è trascurabile, ma non lo è quella di migliaia di messaggi. I quali producono pertanto nuovi standard all’interno della cultura sociale.
Non è un caso che dall’indagine Eurispes Sesso, erotismo e sentimenti, i giovani fuori dagli schemi di qualche tempo fa sia emerso come nelle coppie di giovani sposi intervistate più del 70% delle persone consuma abitualmente materiale pornografico, il 44% tradisce il proprio partner e quasi la metà vorrebbe ricorrere a pratiche sadomasochistiche.
Possiamo dire pertanto che da una decina d’anni, cioè da quando l’utilizzo di Pornhub, YouPorn e altri siti Web simili si è diffuso a livello di massa, nella società è nata anche una nuova morale sessuale. Una morale che abbiamo chiamato “la legge del porno” e che viene spesso condivisa da chi si è acculturato al suo interno al mondo del sesso. Generando così nella società una vera e propria frattura culturale, ma anche probabilmente dando vita a molti dei recenti fatti di cronaca nei quali le donne rivestono il ruolo di vittima.
Fotografia. I santi nei "tabernacoli" di strada: così "vedono" il paesaggio
Al Mufoco di Cinisello Balsamo il progetto di arte partecipata “Tra cielo e terra” di Claudio Beorchia è un racconto del territorio lombardo visto dagli "abitanti" delle edicole votive
di Alessandro Beltrami (Avvenire, venerdì 27 dicembre 2019)
In Lombardia si chiama santella, in Toscana tabernacolo e marginetta, nel Veneto è capitello, in Piemonte pilone e in Emilia-Romagna maestà. E l’elenco potrebbe continuare scendendo per tutto lo Stivale: sono i termini che designano le edicole votive che ospitano immagini sacre - santi, Madonne, Crocifissi... - diffusi in tutta Italia. Immagini oggetto di sguardi: ma a loro volta cosa guardano?
«Nel 2014, durante una residenza in Sicilia, nel Val di Noto, cercavo un modo diverso per raccontare il territorio. Passeggiavo per le vie e mi sono reso conto di sentirmi un po’ osservato da santi in decine di nicchie. Ho provato a mettere la fotocamera davanti ai loro occhi, e ho capito che non osservavano me ma il paesaggio che avevano di fronte».
A raccontarlo è l’artista Claudio Beorchia, che dall’esperienza ha creato un progetto (“Di fede osservante”) sviluppato anche in altre zone d’Italia e che si è poi evoluto in “Tra cielo e terra”, progetto di fotografia partecipata a cura di Matteo Balduzzi presentato fino al 1 marzo al Museo di Fotografia Contemporanea (Mufoco) di Cinisello Balsamo.
Grazie al coinvolgimento di nove musei sparsi su tutto il territorio lombardo, è stato rivolto l’invito a fotografare il paesaggio lasciando da parte il proprio “estro” ma mettendosi dal punto di vista dei santi. Tra maggio e settembre scorsi hanno risposto all’appello quasi trecento persone, che hanno inviato le immagini di 2.911 santelle: «Una risposta che ha superato ogni nostra aspettativa - commenta Balduzzi, impegnato da anni con il Mufoco in importanti progetti di arte pubblica - Il successo, a nostro avviso, ribadisce quanto un certo tipo di arte sia ancora capace di affrontare in modo semplice e giocoso questioni universali e testimonia una volta di più l’esistenza di una domanda di spazi di riflessione e sperimentazione estranei alle logiche di mercato e di consumo, anche soprattutto da parte di cittadini che vivono in territori sempre più esclusi da quell’accumulo di capitale, opportunità e sapere che si concentrano nelle grandi aree metropolitane».
Il progetto, come spiega Balduzzi, incrocia una doppia tradizione italiana, quella della fotografia di paesaggio e la pratica concettuale del mezzo fotografico avviata da Franco Vaccari; il risultato è un doppio repertorio: del paesaggio lombardo e delle edicole votive (persino delle loro forme, spesso curiose e sorprendenti). Le quasi tremila immagini costituiscono un archivio soggettivo e partecipativo, necessariamente non scientifico (mancano i presupposti di base perché l’indagine abbia valore statistico, per quanto la sua restituzione volutamente giochi con la tassonomia e l’enciclopedia) e allo stesso tempo di forte valore antropologico e religioso.
