GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
PROPOSTA PER IL NUOVO "LOGO"
DELL’UNIVERSITA’ DI ROMA,"LA SAPIENZA".
Affinché il "cherubino" non diventi "un diavoletto"... che ha trovato una pietra "cara" e "preziosa" ed esclami: "che - rubìno!" ... Qui non capiscono il valore di un’"ACCA" - H, lo prendo Io: lo venderò a "caro-prezzo" ("caritas"); e fonderò un ’nuovo’ partito, una ’nuova’ chiesa: "FORZA CARI-TAS-se"!!! E che tutti e tutte ’imparino’: "che rùbino" tutto, tutti e tutte! QUESTA E’ LA ’VERA’ SAPIENZA del Terzo Millennio della ’nuova’ Città - dell’Urbe ... e degli "Orbi" del Mondo!!!
Propongo di riprendere da Sant’Ivo alla Sapienza (dai suoi pressi, e non dalla "cupola"!!!) "il cervo alla fonte"!!! E, sopra, porre la seguente dicitura: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, IL CIRCUITO DELLA PAROLA: "H2O", "H + due O". L’ACQUA, L’ACQUA VIVA DELLA SAPIENZA.
(Acqua): "Due = 2 - ("Ecce Homo"- un essere umano: 1 H + 1 H un essere umano) - persone che discorrono ...", O = il circuito dell’atto comunicativo (Ferdinand de Saussure).
Fontana dei Libri (Roma, Via degli Staderari) |
(e - sotto la figura del "cervo"
della "Fontana dei Libri")
La dicitura:
"Il presente è passato di qui"
Federico La Sala
P.S.
Che strana coincidenza?! Quanto si somigliano gli angioletti: l’angelo del Logo della Sapienza di Roma con questo...
angelo - Logo del Gruppo Cattolica Assicurazioni |
Boh!E Bah?!!
CONTRO TUTTO IL SONNAMBULISMO E OGNI IDEOLOGIA DI "MAMMASANTISSIMA", CERCHIAMO DI CAPIRE che solo due persone, in piedi, che si salutano da esseri umani e si danno la mano, formano una "I-I", l’arcHa, e danno INIZIO (arcHé) all’avventura della vita e del sapere.
E’ la cHaritas che fa sgorgare l’acqua nel deserto e nella foresta ... e solo bevendo "questa acqua", e da "questa fonte", un animale - un "cervo" (o, se si vuole, un "toro" - "bull")- può imparare, mettere le ali, e diventare un buon-"angelo" - un essere umano ("Ecce Homo"), altrimenti è e resta solo un animale - un "cervo" (o un toro .. un "bull-o")!!!
Questo dice la Legge (nata, scritta, sottoscritta, e custodita nell’arca) dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri" Costituenti, la nostra "sana e robusta" COSTITUZIONE!!! *
* N.B.:
La "Sapienza" di OXFORD: "L’origine etimologica, anche qui, è rivelatrice. Ford, come noto, è il guado in inglese: Ox-ford è il guado dei buoi" (Ruggero Pierantoni, Nella foresta dei volti, la Repubblica, 26.08.2007)...
Sulla Sapienza spunta un angioletto*
ROMA - Ha fatto un volo lungo settecento anni, ma è ritornato alla Sapienza il cherubino, disegnato dall’artistica penna del Borromini, che l’università romana ha scelto come logo, sostituendolo a quello della dea Minerva. Il marchio verrà adottato a partire dal novembre 2006.
Un’equipe di disegnatori si è impegnata per mesi per perfezionare tra tanti modellini e bozze diverse la figura di angelo che sarà il nuovo marchio dell’ateneo. Il progetto è stato presentato oggi in aula magna dal rettore Renato Guarini, dal capo del progetto, il designer Antonio Romano e alla presenza del sottosegretario all’Università Nando Dalla Chiesa.
"Il cherubino, che esprime lo stupore, insito in ogni conoscenza, e la pienezza del sapere - ha commentato il rettore Guarini - è la immagine che l’università mostra al mondo. Una nuova identità visiva, dunque, nel panorama internazionale e in più con l’obiettivo di sottolineare unità in un passaggio delicato: quello da una Sapienza unitaria a una Sapienza federata in 5 atenei". Il progetto, infatti, approvato da un decente decreto d’ateneo, dovrebbe partire prossimamente.
Sviluppo CHERUBINI |
La nuova icona della Sapienza è stata creata da dall’agenzia Inarea, che si è aggiudicata la gara pubblica. "E’ stato per noi importante e impegnativo ripensare a un nuovo simbolo che racchiuda la storia centenaria dell’ateneo ha commentato il direttore del progetto Antonio Romano - in un progetto portato avanti con enorme passione da giovani e meno giovani dell’equipe. Non c’erano delle evocazioni forti per rappresentare passato e futuro . precisa Romano, allora siamo tornati al classico col simbolo del Cherubino. Borromini era un ottimo designer lo avrei voluto tra i miei - scherza - e per rifare il Cherubino prendendo spunto dal so ce n’è voluto".
Il sottosegretario Nando Dalla Chiesa ha portato i suoi auguri al progetto e, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha previsto l’immissione in ruolo di 2000 ricercatori con la Finanziaria che si sta discutendo in questi giorni, un numero che dovrebbe salire fino a 5000 nei prossimi anni.
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dall’ateneo Roma - Università degli Studi di Roma La Sapienza, a cura di: LaStudenteria
COMUNICATO STAMPA - Roma, 28/09/2006*
Il futuro è passato qui
Una nuova identità per Sapienza Università di Roma
La Sapienza riscrive la propria identità interpretando in chiave contemporanea l’icona storica del cherubino, simbolo di pienezza del sapere. La più grande università d’Europa ha presentato oggi il suo nuovo sistema di identità visiva, che sarà adottato a partire da novembre 2006, finalizzato a far coincidere la missione e i valori con la rappresentazione esterna dell’Ateneo.
“Si tratta di un intervento culturale che mira a veicolare la storia e il prestigio della Sapienza - afferma il Rettore Renato Guarini - una sfida di innovazione e creatività che si inserisce nel più vasto programma di rilancio avviato negli ultimi due anni”. “L’adozione del nuovo sistema - prosegue il Rettore - rappresenta un passaggio fondamentale, necessario per riposizionare la Sapienza nella knowledge society e per garantirne l’unicità, anche in vista del prossimo decollo operativo degli atenei federati. La nuova identità visiva permetterà inoltre di sottolineare il legame storico dell’Ateneo con la Città di Roma e la vocazione di quest’ultima a divenire sempre di più Città del sapere”.
Il nuovo sistema di identità visiva è stato progettato dall’agenzia Inarea, società leader del settore in Italia, che si è aggiudicata la gara pubblica indetta nel primo semestre di quest’anno.
Da un punto di vista progettuale, l’intervento uniforma il modo di proporsi dell’Ateneo e di tutte le sue realtà (atenei federati, facoltà, dipartimenti), esaltandone al contempo la molteplicità e la comune appartenenza.
I segni a cui viene affidata questa trasformazione sono il simbolo del cherubino e il nome, semplificato nella formula “Sapienza - Università di Roma”.
A partire dalla notevole stratificazione storica di icone e simboli legati alla prima università di Roma, Inarea ha scelto di ispirarsi al cherubino di Francesco Borromini presente nella decorazione della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, la chiesa progettata dal maestro del Barocco per l’antica sede dell’Ateneo.
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Il recupero della tradizione è inoltre sottolineato dai colori (porpora e oro) e dalla forma ovale, in cui è inscritto il simbolo insieme alla dicitura “Studium Urbis”: elementi, questi ultimi, che riprendono il sigillo in uso nel ‘700.
La nuova identità della Sapienza vuol essere la testimonianza visibile del dialogo profondo tra memoria e futuro, il racconto di un’idea nuova di università. Una università autonoma e libera, che partecipa alla comunità scientifica internazionale come istituzione di eccellenza e di qualità nella formazione e nella ricerca ed è al centro dello sviluppo dell’economia della conoscenza della Città, del territorio e del Paese. Di ciò è sintesi il claim che enfatizza la capacità propria dell’Ateneo di disegnare il proprio orizzonte radicandosi nella tradizione: “Il futuro è passato qui”.
Il bozzetto grafico è scaricabile in formato digitale sul sito della Sapienza all’indirizzo
http://www.uniroma1.it/eventi/
ANCHE IL CHERUBINO E’ UN PRECARIO
Lettera del Sindaco Walter Veltroni
Dal Campidoglio, 27 Settembre 2006
Gentile Professore,
con grande piacere ho preso visione del progetto relativo alla nuova identità visiva dell’Università “La Sapienza”, un’iniziativa davvero importante nell’ambito della creazione di un rapporto sempre più stretto e diretto tra le istituzioni, i cittadini, la rete dei soggetti comunicativi.
