E’ stato tra i più influenti teorici della postmodernità.
Il suo pensiero ha messo in crisi le teorie di molti saperi
Addio a Jean Baudrillard
l’intellettuale degli scandali
di FRANCO VOLPI *
Era uno degli ultimi maîtres-à-penser ancora lucidi e attivi della generazione intellettuale postsartriana, pronto a intervenire nelle questioni più scottanti dell’attualità. In presenza di un fenomeno nuovo da interpretare, quando scoppiava un caso, se sopraggiungeva qualcosa di straordinario, un fatto o un evento di fronte a cui l’intelligibilità assicurata dalle normali categorie dell’analisi sociale vacillava, Baudrillard era tra i primi a prendere la parola e ad arrischiare una lettura, un’ipotesi, un’interpretazione.
Germanista di formazione, aveva trascorso qualche anno in Germania dedicando tra l’altro alla traduzione in francese di testi di Hölderlin, Peter Weiss e Bertold Brecht. Tornato in Francia, nel 1966 era stato chiamato da Henri Lefebvre come suo assistente all’università di Paris-Nanterre, avvolta in clima surriscaldato per il montare della protesta studentesca e l’affermarsi della rivoluzione sessantottina. La sua tesi di dottorato, Le système des objets, è lavoro sociologico a suo modo geniale e innovativo, ma eccentrico rispetto ai canoni della disciplina e insufficiente ad aprirgli la carriera universitaria.
Dopo un periodo passato a insegnare tedesco nelle scuole, Baudrillard fu nominato docente di sociologia, acquistando carisma e autorevolezza, ed essendo invitato a tenere lezioni e conferenze nelle principali università europee e americane. Ma dovettero trascorrere ben due decenni prima che nel 1987 la sua thèse d’état, con cui divenne professore a pieno titolo, fosse accettata e presentata da Georges Balandier alla Sorbona. Fu un riconoscimento tardivo, che non gli fornì il motivo per impegnarsi nella vita accademica bensì il pretesto per allontanarsene definitivamente e dedicarsi alla propria attività di libero scrittore e analista, dirigendo tra l’altro la rivista Traverse.
I suoi saggi - incisivi e strutturati i primi, poi sempre più fulminanti e istantanei, ma di corto respiro e a volte di una dogmatica vaghezza - hanno comunque segnato in modo profondo la vita intellettuale contemporanea e la rappresentazione culturale del nostro tempo. Penso per esempio a L’échange symbolique et la mort, uscito nel 1976, che analizza il sistema dei segni, la loro funzione sociale, il loro inesausto e infinito richiamarsi in un vuoto e inane rispecchiamento di valori simbolici che risucchiano e consumano le cose. Con la nascita dell’illusione di uno scambio simbolico infinito, in cui i segni fagocitano e dissolvono le realtà significate, ormai incapaci di resistere all’urto dell’onda irreale. E in cui il discorso diventa, anziché la tematizzazione di un referente oggettivo, un satellite dell’immaginario.
Passando in rassegna fenomeni che si impongono con "oscena evidenza", come la moda o lo sfruttamento dei corpi nella pubblicità, Baudrillard si erge a lungimirante analista di un mondo, quello postmoderno, o "post-istorico" come preferiva dire (L’illusion de la fin, 1992), che presto sarebbe stato permeato dal virtuale, e in cui già lui vedeva prevalere e dominare l’irrealtà sulla realtà, cioè la parvenza e i simulacri sulle cose. Solo la morte - sosteneva allora - potrebbe offrire un arresto alla espropriazione e alla perdita di senso che ha luogo nella circolazione dell’irreale senza senso, duplicabile, riproducibile ed espandibile all’infinito.
Questo spiraglio di senso, che sarebbe stata la morte, veniva definitivamente chiuso in un altro suo celebre lavoro: Les stratégies fatales, apparso nel 1983. L’accelerazione dei processi sociali di scambio e di circolazione dell’irreale è qui dichiarata ormai un processo inarrestabile, ingovernabile, fatale. Alimentata dai meccanismi del desiderio, della seduzione e del consumo, in cui i soggetti diventano pedine impotenti di un gioco sistemico che non solo non riescono più a governare, ma da cui sono inesorabilmente governati, l’irrealtà, cioè la virtualità, dilaga in modo incontenibile e incontrollabile. Senza la possibilità di congetturare né un happy end né qualcosa come un buco nero sociale in cui l’ordine attuale imploda.
Tanto più sorprendente è stato perciò il suo instancabile stare a ridosso del Nuovo che emergeva, offrendo scorci, spunti, intuizioni e analisi, che solo in apparenza si presentavano come disparate o perfino svogliate, ma che in realtà testimoniano di un impegno costante, diventato uno stile di vita e di pensiero.
Ma che fare? Anzi, che dire? Quale prassi e quale teoria sono praticabili di fronte all’odierno spettacolo della società globalizzata e informatizzata? Di fronte all’evaporare e al dissolversi sempre più evidenti del reale nel virtuale? Negli ultimi tempi - diciamo a partire dal brevissimo ma folgorante Amérique (1986) per arrivare alla sequela delle Cool Memories (I-V, 1980-2005) - Baudrillard aveva preferito come strategia di analisi il diario, il racconto del proprio transitare di esperienza in esperienza, di osservazione in osservazione. Forse per un vezzo letterario, in cui il rigore dell’analisi inclina e si piega all’estetica della scrittura.