La maggior parte delle edicole si trova in campo aperto, nelle varie declinazioni della geografia lombarda, dai monti ai laghi alla pianura. Ma non mancano borghi storici e quartieri recenti, cantieri e parchi gioco, case popolari e giardini. È una panorama che va oltre il paesaggio “santino” della veduta cartolinesca (genere che non è destinato a finire con la scomparsa del suo supporto, ma è anzi rivitalizzato da smartphone e social network) ma anche oltre quello “dannato” della super-urbanizzazione.
C’è qui la quotidianità di un habitat frammentato - tra natura e storia, capannoni e boschi, sentieri e incroci a raso - ma famigliare. Una quotidianità che è condivisa da uomini e santi: «Certo, probabilmente le persone hanno preferito andare in giro per i monti invece che per la periferia di Brescia - commenta Beorchia - come altrettanto probabilmente la densità di queste edicole è superiore in certe aree rispetto alle periferie di più o meno recente urbanizzazione. Ma queste edicole sono diffuse ovunque. In alcuni casi sono così importanti da dare il nome a località, frazioni, vie. L’occhio abitudinario tende a sottovalutarle ma quando entri nella prospettiva è impossibile non vederle».
Quello che emerge chiaro è che le santelle hanno una loro vita. «Alcune sono costantemente attive, venerate e curate, altre ormai appaiono dimenticate. Ma questa forma di devozione è un fenomeno che non conosce stasi. Nascono sempre nuove edicole e vengono collocate nuove statue, spesso di santi “nuovi” come padre Pio».
Il progetto viene restituito attraverso la mostra e il libro Saintscapes ( Viaindustriae, euro 35,00) che, con un formato che incrocia il dizionario, le guide rosse del Touring e la Bibbia, raccoglie in 700 pagine oltre un migliaio di immagini. «Mostra e volume sono simmetrici. Al piano terra del museo - spiega il curatore - c’è in sintesi tutto il progetto: il materiale informativo preparato in itinere, i testi, una postazione con la mappa interattiva della Lombardia con tutte le 2.911 santelle e che al termine della mostra sarà disponibile online. Il libro presenta negli indici tutte le santelle con titolo, autore, luogo, gps, altitudine. Si passa poi a un primo livello di selezione, operata dall’artista che ha predisposto dieci categorie sulla base delle iscrizioni riportate sulle edicole. Si tratta di 800 casi nel volume e di oltre un migliaio in mostra, che presentano affiancati il paesaggio e il santo. L’ultimo livello presenta circa ottanta tavole con la sola visuale del santo: qui le immagini sono sagomate secondo la foggia originale dell’edicola.
Tutto il processo, in cui la componente ludica non è secondaria, secondo Balduzzi «ha evidentemente rappresentato per le persone un’alternativa alla visione ipersemplificata dei luoghi e all’immediatezza, autocompiacimento e individualismo che spesso connotano l’uso dell’immagine sui social media. Allineare il proprio sguardo a quello delle immagini sacre - in qualche modo assoluto, trascendente - ha inevitabilmente generato una temporalità sospesa rispetto ai ritmi incessanti e frammentati della vita di tutti i giorni, recuperando consapevolezza della dimensione ancestrale e sacrale, tanto dei luoghi quanto dell’atto di guardare».
D’altronde questo è un progetto che insiste costantemente sullo slittamento. Osserva nel suo testo in catalogo don Umberto Bordoni: «Oggi furtivamente altri occhi, elettronici o digitali, scrutano lo spazio urbano, pubblico e privato: videocamere, smartphone, sistemi di controllo e di tracciamento, apparecchi discreti ancorati agli edifici o sospesi in altezza registrano giorno e notte lo scorrere della vita. Quello dei santi è uno sguardo diverso, legato alla figura umana, confidente e benevolo: la serenità e il senso di protezione che ispira è lontano dalle dinamiche di estraniazione e di curiosità, se non si sorveglianza e di punizione, degli attuali dispositivi di sicurezza. Sarà che ogni immagine sacra è frutto di una grazia ricevuta, di un voto, di una relazione fiduciale che ne spiega l’origine e non smette possibilmente di replicarsi nelle attese e nelle invocazioni dei passanti».