L’operazione di restyling che avete affrontato, ha inoltre il merito di puntare a questo obiettivo partendo e dando ulteriore valore alla Storia, alle grandi tradizioni, al ruolo di prestigio che la Sapienza ha ricoperto e ricopre nella ricerca scientifica e nella cultura.
In questo senso, come lei stesso ha ben rimarcato, questa nuova identità visiva, per l’adozione dei colori, per la linea grafica, per la scelta dei simboli, sottolinea in modo efficace il legame storico dell’Ateneo con la città di Roma, con la sua millenaria tradizione di Capitale del Sapere. “Il futuro è passato qui” è l’ottima sintesi di un programma che, grazie anche a questa nuova identità visiva, è teso a creare un’università rivolta al futuro perché forte del proprio passato, capace di dialogare in modo autonomo e libero con le istituzioni della Città, del Paese, del mondo. Un’università capace di rivolgersi in modo sempre più diretto ai soggetti ai quali offre la ricchezza della propria conoscenza e della propria storia. A nome della Città di Roma e mio personale le rivolgo dunque l’augurio di un lavoro proficuo per la vita dell’Ateneo e di tutta la comunità romana, unitamente ai più cordiali saluti.
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Sull’importanza e la portata teologico-politica del lavoro e dell’indicazione di Ferdinand de Saussure, in connessione, si cfr.:
Due persone che discorrono ...Il punto fermissimo della ricerca
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Referendum. 25 giugno: SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE è IN NOI.
L’ARCA DELL’ALLEANZA: I "DUE CHERUBINI" E L’AMORE DI D(ue)IO
Federico La Sala
Giornata del laureato
di Ignazio Visco (Insula europea, 2 aprile 2023)
Ringrazio la Magnifica Rettrice dell’Università “La Sapienza”, Professoressa Antonella Polimeni, e il Professor Eugenio Gaudio, Presidente della Fondazione Roma Sapienza, per il gradito invito a partecipare a questa Cerimonia di premiazione dei migliori laureati, che saluto e con cui soprattutto desidero complimentarmi per il riconoscimento dell’impegno profuso negli studi. È un servizio che avete reso prima di tutto a voi stessi, che contribuirà alla vostra crescita personale, a rendervi cittadini informati e consapevoli, e che favorirà il vostro avanzamento professionale. Ma è anche un servizio fondamentale per il Paese, che potrà beneficiare delle vostre conoscenze e competenze.
Il mondo che state per affrontare, sia per chi di voi proseguirà gli studi, sia per chi si appresta ad entrare nel mercato del lavoro, è molto diverso da quello che trovai all’indomani della mia laurea, in questo stesso ateneo, oramai oltre cinquant’anni fa.
Negli anni Settanta in un mondo ancora poco interconnesso e privo delle possibilità tecnologiche di cui oggi disponiamo, l’orizzonte di riferimento per la maggior parte delle persone erano i confini nazionali. L’interscambio di beni e servizi era pari nel 1971 al 13 per cento del prodotto mondiale, meno della metà di oggi. E ben inferiori erano i movimenti di persone: per i voli in aereo, ad esempio, dai 350 milioni di passeggeri di allora siamo passati a più di 4,5 miliardi del 2019. Quando ero studente i calcoli per i modelli econometrici venivano sovente fatti di notte per risparmiare sui costi di computer spesso grandi quanto una stanza non piccola e migliaia di volte meno potenti di un moderno PC o di uno smartphone. E per istruirli a eseguire i calcoli necessari si passavano ore a perforare migliaia di cartoncini rettangolari...
Dai primi anni Novanta, con la fine della “Guerra fredda” e sull’onda di due importanti fenomeni si è assistito a un profondo mutamento. Il primo è l’intensificazione del processo di integrazione dei mercati economici e finanziari, concretizzatosi nella forte crescita degli scambi commerciali internazionali e degli investimenti su scala globale. Il secondo è l’accelerazione senza precedenti del progresso tecnologico, su cui hanno influito dapprima la cosiddetta rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni e, negli anni più recenti, la digitalizzazione.
Tali fenomeni hanno favorito non solo i movimenti tra paesi di persone, beni, servizi e capitali finanziari, ma anche lo scambio e la diffusione di idee, informazioni, metodi di produzione. I loro effetti sono stati visibili tanto nell’economia, quanto nella società e nella vita di ogni giorno. Negli ultimi trent’anni, in particolare, il prodotto mondiale è quasi raddoppiato in termini pro-capite; la mortalità infantile si è più che dimezzata (passando dal 64 a meno del 29 per mille, da 11 a 4 nei paesi avanzati) e la speranza di vita media alla nascita è salita di 7 anni (superando i 72 anni nel 2020, oltre 80 nei paesi ad alto reddito e 82 in Italia); più di un miliardo di persone sono uscite dalla povertà estrema (definita da un reddito o una spesa per consumi minore di 1,9 dollari al giorno ai prezzi del 2011) pur in presenza di un aumento della popolazione globale di oltre 2,5 miliardi, concentrato nei paesi meno sviluppati; la diffusione di Internet e della telefonia mobile hanno trasformato le modalità di comunicazione e ne hanno drasticamente abbattuto i costi.
Questi sviluppi non sono stati tuttavia privi di difficoltà, anche nelle risposte delle politiche economiche. Ne sono derivati squilibri di varia natura quali quelli climatici o gli eccessi dovuti all’espansione, in parte non controllata, della finanza privata di cui la crisi finanziaria globale del 2008-09 è un esempio.
Sul piano sociale, la crescita delle economie emergenti e in via di sviluppo, assai più rapida che in quelle avanzate, ha ridotto i divari di reddito “tra paesi” e la disuguaglianza a livello globale ma è nello stesso tempo cambiata la distribuzione dei redditi “all’interno” dei singoli paesi, in generale nella direzione di un aumento delle disparità. L’aspetto più grave di questo problema è che, in particolare nelle economie avanzate, l’aumento delle disuguaglianze si è accompagnato a una riduzione del grado di mobilità sociale inter-generazionale. Una mobilità sociale elevata è, invece, la migliore indicazione che il destino delle nuove generazioni non è segnato dalla nascita e che competenze, merito e impegno contano davvero.
In un mondo così profondamente diverso e intrinsecamente molto più complesso rispetto a trent’anni fa, l’investimento in conoscenza è un fattore chiave, sia a livello individuale sia per la società. Ne ho parlato ampiamente, anche in un piccolo libro di quasi 15 anni fa e rivisto una decina di anni or sono. In esso argomentavo che oltre alle conoscenze tradizionali - essenziali tanto nelle componenti umanistiche quanto in quelle scientifiche che non possono e non devono essere contrapposte le une alle altre - la conoscenza oggi risiede anche nell’acquisizione di nuove competenze.
Il capitale umano non si acquisisce più, una volta per tutte, sui banchi di scuola, per poi applicarlo durante l’intera vita lavorativa. È oggi cruciale la capacità di mobilitare in maniera integrata risorse interne (il sapere e il saper fare) ed esterne (l’apertura alla collaborazione e alla condivisione dei saperi) per affrontare efficacemente situazioni spesso inedite e certamente non di routine. La competenza interagisce con l’innovazione e consente un rapido adattamento ai mutamenti.
Sempre più occorrerà coltivare, anche se sono consapevole di usare termini oggi forse un po’ inflazionati, l’esercizio del pensiero critico e l’attitudine, la propensione, alla risoluzione dei problemi. Le conoscenze tradizionali restano un bagaglio irrinunciabile, ma vanno inserite in un contesto necessariamente dinamico, tanto più in un mondo soggetto a shock così importanti quali quelli degli ultimi anni, dalla pandemia ai nuovi scenari geopolitici, in cui saranno decisive la disponibilità nei confronti dell’innovazione, la creatività e la curiosità intellettuale, la capacità di comunicare in modo efficace.
Di questo siamo sempre più consapevoli anche nell’Istituto che oggi dirigo. La Banca d’Italia è un’istituzione con molteplici funzioni. Tra le tante, abbiamo sempre cercato di dare il nostro contributo per diffondere la conoscenza. Tradizionalmente lo abbiamo fatto puntando sull’analisi economica, i cui risultati culminavano, e ancora culminano, nella Relazione annuale e nelle Considerazioni finali del governatore, inaugurate da Luigi Einaudi nel 1947 (con le parole “Importa ora compiere dei fatti avvenuti una analisi che direi economico-morale”). In Banca d’Italia c’è sempre quindi stata un’“ansia di educare”, con messaggi indirizzati in passato soprattutto alle classi dirigenti.
Più di recente, con l’educazione finanziaria abbiamo iniziato a rivolgerci a un pubblico sempre più ampio. Abbiamo fatto un significativo investimento per raggiungere il numero più alto possibile di cittadini; un Servizio esplicitamente dedicato a questa attività è stato creato nel 2020. Alla luce dei grandi e rapidi cambiamenti registrati negli ultimi trent’anni, inclusi quelli prodotti dall’innovazione finanziaria, riteniamo essenziale che le persone posseggano sufficienti conoscenze di base dei prodotti e degli strumenti finanziari, in particolare per evitare di essere penalizzati nell’investimento dei loro risparmi.
