Berlusconi, Carfagna e Lario nudi nei quadri di Panseca: polemiche - repubblica.it: cliccare sul rosso, per vedere le immagini
Savona, polemiche sulle opere di Panseca
Berlusconi, la moglie e Carfagna senza veli
Fanno discutere i due lavori dell’artista
palermitano , già scenografo del Psi, esposti al Priamar
SAVONA - Una ritrae, quasi senza veli, il premier Silvio Berlusconi e il ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna. L’altra ha come soggetto la moglie del presidente del Consiglio, Veronica Lario, a seno nudo e con due ali d’angelo: sono le due opere dell’artista palermitano Filippo Panseca, che hanno suscitato non poche polemiche a Savona, dove sono state esposte in nell’ambito della mostra «Art & Savonnerie», inaugurata al Priamar.
SCENOGRAFO CRAXIANO - A Savona cinque artisti interpretano il sapone attraverso l’arte, in occasione dei 125 anni del marchio l’Amande della Gavarry di Albisola Superiore, uno dei più antichi saponifici del mondo.
Come riporta il Secolo XIX, le opere di Panseca fanno parte di questa esposizione. «Autore delle opere è Filippo Panseca, l’architetto e artista palermitano diventato famoso negli anni Ottanta per le sfarzose scenografie dei congressi del Partito Socialista. Suo è anche il logo del garofano», sottolinea il giornale, secondo cui a Savona «molti gridano già allo scandalo».
«Ho voluto rendere omaggio al presidente del Consiglio - sottolinea Panseca, secondo quanto riferisce il quotidiano -. Per l’opera sono partito da una foto che avevo visto su Internet. Il corpo della Carfagna è preso in prestito da un artista dell’Ottocento».
* CORRIERE DELLA SERA, 19 aprile 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Carlo Emilio Gadda (1893-1973)
Eros e Priapo senza censura
di Salvatore Silvano Nigro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
Torna in libreria Eros e Priapo, l’invettiva antifascista, la mussolineide di Carlo Emilio Gadda. Ma non è la ristampa dell’edizione che lo scrittore pubblicò da Garzanti nel 1967. È un’opera nuova, diversa; ancora più furibonda e inesorabile, più intimamente motivata nella complessità dei piani e nella profusione barocca dello scatologico e della deformazione grottesca. L’Eros e Priapo, che Paola Italia e Giorgio Pinotti hanno curato per Adelphi, è la versione originale, con vari stadi di scrittura, conservataci da un manoscritto appartenente agli anni 1944-1945; la redazione prima, «smoderata» dall’«ira» e dalla «rancura», più volte respinta, in ogni suo singolo assaggio proposto alle riviste, a causa dei fuochi matti del dileggio osceno e della manipolazione ingegnosa della lingua (una «contaminazione Machiavelli-Cellini-fiorentino odierno: con inflessioni, qua e là, romanesche e lombarde», nella definizione dello stesso Gadda).
L’edizione Garzanti aveva proposto una versione sedata dell’opera, alla quale si prestò l’autore, coadiuvato nell’operazione dal giovanissimo Enzo Siciliano. Gadda era ormai stanco. Si era arreso alle esigenze degli editori. Accettò di epurare il testo. Mise qualche pudibonda foglia di fico alle parole più sguaiate; e fu così che qualche volta, come nel brano qui proposto, «culo» divenne «sedere». Si rassegnò all’eliminazione delle tante note a piè di pagina che, vere e proprie vampate di vocabolario, fingevano pedanteria e davano sostegno all’organizzazione saggistica dell’opera; e spesso erano occasione di lunatici microracconti, che si aggiungevano alle continue e sbrigliate digressioni narrative del testo.
La tarda edizione garzantiana era sì un pamphlet contro le funerarie priapate del «Predappiofesso», del «Predappiofava», del «Batrace stivaluto», del «Merda» con tanto di ventre «prolassato e incinturato», che dondolava sui tacchi e sulle «gambe a roncola» mentre il coltello gli oscillava alla cintola e la «ventosa labiale» gli andava in boccio per fiorire in «repentino garòfolo». Ma resecò dal manoscritto un brano truce di apocalittica visionarietà: «E se Dio voglia, finisce appeso come Cola, con rivoltate coglia (coi ball per aria, dialetti lombardi)». Il libro Garzanti si apriva con «Li associati» in camicia nera. Il libro Adelphi introduce subito «Li associati a delinquere cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a loro posta e coprir d’onte e stuprare la Italia».
Eros e Priapo, riportato alla volontà integra dell’autore, muove dal «Gaddus» che dice «io Carlo Emilio», cita le sue opere e si racconta come lettore con le sue preferenze. Gadda è un personaggio del suo libro (a differenza di quanto avveniva nel libro Garzanti che, al posto dell’autore diretto, aveva dovuto inventare la maschera distanziante di Alì Oco De Madrigal). E in quanto ex simpatizzante del fascismo è coinvolto (nudamente) nella bolla narcissica e nella catastrofe storica.
L’edizione curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti, ricca di documenti collaterali, e forte di una Nota al testo che è un lungo racconto storico, filologico e critico, di esemplare potenza, si impone anche per il cambio di prospettiva che introduce nella lettura di quest’opera che non è per niente «bizzarra» e vuole farsi leggere (con tutti gli evidenti rimandi freudiani) come un saggio di psicologia delle masse.
Scrivono i curatori: l’opera «si rivela molto più che un pamphlet antifascista (...) è un atto di (auto) denuncia e insieme un’autobiografia nazionale, che indaga le ragioni profonde della storia recente di un intero popolo, dopo aver mostrato lo strazio della sua distruzione materiale e morale, per additare la strada della rinascita (...) Non si tratta di utilizzare la chiave psicanalitica per capire il ventennio fascista, ma di utilizzare il ventennio fascista per capire, attraverso una degenerazione estrema, l’articolarsi del delicato rapporto tra narcisismo individuale e vivere civile. Per capire come le pulsioni dell’io agiscano in tutti i rapporti interpersonali, in tutte le dinamiche collettive, e possano, se non infrenate, portare a vent’anni di fallocrazia alimentata dal delirio di un “ippopotamo idolatra” e dalla incapacità delle masse di arginare la loro propensione all’idolatria narcissica».
Il salvataggio adelphiano è arricchito, nelle due Appendici, dalla riproposta di Avantesti e Riscritture e da una Galassia di “Eros e Priapo”. Non trascuri, il lettore, l’ecfrasi (forse la più bella della letteratura italiana) del Ratto d’Europa dipinto da Paolo Veronese. Si trova incastonata nei Miti del somaro, alle pagg. 295-296: «quella gran tela appunto che celebra il ratto dell’avvenente femmina da parte dello iddio fregolesco. La bella è montata a cavalcioni in groppa del cheratocefalo, (che un ciuffetto gli sbarba giù di tra i corni), opportunamente accosciatosi in nell’erbette per facilitarle quel delizioso inforcar la su’ groppa. Che lui, sotto a quel velluto e a quelle cosce, lui di tutta groppa ne prude e ne gode e rivolge addietro quel musone bicorne: tutto saturo d’una sua premeditante maestà. Ed estromessane cospicua e dilatata polpa di lingua, vaporando cupidità le du’ froge, lecca dal di sotto il di lei roseo piedino: il destro».