Mostra e volume costituiscono dunque un racconto stratificato: quello del rapporto tra uomo e territorio (e tra sacro e paesaggio) e quello della costruzione di un’azione comunitaria. Se la “nuova centralità della periferia” è più in voga come slogan che come pratica reale, i progetti di Balduzzi e del Mufoco mettono invece in luce la potenzialità (ma anche le quotidiane difficoltà) di un lavoro decentrato. «La cosa bella di questo lavoro - sostiene Beorchia - va ben oltre le fotografie prodotte, ma sta nel fatto che 250-300 persone sono uscite, sono andate in giro, si sono guardate attorno con occhi nuovi. L’oggetto dell’opera è stato avere cambiato il loro modo di vedere».
Balduzzi mette in guardia sul modo stesso di guardare queste fotografie: «Si tende sempre a mettere nell’arte un tasso di determinismo. La fotografia resta un oggetto muto, autoreferenziale. Quello che vuoi far dire alla fotografia è comunque una costruzione culturale. Le immagini fotografiche non dicono nulla di univoco, di assertivo. Aprono a possibilità: è la parola a dire. La fotografia è uno straordinario sistema di innesco di riflessioni. Queste immagini di santi e di paesaggi sono strumenti. Pensiamo ai lavori di Hamish Fulton, che cammina per giorni e giorni in montagna e poi presenta una sola fotografia. Perché è emozionante? Per quello che c’è in quell’immagine? Certamente no: perché ci immaginiamo l’artista che ha camminato da solo per un mese, ascoltando il vento. Di queste immagini la parte che emoziona non è la forma ma l’elemento immateriale, innimaginabile. Sono i segni di centinaia di persone che hanno attraversato il paesaggio, macinando migliaia di chilometri, senza una ragione “seria”, funzionale. È un’opera che sta quasi più nella land art che nella fotografia».
Filosofia e fotografia. Il mondo in un’immagine
Per Cartesio il dispositivo ottico consentiva di sottrarre il mondo al caos della percezione, mentre per l’uomo del ’900 l’obiettivo moltiplica lo sguardo soggettivo
di Anna Li Vigni (Il Sole 24 ore - Domenica’, 26 gennaio 2014)
«Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere è un compito che non possiamo assumerci». Così George Didi-Huberman ci introduce a quattro fotogrammi scattati furtivamente, nell’agosto del 1944, da alcuni prigionieri del campo di sterminio destinati alle camere a gas.
Quei «quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno» ci permettono oggi di rileggere la storia - secondo l’indicazione di Benjamin - «in contropelo», ovvero di assumere uno sguardo critico sul passato, andando con l’immaginazione al di là dei luoghi comuni forniti dalla tradizione. Se anche il ruolo della fotografia si limitasse a questo, sarebbe già abbastanza.
Ma c’è tanto di più. La fotografia non è soltanto la rappresentazione del reale indissolubilmente legata al suo apparato tecnico. E non è solo un’arte, da sempre ingiustamente considerata in rapporto o alla pittura o al cinema. La sua scoperta è coincisa con la più grande rivoluzione della percezione e della cognizione, una frattura culturale che ha profondamente modificato lo sguardo dell’uomo contemporaneo.
Il volume Filosofia della fotografia, curato da Maurizio Guerri e da Francesco Parisi, è un’utile antologia ragionata di alcuni tra i principali testi di teoria della fotografia, dagli esordi fino all’odierno dibattito d’ambito analitico: da Ernst Mach a Vilélm Flusser; da Walter Benjamin a George Didi-Huberman; da Roger Scruton a Marshall McLuhan; da Gregory Currie a Kendall Walton.
La prima grande questione filosofica riguarda il portato cognitivo della rappresentazione fotografica: «In che modo la macchina fotografica e i media che hanno sviluppato le potenzialità di riproducibilità tecnica delle immagini hanno mutato il nostro modo di guardare le cose?». L’inizio della storia della fotografia coincide con il momento in cui l’uomo contemporaneo ha conformato il proprio sguardo alle condizioni socioculturali e tecnologiche del suo tempo. Non esiste una rappresentazione visiva separata dalla tecnica ottica che l’ha prodotta.
Già Cartesio, facendo esperimenti con la camera oscura, riteneva che attraverso il dispositivo ottico si potesse oggettivare il mondo, offrendone una visione assoluta e sottratta al caos della percezione; ma l’uomo del ’900 ha imparato che l’obiettivo fotografico persegue un fine opposto, quello di trasferire e di moltiplicare lo sguardo soggettivo.