Nella teoria economica tradizionale, gli individui possiedono già le conoscenze che servono e fanno sempre scelte ottimali; quando sbagliano, correggono i loro errori nelle decisioni successive. Tuttavia molti autori - da Herbert Simon a Daniel Kahneman, da Amos Tversky a Richard Thaler - hanno invece sottolineato i limiti della razionalità umana e la tendenza degli individui a soffrire di distorsioni cognitive. Tendiamo ad avere, infatti, una preferenza eccessiva per il presente, sottovalutando, ad esempio, l’utilità di piani pensionistici e assicurativi. Consideriamo le spese in contanti come diverse rispetto a quelle effettuate con le carte di pagamento. Subiamo spesso l’effetto “dotazione”, attribuendo più valore a un bene che già possediamo - ad esempio un appartamento ricevuto in eredità, anche considerandone qualità non puramente monetarie - rispetto a quanto saremmo disposti a pagare per acquistarlo. Soffriamo di effetti di “inquadramento”, facendoci influenzare dalle modalità di presentazione di una notizia. Non diversifichiamo a sufficienza i nostri investimenti e non siamo spesso sufficientemente consapevoli della correlazione che esiste tra il rischio e il rendimento di un prodotto finanziario.
L’acquisizione di competenze finanziarie è, a pieno titolo, una forma di investimento in capitale umano capace di accrescere il benessere e le possibilità degli individui. Questo vale oggi molto più che in passato, per molte ragioni. Perché, ad esempio, l’aspettativa di vita è aumentata e perché abbiamo una responsabilità maggiore nella formazione del risparmio per gli anni di vita oltre l’età di lavoro. O perché è cambiata la composizione della ricchezza finanziaria; le famiglie non detengono più solo depositi bancari e titoli di Stato ma hanno sempre più l’opportunità di investire in strumenti finanziari complessi. Decisioni inappropriate, quali un indebitamento eccessivo o investimenti poco consapevoli in strumenti rischiosi, possono condurre a situazioni di forte tensione. Anche la digitalizzazione crescente della finanza pone tutti noi di fronte a scelte complicate.
L’alfabetizzazione finanziaria è anche uno strumento di cittadinanza. Avere conoscenze di base di economia e finanza aiuta a comprendere meglio la realtà e a partecipare attivamente alla società. La non comprensione delle misure di politica economica, ad esempio, può ridurne l’efficacia.
Ciò richiama l’importanza dell’educazione finanziaria per accrescere, alla luce dei ritardi esistenti, il grado di alfabetizzazione della popolazione. Secondo l’ultima edizione, del 2018, dell’indagine PISA dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il grado di alfabetizzazione finanziaria dei nostri quindicenni è più basso della media. Per gli adulti siamo addirittura agli ultimi posti nella classifica secondo l’indagine condotta nel 2020 dalla Banca d’Italia con la metodologia sviluppata dall’OCSE su 26 paesi, non solo quelli più avanzati.
Il nostro Istituto ha quindi deciso di impegnarsi con forza nell’educazione finanziaria, attività che svolgiamo, anche grazie alla nostra rete di filiali, nell’ambito dei più ampi compiti di tutela della clientela dei servizi bancari e finanziari. Tale tutela si avvale della regolamentazione, della vigilanza sul comportamento degli intermediari, degli strumenti di salvaguardia individuali quali l’Arbitro Bancario Finanziario e la gestione degli esposti. Ma l’alfabetizzazione finanziaria dei risparmiatori, oltre a costituire per loro una prima difesa, rafforza l’ambiente in cui le diverse istituzioni sono chiamate a operare e rende, quindi, più efficaci i loro strumenti.
A questo riguardo, la Banca d’Italia è protagonista e promotrice di molte iniziative in contesti nazionali e internazionali. Partecipiamo con il massimo impegno al Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria (Comitato Edufin) istituito nel 2017 per dare attuazione in Italia alla Strategia nazionale di educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale. Guidiamo il gruppo di lavoro Global Partnership for Financial Inclusion (GPFI) del Gruppo dei 20, che ha lo specifico obiettivo di promuovere l’inclusione attraverso l’educazione finanziaria, e l’International Network on Financial Education dell’OCSE.
I contenuti delle nostre attività di formazione riguardano, in primo luogo, gli argomenti della finanza personale (ad esempio la pianificazione familiare o l’importanza di investimenti oculati basati sulla diversificazione). Attraverso l’educazione finanziaria facciamo conoscere anche le nostre funzioni istituzionali: la politica monetaria; la vigilanza sulle banche e gli altri intermediari finanziari; l’emissione di banconote; la gestione delle infrastrutture di pagamento all’ingrosso e al dettaglio nell’area dell’euro; la sorveglianza sul sistema dei pagamenti nazionale.
Siamo particolarmente attivi nel mondo della scuola e riteniamo che l’inserimento dell’educazione finanziaria tra le attività curriculari, ad esempio nell’ambito dell’educazione civica, avrebbe un grande impatto nell’accrescere i livelli di alfabetizzazione. Il progetto più consolidato è quello basato sui volumi “Tutti per uno, economia per tutti!”, che prevede l’offerta di seminari destinati ai professori delle scuole primarie e secondarie, che poi affrontano temi di economia e finanza nelle classi. Abbiamo di recente avviato una collaborazione con alcune facoltà di Scienze della Formazione per la preparazione dei futuri insegnanti. Offriamo anche “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”, in quella che in passato era chiamata “alternanza scuola lavoro”.
Le iniziative per gli adulti includono anzitutto le attività rivolte al pubblico attraverso il portale “L’Economia per tutti”, che raccoglie contenuti e attività di educazione finanziaria, proponendo notizie e approfondimenti su temi di attualità (ad esempio sulle cripto-attività), e mediante la collana “Le Guide della Banca d’Italia” che illustra, cercando di farlo attraverso un linguaggio più semplice possibile, temi di interesse per le famiglie e le imprese: dal conto corrente ai pagamenti nel commercio elettronico; dal credito al consumo ai mutui ipotecari e alla Centrale dei rischi.
Agli interventi di natura trasversale si affiancano poi numerose iniziative formative per gruppi specifici di adulti, tipicamente cittadini con bassa scolarizzazione, donne, migranti, detenuti, categorie contraddistinte da livelli molto bassi di alfabetizzazione finanziaria. In questo quadro il progetto “Scelte finanziarie e rapporti con le banche” persegue il rafforzamento delle competenze finanziarie, oggi non elevate, delle piccole imprese e degli artigiani nella convinzione che questo possa apportare rilevanti benefici per il tessuto produttivo italiano.
Per concludere con alcune iniziative più recenti, vi sono la campagna di divulgazione su temi di economia e finanza in collaborazione con la RAI e la realizzazione del nuovo “museo della moneta” (e dell’educazione finanziaria), che sarà inaugurato nel 2025 ma di cui sarà possibile visitare una vasta anteprima, dall’autunno di quest’anno, al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Giornata del laureato
di Ignazio Visco (Insula europea, 2 aprile 2023)
Il basso grado di alfabetizzazione finanziaria è però solo un aspetto del divario di conoscenze accumulato dal nostro paese. L’Italia è in ritardo sia nei tassi di scolarità e di istruzione universitaria, sia nel livello delle competenze dei giovani come della popolazione adulta. La bassa dotazione di capitale umano nel confronto internazionale è questione antica. Il progresso nei livelli di istruzione è stato considerevole, ma non tale da colmare i divari accumulati.
Voi, i migliori laureati dell’ultimo anno, siete un’eccellenza all’interno di una minoranza. In Italia, infatti, la quota di popolazione tra i 25 e i 64 anni in possesso di un titolo di studio terziario era pari nel 2021 solo al 20 per cento, a fronte di una media del 40 tra i paesi OCSE. Se l’Italia sconta in parte il ritardo delle generazioni adulte, il differenziale resta marcato anche tra i più giovani: nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni la quota di coloro che sono in possesso di un titolo di studio terziario è salita dal 21 per cento del 2010 al 28 per cento del 2021, ma rimane ancora al penultimo posto fra i paesi dell’OCSE; nello stesso periodo, la media dell’Unione europea (UE) è passata dal 32 al 41 per cento. Nella stessa fascia di età, resta elevata la quota di coloro che non hanno conseguito il diploma di scuola secondaria superiore (il 23 per cento nel 2021, contro il 14 della media dei paesi dell’OCSE).