Berlusconi, altro che Medio Oriente
con Netanyahu parla del bunga bunga
IL VIDEO. Il premier, riferendosi al quadro alle sue spalle che raffigura il Parnaso, chiude così il vertice intergovernativo Italia-Israele: "Quello sono io, l’altro è Apicella..."
IL CASO
In bilico il prof di ’Pornosofia’
"La Cattolica non mi vuole più"
Regazzoni aveva appena presentato a Torino il libro sulla diffusione del porno nel web
Contratto a rischio. L’sms dello storico ateneo milanese: "Ci ha creato grossi problemi"
di FRANCO VANNI *
L’annuncio lo ha dato a lezione, di fronte a sessanta studenti allibiti: "Temo che dall’anno prossimo non sarò più un professore di questo ateneo, e non per mia scelta. Come forse saprete, ho scritto un libro sgradito all’università". Chi parla è Simone Regazzoni, docente a contratto di storia economica della cultura in Cattolica. Sostiene che la sua cacciata dall’ateneo sia la conseguenza della pubblicazione di Pornosofia, presentato alla Fiera del libro di Torino: un’analisi della diffusione del porno nell’era di Internet.
Nel libro, l’autore ha omesso di qualificarsi come professore dell’ateneo, "una scelta concordata con l’università", dice. Ma nei giorni scorsi alcuni giornali, parlando del saggio, lo hanno qualificato come "docente in Cattolica" e "filosofo della Cattolica". "L’università non me l’ha perdonata - racconta Regazzoni - ho ricevuto un sms dalla coordinatrice del corso di laurea che parlava di "grosso problema da cui non si sa come uscire". Poi abbiamo avuto liti furiose. Risultato: lo scorso anno a quest’ora il rinnovo del contratto mi era già stato comunicato, ora fanno addirittura resistenze per ricevermi".
La risposta dell’università: "Possiamo solo dire che, per l’anno accademico in corso, Regazzoni è un nostro contrattista". Regazzoni, prima di Pornosofia, aveva scritto altri sei libri che analizzano altri feticci della cultura contemporanea, da Harry Potter alla serie tv Doctor House. Volumi che gli erano valsi citazioni entusiaste sulle pubblicazioni della Cattolica. Ma ora tutto è cambiato. Nell’ultimo saggio, oltre ad analisi dotte della raffigurazione del nudo, si riportano descrizioni esplicite degli atti sessuali rappresentati in video. E il fatto che l’ateneo sia stato associato a "lingue che affondano" e "bocche spalancate", in largo Gemelli è stato preso male.
Paola Fandella, responsabile del corso di economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo, racconta: "La vicenda mi ha dato fastidio, è vero. Con Regazzoni abbiamo avuto confronti molto franchi. Ma il rinnovo dei docenti dipende dalla loro performance, e comunque non spetta a me decidere sui contratti annuali". Spetta alla Facoltà, e ai "designatori". Hanno davvero già deciso per il taglio? La risposta della Cattolica è secca: "Per il rinnovo dei contrattisti c’è tempo fino a luglio". Ma Regazzoni non ci sta: "Che io sia ormai un ex docente non è un segreto, e la Cattolica ha il diritto a mettere in cattedra chi vuole. Non capisco però perché mi tengano sulle spine, costringendomi a uno stress notevole. Non posso accettare di fare da relatore per la tesi agli studenti, non sapendo se sarò ancora al mio posto".
Regazzoni, genovese nato nel 1975, è un allievo di Jacques Derrida. Ha fatto un dottorato in Filosofia all’università di Parigi 8, dove ha poi insegnato. Con la Cattolica ha cominciato a collaborare nel 2007, tenendo un seminario di Museologia applicata, cattedra che gli è stata poi assegnata a contratto lo scorso anno. Oggi ha due corsi, entrambi a Economia: Filosofia delle arti visive, seguito da tre soli ragazzi, e Storia economica della cultura, per gli studenti dei primi due anni, con 178 iscritti. Nella valutazione data dagli studenti è nella fascia più alta. "La verità - dice Regazzoni - è che la pornografia è ancora tabù. Fino all’uscita del libro l’ateneo mi elogiava, con pubblicazioni e attestati di stima. Oggi sono un fantasma".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
La guerra dell’eros
Così l’Occidente ha inventato la rivoluzione sessuale
La liberazione dei costumi negli anni Sessanta, che usò i testi di Reich e Marcuse,
fu un’arma contro l’Urss, mentre la pornografia
è stata usata contro i regimi islamici
di Mario Perniola (la Repubblica, 17.03.2010)
Il testo che anticipiamo è parte dell’intervento che sarà svolto per Film Forum 2010 dedicato all’immaginario pornografico. Il festival si tiene dal 19 al 24 marzo tra Udine e Gorizia
La produzione dei film di Hollywood fu retta dai primi anni ’30 fino al 1966 da un regolamento di autocensura che vietava la rappresentazione di qualsiasi comportamento o immagine ritenuta immorale; questo orientamento viene abbandonato a cominciare dagli anni ‘60. Attraverso una progressiva deregolamentazione si è arrivati alla situazione attuale in cui perfino i bambini attraverso Internet hanno un facile accesso a ogni sorta di video pornografico.
Il punto di partenza di questo sorprendente cambiamento è la cosiddetta Rivoluzione sessuale degli anni ‘60, che resta un evento storico difficile da interpretare: c’è qualcosa di incomprensibile e di enigmatico in questa deregolamentazione che ha trovato il suo avvio negli Stati Uniti, ma si è poi estesa all’Europa occidentale. I paesi comunisti sono invece rimasti fedeli al progetto politico di una società retta da principi di moralità sessuale.
Le idee della Rivoluzione sessuale non erano una novità: esse erano state elaborate negli anni ‘20 e ‘30 dal movimento "Sexpol". Il principale animatore di tale movimento fu lo psicoanalista Wilhem Reich, il quale condusse una battaglia contro due fronti: da un lato contro il nazionalsocialismo, dall’altro contro il comunismo sovietico. Reich attribuiva il successo della propaganda nazifascista all’attivazione di profonde pulsioni inconsce di carattere repressivo e di origine patriarcale; nello stesso tempo stigmatizzava con estrema energia l’involuzione reazionaria della politica e della società sovietica, che aveva ripristinato la legge contro l’omosessualità, ostacolato l’aborto e restaurato il matrimonio e la famiglia coattiva. Qualche anno dopo la morte di Reich, avvenuta nel 1957 in una prigione degli Stati Uniti, il suo libro La rivoluzione sessuale conosce un grandissimo successo e diventa uno dei testi teorici fondamentali di riferimento della deregolamentazione sessuale occidentale, insieme ai testi di Marcuse e di Norman O. Brown. Contemporaneamente opere di narrativa, la cui pubblicazione era stata per decenni bloccata dalla censura, diventano popolarissime.