In un certo senso, come sottolinea Susan Sontag, la fotografia ha anche contribuito a "deplatonizzare" la visione occidentale di realtà: ha evidenziato l’importanza dell’immagine in quanto cosa tra le cose e non più, tradizionalmente, come copia di un originale.
L’altra grande questione filosofica riguarda il dibattito estetico sulla fotografia come arte; un’indagine che non può prescindere dal rapporto con la pittura, considerato che la valutazione delle immagini fotografiche si è molto spesso basata su criteri pensati per i dipinti.
Tuttavia, ciò che bisogna chiedersi è, al contrario, quanto la fotografia ha influito sulla pittura a partire dall’età dell’impressionismo, trasformando il modo di guardare e di trasporre la visione sulla tela. Una posizione come quella di Roger Scruton, che non considera le immagini fotografiche vera arte in quanto secondo lui verrebbero create senza alcun sostrato intenzionale, non è altro che l’eco di un assurdo atteggiamento critico che accompagna da sempre la storia della fotografia. Non solo è un’arte, ma un’arte unica nel suo genere, capace di dare scacco al tempo e alla storia.
IL CASO
In bilico il prof di ’Pornosofia’
"La Cattolica non mi vuole più"
Regazzoni aveva appena presentato a Torino il libro sulla diffusione del porno nel web
Contratto a rischio. L’sms dello storico ateneo milanese: "Ci ha creato grossi problemi"
di FRANCO VANNI *
L’annuncio lo ha dato a lezione, di fronte a sessanta studenti allibiti: "Temo che dall’anno prossimo non sarò più un professore di questo ateneo, e non per mia scelta. Come forse saprete, ho scritto un libro sgradito all’università". Chi parla è Simone Regazzoni, docente a contratto di storia economica della cultura in Cattolica. Sostiene che la sua cacciata dall’ateneo sia la conseguenza della pubblicazione di Pornosofia, presentato alla Fiera del libro di Torino: un’analisi della diffusione del porno nell’era di Internet.
Nel libro, l’autore ha omesso di qualificarsi come professore dell’ateneo, "una scelta concordata con l’università", dice. Ma nei giorni scorsi alcuni giornali, parlando del saggio, lo hanno qualificato come "docente in Cattolica" e "filosofo della Cattolica". "L’università non me l’ha perdonata - racconta Regazzoni - ho ricevuto un sms dalla coordinatrice del corso di laurea che parlava di "grosso problema da cui non si sa come uscire". Poi abbiamo avuto liti furiose. Risultato: lo scorso anno a quest’ora il rinnovo del contratto mi era già stato comunicato, ora fanno addirittura resistenze per ricevermi".
La risposta dell’università: "Possiamo solo dire che, per l’anno accademico in corso, Regazzoni è un nostro contrattista". Regazzoni, prima di Pornosofia, aveva scritto altri sei libri che analizzano altri feticci della cultura contemporanea, da Harry Potter alla serie tv Doctor House. Volumi che gli erano valsi citazioni entusiaste sulle pubblicazioni della Cattolica. Ma ora tutto è cambiato. Nell’ultimo saggio, oltre ad analisi dotte della raffigurazione del nudo, si riportano descrizioni esplicite degli atti sessuali rappresentati in video. E il fatto che l’ateneo sia stato associato a "lingue che affondano" e "bocche spalancate", in largo Gemelli è stato preso male.
Paola Fandella, responsabile del corso di economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo, racconta: "La vicenda mi ha dato fastidio, è vero. Con Regazzoni abbiamo avuto confronti molto franchi. Ma il rinnovo dei docenti dipende dalla loro performance, e comunque non spetta a me decidere sui contratti annuali". Spetta alla Facoltà, e ai "designatori". Hanno davvero già deciso per il taglio? La risposta della Cattolica è secca: "Per il rinnovo dei contrattisti c’è tempo fino a luglio". Ma Regazzoni non ci sta: "Che io sia ormai un ex docente non è un segreto, e la Cattolica ha il diritto a mettere in cattedra chi vuole. Non capisco però perché mi tengano sulle spine, costringendomi a uno stress notevole. Non posso accettare di fare da relatore per la tesi agli studenti, non sapendo se sarò ancora al mio posto".