Il basso grado di istruzione si traduce in gravi carenze nelle competenze. Le più recenti rilevazioni INVALSI segnalano che circa il 10 per cento dei giovani in possesso del diploma di scuola secondaria superiore è privo di sufficienti competenze di lettura e di matematica. Il programma di valutazione internazionale PIAAC, realizzato dall’OCSE tra il 2013 e il 2016, indica che in tutti i gruppi di età gli adulti italiani presentano risultati peggiori della media. Nel nostro paese si registra, in particolare, una diffusa carenza di quelle competenze - di lettura e di comprensione, di utilizzo della logica e di analisi - che rispondono alle esigenze della vita moderna e del mondo del lavoro. Nonostante questi ritardi, la partecipazione degli adulti tra i 25 e i 64 anni a corsi di formazione e aggiornamento rimane inferiore alla media della Unione europea (9,9 contro 10,8 per cento nel 2021).
È difficile spiegare perché in Italia si studi così poco. I rendimenti dell’istruzione sono positivi ma meno marcati che altrove. Il rapporto tra le retribuzioni dei lavoratori che hanno completato un ciclo di istruzione terziaria e quelli che hanno completato solo un percorso secondario superiore è più basso della media OCSE (o di quella della UE). Se ciò contribuisce a spiegare la minore propensione delle famiglie a investire in capitale umano, il basso rendimento di un fattore di produzione relativamente scarso rappresenta per la teoria economica un paradosso, che ho messo in evidenza già molti anni fa.
Diversi elementi contribuiscono a contenere il vantaggio salariale dei laureati in Italia nonostante la loro scarsità. Vi influiscono, in parte, l’insufficiente presenza di figure professionali specializzate e, soprattutto, il ritardo del sistema produttivo, che ha a lungo continuato a privilegiare i comparti tradizionali, più esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, ed è rimasto sbilanciato verso imprese piccole e molto piccole, la cui risposta all’apertura dei mercati e al progresso tecnologico è necessariamente lenta e modesta.
Al basso rendimento dell’istruzione concorrono anche le asimmetrie informative sulla qualità di chi partecipa al mercato del lavoro, più rilevanti in Italia dato il basso livello medio di istruzione e il contesto di scarsa differenziazione dei percorsi di studio. Ciò tende a innescare un circolo vizioso: in assenza delle competenze necessarie, le imprese comprimono la propria attività innovativa e i salari dei, pochi, lavoratori qualificati; le famiglie rispondono a questa carenza di incentivi e non investono sufficientemente in conoscenza, alimentando la scarsa propensione all’innovazione del sistema produttivo.
Tale spirale è accentuata dai flussi migratori: la compressione delle retribuzioni dei lavoratori più qualificati rispetto agli altri paesi avanzati spinge molti italiani, in particolare giovani con un più elevato livello di istruzione, a ricercare migliori opportunità di lavoro in altri paesi. Tra il 2009 e il 2021 gli italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero sono stati oltre un milione (a fronte di circa mezzo milione rientrato in Italia). Si conferma la maggior propensione allo spostamento per chi ha livelli di istruzione più elevati: sui 94.000 emigrati nel 2021, oltre un quarto aveva un titolo di studio terziario, una quota superiore al 20 per cento del totale della popolazione.
Per invertire queste tendenze bisogna dunque riflettere sia sugli strumenti con cui la società accresce la propria dotazione di capitale umano (in primis scuola e università), sia sui fattori che determinano le scelte individuali di istruzione. L’importanza dell’istruzione e dell’investimento in conoscenza deriva anche dalla rapidità dell’innovazione tecnologica. Pensiamo ad esempio allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, che oggi rende difficile immaginare quali saranno i beni e i servizi offerti nei prossimi anni e, di conseguenza, quali professionalità verranno richieste sul mercato del lavoro.
La consapevolezza del ruolo centrale della tecnologia e l’attenzione al capitale umano furono elementi caratterizzanti del pensiero di Carlo Azeglio Ciampi, anche nei suoi lunghi anni di servizio in Banca d’Italia. Come ebbe a dire in un’intervista rilasciata durante il suo mandato presidenziale “la cultura e l’uso critico della ragione [...] sono i cardini del progresso dell’umanità”. Ciampi avvertiva forte l’importanza della formazione, soprattutto, ma non solo, per le generazioni più giovani. Riteneva che, per essere preparati a competere, fosse necessario sviluppare attitudine al cambiamento e curiosità intellettuale, che qualificava come il “gusto dei perché”.
Concludo citando un breve passo di un saggio pubblicato da Ciampi nel 2015 nella rivista “Nuova Antologia”. Si tratta del suo ultimo saggio, raccolto insieme con tutti gli altri scritti da lui pubblicati su questa rivista nell’arco di oltre un ventennio in un volume curato dal Professor Cosimo Ceccuti e stampato dalla Banca d’Italia nel 2017. In esso, davanti alle complesse e ardue sfide del presente, Ciampi affermava: “I giovani dispongono della ricchezza del tempo che hanno davanti a sé. È loro il compito di contrastare le forze negative di un ripiegamento rassegnato o di un velleitario e sterile ribellismo. Occorre, dunque, che si preparino ad affrontarlo; che si attrezzino moralmente e culturalmente per assolverlo al meglio. La via maestra che intravedo è ancora e sempre la Cultura. Cultura, in tutte le sue declinazioni, come valore fondante di ogni progresso civile, sociale ed economico. Cultura come spinta propulsiva”.
Un messaggio, questo, che non possiamo non fare nostro, ricordando, indietro nel tempo con Socrate, che “esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l’ignoranza”.
*Relazione letta il 27 marzo 2023 presso la Sapienza Università di Roma. [ripresa parziale, senza le note allegate].
Fisica. Giorgio Parisi, il Nobel che indaga su «caos e sistemi complessi»
Romano classe 1948, allievo di Cabibbo, il fisico della Sapienza è stato insignito della medaglia per i suoi studi sula complessità. Firmò la lettera contro l’intervento di Benedetto XVI alla Sapienza
di Franco Gàbici (Avvenire, martedì 5 ottobre 2021)
Siamo nell’anno del settimo centenario della morte di Dante e a commento del premio Nobel della fisica conferito al “nostro” Giorgio Parisi rubo il verso dantesco «sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» perché, guarda caso, il nome di Parisi da oggi verrà aggiunto nella lista dei prestigiosi “Nobel italiani” dopo una cinquina di tutto rispetto composta da Guglielmo Marconi (1909), Enrico Fermi (1938), Emilio Segré (1959), Carlo Rubbia (1984) e Riccardo Giacconi (2002). E va anche sottolineato l’italianità di questo prestigioso premio perché il riconoscimento non è andato a un fisico emigrato all’estero ma a un fisico che ha lavorato in Italia.
La giuria di Stoccolma ha premiato Parisi per i suoi studi sul «caos e i sistemi complessi» mentre l’altra metà del premio è andata ai climatologi Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann «per la modellazione fisica del clima della terra, che ne qualifica la variabilità e prevede in modo affidabile il riscaldamento globale». L’argomento del clima è oggi di grande attualità e lo stesso Parisi, dopo aver appreso l’annuncio della vittoria, si è subito allineato coi due colleghi neo premiati dichiarando che sul tema del clima «è urgente prendere decisioni forti e muoversi velocemente».
Romano, classe 1948, Giorgio Parisi si laurea in fisica alla Sapienza di Roma nel 1970 con Nicola Cabibbo nonostante i genitori lo avessero voluto ingegnere. Lui, però, indeciso se scegliere la matematica o la fisica, scelse quest’ultima attirato soprattutto dalla possibilità di fare ricerca. E alla ricerca si è dedicato anima e corpo soprattutto per cercare di mettere d’accordo due concetti diametralmente opposti, il caos e l’ordine.
La fisica si è sempre occupata di fenomeni prevedibili e ripetibili. Famosissima, a questo proposito, l’affermazione di Laplace secondo la quale se un matematico «estremamente abile» conoscesse le condizioni iniziali dell’universo potrebbe calcolare tutto il futuro dell’universo stesso. Da qualche decennio, però, la fisica si è dovuta arrendere di fronte alla complessità dei fenomeni comuni che non sempre mostrano la caratteristica della prevedibilità.
La nostra atmosfera, ad esempio, è un sistema estremamente complesso e imprevedibile così come lo sono l’economia globale, i crolli della borsa e gli organismi viventi, dove la mutazione di un solo gene può trasformare una cellula sana in una cellula malata e dunque pericolosa per la salute dell’organismo. Anche il funzionamento della cellula, ad esempio, è descritto dall’azione di centinaia di migliaia di diversi tipi di proteine mentre nel nostro cervello 10 miliardi di neuroni interagiscono fra loro attraverso centomila miliardi di collegamenti (le sinapsi).