A chi è stato giovane in Occidente negli anni ‘60 la Rivoluzione sessuale è apparsa come qualcosa di ovvio, strettamente connesso con le idee di democrazia e di sviluppo: guardandola secondo la prospettiva di un orizzonte storico più ampio, essa appare come una breve parentesi tra la repressione delle immagini sessuali durata in Occidente per secoli e l’attuale diluvio di immagini pornografiche accessibili a tutti che crea alla fine, proprio per la sua infinita abbondanza, la scomparsa di ogni tensione erotica. Il carattere straordinario e anomalo della Rivoluzione sessuale degli anni ‘60 trova una spiegazione nel venir meno delle due grandi paure connesse con i rapporti sessuali: la scoperta di una cura capace di sconfiggere la sifilide e la commercializzazione della pillola anticoncezionale (che era stata inventata già trent’anni prima). Tuttavia queste interpretazioni non sono sufficienti a spiegare un fenomeno di massa così rivoluzionario che smantella in pochi anni tabù e divieti secolari.
Un fattore finora non sufficientemente preso in considerazione è quello politico: la Rivoluzione sessuale è stato un aspetto della guerra fredda contro il comunismo, molto più efficace dei missili e della bomba atomica. Insieme alla disponibilità di beni materiali e di consumi, la deregolamentazione sessuale dell’Occidente ha costituito qualcosa di molto più attraente dei Piani quinquennali sovietici.
Alla prima fase della deregolamentazione sessuale, dal 1965 al 1980, che è stata focalizzata sul permissivismo dei comportamenti sessuali, segue una seconda fase in cui in brevissimo tempo viene depenalizzata la pornografia, segregata dai secoli nei bordelli, negli scaffali dei bibliofili, nei boudoir o negli enfers delle biblioteche. Anche in questo caso c’è una spiegazione tecnica, che dipende dalla diffusione delle videocamera e delle cassette video.
Tuttavia questa svolta avrebbe potuto benissimo essere bloccata dalla censura e restare clandestina, come era avvenuto per la fotografia pornografica, la quale ha impiegato più di cento anni per essere legalizzata. Come si spiega dunque questa rapida e improvvisa deregolamentazione della pornografia a partire dal 1980? Certo è che si realizzava in modo veramente derisorio e beffardo un altro aspetto del programma del Sexpol! La famiglia era destabilizzata non dal comunismo, ma dal capitalismo attraverso la televisione, i video e oggi da Internet. I genitori sono così messi fuori gioco, non meno della scuola.
Che cosa è successo nel 1980 di tanto pericoloso e temibile per l’Occidente da indurlo a scegliere una strategia tanto permissiva e lassista? L’11 febbraio 1979 a Teheran viene ufficialmente dichiarata la fine della monarchia e proclamata la Repubblica islamica dell’Iran. Nasce così un regime teocratico e ultra-puritano che si presenta come la prima manifestazione di una Rivoluzione di impatto globale. Dinanzi a un evento tanto inaspettato e contrario a tutte le filosofie della storia democratiche e laiche, l’Occidente elabora due strategie culturali opposte. La prima ha il carattere della rivalità mimetica e porta alla rinascita del fondamentalismo cristiano, che presenta caratteri specifici a seconda dei differenti paesi: negli Stati Uniti porta ad una controrivoluzione conservatrice e neopuritana che si esprime nell’elezione di Ronald Reagan alla presidenza e alla sua campagna contro l’Impero del male.
La seconda strategia condotta simultaneamente alla prima ha invece un segno opposto: la deregolamentazione della pornografia, che offre al mondo intero (ma soprattutto a quello islamico) una sfida di proporzioni colossali: l’immagine del paradiso in terra qui ed ora. Con Internet a partire dai primi anni Novanta è compiuto un passo ulteriore: si passa dalle videocassette pornografiche alla disponibilità diretta e immediata di qualsiasi materiale pornografico. Il punto di arrivo finale è rappresentato dal Web2 e da YouTube dove si può vedere tutto gratuitamente per un tempo illimitato.
Qualche anno fa la pornografia poteva essere definita ancora un mercato moribondo in piena espansione; oggi sembra che essa abbia raggiunto lo stadio del suo compimento. La prospettiva di una pornografia fatta da adolescenti per loro uso e consumo rappresenta la sua fase finale.
«Ribelliamoci come in Iran e in Birmania»
di Concita De Gregorio *
Tutto avviene nel silenzio. C’è un’idea diffusa di impotenza, di rassegnazione. Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. Tutto è ormai una faccenda privata: di scambi, di soldi, di favori. Dove sono i cittadini, in questo paese? Dove sono le donne? In tutto il mondo le donne sono in piazza. Alla sbarra a Teheran, massacrate in Iran, prigioniere in Birmania. Volti femminili che diventano icone della protesta. Qui, in questa nostra democrazia in declino, di donne si parla per dire delle escort, delle ragazzine che dal bagno attiguo alla camera da letto del tiranno telefonano a casa alla madre per raccontare, contente, “mamma sapessi dove sono” e rallegrarsi insieme. E fuori, e le altre? Silenzio. L’apatia ci accompagna...».
Il tempo del silenzio, ripete Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia university. «Avrei voluto far qualcosa, in questi mesi estivi che passo in Italia, ma mi si dice che si deve aspettare l’autunno. Non capisco come mai. Non vedo che altro ci sia da aspettare. Le vittorie di Berlusconi appaiono ormai la conseguenza e non la causa dell’indebolimento della presenza attiva dei cittadini nella vita pubblica. Non c’è nulla da fare, sento dire. C’è, da parte delle persone attorno a noi, una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti». «Ci hanno ingannati, in questi anni, illudendoci che si potesse partecipare stando a casa: davanti allo schermo di una tv, in un blog al computer. Soli davanti al video. È nato un pubblico che si cela al pubblico. Impotente, rassegnato. Si è fatta strada un’idea maggioritarista: quella che dice che chi vince ha ragione per definizione, in quanto vincitore. Poiché vince non può aver torto. La verità sta con la maggioranza. È un’idea che non prevede il dissenso.
Il dissenso infastidisce, non se ne comprende il valore né l’utilità, non si tollera. La voce dell’opposizione è una voce che disturba. Berlusconi esprime un’idea egemonica che gli sopravviverà. L’opposizione d’altra parte non fa che riconoscere la forza dell’avversario (ho sentito giovani del Pd ammirare la Lega per il radicamento sul territorio ignorando i contenuti di quel radicamento). L’opposizione è assente. Manca un partito capace di parlare con voce forte e chiara. Negli ultimi tre mesi l’Unità e la Repubblica hanno avuto la capacità di far infuriare il tiranno, l’opposizione no. Persa nella sua battaglia interna, persa nell’incapacità di parlare con le parole della politica. Un vuoto che apre la strada ad un nuovo populismo giustizialista. Ho sentito Prodi dire: Berlusconi è il vuoto. Putroppo no, non è vuoto, è pieno di linguaggio e di azione. È l’opposizione a non avere linguaggio ed azione da opporre, manca un partito che incalzi. Quel che fa questo governo non è ridicolo, non è schifoso come ho sentito dire dai leader negli ultimi giorni. È tragico. Le gabbie salariali sono la rottura di un patto di solidarietà e giustizia tra i cittadini, un piede di porco capace di smembrare il paese. Le ronde sono un pericolo gravissimo, oltre ad essere un modo subdolo per distribuire finanziamenti pubblici. Sull’unità d’Italia? Nulla. Se non ci fosse l’Europa a contenerci saremmo sull’orlo della guerra civile».