O forse perché l’unico modo per attraversare la nostra realtà ormai refrattaria a ogni tentativo di trasformazione consapevole e guidata, e perfino a ogni speranza di senso e di intelligibilità, è il "puro viaggiare". Il semplice stare a guardare e scrutare, senza pretendere di giudicare e tanto meno di discriminare il Bene dal Male, come Baudrillard scrisse con coraggio dopo l’11 settembre (L’esprit du terrorisme, 2002). Il puro osservare, il semplice posarsi dell’occhio sulle cose, per prendere parte al Nuovo e fruirne. Senza nostalgie né rimpianti per il passato lasciato alle spalle e definitivamente trascorso, senza speranze per il futuro che incombe.
C’è qualcosa che possiamo dire di avere imparato da tale controverso maestro cui è stato dedicato perfino un Cahier de l’Herme (2005), tanto intuitivo e preveggente quanto vago e volatile? Certo, almeno questo: che quando le cose sono soltanto quello che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor meno. E che in un mondo del genere non ci rimane che essere indifferenti senza cinismo e appassionati senza entusiasmo.
* la Repubblica, 7 marzo 2007.
Un libro postumo del filosofo Jean Baudrillard
Quando l’immagine cancella la realtà
Trasmissioni come il Grande Fratello corrispondono al desiderio imperscrittibile di essere assolutamente "Nulla" e di essere guardati in quanto tali
di Jean Baudrillard (la Repubblica, 18.02.2009)
La violenza dell’immagine (e, in generale, dell’informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L’immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa. È d’altronde proprio nel fatto che qualcosa in essa è scomparso che risiede la seduzione, il fascino dell’immagine, ma anche la sua ambiguità; in particolare quella dell’immagine-reportage, dell’immagine-messaggio, dell’immagine-testimonianza. Facendo apparire la realtà, anche la più violenta, all’immaginazione, essa ne dissolve la sostanza reale. È un po’ come nel mito di Euridice: quando Orfeo si volta per guardarla, Euridice sparisce e ricade negli inferi. Così il traffico di immagini sviluppa un’immensa indifferenza nei confronti del mondo reale. In ultima istanza, il mondo reale si converte in una funzione inutile, un insieme di forme ed eventi fantasma. Non siamo lontani dalle ombre sui muri della caverna di Platone.
Un buon esempio di questa visibilità forzata, e in cui (in linea di massima) si mostra tutto, è il Grande Fratello e tutti i programmi dello stesso genere, reality show ecc. È qui, nel momento in cui tutto è mostrato, che ci si rende conto che non c’è più nulla da vedere. È lo specchio della piattezza, del grado zero. È qui che ci si inventa una socialità di sintesi, una socialità virtuale in cui si comprova, contrariamente alle intenzioni, la scomparsa dell’altro e, forse, anche la natura non essenzialmente sociale dell’essere umano. A questo si aggiunge il fatto che il mito del Grande Fratello, quello della visibilità poliziesca totale, riguarda il pubblico stesso, mobilitato come voyeur e come giudice. È il pubblico che è diventato Grande Fratello.
Ci troviamo oltre il panottico, con la visibilità come fonte di potere e di controllo. Ormai non si tratta più di far sì che le cose risultino visibili ad un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse, di cancellare cioè le tracce del controllo e di rendere invisibile anche l’operatore. La capacità di controllo si interiorizza e gli uomini non sono più vittime delle immagini: si trasformano inesorabilmente essi stessi in immagini (non esistono ormai più che in due dimensioni, o in una sola dimensione superficiale). Questo significa che sono leggibili in qualsiasi istante, sovraesposti alle luci dell’informazione, e sollecitati ovunque a mettersi in mostra, a esprimersi. È l’espressione di se stessi come forma ultima di confessione di cui parlava Foucault.
Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. È non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell’immagine. È una violenza che va in profondità, all’essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch’esso la propria originalità; non è nient’altro che un operatore di visibilità, nient’altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice.
Anche l’immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell’immagine, la fonte della violenza contro l’immagine. Tutto quello che si vede nell’operazione Grande Fratello è una realtà virtuale, un’immagine di sintesi della realtà, una trasposizione dell’every day life, già trattata a sua volta secondo i modelli dominanti. Si tratta di voyuerismo pornografico? No, quello che la gente davvero brama non è sesso, ma spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità - quella della piattezza, dell’insignificanza e della nullità, una specie di parodia del suo estremo opposto: il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ma può darsi che ci sia in questo una forma di crudeltà, almeno virtuale: dal momento in cui la televisione è sempre più incapace di offrire un’immagine degli eventi del mondo, finisce per disvelare la vita quotidiana, la banalità esistenziale come l’evento più mortifero, come l’attualità più violenta, come il luogo stesso del Crimine Perfetto. Che poi è quello che in effetti lei è. E la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall’indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall’indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza.
Non si tratta più di una metafisica del crimine e del sesso. È una patafisica del crimine perfetto: assunzione della banalità come destino, come il nuovo volto della fatalità. Contro-transfert illustrato dal fatto che tutti sono diventati Grande Fratello. Perfusione del Super-io nella massa. Non solo gli spettatori: tutti sono presi nella spirale della Grande Gidouille (il ventre di Ubu). La contemplazione del Crimine Perfetto, di questa perpetrazione della banalità, è diventata una autentica disciplina olimpica, o l’ultima metamorfosi degli sport estremi. In fondo, tutto questo corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all’immagine), o si cade nell’esibizionismo delirante della propria nullità. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla - estrema protezione contro la necessità di esistere e l’obbligo di essere se stessi. Da qui l’esigenza contraddittoria e simultanea di non esser visti e di essere perpetuamente visibili. Tutti giocano su due tavoli allo stesso tempo e non c’è nessuna etica né legislazione che possa porre fine a questo dilemma, quello che comportano il diritto incondizionato di vedere ed il diritto, altrettanto categorico, di non esser visti. La massima informazione possibile fa parte dei diritti dell’uomo e, pertanto, lo è anche la visibilità forzata, la sovraesposizione alle luci dell’informazione.