Regazzoni, genovese nato nel 1975, è un allievo di Jacques Derrida. Ha fatto un dottorato in Filosofia all’università di Parigi 8, dove ha poi insegnato. Con la Cattolica ha cominciato a collaborare nel 2007, tenendo un seminario di Museologia applicata, cattedra che gli è stata poi assegnata a contratto lo scorso anno. Oggi ha due corsi, entrambi a Economia: Filosofia delle arti visive, seguito da tre soli ragazzi, e Storia economica della cultura, per gli studenti dei primi due anni, con 178 iscritti. Nella valutazione data dagli studenti è nella fascia più alta. "La verità - dice Regazzoni - è che la pornografia è ancora tabù. Fino all’uscita del libro l’ateneo mi elogiava, con pubblicazioni e attestati di stima. Oggi sono un fantasma".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
L’ANALISI / Gli scatti di Antonello Zappadu e la vita privata del capo del governo possono minare la credibilità del paese alla vigilia dell’incontro con Obama e del G8
Perché la storia di quelle foto
cambia il registro di una crisi
di GIUSEPPE D’AVANZO *
CINQUEMILA foto che scrutano la vita del capo di un governo (una vita "disordinata": lo dice la moglie; lo ammettono anche i suoi fedelissimi) possono essere un trascurabile gossip soltanto per teste imprevidenti o vecchi volponi. È più responsabile parlare - per dirlo in modo chiaro - di una crisi della sicurezza nazionale. Può essere questo il nuovo e allarmante approdo di un affare che, in modo bizzarro, ha avuto inizio a una festa di compleanno di una ragazza di Napoli. Si è gonfiato con le ricostruzioni pubbliche di Silvio Berlusconi, presto diventate pubbliche menzogne e impossibilità a rispondere a dieci domande suscitate dalle sue stesse parole, contraddizioni, incoerenze.
Il "caso" è cresciuto con il racconto delle abitudini ambigue del presidente del consiglio che, in un qualsiasi pomeriggio d’autunno, telefona a una minorenne che non conosce (ne ha ammirato le grazie in un book fotografico) per invitarla a conservare la sua "purezza". Fin qui, anche se pochi hanno avuto finora l’interesse o la buona fede per capirlo, eravamo dinanzi a una questione politica che interrogava il divieto o il limite dell’uso della menzogna nel discorso pubblico. L’affare proponeva questioni non dappoco: l’attendibilità del premier e la costruzione di una realtà artefatta che si avvantaggia della debolezza delle istituzioni (il Parlamento); del dominio di chi - come Berlusconi - possiede e governa i media; delle pulsioni gregarie che li abitano.
Il racconto per immagini della vita privata che il capo del governo conduce, con i suoi ospiti, a Villa Certosa (viene detto oggi in cinquemila scatti) muta ora il registro. In queste foto, raccolte nell’arco degli ultimi tre anni, si può scorgere Silvio Berlusconi, circondato da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime.
Il presidente del consiglio è con i suoi ospiti, in alcune occasioni. Sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi. Chi sono? Amici personali del presidente o dignitari stranieri? E, in questo caso, di quale Paese? Le fotografie - Repubblica ha preso visione soltanto di una parte - sono caste, ma non innocenti. La loro pubblicazione (vietata in Italia) può senza dubbio danneggiare l’immagine e la reputazione del capo del governo, provocare l’imbarazzo del nostro e di altri governi o comunque dei leader che Berlusconi ha ospitato a Punta Lada. Qui si può scorgere, in due incertezze, l’avvio di una possibile crisi.
Si pensava (lo pensava l’avvocato del premier) che tutte le foto fossero state eliminate dal mercato. Non è così. Ce ne sono altre migliaia in circolazione.
Che cosa ritraggono? Possono trasformare l’imbarazzo di Berlusconi in vergogna e la vergogna in disonore? E ancora, chi oggi può entrare in possesso di quelle foto? Al di là delle immagini delle jeunes filles en fleurs raccolte da Antonello Zappadu, quelle giovani ospiti straniere hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine?
Ecco allora perché un affare nato in modo inatteso in un ristorante della periferia di Napoli, può diventare una minaccia della sicurezza nazionale. Non c’è dubbio che il presidente del Consiglio vive ore di grande debolezza in quanto non è in grado di sapere quali e quante immagini circolino (e non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe oggi avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano). Come non c’è dubbio che chi arraffa, o ha arraffato per tempo, quegli scatti, potrebbe avere un potere di interdizione sui passi del capo del governo.