«Siamo orfani di politica. Il potere ha preso il suo posto: chi lo detiene lo usa attraverso mezzi privati, conti in banca, soldi, scambi di favori. Berlusconi durerà. Tutto questo non finirà con lui. Questo governo non è Berlusconi, è la visione organica della società che lui rappresenta. Abbiamo imparato a giustificare sempre tutto. Ci sarebbe bisogno di avere una visione morale della politica, invece. Non c’è. Non abbiamo una cultura della responsabilità morale: anche se non penalmente perseguibili certi atteggiamenti sono moralmente turpi. Bisogna dirlo, ripeterlo, cercare ascolto, pretendere risposta.
È stata una trasformazione molecolare. Dopo anni di partecipazione si è spenta nella mente del cittadini la dimensione pubblica. La democrazia si è fatta docile e apatica. Vista dall’estero l’Italia non ha più nulla da dire, resta solo un esempio interessante da studiare sul declino della democrazia. Penso alle donne, poi. Neda, San Suu Kyi, le donne nel mondo. In Italia a parte qualche importante figura femminile isolata, niente. Sulle prostitute e le minorenni di cui si circonda il Presidente le parlamentari del Pd si sono schierate dieci giorni fa. Forse si teme di essere indicati come bacchettoni, di trasformare la politica in morale. Fatto è che donne che appartengono al privato (Veronica e Barbara Berlusconi) hanno avuto un ruolo politico, quel ruolo che chi fa politica non trova. Le generazioni del femminismo si sono scollate. Le ragazze che vanno a palazzo Grazioli dal bagno del tiranno telefonano alla madre, contente. Le loro madri hanno la nostra età. Cosa è successo tra quelle madri e queste figlie, tra noi e loro? Le grandi personalità si sono ritirate a scrivere le memorie degli anni d’oro, quasi a rivendicare un’autorità su e insieme un’estraneità da questo tempo. Io l’avevo detto, io l’avevo scritto. Personalismi, una contro l’altra, non c’è più la capacità di mettere in comune le esperienze, tessere una trama, rinunciare a qualcosa di proprio per l’agire collettivo. Quello che dà fastidio, poi, è questo continuo lamento, solo lamento. Tutti che chiedono rivendicano protestano e si lagnano, tutti che pongono problemi e nessuno che offra soluzioni. Anche attorno a noi, nella vita, è così. Lamentarsi è facile e non costa nulla, invece proporre una soluzione significa assumere una responsabilità, pagare il prezzo di una decisione..
Lamentarsi, risentirsi, portare rancore: anche queste sono forme private di agire. La dimensione pubblica - quella di chi si attrezza ad unire le forze e costruire gli strumenti per cambiare le cose, insieme - è svanita. I giovani sono figli di questo tempo. Tutto per loro è privato, totalmente privato. Bisogna ripartire da capo. Dalle cose essenziali. Lanciare un appello, per esempio, alcune donne si preparano a farlo: lanciare appelli non è un modo vecchio di agire. È nuovo, oggi. È di nuovo nuovo. Non essere docili, ripartiamo da qui».
* l’ Unità, 12 agosto 2009
Dalla Francia accuse al "libidinoso Silvio"
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 06.08.2009)
La reazione che si sta (per fortuna) alzando giorno dopo giorno contro le abitudini private e pubbliche del nostro premier mostra, ha scritto ieri Michela Marzano su Repubblica, un’Italia «individualista, materialista e machista che ha vergogna quando si guarda allo specchio».
La confusione della cultura dei diritti con un individualismo antisociale - quello che si riconosce nella massima del "me ne frego" - è uno degli aspetti di questo smarrimento. La rappresentazione della nostra società come di un mercato cinico nel quale si scambiano diritti con soldi, sesso con potere, si interseca con quella di una società che pare non avere più un centro di forze etiche capaci di unire i cittadini come una forza di gravità invisibile: il rispetto per gli altri; la solidarietà, l’eguaglianza di cittadinanza.
Senza queste forze etiche, la libertà che i diritti liberali garantiscono e proteggono può trovarsi di fronte a due rischi: essere sentita come poca cosa dai molti, poiché avere diritti significa anche poter vivere il proprio quotidiano sicuri senza accorgersi di essi; e diventare un privilegio di chi sfrutta a proprio vantaggio le potenzialità offerte dalla società liberale facendo dei diritti uno strumento di affermazione contro gli altri. Entrambi questi rischi - il primo di apatia e il secondo di individualismo anti-sociale - sono il segno di una disposizione che la cultura liberale dei diritti può stimolare, ma anche di un’erosione del sentimento di eguaglianza, la condizione senza la quale i diritti si possono tramutare in privilegi antisociali.
Nella tradizione liberale che si è affermata dopo la Seconda guerra mondiale, l’eguaglianza non ha avuto un peso significativo, anzi, per alcuni importanti pensatori come Isaiah Berlin l’eguaglianza è stata intesa come un valore di disturbo e perfino un pericolo per la libertà - va dato merito a Norberto Bobbio di essersi sempre distinto da questa lettura «negativista» dei diritti individuali e aver insistito sulla funzione di libertà giocata dall’eguaglianza. È proprio questo pensiero di Bobbio che andrebbe oggi ripreso: non per mettere in ombra il liberalismo e i diritti, ma per legarli più fortemente alla democrazia.
Gli anni Sessanta hanno inaugurato la stagione dei diritti civili consentendo a milioni di donne e di uomini delle società occidentali di liberare le loro vite individuali dai lacci di una cultura autoritaria e gerarchica, di storiche e recalcitranti disuguaglianze. A quei diritti non si può rinunciare - non solo, essi vanno difesi dai permanenti tentativi di ridurli, abbatterli o decurtarli come avviene oggi con quelli relativi alla vita, dalla procreazione alla morte, dalla maternità alla salute.
Tuttavia, la cultura dei diritti ha prodotto anche il seguente paradosso: ha liberato gli individui dai lacci sociali autoritari ma non ha dato loro nuovi vincoli, quella sorta di colla etica capace di tenere insieme una società di individui liberi e autonomi. Per riprendere Alexis de Tocqueville, mentre ha umanizzato la società e la politica, la cultura dei diritti ha prodotto individui dissociati e isolati, con il risultato di renderli anche più esposti alle disuguaglianze economiche e al potere delle maggioranze, politiche e di opinione. Il populismo che stiamo esperimentando in Italia è anche l’esito del paradosso di una società individualista liberale nella quale la dimensione privata (intesa per giunta come la sfera dove "tutto è lecito") ha preso il posto più alto nella gerarchia dei valori, facendosi passaporto per acquistare favore e potere, non importa con quali mezzi. Come riscattare l’individuo dal degrado di questo individualismo che il declino della politica ha esacerbato?
Dei due partner - liberalismo e democrazia - di cui si compone il nostro ordine costituzionale, è venuto il tempo di volgere l’attenzione al secondo, il più politico dei due. Ma la debolezza della nostra concezione della democrazia non ci aiuta, poiché di questo sistema noi abbiamo ancora una visione sostanzialmente negativa - come del migliore tra i peggiori governi, per dirla con Churchill, o come un sistema elettorale per la selezione della classe politica; questa è stata la visione che ne ebbero i liberali che combatterono e vinsero contro i totalitarismi del XX secolo.