Eppure anche questa “complessità” che sembra sfuggire ai principi dell’ordine può essere descritta con leggi e regole. E nel 1979 Parisi, insieme al fisico argentino Miguel Virasoro, ha elaborato il primo modello teorico dei cosiddetti “vetri di spin”, una speciale lega di oro e di ferro che rappresenta il tipico esempio di sistema “complesso”. Ma Parisi non si è limitato a studiare gli aspetti teorici e ha fatto di più. Una volta, ha spiegato Parisi, gli strumenti teorici in mano ai matematici e ai fisici teorici erano semplicemente un foglio di carta e una matita. Oggi, invece, tutto questo non basta più perché la messa a punto di certi modelli teorici richiede calcoli che è impossibile fare a mano. E proprio per questo nel 1980 Parisi ha diretto, in collaborazione con Cabibbo, la costruzione di Ape (acronimo di Array processor experiment), il primo “supercalcolatore” europeo messo a disposizione dei ricercatori in grado di eseguire un miliardo di operazioni al secondo.
Considerato al momento il miglior fisico italiano e fra i più autorevoli a livello mondiale, Parisi ha iniziato a occuparsi di fisica delle alte temperature presso i Laboratori Nazionali di Frascati per poi passare alla Columbia University di New York e all’École normale supérieure di Parigi. Si è occupato anche di particelle elementari, di meccanica statistica, di fisica matematica, di cromodinamica quantistica e di metodi fisici applicati alla biologia dimostrando grande versatilità e soprattutto, come ha sottolineato il Presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare Antonio Zoccoli, la capacità di trasferire sul piano concreto i suoi lavori, spesso precorrendo i tempi.
Ha avuto anche il suo quarto d’ora di celebrità quando recentemente, in un programma televisivo, contestò il virologo Matteo Bassetti a proposito della campagna vaccinale del coronavirus; ma fece discutere soprattutto quando nel 2008 sottoscrisse un appello contro il rettore della Sapienza per il suo invito (poi declinato) a papa Benedetto XVI ad intervenire in apertura dell’anno accademico.
Gli altri scienziati insigniti del Nobel presentano un curioso denominatore comune. Entrambi, infatti, sono novantenni. Manabe, noto per i suoi studi sull’utilizzo del computer per le simulazioni climatiche, ha compiuto nel settembre scorso novant’anni mentre Hasselmann, noto oceanografo ed esperto in modelli climatici, ha un anno in meno. Bellissimo esempio di operosa lucidità.
Pensare oltre le frontiere. Al via l’organizzazione del 25° Congresso Mondiale di Filosofia che si terrà nel 2024 alla Sapienza
Lunedì 26 aprile l’International Federation of Philosophical Societies, la Società Filosofica Italiana e Sapienza hanno firmato l’accordo che dà ufficialmente avvio all’organizzazione del 25° Congresso Mondiale di Filosofia (WCP), dedicato al tema “Pensare oltre le frontiere"
Dopo Bologna nel 1911, Napoli nel 1924 e Venezia nel 1958, sarà Roma a ospitare nel luglio 2024 la fase finale del Congresso mondiale di filosofia, nei prossimi anni sarà preceduto da una serie di incontri, seminari ed eventi preparatori che proietteranno le forze culturali e accademiche del nostro paese al centro del dibattito filosofico (e non solo) internazionale.
Si tratta di un risultato importante per l’Italia, per la Società filosofica italiana - tra le più antiche istituzioni filosofiche italiane, fondata nel 1906 proprio per promuove il dibattito filosofico e difendere l’insegnamento della filosofia - e per la Sapienza, che ancora una volta si conferma luogo privilegiato in cui custodire e alimentare la riflessione intellettuale e il pensiero critico, a partire dallo studio della tradizione classica come conferma il primato recentemente conquistato nell’area umanistica nel QS Ranking 2021, dove si è collocata al 1° posto in Classics & Ancient History.
Il Congresso mondiale di filosofia costituisce il principale momento di incontro tra le comunità accademiche e intellettuali del mondo intero, che si riuniscono ogni cinque anni in un paese diverso per rafforzare le relazioni professionali, promuovere l’educazione filosofica e offrire un contributo rispetto alle grandi questioni e sfide del proprio tempo. Per queste ragioni l’aspettativa che suscita su scala internazionale è straordinaria: la partecipazione agli ultimi Congressi (Atene 2013 e Pechino 2018) ha superato i 4,000 iscritti provenienti da oltre 120 paesi.
Dal primo congresso del 1900 che si tenne a Parigi in occasione dell’Esposizione universale, è la prima volta, in 125 anni, che il Congresso si svolge a Roma - la quarta volta per il nostro Paese, caso unico al mondo - segno evidente del riconoscimento da parte della comunità filosofica internazionale dell’importanza del contributo che l’Italia ha dato e può dare all’interno del dibattito filosofico globale. All’origine di quest’impegno è l’esigenza di avviare una riflessione pubblica sull’avvenire delle nostre società, particolarmente urgente in questo momento, confrontandosi allo stesso tempo con gli sviluppi più recenti delle ricerche filosofiche condotte nelle diverse aree del pianeta.
In quest’ottica, a luglio 2024, per un’intera settimana, sotto l’ambito generale “Pensare oltre le frontiere”, si affronteranno temi legati alle relazioni interculturali, alle questioni di genere, alle forme di organizzazione politica e alle diseguaglianze sociali, ai temi ambientali e bioetici, ai diritti, all’Agenda ONU 2030 e alle modalità di sviluppo sostenibile.
Il Congresso rappresenta un formidabile volano di ripresa e di costruttivo confronto intellettuale, di valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, non che di sviluppo economico. La sua capacità di attrazione offre all’Italia la possibilità di rafforzare la propria presenza accademica e scientifica internazionale, collocandosi al centro di una riflessione globale sulle prospettive culturali, sociali ed economiche del mondo contemporaneo.
In occasione del Congresso, migliaia di intellettuali e accademici del mondo intero si riuniranno a Roma. Si tratterà quindi di un grande momento pubblico di riflessione, elaborazione e proposte sulle prospettive presenti e future delle nostre società.
Nelle sue fasi preparatorie, esso permetterà di aggregare l’insieme delle forze intellettuali, scientifiche, accademiche del nostro paese, a cui si uniranno voci e figure del mondo dell’economia, dell’informazione, delle imprese e delle istituzioni, in un processo di avvicinamento al Congresso che vuol essere al servizio dell’esigenza, complessa ma sempre più avvertita, di “ricostruzione intellettuale” delle nostre società.
La partecipazione di studentesse e studenti, giovani ricercatrici e ricercatori del mondo intero sarà una priorità. A loro sarà riservata un’intera sezione del Congresso. Per le giovani generazioni sarà infatti un’occasione per aprirsi al confronto con altre idee, linguaggi, culture e sensibilità e rappresenterà un’opportunità formativa e di valorizzazione dei propri studi particolarmente significativa.
Ricostruito il viaggio dell’acqua nel cosmo
Dalle nubi interstellati ai pianeti *
Dalle nubi interstellari ai pianeti abitabili, il viaggio dell’acqua nel cosmo è stato ricostruito grazie ai dati del telescopio spaziale Herschel, dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Il risultato, pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics ,si deve alla collaborazione internazionale che analizza i dati del telescopio spaziale, della quale l’Italia fa parte con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e promette di diventare un punto di riferimento per la ricerca in questo campo per i prossimi venti anni.
Partendo dalle nubi interstellari, culla di nuove stelle e sistemi planetari, l’acqua è stata intercettata in una giovane stella che emette getti di materia. Poi gli occhi del telescopio Herschel, lanciato nel 2009 e operativo fino al 2013, hanno riconosciuto le tracce dell’acqua in un disco di gas e polveri da cui nascono nuovi pianeti. Fino a ritrovarla in un giovane pianeta esterno al Sistema Solare, dove è stata portata probabilmente dalle comete.
"La maggior parte dell’acqua si origina sotto forma di ghiaccio su piccole particelle di polvere nelle nubi interstellari fredde e poco dense", osservano gli autori della ricerca. "Quando una di queste nubi collassa dando vita a stelle e pianeti - proseguono - l’acqua viene conservata, ancorandosi alle particelle di polvere che in questo stadio hanno le dimensioni di sassolini; poi, nel disco di materia che ruota intorno alla stella nascente, si aggregano a formare gli elementi costitutivi di futuri pianeti. Secondo questi calcoli la maggioranza dei sistemi planetari nascerebbe già con una quantità di acqua sufficiente a riempire molte migliaia di oceani".
Uno dei limiti di queste ricerche, sottolineano i ricercatori, è stato in passato la presenza di vapore acqueo nella nostra atmosfera, che ha ostacolato le osservazioni con i telescopi da terra. Poi è arrivato Herschel, tra i cui obiettivi c’era studiare il ciclo dell’acqua nella Via Lattea.
In futuro il telescopio spaziale James Webb, il cui lancio è previsto alla fine del 2021, permetterà di proseguire il lavoro di Herschel. Aiuterà, infatti, a ricostruire un tratto del viaggio dell’acqua rimasto finora ignoto: quello nelle zone più interne dei dischi di polvere intorno alle giovani stelle, inseguendo così la molecola nelle regioni in cui si formano pianeti simili alla Terra
* Fonte: Ansa, 12 aprile 2021
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
ITALIA
Quotazione in Borsa dell’acqua: NO grazie *
Noi sottoscritte/i ci uniamo alla denuncia del Relatore Speciale delle Nazioni unite sul diritto all’acqua Pedro Arrojo-Agudo che l’11 dicembre scorso ha espresso grave preoccupazione alla notizia che l’acqua, come una qualsiasi altra merce, verrà scambiata nel mercato dei «futures» della Borsa di Wall Street.