La cosa peggiore in questo gioco televisivo "interattivo" è la partecipazione forzata, questa complicità automatica dello spettatore che va intesa come un autentico ricatto. Questo è l’obiettivo più chiaro dell’operazione: il servilismo, la sottomissione volontaria delle vittime che godono del male che gli si infligge, della vergogna che gli si impone. Tutta la società condivide questo meccanismo fondamentale: la abiezione interattiva, consensuale.
IDEE
jean baudrillard, un inedito sulle illusioni della scienza
Clonazione, l’umanità torna indietro
Inseguire il sogno di sconfiggere la morte in realtà significa invertire il «progresso»: così l’umanità regredirebbe al piano dei virus *
Il problema della clonazione riguarda direttamente la dolorosa questione dell’immortalità. Tutti ricerchiamo l’immortalità: è la nostra fantasia ultima; l’illusione che ha messo in moto complessi apparati scientifici e tecnici, i quali si stanno occupando, tra le altre cose, ad esempio, delle tecniche di ibernazione di parti di corpi umani e, in generale, della clonazione in tutti i suoi aspetti. L’esempio più conosciuto di ibernazione umana è, come si saprà, quello riguardante Walt Disney; ma egli, almeno, essendo destinato alla resurrezione, si dice sia stato ibernato "interamente", cioè nella sua "integrità". Questa, oggi, non è la sola situazione anomala. A Phoenix, in Arizona (il luogo predestinato per la resurrezione!), gli scienziati sono soliti congelare solo le teste umane a causa delle cellule cerebrali - considerate sede dell’anima e nucleo dell’essere individuale - a partire dalle quali i ricercatori sperano di poter ri-creare l’intero corpo del trapassato. (Certo, a questo proposito, ci si potrebbe chiedere perché non preservare semplicemente solo una singola cellula o molecola del Dna). Per compensare tale tendenza (ossia le teste senza un corpo), però, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, rane e ratti senza testa vengono clonati in laboratori privati, allo scopo di studiare la possibilità futura di riprodurre, con le stesse caratteristiche genetiche, corpi umani senza testa, utili come riserve per la donazione di organi. Ma perché corpi senza testa? Semplice, visto che il cervello è considerato il luogo dove è sita la nostra coscienza, un corpo senza coscienza pone, di conseguenza, meno problemi di ordine etico e psicologico. Quindi si è pensato che sarebbe stato più semplice e meno problematico selezionare creature acefale i cui organi avrebbero potuto essere liberamente congelati, perché, in quanto private del cervello e dell’anima, non avrebbero potuto essere definite propriamente "esseri umani". Questa, quindi, è la forma di clonazione preferi ta dagli scienziati - escludendo ovviamente il caso di Dolly , e situazioni simili. Il fatto non deve destare molto stupore perché la "clonazione spontanea", e quindi l’immortalità naturale, può essere anche rinvenuta in natura, nel cuore delle nostre stesse cellule. Comunemente, una cellula è destinata a dividersi e moltiplicarsi per un certo numero di volte prima di morire. Se, nel corso di tale divisione, accade qualcosa che modifica tale processo - ad esempio, un’alterazione nel gene che previene la formazione del cancro o del meccanismo che governa il processo di apoptosi - la cellula impazzisce e diventa cancerosa: dimentica di morire; dimentica come morire. Continua a vivere in un processo infinito clonandosi ripetutamente, generando così un cancro. Di norma, l’individuo muore come conseguenza della malattia, e le cellule cancerose muoiono per effetto con lui. Ma nel caso paradossale di Henrietta Lacks, le cellule tumorali furono prelevate e coltivate in laboratorio, continuando a riprodursi senza fine.
Negli esseri umani c’è qualcosa di misterioso: la morte. Ma quel qualcosa si nasconde a nostra insaputa, camuffandosi come in attesa all’interno delle nostre stesse cellule: la possibilità dell’oblio, dell’amnesia fatale. Si parla comunemente della lotta per la vita contro la morte, ma c’è anche una minaccia opposta, che fa sì che si lotti contro la possibilità di non morire. Alla minima esitazione nella lotta per la morte - lotta per la divisione, per la sessualità, per l’alterità, e quindi per la morte - gli esseri umani diventano ancora una volta indivisibili, identici gli uni con gli altri - e dunque immortali. Contrariamente a ciò che sembra ovvio e "naturale", i primi esseri erano immortali. Fu solo grazie al raggiungimento della capacità di morire, ottenuta a costo di dure lotte, che siamo divenuti ciò che siamo oggi. Ciecamente sogniamo di superare la morte attraverso l’immortalità, anche se da sempre l’immortalità ha rappresentato la peggiore dell e condanne, il destino più terrificante. Codificata agli albori della vita intracellulare, questa possibilità sta ora riapparendo ai nostri orizzonti, per così dire, con l’avvento della clonazione. L’evoluzione della biosfera è ciò che ha portato gli esseri immortali a divenire mortali. Essi sono passati, a poco a poco, dalla continuità assoluta che determinava la suddivisione dell’identico - nei batteri - verso la possibilità della nascita e della morte. In termini evolutivi, gli esseri mortali e distinti individualmente hanno sconfitto, sopravvivendo, ma non alla morte, l’indifferenziato immortale. Stiamo vivendo una sorta di processo di riattivazione di questa forma patologica d’immortalità, l’immortalità propria delle cellule cancerose, sia a livello individuale che a livello della specie. È una specie di vendetta compiuta da forme di vita indifferenziate e immortali su esseri mortali sessuati. Si potrebbe denominare tale processo come la "soluzione finale".