Ma ora, nelle nostre democrazie consolidate, è proprio questa visione negativa e minimalista della democrazia che ci può essere di ostacolo, perché abbiamo bisogno di recuperare la forza etica della dignità della persona e della partecipazione politica che sono alla base della democrazia; infine di riscattare la politica dall’impero tirannico del privatismo individualistico. E ne abbiamo bisogno per recuperare i due valori fondanti della democrazia, la cittadinanza e l’eguaglianza. Della prima abbiamo bisogno perché l’erosione delle istituzioni politiche e del ruolo della partecipazione è facilmente strumentalizzabile da chi ha più presenza politica e più strumenti per formare il consenso; della seconda abbiamo bisogno perché è sotto gli occhi di tutti l’attacco sistematico all’eguaglianza, con l’indebolimento dei diritti sociali, della scuola pubblica, della stessa idea della ridistribuzione come volano di solidarietà (l’esempio più macroscopico viene dal modo egoistico con il quale è stato pensato il federalismo nel nostro paese, come una sorta di secessione dalla responsabilità collettiva di condividere insieme fortuna e sfortuna). Sia la cittadinanza che eguaglianza meritano la nostra attenzione oggi; non per ridimensionare la cultura dei diritti, ma per rafforzarla reinterpretandola all’interno di una cornice politica, non soltanto morale e giuridica (appunto individualista).
La democrazia è una ricca cultura dell’individualità morale e cooperativa, non solo una tecnica di selezione delle élite o un sistema procedurale per giungere a decisioni pubbliche. L’individuo democratico è simile ma non identico a quello liberale perché non è un essere puramente razionale che sceglie fra opzioni diverse, ma una persona emotivamente disposta verso gli altri per le ragioni più diverse, come la curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare. Queste qualità, che possono produrre anche spiacevoli effetti (come l’adesione acritica alla cultura di massa o l’accettazione dell’opinione della maggioranza), hanno però un lato positivo che è importante sottolineare ed esaltare: rendono l’individuo naturalmente disposto verso gli altri, un cooperatore, e anche una persona capace di sentire vicinanza simpatetica con i diversi e di identificarsi con chi è nel bisogno; infine di sentire vicinanza con tutti gli esseri umani (anche con chi non è membro della comunità nazionale, con importanti implicazioni universaliste e antirazziste), un carattere che è essenziale per dare senso e valore all’eguaglianza. L’azione politica può spingere l’individuo democratico nell’una o nell’altra direzione. La destra populista che domina oggi la scena italiana è stata capace di usare a proprio vantaggio i caratteri dell’individuo democratico, mettendo in luce la sua parte più volgare, massificante e apatica. Spetta alla cultura democratica non populista ma popolare, riuscire a rovesciare questa tendenza.
La politica dell’intimità
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 23/6/2009)
Non son pochi, in Italia, gli esasperati di quel che sta avvenendo nel Paese: fuori casa l’attenzione delle democrazie si concentra sulla crisi economica, sui meno protetti che ne patiranno, su governi che per decenni hanno omesso di vigilare, sui rapporti di forza che mutano nel mondo, mentre da noi i giornali si riempiono di storie laide che hanno il premier come protagonista e i suoi patemi, i suoi impulsi, le sue libertine sregolatezze come trama. Si vorrebbe parlare d’altro, ma quest’altro è introvabile.
L’altro è il bene pubblico, è lo spazio dove il cittadino scopre il mondo esterno e vi si adatta, ma precisamente questo spazio si è liquefatto. Il casalingo soverchia ogni cosa, il privato inghiotte il pubblico, perfino il tempo è deformato. Si vorrebbe avere un’idea del nostro oggi, si vorrebbe pensare il domani, ma un solo presente e un solo futuro occupano la scena: il presente e il futuro del leader, il destino della sua personalità, della sua dimora privata, delle sue donne, del suo corpo, delle sue emozioni. È come se vivessimo in pantofole, senza mai infilare le scarpe per uscire all’aperto. Il leader politico è il primo a vivere nel chiuso, dando l’esempio: quel che conta è la sua vestaglia, la sua toilette, la sua camera da letto. È da quasi un ventennio che l’Italia è ammaliata da questo modello casalingo, edificato sulla negazione dello spazio pubblico e delle sue istituzioni. Chi ha forgiato tale modello è irritato, perché il golem che ha fabbricato si scaglia ora contro di lui: rivelando com’è avvenuta la messa a morte della cultura pubblica, denunciando un regime che ha strappato la tenda divisoria tra privato e pubblico.
Questa tenda, non sono i giornali che l’hanno strappata ma il presidente del Consiglio. Il mondo che per decenni ha voluto, trasformato in show, è un mondo dove scompare il corpo durevole della regalità - il corpo mistico che secondo Kantorowicz incarna le istituzioni che non muoiono - e non resta che il corpo del re deperibile, sublimato in un presente eterno. Nasce il tal modo la politica del corpo, il fotoromanzo che eroicizza il capo: Marco Belpoliti ha scritto su questo un libro importante, Il corpo del Capo (Guanda 2009). I giornali non possono ignorare la forma che il potere ha assunto in Italia, perché la forma s’è fatta sostanza. Se l’attore premia sull’azione, se la personalità è tutto, la sostanza della politica cambia. Berlusconi agisce, ma le emozioni messe in scena occultano l’agire oppure lo simulano se non c’è. Il consenso stesso non si forma attorno alle politiche, ma alla personalità. Tanto più essenziale è indagare la forma di simile dominio, svelandone le non più segrete pornografie.
È un potere che, mettendo il privato in cima a tutto, punta a saccheggiare e abolire la cultura pubblica. La strategia è moderna, se non rivoluzionaria. Più volte, negli ultimi due secoli, le avanguardie si sono ribellate alla separazione tra privato e pubblico, tra personalità e azione, in nome dell’anticonformismo e dell’originalità. Il romanticismo esaltò la soggettività radicale, in polemica con il primato che la cultura classica dava all’opera. Nella seconda metà del ’900 il modernismo architettonico progetta quartieri residenziali senza più piazze dove s’incontra il diverso, e uffici open space dove le pareti divisorie diventano trasparenti. La tirannide dell’intimità descritta da Richard Sennett nel 1974 comincia così: con la politica personalizzata, con la comunità casalinga o clanica opposta alla società, alla res publica. L’intimità è tirannica perché i muri trasparenti separano anziché unire: per sfuggire allo sguardo che ti spia, non resta che il silenzio. Nell’open space «siamo tutti visibili e isolati» (Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori 2006). Di questa cultura Berlusconi è artefice, utilizzatore finale, e infine vittima.
Si potrebbe anche parlare d’altro: di cose serie. Ma è difficile, quando il governo che oggi invoca la sacralità del bene pubblico è guidato da chi ha fatto saltare ogni barriera tra pubblico e privato. Berlusconi vorrebbe ora riagguantare il corpo mistico del re, ma non può farlo senza ricorrere al vocabolario con cui l’ha distrutto. Non può parlare di crisi economica, visto che s’ostina a annegarla nell’esaltazione ottimistica del carattere e a rifiutare ogni cifra veritiera. Nelle Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia, Mario Draghi aveva parlato di 1,6 milioni di lavoratori che perdendo il lavoro resterebbero senza sostegno. Berlusconi ha replicato: «I dati sono falsi». Difficile parlare della sostanza, quando essa è nulla e l’illusionista tutto.