L’inizio della quotazione dell’acqua segna un prima e un dopo per questo bene indispensabile per la vita sulla Terra.
Si tratta di un passaggio epocale che apre alla speculazione dei grandi capitali e alla emarginazione di territori, popolazioni, piccoli agricoltori e piccole imprese ed è una grave minaccia ai diritti umani fondamentali.
L’acqua è già minacciata dall’incremento demografico, dal crescente consumo ed inquinamento dell’agricoltura su larga scala e della grande industria, dal surriscaldamento globale e dai relativi cambiamenti climatici.
È una notizia scioccante per noi, criminale perché ucciderà soprattutto gli impoveriti nel mondo.
Secondo le Nazioni unite già oggi un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e dai tre ai quattro miliardi ne dispongono in quantità insufficiente.
Per questo già oggi ben otto milioni di esseri umani all’anno muoiono per malattie legate alla carenza di questo bene così prezioso.
Questa operazione speculativa renderà vana, nei fatti, la fondamentale risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 2010 sul diritto universale all’acqua e, nel nostro paese, rappresenterà un ulteriore schiaffo al voto di 27 milioni di cittadine/i italiane/i che nel 2011 si espressero nel referendum dicendo che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto su questo bene.
Se oggi l’acqua può essere quotata in Borsa è perché da tempo è stata considerata merce, sottoposta ad una logica di profitto e la sua gestione privatizzata.
Per invertire una volta per tutte la rotta, per mettere in sicurezza la risorsa acqua e difendere i diritti fondamentali delle cittadine/i
CHIEDIAMO
Al Governo italiano che si sta delineando nel nostro paese chiediamo di:
prendere posizione ufficialmente contro la quotazione dell’acqua in borsa; approvare la proposta di legge Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque» (A. C. n. 52) in discussione presso la Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati; sottrarre ad Arera le competenze sul Servizio Idrico e di riportarle al Ministero dell’Ambiente; di investire per la riduzione drastica delle perdite nelle reti idriche; di salvaguardare il territorio attraverso investimenti contro il dissesto idrogeologico; impedire l’accaparramento delle fonti attraverso l’approvazione di concessioni di derivazione che garantiscano il principio di solidarietà e la tutela degli equilibri degli ecosistemi fluviali.
* * * primi firmatari
Alex Zanotelli, Dacia Maraini, Moni Ovadia, Luciana Castellina, Emilio Molinari, Nando Dalla Chiesa, Don Virginio Colmegna, Gino Strada, Mimmo Lucano..
Info: www.acquabenecomune.org
* Fonte: il manifesto, 09.02.2021
Della madre della vita si fa merce
di Alex Zanotelli (Comune-info, 23 Gennaio 2021)
Ritornando dall’Africa, uno dei miei impegni prioritari è stato quello della ripubblicizzazione dell’acqua, perché vivendo nella baraccopoli di Korogocho (Nairobi) e andando tante volte al giorno con la tanica a comprarmi l’acqua, ne ho capito subito il valore e l’importanza, prevedendo che sarebbe diventata l’oro blu. Difatti, con il surriscaldamento del Pianeta, questo bene diventa sempre più scarso, sempre più appetibile e sempre meno accessibile ai poveri.
E’ inaccettabile che l’acqua sarà quotata in borsa a Wall Street: una merce come il petrolio. E’ una notizia scioccante per noi, criminale perché ucciderà soprattutto gli impoveriti nel mondo.
Secondo l’Onu già oggi un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e dai tre ai quattro miliardi ne dispongono in quantità insufficiente. Per questo già oggi ben otto milioni all’anno di esseri umani muoiono per malattie legate alla carenza di questo bene così prezioso.
Non dimentichiamoci che di tutta l’acqua che c’è sul Pianeta, solo il 3% è potabile e di questo un terzo è direttamente utilizzabile dall’uomo per bere. Il resto è usato dall’agribusiness e dall’industria.
E le previsioni per il 2025 sono drammatiche: due terzi della popolazione mondiale affronterà scarsità d’acqua grazie a temperature sempre più infuocate, a scioglimento dei ghiacciai, a deforestazione... E avremo così sempre meno acqua potabile e a pagarne le conseguenze saranno milioni e milioni di impoveriti.
Ecco perché sono rimasto pietrificato alla notizia che il 7 dicembre scorso l’acqua è diventata in California un ‘future’, un termine tecnico per dire che l’oro blu è entrato nel mercato azionario e ora si può scommettere sul suo valore futuro, come il petrolio e l’oro.
Il dado è tratto! L’Onu ha reagito subito affermando che non si può dare un valore all’acqua come si fa con altri beni commerciali. Nel 2010 l’Onu aveva affermato: «L’accesso all’acqua potabile e servizi igienico-sanitari sono tra i diritti umani universali e fondamentali».
Papa Francesco cinque anni fa nella Laudato Si’ aveva già parlato dell’acqua come «diritto alla vita» (un termine riservato in campo cattolico all’aborto o all’eutanasia).
L’acqua è Vita! Tutta la vita che c’è sul Pianeta è nata dall’acqua: è la madre di tutta la vita. Come si fa a privatizzare la Madre? Questa è una bestemmia!
E’ da questi principi che è partito il nostro impegno in difesa della gestione pubblica dell’acqua che ci ha portato al Referendum (2011), quando 26 milioni di italiani hanno votato i due quesiti referendari: l’acqua deve uscire dal mercato e non si può fare profitto su questo bene.
E’ l’opposto della direzione attuale del mercato: la Madre della vita diventa merce. Purtroppo dopo dieci anni costellati da ben sette governi, la decisione del popolo italiano non è mai stata tradotta in legge.
Trovo incredibile che i 5S (la loro prima stella è l’acqua pubblica!) non siano riusciti a trasformare il Referendum in legge ,nonostante le dichiarazioni del Presidente della Camera che legava la sua presidenza alla ripubblicizzazione dell’acqua. Mi meraviglio anche del Pd, che come partito di ‘sinistra’, dovrebbe essere in prima linea in difesa dei beni comuni.
Davanti a questa criminale decisione di ‘quotare’ l’acqua in borsa, mi appello al governo perché si affretti a ripubblicizzare l’acqua. Ne basterebbero due miliardi da trarre dal Recovery Fund. Invece il governo ha destinato 2.5 miliardi per infrastrutture idriche di adduzione per le reti territoriali.
Il Sole 24 Ore afferma che questa è la «leva per portare le gestioni idriche industriali nel Meridione». In poche parole i grandi colossi idrici del centro-nord (Iren,A2A,Hera, Acea) gestirebbero le reti idriche del Sud, con i soldi del Recovery Fund. Altro tradimento!
Ma i soldi del Recovery Fund dovrebbero essere usati anche per riparare i 300mila km di reti idriche che perdono il 50% dell’acqua. Questa è una delle Grandi Opere da realizzare, non la Lione-Torino o il Ponte di Messina.
A questo punto sarebbe opportuno un incontro del Forum italiano dei movimenti per l’acqua pubblica con i partiti al governo per discutere sia sulla legge bloccata in Commissione Ambiente che la minaccia alle reti idriche del Sud, nonché l’autorizzazione da parte del nostro governo all’incontro del Consiglio Mondiale (la lobby delle multinazionali dell’acqua!) nel 2024 in Italia.
Dobbiamo muoverci tutti perché azzerare il Referendum, sarebbe cancellare la nostra stessa democrazia. Significherebbe che sovrano non è più il popolo, ma sovrani sono i soldi. “Il denaro deve servire - ci ricorda Papa Francesco- e non governare».
Elezioni del Rettore 2020
Antonella Polimeni è la nuova rettrice per il sessennio 2020-2026
Antonella Polimeni, attuale preside della Facoltà di Medicina e odontoiatria, docente nel settore scientifico disciplinare delle Malattie odontostomatologiche, sarà la rettrice della Sapienza per il sessennio 2020-2026. Succede a Eugenio Gaudio, che ha guidato la Sapienza dal 2014 al 2020.
La nuova rettrice è stata eletta dalla comunità accademica alla prima tornata elettorale che si è svolta dal 10 al 13 novembre 2020, ottenendo la maggioranza assoluta (metà+1) dei voti non pesati (per i docenti) e dei voti pesati (per il personale tecnico-amministrativo e i rappresentanti di studenti e assegnisti di ricerca), pari a 2.529,74 voti su 4.170,32 voti totali, pari a una percentuale del 60,7%.