Dopo la grande rivoluzione realizzata nel processo evolutivo - l’avvento della differenziazione sessuale e della morte - stiamo subendo ora una grande involuzione, il cui scopo, attraverso la clonazione e molte altre tecniche all’avanguardia, è quello di liberarci proprio dal sesso e dalla morte. Oggi siamo diventati, grazie alle stesse scoperte scientifiche, esseri incoscienti che inseguono il sogno di ricreare precisamente le condizioni da cui ci siamo con tanta fatica liberati. Qui dobbiamo porci la questione riguardante lo scopo della scienza. In pratica, dobbiamo considerare la possibilità che il reale "progresso" scientifico fattualmente non segua, in senso figurato, una linea retta, ma proceda in senso curvilineo, o a zigzag, tornando indietro verso un’involuzione totale. E dobbiamo chiederci anche se la soluzione finale per la quale stiamo così attivamente e inconsciamente prodigandoci non sia un disegno segreto, una sorta di boomerang della natura, che opera nonostante tutti i nostri sforzi. Ciò getta una luce sinistra in tutti coloro che sono convinti che, oggi, si possa parlare ancora di evoluzione positiva, costituita di piccoli passi in avanti.
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* IL TESTAMENTO DEL FILOSOFO
Anticipiamo in queste colonne ampi stralci del capitolo che apre il volume L’illusione dell’immortalità (Armando, pagine 92, euro 15,00), dove il filosofo francese, recentemente scomparso, riflette su immortalità, omologazione e clonazione. Ovvero, su ciò che considera, tristemente, i valori fondanti dell’umanità del terzo millennio, messa ironicamente sotto accusa: «Non siamo forse stanchi - si chiede Baudrillard - di sesso, di differenze, di emancipazione, di cultura?». Perché a scomparire, nel nuovo mondo vagheggiato dalla tecnologia, è proprio ciò che costituisce l’uomo.
* Avvenire, 09.09.2007
Baudrillard cioè la lucidità premonizione del collasso dell’occidente
di BIFO *
Negli ultimi anni sempre più spesso, seguendo il rovinoso corso degli eventi planetari, la catastrofe della modernità e dei suoi valori sempre più spesso mi sono ritrovato a riconoscere che lo sguardo più realistico sull’evoluzione presente è da molto tempo quello di Jean Baudrillard. Uno sguardo che negli anni ‘70 a molti di noi era apparso quasi cinico per eccesso di lucidità. Dissuasivo, dicevamo, nei confronti dei tentativi generosi di sovvertire il reale. Per lungo tempo abbiamo chiuso gli occhi cercando di non vedere quello che aveva da dirci Jean Baudrillard.
Baudrillard ha colto nel suo nucleo essenziale il senso del divenire tardo moderno, lo sprofondare del senso, e quindi il crollo delle colonne culturali su cui l’occidente aveva fondato il suo dominio per 500 anni. Il pensiero di Baudrillard che a qualcuno poteva sembrare un lamento nostalgico, è stato in verità la premonizione più lucida del collasso (che oggi è sotto i nostri occhi) dell’occidente.
Jean Baudrillard ha chiuso gli occhi ieri, 6 marzo. Da qualche tempo sapeva di essere gravemente malato. “Ma non è una cosa così terribile”, mi aveva detto l’estate scorsa, lui, da sempre maestro inarrivabile nella fusione di understatement e iperbole nostalgica. “ Non è una cosa così terribile la morte” aveva detto con ironia e con la spensieratezza della sua patafiisic. Il suo libro per me più bello, quello che uscì nel 1976, è dedicato allo scambio simbolico e alla morte. Nella sfera dello scambio di segni qualcosa di gigantesco stava avvenendo in quegli anni e Baudrillard registra lo spostamento nel suo linguaggio filosofico.
Il principio di realtà ha coinciso con un uno stadio determinato della legge del valore. Oggi tutto il sistema precipita nell’indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall’iperrealtà del codice della simulazione” ( Lo scambio simbolico e la morte” Feltrinelli, 1979). Non è la verità ad annullare e assorbire la finzione, non è la vita ad abolire lo spettacolo, ma è la simulazione a fagocitare la realtà, secernendo il mondo reale come suo prodotto. Nei libri precedenti, Il sistema degli oggetti (1968) e Per Una critica dell’economia politica del segnao (1974), aveva studiato il rapporto tra evoluzione tecnologica e la comunicazione sociale. Nel libro del 1976 intuisce le linee generali dell’evoluzione di fine millennnio con un’anticipazione disperata e nostalgica degli effetti di derealizzazione prodotti dalle tecnologie di comunicazione. Da quel momento il suo pensiero ha anticipato il raggelarsi progressivo dello scenario del mondo da cui è stata cancellata la possibilità di immaginare. L’integrale efferato dominio dell’Immaginario soffoca, assorbe, annulla la forza d’immaginazione singolare.
Il pensiero di Jean Baudrillard è costruito sulla formula linguistica del “non più”. Non più la modernità, non più la dialettica, non più la dinamica da superare. Finita la speranza della rivoluzione, con l’esaurirsi della potenza pratica della dialettica, occorre abbandonare anche la speranza della fine. Il mondo ha incorporato la propria inconcludibilità. Eternità dell’inferno inesauribile del dispositivo della replicazione automatica. L’’esaurimento della logica storica ha lasciato il campo alla logistica del simulacro, e questa è interminabile.