Quando scoppiano le crisi la tirannide dell’intimità vacilla, è inevitabile. È a questo punto che il leader torna al carisma che lo portò inizialmente al potere. Fu una sua forza, negli Anni 90, sedurre con lo spettacolo della personalità e lo svuotamento dello spazio pubblico: il suo carisma è sempre quello e non smette di apparire anticonformista, a molti. È il carisma del politico deciso a mimetizzarsi con il piccolo uomo che si fa da solo una carriera, che fatica a esser cittadino; che si sente minacciato da poteri forti, impersonali. Sennett dice che il leader carismatico di questo tipo, modernamente svincolato dalla religione, diventa un «impresario del risentimento» e dell’invidia sociale. La lettera che Deborah Bergamini - ex segretaria di Berlusconi, ex dirigente Rai, oggi deputata Pdl - ha scritto il 18 giugno sul Corriere della Sera è significativa. Il leader del Pdl è eguagliato a Catilina: un aureo parvenu, un piccolo uomo che sogna di esser grande ed è umiliato da magistrati e establishment: «Gli optimates che armarono le azioni di Cicerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi politici ed economici; gli optimates che violentano le regole di oggi sono potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori si presentano all’appuntamento senza bussare. Questo li rende inaccettabili».
La politica del corpo è essenziale per i moderni Catilina, perché consente di rovesciare la favola di Andersen. Non è l’imperatore a trovarsi nudo, ma il cittadino che a forza di imitarlo perde il senso della società ed è gettato nella solitudine. Scrive Belpoliti: «Siamo noi ad apparire nudi, non l’imperatore \, il re è nudo, ma ci convince che siamo noi a non avere i vestiti. Un capolavoro di rovesciamento dello sguardo. Questo è il glamour».
In realtà Berlusconi è stato sempre l’imperatore nudo. Sulla nudità ha costruito la propria ascesa. È in continuo strip-tease psicologico, come scrive Sennett dell’uomo pubblico in declino. Il problema non è più lui, né il suo show: anche se imbalsamato nel presente, lo spettacolo per sua natura finisce. Il problema siamo noi, cittadini spogliati di cittadinanza. È la destra, che dovrà uscire un giorno dall’ubriacatura di molti anni. Le soubrette, le escort che ottengono seggi parlamentari o dicasteri. Un ministro, Michela Brambilla, che fa il saluto romano e resta ministro. La corruzione impunita. Tutto questo è forma che imprigiona l’Italia e che incide sulla sostanza. Il consenso basato sul risentimento e sulla preminenza del privato è uno dei più formidabili ostacoli alle riforme. Lo spazio pubblico cancellato rinvia l’ora delle responsabilità nell’animo dei cittadini. Un ricominciamento è necessario, a sinistra ma soprattutto a destra visto che è quest’ultima ad avere la maggioranza. Fini dice: «È a rischio la fiducia dei cittadini nelle istituzioni». In realtà non è a rischio. La sfiducia c’è già, il capo della destra non ha mai cessato di nutrirla e ancora se ne nutre.
Se le famiglie dicessero no
di Gabriele Romagnoli (la Repubblica, 30.5.09)
Il diavolo è sempre in cerca di anime da comprare, ma vendergli la propria resta una libera scelta. L’ultima, probabilmente. è quanto viene da pensare riconsiderando da una diversa angolazione l’ultimo "caso Berlusconi".
Se dal punto di vista politico quel che conta è l’incapacità di un presidente del consiglio di affrontare la verità dei fatti, che le sue contraddizioni hanno finito per rendere rilevante, dal punto di vista sociale a colpire è l’atteggiamento della famiglia Letizia, ragazza e genitori, la loro incapacità di dire, a suo tempo, un semplice (e ragionevole) no che avrebbe cambiato la storia. Quale storia? Quella di un piccolo nucleo umano alla periferia di Napoli, ma anche quella d’Italia. Perché è evidente che quel nucleo è lo specchio di un Paese. E’ la superficie sulla quale può vedere il proprio volto rivelato quella maggioranza consapevole di italiani che (a prescindere da come ha votato) si è consegnata non tanto a un uomo, a una guida, quanto a uno stile di vita, a un’ideale che preferisce la scorciatoia all’etica.
Prendiamo solo gli eventi acclarati ed esaminiamoli staccandoci dal particolare, senza relegarli ai nomi che ne nascondono la dimensione universale. In un luogo lontano dal cuore dell’impero e dalla luce dei riflettori (tendenti a coincidere) una coppia di genitori alleva una figlia sperando, come tutti tendono a fare, che la sua vita sia più fortunata della loro. La madre augurandole il successo nello spettacolo che lei non ha potuto avere. Il padre, l’accesso a quel potere di cui lui ha solo conosciuto l’anticamera. A un certo punto, per circostanze che qui non rilevano, book o cartolina, entra in contatto con la ragazza un uomo al di fuori della sua portata. Di cinquant’anni più grande, potente e, si aggiunga, sposato.
Saltiamo i preliminari e consideriamo una sola tra le cose accertate: quest’uomo invita la ragazza a passare un capodanno nella sua villa in Sardegna. Che sia ospite insieme ad altre dozzine di esemplari può essere considerata un’attenuante o un’aggravante, dipende dai punti di vista. Il fatto resta. E qui sorge la domanda sul rapporto con i figli, che non è quella mal mirata posta dal segretario del pd Dario Franceschini. La domanda è: se hai una figlia minorenne e un settantenne, maritato e potente l’invita a casa sua per le feste, come reagiresti?
Che cosa induce i genitori a guardarla fare la valigia e magari aiutarla a infilarci le calzette rosse? Non pensano a possibili rapporti piccanti, certo: pensano al bene di lei, alla carriera che potrà schiudersi, come è già per altre, nello spettacolo o nella politica. Questo sognano la ragazza, i suoi genitori, l’Italia in cui da almeno una generazione, viviamo.
Ora, è luogo comune a questo punto scagliare l’anatema contro il diavolo: è stato lui a venderci questi sogni, a far deviare dalla strada maestra asfaltando scorciatoie verso direzioni che sono altrettanti precipizi. Più che una spiegazione un alibi, una copertura per la mancanza di spina morale che nessun palinsesto avrebbe potuto piegare se fosse esistita.
E’ vero che le tentazioni sono tante e facili. Un qualunque pulcino ballerino può attraversare una passerella di presunti talenti , tuffarsi nell’altro canale e vincere, chessò, il Festival di Sanremo. Una qualsiasi faccia da citofono può piazzarsi in una casa, cicalecciare a comando e diventare una celebrità. Se, in un’altra epoca, Montanelli scriveva che l’ingresso al governo di Giovanni Goria ridava speranza a tutte le mamme con un figlio non troppo dotato, l’investitura delle Carfagna, Brambilla, Gelmini ha prodotto madri pronte a preparare alle figlie il trolley rosa per la Sardegna. Volere questo, volerlo in questo modo, non è un delitto. Proporre questo, proporlo in questo modo, non è un delitto. Il diavolo fa il suo mestiere. Quelli a cui telefona rispondono come possono. La vera domanda è una: perché non riescono a dire no?