Gli altri candidati alla carica erano Federico Masini, sinologo della Facoltà di Lettere, che ha ottenuto 765,46 voti e Vincenzo Nesi, matematico della Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, che ha ottenuto 734,26 voti. Le schede bianche hanno pesato per 140,86 voti.
La partecipazione al voto, che per la prima volta si è svolto online, è stata molto elevata: hanno votato complessivamente il 74,5% degli aventi diritto.
Lo scrutinio pubblico, che si è tenuto nel pomeriggio del 13 novembre, è stato diffuso in streaming. I risultati elettorali ottenuti dai singoli candidati, una volta certificati dalla Commissione elettorale centrale, saranno pubblicati sulla pagina Elezioni del Rettore a cura dell’Ufficio Elettorale, seguirà poi il decreto del decano del corpo accademico, Alfredo Gaito.
Antonella Polimeni è la prima donna a ricoprire la massima carica accademica alla Sapienza e la prima rettrice eletta in un grande ateneo italiano.
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Fonte: UNIROMA, Venerdì, 13 novembre 2020
L’impero romano tra cambiamenti climatici e pestilenze
In un libro dello storico statunitense Kyle Harper
di Gabriele Nicolò (L’Osservatore Romano, 15 aprile 2020)
Si racconta che uno storico tedesco abbia addotto duecentodieci motivi per spiegare il crollo dell’impero romano. Molto più parco è lo storico statunitense Kyle Harper che nel libro Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Torino, Einaudi, 2019, pagine 520, euro 34) di cause - a parte quelle “istituzionali” legate sia alle farraginose dinamiche della ormai fatiscente struttura governativa che al logorio dell’esercito e delle forze di combattimento in generale - ne individua due: i cambiamenti climatici e le pestilenze. Vale a dire, due cause che rivestono, evidentemente, un valore di attualità sorprendente e disarmante.
È vero che Giulio Cesare si vantava che i suoi soldati erano così vigorosi nel fisico che potevano resistere sia ai rigori dell’inverno che ai torridi raggi del sole d’estate, ma è altrettanto vero - rileva lo storico statunitense in un’intervista al settimanale francese «Nouvelle Observateur» - che i bruschi cambiamenti del clima, attestati tra l’altro da numerosi documenti d’epoca, con graduale e non arginata pressione finirono per incidere profondamente sulla popolazione dell’impero, e in particolare sulla psiche dei soldati, resi più vulnerabili dalle continue privazioni, inevitabile prezzo da pagare in una vita spesa sui campi di battaglia. E a dare il colpo di grazia al già fatiscente impero - sottolinea Harper - furono le pestilenze, la cui propagazione fu alimentata dalla vertiginosa crescita del numero della popolazione, non solo a Roma, ma anche nelle zone limitrofe, ovvero nelle campagne che, col declinare dell’impero, non vennero più adeguatamente bonificate come invece accadeva nei giorni di gloria.
In particolare - sostiene lo storico - a sbaragliare ogni forma di resistenza fu lo Yersinia pestis, che corrisponde alla moderna accezione di peste bubbonica. Un inquietante intreccio di morbi e di germi invase vaste regioni dell’impero mietendo, senza pietà, lutti e devastazione. I romani - ricorda Kyle Harper - avevano saputo come sconfiggere i nemici, anche perché aveva saputo imparare dalle lezioni derivanti dalle sconfitte subite. Ma non avevano le conoscenze e i mezzi adeguati per fronteggiare le ricorrenti pestilenze che certo potevano “approfittare”, per attecchire e poi infuriare, anche della mancanza di social distancing, misura certo non praticabile visto che i romani solevano vivere in ambienti molto ristretti e in accampamenti sovraffollati.
NOTA:
L’Impero romano e la ragione nascosta della sua caduta: una questione "filologica", epocale! L’ "In principio era il logos" (e sulla testa di tutti e di tutte, c’era la corona-virtus) diventa piano-piano l’ "In principio era il Logo" (e sul capo c’era il coronavirus)!!!
Federico La Sala
Concorsi truccati, sospeso il rettore dell’Università di Catania
Indagine della procura: coinvolti 40 docenti degli atenei di Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia e Verona
di Fabio Albanese (La Stampa, 28/06/2019)
catania
Il rettore dell’Università di Catania, ma anche il pro rettore, l’ex rettore e i capi dipartimento di matematica, economia, scienze biomediche, scienze biologiche, giurisprudenza, l’ex capo dipartimento di scienze politiche, il presidente del coordinamento della facoltà di medicina. Tutti sospesi dalle funzioni perché indagati per associazione per delinquere e, a vario titolo, per corruzione, induzione a dare e promettere utilità, falsità ideologica e materiale, turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, abuso d’ufficio e truffa aggravata. Per il rettore, l’ex rettore e altri indagati, la procura aveva pure chiesto l’arresto ma il gip ha deciso solo per la sospensione dall’attività.
È una specie di terremoto quello che la procura di Catania e la Digos hanno scatenato stamattina con l’inchiesta “Università bandita”, secondo la quale i concorsi dell’ateneo per posti di docente, di associato e perfino di ricercatore erano truccati. Ventisette sono i concorsi finiti sotto la lente degli investigatori: 17 riguardano posti di professore ordinario, quattro di associato e sei di ricercatore. Ma lo scandalo promette di avere proporzioni ben maggiori di quelle che hanno portato ai provvedimenti di oggi: i dieci docenti di Catania sospesi ma anche altri quaranta di università di tutta Italia, indagati e attualmente sotto perquisizione appartenenti agli atenei di Bologna, Cagliari, Catanzaro, Chieti-Pescara, Firenze, Messina, Milano, Napoli, Padova, Roma, Trieste, Venezia, Verona.
L’indagine di Catania, cominciata a giugno del 2016 e conclusa a marzo dello scorso anno, travolge i vertici dell’ateneo. Sospesi dalle funzioni il rettore Francesco Basile, 64 anni, il pro rettore Giancarlo Magnano San Lio, 56, l’ex rettore Giacomo Pignataro, 56, e altri sette docenti, i vertici dei dipartimenti. Per i pm, l’associazione per delinquere aveva a capo l’attuale rettore Basile ma il promotore sarebbe stato suo predecessore, Pignataro e si muoveva sulla base di un vero e proprio «codice di comportamento sommerso», come lo definisce la procura, al quale tutti dovevano uniformarsi. Il gruppo decideva il conferimento di assegni e borse di studio, i dottorati di ricerca, l’assunzione del personale tecnico-amministrativo, la composizione degli organi statutari (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina), l’assunzione e la progressione in carriera dei docenti universitari.
È proprio su questo ultimo aspetto che l’inchiesta si è allargata alle altre università italiane perché, spiega la procura, «i docenti, nel momento in cui sono stati selezionati per fare parte delle commissioni esaminatrici, si sono sempre preoccupati di non interferire sulla scelta del futuro vincitore compiuta preventivamente, favorendo il candidato interno che risultava prevalere anche nei casi in cui non fosse meritevole». Un sistema, dunque, che riporta alle baronie universitarie e che non lascia spazio alla meritocrazia. Chi non si adeguava, spiegano i pm di Catania, subiva ritardi nella carriera e curriculum non valutati.
«L’indagine ha consentito di svelare un sistema di nefandezze che purtroppo macchia in maniera veramente pesante il nostro Ateneo perché coinvolge tutti i personaggi di maggiore responsabilità al suo interno - ha detto il procuratore della Repubblica a Catania, Carmelo Zuccaro -. Abbiamo accertato che questo sistema ha inquinato il sistema di votazione all’interno dell’Ateneo per la nomina del rettore e per la nomina degli organi più importanti. A cascata questo sistema si é perpetuato per condizionare numerosi concorsi di tutti i dipartimenti. Un sistema che non esito a definire squallido perché le persone che vengono proposte non sono le più meritevoli per aggiudicarsi il titolo. Quando qualcuno ha il coraggio di proporsi come candidato per questo posto nonostante il capo del dipartimento abbia deciso che non sia venuto il suo momento, queste persone vengono fatte oggetto di critiche pesanti, addirittura di ritorsioni da parte del capo del dipartimento».
Sessantotto, un forte antidoto politico per gli smemorati
Alla Sapienza di Roma presentati ieri i due volumi di «MicroMega» a 50 anni dalla contestazione. Luciana Castellina e altri, nell’aula I della facoltà di filosofia dove tutto ebbe inizio
di Alessandro Santagata (il manifesto, 02.02.2018)
Gli anniversari sono momenti insidiosi di utilizzo pubblico della storia. Se poi a ricorrere sono i cinquant’anni dal Sessantotto, il rischio - come ha scritto domenica (sulle pagine di questo giornale) Marco Bascetta - è che la cifra del ricordo diventi quella dell’odio, della leggenda nera. Ci abbiamo dovuto fare l’abitudine di decennale in decennale. Hanno lanciato un segnale in direzione contraria i due dibattiti che si sono svolti ieri nell’aula I della facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza - luogo simbolico del movimento studentesco romano - che hanno in un certo modo aperto le danze del cinquantenario nella Capitale.