“l’unica strategia è catastrofica, e nient’affatto dialettica. Bisogna spingere le cose al limite dove del tutto naturalmente esse si capovolgono e si sfasciano...Contro un sistema iperealista l’unica strategia è la patafisica: una scienza delle soluzioni immaginarie, cioè una fantascienza del rivolgersi del sistema contro se stesso, all’estremo limite della simulazione, una simulazione reversibile in una logica della distruzione e della morte”
Bifo
* www.liberazione.it, 7.03.07
Potente e fatale la strategia di Jean Baudrillard
di Mario Perniola (il manifesto, 07.03.2007)
A ripercorrere l’opera di Jean Baudrillard, all’indomani della sua morte, appare subito evidente come essa si divida in due periodi, il primo dei quali è segnato da una insistita riflessione sulle categorie dello scambio simbolico, dell’iperrealismo e del simulacro, estendendosi fino ai primi anni Ottanta, mentre con il volume Le strategie fatali (1983) una nuova fase si apre, più paradossale e più suscettibile dei molti fraintendimenti in cui è talvolta incorsa. È dal saggio di Marcel Mauss sul dono nelle società primarie e dalle considerazioni di Georges Bataille sul potlàc - quella forma arcaica di scambio basata sull’obbligo di una restituzione più cospicua da parte di chi riceve il dono - che Baudrillard prende il suo concetto di scambio simbolico.
Oltre ai classici concetti marxisti di valore d’uso e di valore di scambio, il filosofo francese introduce un valore-segno, connesso con la società dei consumi e la universale semiotizzazione della vita, e infine un valore di scambio simbolico, inteso piuttosto come un non-valore perché, nel suo essere alternativo ai tre valori precedenti, implica la fine dell’economia. Già fuori dal marxismo, dunque, Baudrillard assegna alla propria teoria una dimensione utopica. Quanto alla nozione di iperrealismo, essa è nel suo pensiero una estensione all’ambito economico-sociale della parola nata in ambito artistico: come quel tipo di pittura forniva una copia del tutto realistica della realtà che intendeva rappresentare, così la società si trova a riprodurre con una rassomiglianza esasperata l’economia politica, quella economia che ha perduto, nella universale emancipazione del segno, ogni dimensione strutturale. La terza parola chiave, simulacro, porta con sé, nell’impiego che ne fa Baudrillard, l’eco di alcune considerazioni nietzscheane sul venir meno di una distinzione tra mondo vero e mondo apparente, e riprende anche il pensiero di Klossowski, di Foucault, di Deleuze e di Lyotard, applicandosi all’analisi dei fenomeni politici e sociali, in cui la realtà sembra dissolversi in una spirale infinita di segni e di rimandi, privi di referente. Derivano da qui le riflessioni sul terrorismo, che per un verso oppone un altro ordine a quello vigente, costituendo una specie di potlàc suicida, per un altro verso è un atto iperreale che spaccia per esistente una rivoluzione inattuata, e per un terzo verso partecipa del simulacro, che è estraneo all’ordine del senso e di una rappresentazione solidale con gli strumenti di comunicazione di massa, mentre dissolve qualsiasi prospettiva politica credibile.
Nella seconda fase, aperta dall’idea di strategia fatale, è centrale la parola «illusione», che va intesa sia in senso metafisico-cognitivo, ossia come il contrario della realtà e della verità, sia in senso estetico-psicologico, ossia come il contrario del disincanto e della delusione. Se si privilegia la prima accezione, il pensiero di Baudrillard acquista una coloritura scettico-nichilistica non lontana da alcune tendenze della filosofia italiana contemporanea - per esempio il «pensiero debole» di cui condivide il radicale rifiuto della metafisica e dell’etica, e quel filone della cultura filosofica caratterizzata dal catastrofismo vitalistico, che in Italia corre da Pirandello a Giorgio Colli e a Giorgio Agamben.
Ma sono paralleli, in realtà, ingannevoli: perché ciò che davvero interessa Baudrillard non è il problema della conoscenza, né l’enfasi vitalistica che pervade i filosofi italiani del sublime. Per lui, infatti, l’illusione non significa sogno, inganno, miraggio, e nemmeno utopia, bensì l’ingresso in una dimensione non usuale, non quotidiana, non statica. Ed è a partire da questo momento che ha inizio una rivalutazione di ciò che chiamiamo l’arte, il teatro, il linguaggio: perché lì si è conservato qualcosa di quella violenza al reale che si attua nella cerimonia iniziatica e nel rito. È in quell’ambito che si conserva una padronanza delle apparizioni e delle sparizioni, e in particolare la padronanza sacrificale dell’eclissi del reale.
Siamo quindi molto lontani dal gioco inteso come ricreazione, loisir o distrazione; l’idea che Baudrillard ha dell’arte come illusione è semmai prossima alla concezione antropologica della magia, dove la potenza dell’illusione riesce a irrompere nel reale e in qualche modo a prenderne il posto, senza però identificarsi con esso. Un passaggio fondamentale, questo, per capire una tra le idee più oscure della riflessione di Baudrillard, quella di strategia fatale.
Non è un progetto o un piano di azione elaborato da un individuo, la strategia così come la pensa Baudrillard, bensì una concatenazione di elementi esterni alla volontà soggettiva: dunque è un sinonimo di regola e di rituale. Ma questa concatenazione non è né necessaria, né casuale, né teleologica, né fortuita, è un rito senza mito, un significante senza significato, tuttavia può diventare fatale, aggettivo cui Baudrillard consegna il senso di legato al male, funesto.