Si comprende quindi il nervosismo, l’ansia del premier; la pressione che in queste ore muove sui servizi segreti per avere non solo, come pure si è detto, una maggiore protezione per il futuro, ma - e quel che conta - la sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente.
Questa condizione di precarietà, dicono, avrebbe convinto Berlusconi a chiedere all’intelligence un’azione meno "politica" e discreta, più convinta e determinata per liberare i suoi giorni da ogni possibile ombra. Soprattutto alla vigilia di importati appuntamenti internazionali (l’atteso incontro con Obama, il G8 di luglio a l’Aquila).
Ma, ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi. In questo dubbio, c’è tutta l’asprezza di una crisi che deve ancora trovare il suo vero nome.
* la Repubblica, 12 giugno 2009
RIMORSO DI INCOSCIENZA
di Marshall McLuhan ( Lettera internazionale, n. 98 IV Trimestre 2008)
Con il telegrafo, l’uomo occidentale ha iniziato ad allungare i suoi nervi fuori dal proprio corpo. Le tecnologie precedenti erano state estensioni di organi fisici: la ruota è un prolungamento dei piedi; le mura della città sono un’esteriorizzazione collettiva della pelle. I media elettronici, invece, sono estensioni del sistema nervoso centrale, ossia un ambito inclusivo e simultaneo. A partire dal telegrafo, abbiamo esteso il cervello e i nervi dell’uomo in tutto il globo.
Di conseguenza, l’era elettronica comporta un malessere totale, come quello che potrebbe provare una persona che abbia il cervello fuori dalla scatola cranica. Siamo diventati particolarmente vulnerabili. L’anno in cui fu introdotto il telegrafo commerciale in America, il 1844, fu anche l’anno in cui Kierkegaard pubblicò Il concetto dell’angoscia.
La caratteristica di tutte le estensioni sociali del corpo è che esse ritornano a tormentare i loro inventori in una sorta di rimorso di incoscienza. Proprio come Narciso, che si innamorò di un’esteriorizzazione (proiezione, estensione) di se stesso, l’uomo sembra innamorarsi invariabilmente dell’ultimo aggeggio o congegno, che in realtà non è altro che un’estensione del suo stesso corpo.
Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono. Il punto centrale del mito di Narciso non è che gli individui tendono a innamorarsi della propria immagine, ma che si innamorano di proprie estensioni, convinti che non siano loro estensioni.
Penso che questa sia un’immagine piuttosto precisa di tutte le nostre tecnologie, e ci invita a riflettere su una questione fondamentale: l’idolatria della tecnologia comporta un intorpidimento psichico. Agli occhi di osservatori successivi, ogni generazione sospesa dinanzi a un grande cambiamento sembra essere stata del tutto inconsapevole dell’imminenza e dei punti fondamentali dell’evento stesso. Ma è necessario comprendere il potere che hanno le tecnologie di isolare i sensi l’uno dall’altro, e così di ipnotizzare la società.
La formula dell’ipnosi è «un senso alla volta». I nostri sensi privati non sono sistemi chiusi ma vengono incessantemente tradotti l’uno nell’altro in quella esperienza sinestetica che chiamiamo coscienza. I nostri sensi estesi, strumenti o tecnologie, sono invece sistemi chiusi, incapaci di interazione. Ogni nuova tecnologia diminuisce l’interazione e la consapevolezza dei sensi proprio nell’area a cui quella tecnologia si rivolge: si verifica una sorta di identificazione tra osservatore e oggetto. (...)
La nuova tecnologia elettronica, però, non è un sistema chiuso. In quanto estensione del sistema nervoso centrale, essa ha a che fare proprio con la consapevolezza, con l’interazione e con il dialogo. Nell’era elettronica, la stessa natura istantanea della coesistenza tra i nostri strumenti tecnologici ha dato luogo a una crisi del tutto inedita nella storia umana.
Ormai le nostre facoltà e i nostri sensi estesi costituiscono un unico campo di esperienza e ciò richiede che essi divengano collettivamente coscienti, come il sistema nervoso centrale stesso. La frammentazione e la specializzazione, tratti caratteristici del meccanismo, sono assenti. Tanto siamo inconsapevoli della natura delle nuove forme elettroniche, altrettanto ne veniamo manipolati.(...)
I modi di pensare generati dalla cultura tecnologica sono molto diversi da quelli favoriti dalla cultura della stampa. A partire dal Rinascimento, la maggior parte dei metodi e delle procedure hanno teso fortemente a enfatizzare l’organizzazione e l’applicazione visiva del sapere. I presupposti latenti nella segmentazione tipografica si manifestano nella frammentazione dei mestieri e nella specializzazione delle mansioni sociali.