Quando e come hanno perso gli anticorpi? Quando questo scambio è diventato la normalità del vivere qui e ora? Quando ne è valsa la pena? Quando? A quale risveglio e dopo quanto sonno? E non è questione che riguarda uno spicchio di società, individuabile politicamente o economicamente. E’ una situazione generalizzata, trasversale. Ognuno incontra il proprio diavolo, prima o poi. E può decidere come rispondere alla sua proposta. Può accettarne l’invito: in Sardegna, nel salottino televisivo che dà la popolarità, alla tavola dei signori che distribuiscono le cariche. O può proseguire nella sua, lunga, strada. Non è una decisione in cabina elettorale, è molto più di così. Riguarda la capacità di essere se stessi, lottare da soli contro i limiti imposti dal caso e dalle virtù, sconfiggerli o accettarli senza l’aiutino del presentatore o l’affettuosa benevolenza di chi dà e trucca le carte. Riguarda, soprattutto, la possibilità di costituire un esempio per le generazioni a seguire, affinché la prossima sappia da sé rispondere allo squillo del cellulare:
"Pronto, ciao: sono papi..."
"Lei ha sbagliato numero".
Il Papi osceno
di Alessandro Carrera *
Nelle ultime settimane, tra New York e Milano, amici e conoscenti si sono sentiti in dovere di informarmi sulle novità italiane delle quali, stando in Texas, sarei rimasto all’oscuro. Sono così venuto a conoscenza di voci (alcune delle quali mi sono state confidate ancora prima che venisse a galla l’affaire Noemi) che puntano più o meno tutte in un’unica direzione: attribuiscono cioè all’attuale presidente del consiglio dei ministri della più grande penisola del Mediterraneo una libido assolutamente iperbolica. Ho intrapreso una ricerca in internet per verificare se queste voci si fossero diffuse anche in rete, ma ho trovato ben poco rispetto a quello che mi è stato raccontato.
Ci troviamo dunque in presenza di un fatto ormai raro, e anzi particolarmente significativo per chi si interessa di storia delle dicerie: il momento in cui rumori e leggende di cui non si conosce il fondamento si diffondono per via puramente orale, senza ancora tramutarsi in scrittura.
In un paese anglosassone e protestante il solo sospetto che alcune di queste voci potrebbero essere vere avrebbe già imposto all’interessato le dimissioni immediate, senza se e senza ma.
L’Italia però non è né anglosassone né protestante, è cattolica e pagana, e la prestanza attribuita al presidente in carica appare piuttosto la ripresa dell’immortale salute di un Giove alla perenne rincorsa di qualche ninfa. Oppure i paragoni andrebbero cercati con la senilità erotomane del dittatore descritto da García Marquez ne L’autunno del patriarca, o con gli ultimi anni della vita di Mao Zedong, quando la Banda dei Quattro gli forniva ragazze in continuazione per distrarlo dagli affari di governo e comandare in sua vece. Sia come sia, è chiaro che un capo del governo in preda a erotismo senile è un pericolo per la sicurezza nazionale. Potrebbe essere spinto a rivelare affari di stato a giovanette più o meno innocenti che andranno poi a raccontarli a un fidanzato di turno piazzato da un servizio segreto straniero o da qualche gruppo di potere. Simili argomenti sono stati sollevati durante lo scandalo Clinton-Lewinski, e non erano peregrini, benché in quell’occasione se ne fosse fatto un uso eccessivo e strumentale.
Nello specifico caso italiano l’attribuzione di un’erotomania incontenibile al presidente del consiglio rafforza una figura che, sulla scia del Freud di Totem e tabù, chiameremo quella del “Padre Osceno”, il vecchio capo che prende per sé le donne più giovani della tribù negandole ai figli. Nella fantasia freudiana i figli si uniscono per uccidere genitore, tornando poi a dividersi le donne e permettendo così la sopravvivenza della tribù, mentre il senso di colpa edipico sarà il prezzo che pagheranno per l’infrazione dei vincoli di sangue. Nessun antropologo sosterrebbe oggi la plausibilità scientifica del racconto freudiano, che del resto nemmeno l’autore presentava come una verità. Un supporto indiretto l’abbiamo però dal primo libro dell’Iliade: Agamennone che porta via ad Achille la schiava Briseide si comporta precisamente come il Padre Osceno. L’ira di Achille è edipicamente giustificata, e la lentezza con la quale i capi dei greci lo comprendono finisce per danneggiare non poco la loro impresa guerresca.
Il popolo italiano, almeno fino all’esplodere del caso Noemi, finora è sembrato più che disposto ad assecondare il suo Agamennone. A quanto sembra, anzi, c’erano italiani che facevano a gara nel consegnargli le proprie figlie o fidanzate. Invece della rivolta edipica aveva preso piede il desiderio di partecipare per via indiretta alla sessualità del capo. Il godimento del sottoposto per la potenza genitale del proprio leader è una forma di omoerotismo di massa stabilizzatasi all’epoca del fascismo, e la soddisfazione che molti ne hanno tratto allora dev’essere stata così forte, e così intensa la nostalgia che poi ne è seguìta, che i loro figli e i nipoti si sono sentiti in dovere di ricrearne le condizioni.
Altro che ira d’Achille. È stata invece riconfermata una potente intuizione di Umberto Saba, attento lettore di Freud: gli italiani sono incapaci di rivoluzione perché è solo con l’uccisione del padre che inizia una rivoluzione, mentre «gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli».
Alessandro Carrera
*Fonte: Europa, 27.05.2009
Silvio-Veronica, la notizia fa il giro del mondo
di Marina Mastroluca *
Salta in primo piano sulle homepage, una notizia da leccarsi i baffi. Per la Cnn on line è il secondo titolo, dopo l’ifluenza suina. La Bbc la mette al terzo posto. «Berlusconi “addolorato” tra voci di divorzio». «La moglie di Berlusconi vuole il divorzio». «Divorzio, sono stanca dei suoi flirt». Dal Canada agli Emirati Arabi, dagli Usa all’Europa. L’annuncio di Veronica Lario ha scatenato web, stampa e tv facendo rapidamente il giro del mondo, Sky l’ha infilata persino nelle breaking news, l’ultimora da non perdere.
«Dopo aver criticato apertamente il marito per essersi fatto vedere in giro con altre donne, la moglie del premier Berlusconi ha detto di volere il divorzio», riassume il New York Times. Mentre Le Monde esordisce: «È un feuilleton come piace all’Italia», perché da noi si sa, i panni sporchi si sciacquano volentieri in pubblico, Cecilia e Nicolas Sarkozy non sono arrivati a queste sceneggiate in piazza. Che poi sono politica bella e buona, in salsa mediterranea. E infatti Le Monde cita con piacere uno Sgarbi che ritiene ormai la signora Veronica il «vero capo dell’opposizione».
Comunque non se ne può fare a meno. E se ai tempi della coppia presidenziale francese si disquisiva sulla bellezza della premiere dame entrante ed uscente - su quell’anello a forma di cuore regalato ad entrambe in tempi diversi - ora si parla volentieri di diciottenni bionde e di veline, come della vera passione di un cavaliere che non intende smontare da cavallo. Dal Canada il Toronto Star racconta a beneficio dei suoi lettori digiuni di tutto: «Stanca dei flirt del marito con ragazzine, la moglie del premier italiano Berlusconi chiede il divorzio».