Tutte le cose sono chiamate ad incontrarsi - secondo il filosofo francese - solo il caso fa sì che questo appuntamento non si realizzi; al contrario, dunque, di quanto è proprio all’idea di hasard objectif dei Surrealisti, che in un mondo retto dalla casualità cercavano di attribuirle un significato e un valore reconditi indipendente dalle intenzioni e dalle volontà soggettive, scoprendo una trama occulta: una specie di astuzia della ragione (List der Vernunft) hegeliana. Sebbene Baudrillard dia invece per scontato che le cose si incontrino, non attribuisce a questo incontro alcun significato, perché non di una concatenazione provvidenziale si tratta, ma di un rituale, che tuttavia talvolta manca l’appuntamento e si trasforma in rituale mancato.
La distanza estetica su cui si reggeva il rituale è però annullata, in occidente, dalla cancellazione della scena e dall’annientamento delle mediazioni, di qualsiasi tipo esse siano (artistiche, politiche, sessuali). In questa direzione l’analisi di Baudrillard si distanzia da quella di Guy Debord: il mondo attuale, infatti, non sarebbe caratterizzato dal trionfo dello spettacolo, ma dalla sua sparizione. La scena è stata sostituita dall’osceno, il posto dell’illusione è stato preso da qualcosa che pretende di fornire un effetto realistico maggiore dell’esperienza della realtà (ed è perciò iperreale), ogni evento è anticipato e annullato dalla pubblicità e dai sondaggi.Dunque l’azione diventa impossibile e ad essa succede la comunicazione, che riesce appunto a fare precipitare ogni cosa nell’insignificante, nell’inessenziale, nel derisorio. Nel mondo della comunicazione, nulla più accade: tutto è senza conseguenze, perché senza premesse, suscettibile di essere interpretato in tutti i modi, tutti ugualmente irrilevanti e privi di effetti.
Il sociologo e filosofo francese è morto ieri a Parigi. Aveva settantasette anni e nei suoi saggi, dalla «Sparizione dell’arte» al «Delitto della merce», aveva analizzato con il suo stile aforistico e provocatorio miti e strutture della società dei consumi
di Paolo Fabbri (il manifesto, 07.03.2007)
Nel punto singolare in cui una vecchia conoscenza si trasforma in ricordo, mi chiedo cosa ha saldato la mia lunga amicizia con Jean Baudrillard. Il comune insegnamento nella California del sud a San Diego, quando scriveva America; gli anni del Centro di Semiotica e Linguistica di Urbino, quando parlava di seduzione e di simulacri; la collaborazione nel comitato di «Traverses», la rivista del Centro Pompidou dove si rifletteva - con Louis Marin e Michel De Certeau - sui temi dell’alterità e dell’esotismo, dei media e del male, degli animali e dell’epidemia.
E ho trovato una risposta plausibile. La passione condivisa per le parole, ovvia per chi si considerava un allievo trascurato del Roland Barthes delle Mythologiques (America era la risposta all’Impero dei Segni). Per chi non mira a un sistema concettuale, a un pensiero definitivo, costruttivo e edificante, il fascino del linguaggio sta nella capacità dei suoi termini di funzionare come embrayeurs del pensiero. Ma più ancora come operatori di seduzione e di magia che evolvono in forma di spirale mutandosi l’uno nell’altro. Passando da una parola all’altra, si creano le condizioni indecidibili e sperimentali di quell’emergenza impredicibile che ha un pensare autentico e sentito.
Baudrillard aveva annotato di recente il suo lessico di predilezione: entrate o termini come Oggetto, Valore, Scambio simbolico, Seduzione, Osceno, Trasparenza del male, Virtuale, Aleatorio, Caos, (la) Fine, Crimine perfetto, Destino, Scambio impossibile, Dualità. Un dizionario concettuale che egli ha disposto nell’ordine in cui è emerso dai suoi pensieri nella sua scrittura frammentaria e inclassificabile, lontana da ogni trattato e disciplina.
La radicalità del suo attivismo teorico e del suo impegno di pubblicista ha radici riconoscibili nel pensiero di Bataille. L’esito singolare è quello di un manicheismo senza riserve, un pensiero antitetico della sfida e della reversibilità senza sintesi e compromessi. Nell’analisi della cultura contemporanea Baudrillard ha portato un pessimismo che gli è stato rimproverato - nell’università si è fermato al ruolo di assistente! - ma ha mantenuto intatta la tensione di un principio speranza. «Il pensiero - diceva (e mi duole questo imperfetto) - deve giocare un ruolo catastrofico (...) e di provocazione in un mondo che intende epurare ogni cosa, sterminare la morte, la negatività. Ma deve restare umanista, attento all’umano e trovare cosi la reversibilità tra il bene ed il male, l’umano e l’inumano».
Il ricordo, diceva Nabokov, è una festa nelle tenebre dove scintillano luci che sono frammenti di specchi. Ecco: la passione di Bill - come gli amici chiamavano Jean Baudrillard - per l’Italia e il Giappone; la sua America inventata, come eterotopia rispetto alla Francia; il suo interesse per gli scrittori tedeschi di frammenti, Canetti e Lichtenberg - era agregé di letteratura germanica; la predilezione per la fotografia, la scrittura privata delle sue Cool memories, il gusto per le automobili e i deserti. E ancora, le sue preferenze artistiche, dalla pop art a Warhol, e la ferma persuasione che l’arte contemporanea è nullità. La sua voce... E il titolo di un capitolo nello Scambio simbolico e la morte: «Ma mort partout, ma mort qui rêve», la mia morte dovunque, la mia morte che sogna.