La scrittura favorisce la linearità, ossia una consapevolezza e un modo di operare secondo il principio «una cosa alla volta». Da essa derivano la catena di montaggio e l’ordine di battaglia, la gerarchia manageriale e la divisione in dipartimenti che caratterizza le strutture accademiche. Gutenberg ci ha dato analisi ed esplosione. Frammentando il campo della percezione e dell’informazione in segmenti statici, abbiamo realizzato cose meravigliose.
I media elettronici operano però in modo diverso. La televisione, la radio e il giornale (che a sua volta era legato al telegrafo) hanno a che fare con lo spazio acustico, vale a dire con quella sfera di relazioni simultanee creata dall’atto di ascoltare. Noi udiamo suoni provenienti da tutte le direzioni nello stesso momento; questo crea uno spazio unico, non visualizzabile. La simultaneità dello spazio acustico è l’esatto contrario della linearità, del prendere una cosa alla volta. E’ molto sconcertante rendersi conto che il mosaico di una pagina di giornale è «acustico» nella sua struttura fondamentale.
Questo, tuttavia, vuole dire soltanto che qualunque struttura, le cui componenti coesistano senza connessioni o legami diretti, lineari e creino un campo di relazioni simultanee, è acustica, anche se alcuni suoi aspetti possono essere visualizzati. Le notizie e le pubblicità che si trovano sotto la data di un giornale sono tenute insieme soltanto dalla data. Non hanno alcuna interconnessione di natura logica o discorsiva.
Eppure formano un mosaico legato all’immagine aziendale le cui parti si compenetrano tra loro. Questo è anche il tipo di ordine che tende a costituirsi in una città o in una cultura. E’ un’unità di tipo orchestrale e vibrante, non l’unità del discorso logico.
Il potere tribalizzante dei nuovi media elettronici, il modo in cui essi ci riportano alla dimensione unificata delle antiche culture orali, alla coesione tribale e a schemi di pensiero preindividualistici, non è stato realmente compreso. Il tribalismo è il senso di un profondo legame di famiglia, è la società chiusa come norma della comunità.
La scrittura, in quanto tecnologia visiva, ha dissolto la magia tribale ponendo l’accento sulla frammentazione e sulla specializzazione, e ha creato l’individuo. D’altra parte, i media elettronici sono forme di gruppo. I media elettronici dell’uomo di una società alfabetizzata riducono il mondo a una tribù o a un villaggio in cui tutto capita a tutti nello stesso momento: ognuno conosce e dunque partecipa a ogni cosa che accade nel momento in cui essa accade.
(...) Siamo diventati come l’uomo paleolitico più primitivo, di nuovo vagabondi globali; ma siamo ormai raccoglitori di informazioni piuttosto che di cibo. D’ora in poi la fonte di cibo, di ricchezza e della vita stessa sarà l’informazione. Trasformare tale informazione in prodotti, a questo punto, è un problema che riguarda gli esperti di automazione e non più una questione che comporta la massima divisione del lavoro e delle capacità umane.
L’automazione, come tutti sappiamo, permette di fare a meno della forza lavoro. Questo terrorizza l’uomo meccanico perché non sa che cosa fare nella fase di transizione, ma significa semplicemente che il lavoro è finito, morto e sepolto.
(...) Quando nuove tecnologie si impongono in società da tempo abituate a tecnologie più antiche, nascono ansie di ogni genere. Il nostro mondo elettronico necessita ormai di un campo unificato di consapevolezza globale; la coscienza privata, adatta all’uomo dell’era della stampa, può considerarsi come un cappio insopportabile rispetto alla coscienza collettiva richiesta dal flusso elettronico di informazioni. In questa impasse, l’unica risposta adeguata sembrerebbe essere la sospensione di tutti i riflessi condizionati.
Penso che, in tutti i media, gli artisti rispondano prima di ogni altro alle sfide imposte da nuove pressioni. Vorrei che ci mostrassero anche dei modi per vivere con la nuova tecnologia senza distruggere le forme e le conquiste precedenti. D’altronde, i nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan. Possono essere affidati solo a nuovi artisti.