Il Times di Londra aggiunge anche un approfondimento: alla notizia del divorzio così come è balazata sulla stampa italiana, aggiunge due o tre link per saperne di più. Per dirne uno: «La Bellezza della democrazia, come l’Italia manda le modelle all’Europarlamento». E già, la storia delle candidature. Anche lì c’è stato da sbellicarsi, per non parlare del ritratto ottocentesco di Berlusconi e Mara Carfagna, ignudi per il pennello di Panseca e universalmente cliccati sui siti del pianeta. «Veronica Lario critica il premier perchè ha scelto di selezionare un gruppo di candidate basandosi sul loro fisico», spiega l’edizione online del Pais.
«Silvio delizia gli italiani, ma fa arrabbiare sua moglie», titola l’americana Abc News. Figuriamoci l’America, dove per trovare uno scandalo sessuale degno di nota bisogna tornare ai tempi di Clinton, perdonato in diretta tv dall’inossidabile Hillary. Lui almeno non ha mai candidato Monica Lewinski, che si è dovuta accontentare di comparsate tv e libri di memorie, conservando in frigo per ricordo il vestito macchiato dall’esuberanza presidenziale. Ma al Congresso non ha messo piede.
* l’Unità, 03 maggio 2009
Dal vecchio Playboy a Playsilvio
Meglio l’originale
di Francesco Bonami (il Riformista, 01.05.2009)
Un tempo ci trinceravamo dietro la patetica scusa di averlo comprato per la «bellissima» intervista con Kissinger o con Garcia Marquez, oggi è più probabile che il candidato/a alle europee si vanti di non sapere chi sono Kissinger o Garcia Marquez
Caro Bob - Il battibecco fra la prima signora italiana e il primo signore italiano la dice lunga sullo stato in cui versano la politica e la società italiane. Un tinello suburbano dove il compito di chi ci governa è quello di intercettare gli umori e le frustrazioni di una classe sociale sempre più amorfa che sogna la ragazza del canale accanto anziché quella della porta accanto come aveva capito il fondatore della rivista Playboy Hugh Hefner nel 1953.
Non stupiamoci se presto da Palazzo Chigi uscirà il mensile Playsilvio. Hugh Hefner pensò alla sua rivista per addolcire la noia domenicale. Così, sul tavolo della sua cucina di Chicago, inventò il primo numero di Playboy, una rivista per il "young single man", il giovane scapolo, contemporaneo.
Playboy, che prendeva il nome da un concessionario di auto fallito, non solo fu una coraggiosa, sovversiva, intuizione, in un momento in cui il sesso non andava certo per la maggiore, ma fu anche una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Ancora oggi, che culi e poppe, con tutto quello che sta davanti, dietro, sotto e dentro si possono guardare su Internet gratis, Playboy continua a vendere nel mondo tra i quattro e i cinque milioni di copie, con un 14 per cento di lettrici donne.
Il nostro premier deve essersi ispirato al creatore delle famose conigliette. Il segreto del successo di Playboy e del suo coniglietto simbolo - che nel 1989 fu dichiarato, dopo quello della Coca Cola, il logo più famoso del mondo - non fu solo quello di aver capito che al maschio, giovane o vecchio, solo o sposato , che sia, ogni tanto la mano da quelle parti scappa, ma l’aver intuito che di quella mano tentatrice l’uomo si sarebbe sempre vergognato, tentando di nasconderla dietro bisogni e necessità diverse.
Hefner non si sarebbe mai immmaginato che la vergogna del maschio un giorno si sarebbe trasformata in un Paese come l’Italia in strumento politico e orgoglio nazionale. Se un tempo davanti a un ospite inatteso, che vedeva Playboy spuntare da sotto il divano, ci trinceravamo dietro la patetica scusa di aver comprato il famoso mensile per la «bellissima» intervista con Henry Kissinger o quella con il premio Nobel Gabriel Garcia Marquez, oggi è più probabile che vada sotto il divano la rivista culturale e che il candidato o la candidata alle elezioni europee si vanti di non sapere nemmeno chi sono Kissinger o Garcia Marquez.
Se Hefner ha costruito un impero sulle proprie ossessioni vivendo la maggior parte della sua vita in vestaglia, trasformando il suo letto circolare, nella villa di Los Angeles, in una redazione, non meravigliamoci se seguendo i propri istinti il nostro primo ministro inizierà a tenere il Consiglio dei ministri in vestaglia (gli incarichi della Rai d’altronde già si decidono attorno al camino del suo salotto ad Arcore).
Ma se Playboy aveva una sua dignità, ingenua, banale ma particolare, Playsilvio la dignità, maschile e femminile, l’ha già messa nel tritacarne da tempo. La doppia pagina centrale con la coniglietta del mese si è trasformata nel manifesto elettorale affisso per le strade delle nostre città. L’innegabile, perfida, genialità del nostro premier è comunque quella di aver capito che ha a che fare con un popolo sempre più ritornato allo stato dei primati.
Hefner il suo impero e i suoi soldi li ha usati anche per aiutare i politici democratici a combattere la crociata reazionaria di Edward Meese che, alla metà degli anni Ottanta, nel pieno dell’era reaganiana, con miopia talebana, faceva leggi contro la pornografia che mandarono in crisi le innocue conigliette senza risolvere la vera pornografia prodotta dal degrado sociale.
Da noi invece un impero economico e mediatico è stato ed è utilizzato come strumento per governare una società diventata culturalmente pornografica e degradata. Se per Berlusconi non è giusto escludere dalla politica uno o una solo perché è diventato famoso grazie alla televisione, è vero esattamente il contrario: se uno non è stato santificato dalla televisione in Italia avrà poche possibilità di essere preso in considerazione come leader politico.
Su Internet il video di Berlusconi che dice ai ministri del G20: «Stavano al cesso»
di c.b. *
A questo punto deve essere una strategia. La continua sequenza di gaffe, frasi inopportune, battutacce, strappi ai protocolli istituzionali, violazioni delle cerimonie internazionali compiuta sistematicamente dal presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi non può essere archiviata come semplice “esuberanza”.
L’ultima in ordine di tempo è quella che viene rivelata da un video di cui la Rai non ha parlato, ma che sta girando vorticosamente su Internet, tra Youtube e Facebook. Ed è stato da poco ripreso anche da La7. Si tratta della conferenza stampa finale del G20 di Londra. C’è il ministro Tremonti che sta spiegando la dinamica del vertice e ironizza sul lavoro portato avanti dai responsabili economici.
A quel punto interviene Berlusconi che gli siede accanto e dice: «I ministri in compenso stavano al cesso...». Ricapitoliamo e inquadriamo la situazione: conferenza stampa ufficiale a Londra del vertice tra i 20 paesi più industrializzati del mondo, chiamati a elaborare strategie per uscire da una crisi che sta avendo conseguenti pesantissime su tanti cittadini. Giornalisti, italiani e stranieri, radunati per avere informazioni sulle decisioni dello Stato italiano sulla crisi economica, ma Berlusconi ha voglia di scherzare e si lascia andare alla scurrile espressione.
Ma non è finita. Osservando una giornalista Rai prendere nota dell’ennesimo scivolone il primo ministro italiano passa direttamente alle minacce e dice, anzi intima: «Che scrivi tu. Non scrivere. Cosa scrivi. Guarda che ci sono le riunioni a casa mia per la Rai. Eh, stai attenta! Ripeto, stai attenta», conclude Berlusconi additando la giornalista. Qualcuno ride, come purtroppo succede spesso alle “battute” del capo di governo, ma la sua minaccia va a buon fine. La Rai non ne ha più parlato.