PARIGI
È morto ieri il filosofo e sociologo francese noto per le sue analisi sul postmoderno. Aveva 77 anni. Nei suoi studi più recenti aveva indagato il rapporto fra reale e virtuale nei media e nel pubblico, ma anche le conseguenze dell’11 settembre
Baudrillard, scacco al male (e al terrore)
Vide nel capitalismo una macchina capace di schiacciare l’individuo offrendogli in cambio il miraggio del benessere
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 07.03.2007)
Da decenni, era uno dei detrattori più citati della società dei consumi e la sua riflessione ha influenzato, in modi molto diversi, intellettuali ed artisti del mondo intero. Il filosofo e sociologo francese Jean Beaudrillard si è spento ieri a Parigi all’età di 77 anni. La seduzione, la simulazione e l’iper-realtà sono stati alcuni dei concetti chiave approfonditi e incrociati per decenni dall’intellettuale nel quadro di analisi tanto originali quanto discutibili.
Dopo un’iniziale formazione e attività di germanista - traduce fra gli altri Karl Marx -, Baudrillard approda alla teoria sociale alla fine degli anni Sessanta attraverso opere come Il sistema degli oggetti (trad. it. Bompiani), La società dei consumi (Il Mulino) e Lo scambio simbolico e la morte (Feltrinelli): accuse senza appelli del sistema consumistico fortemente influenzate dal marxismo e dalla critica psicanalitica in voga all’epoca in Francia. Ma fin dall’inizio, le riflessioni di Baudrillard segnano anche l’innesto della neonata scienza dei segni, la semiologia, nell’analisi sociale. La moda, lo sport e soprattutto il mondo dei media e della pubblicità sono via via divenuti i bersagli ideali delle sferzanti opere di Baudrillard. Per il filosofo, l’intera organizzazione sociale del tardocapitalismo è definita da fenomeni come l’esposizione dei beni, il prestigio e la reputazione sociale da essi arrecati, l’alienazione progressiva dell’esistenza individuale.
L’attenzione alle tendenze e agli eventi dell’attualità è stato uno dei fili conduttori della riflessione di Baudrillard, sempre pronto a interpretare i nuovi "segni" partoriti dalla realtà. L’Aids, la clonazione, il caso Rushdie sono stati solo alcuni dei fenomeni catturati - con la precisione del fotografo, l’altra attività parallela che ha del resto creato la fama di Baudrillard - e poi decomposti come sotto un microscopio dagli effetti forse deformanti. Un perenne humour in tinte perlopiù scure e un mai rinnegato pessimismo fanno anch’essi parte dei marchi inconfondibili del suo stile. Il pubblico non solo francese di quei media tanto detestati dal filosofo ha paradossalmente imparato col tempo a riconoscere al volo il volto rotondo, gli spessi occhiali e la voce di Baudrillard: una delle tante contraddizioni che hanno segnato la vita di un intellettuale divenuto ben presto anche personaggio.
Dopo essersi posizionato accanto alla sinistra rivoluzionaria nella tumultuosa fase del maggio 1968, negli anni Settanta il pensatore si allontana progressivamente dal marxismo e il centro della sua riflessione si sposta anche verso la critica del pensiero scientifico tradizionale. L’opera di Baudrillard, da allora, rifiuta sempre più di iscriversi all’interno di una qualsiasi tradizione di pensiero. «Inclassificabile», del resto, è ancor oggi l’aggettivo più frequente utilizzato per qualificare un’opera composta da più una cinquantina di volumi. Fra questi, ha animato accesi dibattiti in Francia anche Lo specchio della produzione, in cui il marxismo classico viene liquidato come immagine riflessa della società borghese. In un articolo presto al centro di aspre critiche, inoltre, Baudrillard ha considerato l’arte contemporanea come "inconsistente": solo una delle sue numerose prese di posizione controverse.
Definito come un "nichilista" dai suoi avversari, Baudrillard aveva suscitato anche negli ultimi anni vivaci reazioni per via delle sue letture, sempre al limite del paradossale, di grandi eventi d’attualità. In particolare, la Guerra del Golfo - Guerra virtuale e guerra reale. Riflessioni sul conflitto del Golfo (Mimesis) - e soprattutto l’11 settembre: nei saggi La violenza del mondo. La situazione dopo l’11 settembre (Ibis), Lo spirito del terrorismo (Cortina) e Power inferno (Cortina), il filosofo sostiene che gli attentati in America sono stati il frutto di una precisa "logica" da parte dei terroristi.
Le critiche contro il filosofo, negli anni, sono state sempre più frequenti. «In fin dei conti, ci si può chiedere cosa resterà del pensiero di Baudrillard se si toglie tutta la vernice che lo ricopre», hanno ad esempio scritto Alan Sokal e Jean Bricmont in un libro dedicato alle "imposture intellettuali". Impostore o autentico esegeta dell’epoca presente e futura? In queste ore, il mondo intellettuale continua ad interrogarsi. Non senza aver reso comunque omaggio all’energia con cui Baudrillard ha sempre difeso le proprie tesi.