Dal vecchio Playboy a Playsilvio
Meglio l’originale
di Francesco Bonami (il Riformista, 01.05.2009)
Un tempo ci trinceravamo dietro la patetica scusa di averlo comprato per la «bellissima» intervista con Kissinger o con Garcia Marquez, oggi è più probabile che il candidato/a alle europee si vanti di non sapere chi sono Kissinger o Garcia Marquez
Caro Bob - Il battibecco fra la prima signora italiana e il primo signore italiano la dice lunga sullo stato in cui versano la politica e la società italiane. Un tinello suburbano dove il compito di chi ci governa è quello di intercettare gli umori e le frustrazioni di una classe sociale sempre più amorfa che sogna la ragazza del canale accanto anziché quella della porta accanto come aveva capito il fondatore della rivista Playboy Hugh Hefner nel 1953.
Non stupiamoci se presto da Palazzo Chigi uscirà il mensile Playsilvio. Hugh Hefner pensò alla sua rivista per addolcire la noia domenicale. Così, sul tavolo della sua cucina di Chicago, inventò il primo numero di Playboy, una rivista per il "young single man", il giovane scapolo, contemporaneo.
Playboy, che prendeva il nome da un concessionario di auto fallito, non solo fu una coraggiosa, sovversiva, intuizione, in un momento in cui il sesso non andava certo per la maggiore, ma fu anche una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Ancora oggi, che culi e poppe, con tutto quello che sta davanti, dietro, sotto e dentro si possono guardare su Internet gratis, Playboy continua a vendere nel mondo tra i quattro e i cinque milioni di copie, con un 14 per cento di lettrici donne.
Il nostro premier deve essersi ispirato al creatore delle famose conigliette. Il segreto del successo di Playboy e del suo coniglietto simbolo - che nel 1989 fu dichiarato, dopo quello della Coca Cola, il logo più famoso del mondo - non fu solo quello di aver capito che al maschio, giovane o vecchio, solo o sposato , che sia, ogni tanto la mano da quelle parti scappa, ma l’aver intuito che di quella mano tentatrice l’uomo si sarebbe sempre vergognato, tentando di nasconderla dietro bisogni e necessità diverse.
Hefner non si sarebbe mai immmaginato che la vergogna del maschio un giorno si sarebbe trasformata in un Paese come l’Italia in strumento politico e orgoglio nazionale. Se un tempo davanti a un ospite inatteso, che vedeva Playboy spuntare da sotto il divano, ci trinceravamo dietro la patetica scusa di aver comprato il famoso mensile per la «bellissima» intervista con Henry Kissinger o quella con il premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, oggi è più probabile che vada sotto il divano la rivista culturale e che il candidato o la candidata alle elezioni europee si vanti di non sapere nemmeno chi sono Kissinger o Garcia Marquez.
Se Hefner ha costruito un impero sulle proprie ossessioni vivendo la maggior parte della sua vita in vestaglia, trasformando il suo letto circolare, nella villa di Los Angeles, in una redazione, non meravigliamoci se seguendo i propri istinti il nostro primo ministro inizierà a tenere il Consiglio dei ministri in vestaglia (gli incarichi della Rai d’altronde già si decidono attorno al camino del suo salotto ad Arcore).
Ma se Playboy aveva una sua dignità, ingenua, banale ma particolare, Playsilvio la dignità, maschile e femminile, l’ha già messa nel tritacarne da tempo. La doppia pagina centrale con la coniglietta del mese si è trasformata nel manifesto elettorale affisso per le strade delle nostre città. L’innegabile, perfida, genialità del nostro premier è comunque quella di aver capito che ha a che fare con un popolo sempre più ritornato allo stato dei primati.
Hefner il suo impero e i suoi soldi li ha usati anche per aiutare i politici democratici a combattere la crociata reazionaria di Edward Meese che, alla metà degli anni Ottanta, nel pieno dell’era reaganiana, con miopia talebana, faceva leggi contro la pornografia che mandarono in crisi le innocue conigliette senza risolvere la vera pornografia prodotta dal degrado sociale.
Da noi invece un impero economico e mediatico è stato ed è utilizzato come strumento per governare una società diventata culturalmente pornografica e degradata. Se per Berlusconi non è giusto escludere dalla politica uno o una solo perché è diventato famoso grazie alla televisione, è vero esattamente il contrario: se uno non è stato santificato dalla televisione in Italia avrà poche possibilità di essere preso in considerazione come leader politico.