BRUNO GRAVAGNUOLO RICORDA JEAN BAUDRILLARD [Dal quotidiano "L’Unita’" del 7 marzo 2007] *
Baudrillard, ovvero le seduzioni dell’immaginario come potenza che muove il mondo, lo distrugge e lo ricrea di continuo. A compendiarlo in uno slogan facile, fu questo il senso della sua filosofia. Un messaggio apocalittico e ironico, continuo in tutta la sua opera. Che ando’ diffondendo in modi discreti e dirompenti in piu’ di cinquanta libri, innumerevoli interventi e interviste. Modi discreti, perche’ il suo "presenzialismo" in scena non andava disgiunto da una maniera sottotono e allegra. Cameratesca e ammiccante, per chi lo conosceva. Volutamente demode’ e discreta, anche nel vestire. Come di uno sballottato nei posti per caso. In contrasto singolare con lo scintillio provocatorio delle sue decostruzioni dissolutorie, che trasformavano l’iperrealta’ tirannica del mondo moderno - da lui narrata - in un "post-mondo" destinato ad esplodere in una sorta di entropia dell’assurdo.
Francese fin nel midollo e proprio come "filosofo scintillante di spirito", nasce a Reims nel 1929. Germanista sulle prime, e docente a lungo di sociologia all’Universita’ di Nanterre, decostruisce sin da subito sia la tradizione classica della filosofia tedesca, sia quella moderna delle scienze umane. E sue stelle polari sono Marcel Mauss, Levi-Strauss, Bataille, Nietzsche. Sullo sfondo Marx. Non quello della filosofia della storia, e nemmeno quello del comunismo come forma scientifica di produzione.
Semmai quello della spettralita’ del "valore di scambio" e del denaro. Il valore immaginario che si stacca dai valori d’uso e fa ballare le merci sul mercato, cosi’ come per Marx ballavano i tavolini delle sedute spiritiche. E poi semmai il Marx-Engels della "comunita’ primitiva", il luogo dove il valore di scambio monetario non ha (ancora) luogo. E dove vigono la forza, l’autorita’, la tradizione, la parentela, nella "produzione e riproduzione del mondo reale". Ebbene, fin dall’inizio a Baudrillard quel Marx li’ non bastava. Perche’ infatti fin da subito lo studioso antiaccademico cercava tra i "primitivi" qualcosa di altro e di perenne. Cercava il segreto del potere che muove corpi e pensieri, fino a farli coincidere. Benche’ poi sul "potere" come chiave filosofica lui stesso ironizzera’ contro Foucault. Quel segreto, almeno nelle prime formulazioni di Baudrillard, stava in un concetto di Marcel Mauss: lo "scambio simbolico". E significava, nella versione seconda, che tutto il ricambio tra uomo e uomo, natura e uomo, con riti e miti a corredo, risiedeva in una specie di ostentazione del ruolo. In un’esibizione reiterata di potenza seduttiva. La potenza del dono, dello spreco, della dismisura. Capace di segnare di continuo confini e gerarchie. E di alimentare civilta’ e comunita’.
Convergono qui due pensatori diversissimi: Hegel e Bataille. Dal primo Baudrillard, forse con la complicita’ di Kojeve, hegelista russo maestro di Lacan, prende "la lotta tra le autocoscienze". La lotta tra servo e padrone. Che si risolve quando una delle due figure cattura il desiderio dell’altro. Padrone e’ chi alla fine gestisce e rilancia il desiderio. E funge da specchio in cui l’altro si riflette asimmetricamente. Per cui "scambio simbolico" designa il potere seduttivo di chi elargisce il dono, incarna una dismisura irraggiungibile. E percio’ domina. Il seme del Baudrillard futuro e’ gettato.
Se all’inizio, ne Lo scambio simbolico e la morte, c’e’ ancora il vagheggiamento di un’economia a scambio diverso dall’orizzonte monetario - il dono appunto, gratuito ed eccedente - in seguito non vi sara’ piu’ utopia di possibile "economia desiderante". Sempre l’economia, nel Baudrillard di Della seduzione, Le strategie fatali, Simulacri e simulazione (1979, 1983, 1985) sara’ gioco di maschere evanescenti e senza riscatto. Senza soggetto, ridotto a punto iridescente dei flussi mediatici. A libertinaggio omologato e innocuo. Al punto che gli oggetti stessi diventano "patafisiche" volonta’ capovolte. Messaggi energetici che si rivoltano, e che sono loro stessi soggetto, soggetti multipli. Tecnica e Capitale, per questo Baudrillard, hanno inverato a pieno il nichilismo dei simulacri e non c’e’ altro da fare che farli esplodere, decostruirli giocosamente. Ritagliandosi uno spazio di potenza nel gioco apocalittico che spiazza, denuncia e gioca altri giochi. Fuori dal circuito della dittattura semiologica dei media e delle merci. Che sono poi la stessa cosa.
E tuttavia, proprio con l’esordio del terzo millennio, il pensiero entropico di Baudrillard conosce una svolta in parte impensata. Vale a dire, col terrorismo e l’attacco alle Due Torri dell’11 settembre. Ed e’ una sorta di ritorno di Baudrillard alle origini. Allo Scambio simbolico e la morte.
Accade cosi’ in Power Inferno (2003) l’ennesimo paradosso. L’immaginario non si contenta piu’ di riprodursi in una catena di fantasmi indifferenti e interscambiabili. Esce da se stesso e si incarna nell’apoteosi della morte mediatica di massa. Si prende sul serio. E assume forma religiosa e sacrificale. E’ il gesto supremo del terrorismo, che ha compreso fino in fondo cio’ che veramente vale. Cioe’ la morte come orchestrato spettacolo di onnipotenza nell’Impero dei segni. E’ questo spettacolo fondamentalista che ricrea il Significato. E’ questo l’apocalittico e "inconcludente"
Baudrillard lo aveva capito prima degli altri.
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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA.
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 103 del 18 marzo 2007