L’occasione l’ha offerta la rivista «MicroMega», che ha scelto la facoltà occupato il 1 febbraio 1968 per presentare di fronte a un’aula piena (anche se con una scarsa presenza di studenti) un numero speciale dedicato ai movimenti di contestazione e chiamando a raccolta un ricco parterre di testimoni.
SI TRATTA, in realtà, di due volumi che ospitano firme importanti del panorama politico-culturale italiano e internazionale. L’obiettivo dichiarato: ricordare e riflettere su «una data cruciale nella storia del dopoguerra» per evitare che le «celebrazioni» si riducano alla «reviviscenza di logore accuse che già allora caratterizzarono l’opinione di establishment (la violenza eccetera) o il reducismo di una sacrosanta nostalgia».
La nota «ai lettori» fornisce ulteriori coordinate per comprendere gli intenti che hanno mosso la rivista di Flores d’Arcais, anche lui autore di un breve ricordo sulla sua esperienza, da Valle Giulia al maggio francese: valorizzare le eredità dei «lunghi anni Sessanta» con le loro conquiste civili e sociali e contestare i passi indietro compiuti nei decenni successivi sulla spinta della restaurazione neoliberale e con alcune gravi responsabilità delle forze di sinistra. La giornata di ieri può essere considerata come un secondo momento di approfondimento.
LA MATTINA è stata dedicata al confronto con gli studenti. Nel pomeriggio alcuni tra i testimoni/autori hanno discusso il numero nelle sue molteplici sfaccettature (ricordi, analisi, interviste e fonti d’epoca). Volendo individuare alcuni fili rossi, il tema della violenza e quello delle «specificità» del caso italiano nel contesto internazionale sono stati probabilmente i principali.
C’è chi, come Luciana Castellina (e con lei Massimo Cacciari nel testo scritto) hanno teso a valorizzare come elemento principale l’immediato legame tra il movimento studentesco e quello operaio, tra le altre cose, il terreno fertile sul quale sarebbe maturata l’esperienza del manifesto. E chi, invece, come Palo Mieli ha identificato nella gioia della contestazione la dimensione unificante dei movimenti.
Alex Zanotelli, partendo da una riflessione sulla sua Napoli, ha ricordato l’esperienza del dissenso cattolico, spesso trascurata nelle narrazioni successive, puntando poi il dito sulla crisi di valori del tempo presente, provocata non certo dal Sessantotto, ma dal successivo riflusso.
Affettuoso, infine, il ricordo di Carlo Verdone, che del Sessantotto non fu militante, ma che pure beneficiò dell’onda di liberazione dei costumi arrivata perfino tra i banchi di una scuola cattolica per «figli di papà».
Ora, non c’è dubbio che la giornata in Sapienza abbia rappresentato una boccata di ossigeno alla vigilia di un anno di «celebrazioni» che si preannuncia carico di nuvole, se non alternativamente sterile. È da tenere presente poi che su molti dei nodi affrontati esiste ormai una bibliografia di taglio storiografico (e non solo) che è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni sulla spinta di coloro che il ’68 non l’hanno vissuto.
SE SI VANNO anche solamente a spulciare i titoli delle tesi di laurea e di dottorato degli anni Duemila si troverà un numero incredibile di lavori, spesso di ottima fattura, dedicati ai movimenti sociali e agli anni Settanta in generale. Su un grande tema come quello della violenza politica è fiorita una storiografia che ha preso le distanze dalle «demonizzazioni», cercando semmai di interpretarle nel contesto politico-culturale del «riflusso», ma si è interrogata in modo stringente sulla lunga durata del fenomeno: (almeno) dal secondo dopoguerra fino alla crisi dell’idea di rivoluzione negli anni Ottanta. Sono state investigate poi le culture politiche, le genealogie discorsive provando a riflettere criticamente sugli elementi di continuità nel Novecento.
Per quanto riguarda invece il complicato rapporto tra Sessantotto e modernizzazione, è ancora aperto il dibattito sulle relazioni tra l’avvento della società del benessere e l’esplosione della sua critica più radicale. Castellina ha spiegato efficacemente come la dimensione della critica al sistema, che del Sessantotto fu l’anima, sia venuta meno nel ricordo, lasciando spazio esclusivamente all’equazione contestazione-antiautoritarismo.
Da questo punto di vista, gli studi internazionali ci invitano però anche a una maggiore criticità nell’affrontare il paradigma della «restaurazione neo-liberale», da studiare proprio a partire dalle trasformazioni storiche del sistema capitalistico e da quella sua necessità di omogeneizzare le società che negli anni Sessanta travolse appunto le istituzioni tradizionali.
ECCO ALLORA che tra i rischi di questo 2018 c’è quello di perdere, ancora una volta, l’opportunità per andare oltre il piano del talking about my generation. Un limite enorme, soprattutto alla luce di uno dei meriti principali della contestazione: aver introdotto la forma politica del movimento, che è diventata strutturale dopo la crisi del sistema dei partiti (non senza contraddizioni macroscopiche e con esiti talvolta inquietanti). È un filo rosso che è rimasto marginale nella discussione sul Sessantotto, ma che lega tra loro mondi diversi in fasi storiche nuove, fino a Genova, all’Onda e agli indignati dal finanzcapitalismo degli anni Duemila.
Chi ha a cuore il Sessantotto ha dunque il dovere di non «congelarlo», di non avere paura di contestarlo, di non farne un monumento da museo per pochi intimi. Anche perché è proprio dagli spazi chiusi che è partita l’infezione che ha portato al dilagante rifiuto del passato, alle rottamazioni e alla politica dei senza memoria.
MATEMATICA, FILOSOFIA, E TEOLOGIA: GALILEI, ROCCAMORA, E NEWTON... *
LA COMETA, L’APOCALISSE, LE "CIFRE DELL’EUCHARISTIA", E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA!!!
IN VINO VERITAS. Una nota
di Federico La Sala
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI "ROCCAMORA" (sull’etichetta della bottiglia di rosso "negroamaro", in forma di "croce", appare un "calice" con dentro il "sole"!), GUARDANDO E "LEGGENDO" CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA "SCHOLA SARMENTI" , è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito,
"ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA",
e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino.
Qui il discorso è, o, se si vuole, diventa filosofico, antropologico, e teologico! La questione (e la parola) rimanda alla EUCHARISTIA e alle sue CIFRE - all’opera di GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA (CFR.: Delle cifre dell’Eucharistia) - vale a dire al lavoro di DECIFRAZIONE (dei "due libri": Bibbia e Natura, come da lezione di GALILEO GALILEI) portato avanti dal teologo, filosofo e matematico, GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA.
SENZA FARSI PRENDERE DALLA FRETTA (vedi: "Intriga non poco Assist[ens?] et Galil[ei?] discipul[us] ma il tempo incalza"), Il lavoro sulla "Filosofia dei nobili" del 1668, Il trattato sulla cometa del 1970, e il trattato sulle "cifre dell’Eucharistia" (1668-1684) vanno riletti di nuovo e insieme, e, sicuramente, in un orizzonte di cultura che sappia riunire la SAPIENZA dell’Università (Roma) e la "SCHOLA SARMENTI" del ROCCAMORA!!!
UNA BUONA E BELLA OCCASIONE DA NON SCIUPARE, PER BRINDARE AL BRILLANTE LAVORO DEL PROF. POLITO, ALLA FONDAZIONE TERRA DI OTRANTO, E ALLA "SCHOLA SARMENTI" E AL ROCCAMORA..
P. S.
SUL TEMA, da ricordare e non sottovalutare, che tra il 1660 e il 168o ISAAC NEWTON si occupa di interpretazione profezie e particolarmente dell’ "Apocalisse" (cfr. Isaac Newton, "Trattato sull’Apocalisse", a c. di M. Mamiani, TORINO 1994).
Dalla Controriforma ai Lumi. Ideologia e didattica nella "Sapienza" romana del Seicento
di Giovanni Rita *
[...] Dopo una pausa di altri due anni in cui restò ancora senza maestri, la disciplina vide per la prima volta una continuità con Benedetto Castelli, un monaco benedettino già alunno e amico di Galilei, chiamato dal papa come precettore del nipote Taddeo Barberini 129. Castelli poté svolgere a Roma anche un’attività di consulente in opere idrauliche, fino a che l’esito del processo a Galileo non gli consigliò di ritirarsi in Toscana. Ma intanto il maestro aveva potuto formare numerosi allievi, ricordati ancora oggi in vari campi, ove essi finalmente ebbero modo di applicare i nuovi metodi130. Tra di loro, il lucchese Santini fu suo successore sulla cattedra romana: benché, a giudicare dai ruoli, svolgesse ancora gli Elementi euclidei e la Sfera di Sacrobosco, Santini dedicò un corso a quella che sembra una nuova impostazione disciplinare, la «geometria speculativa et practica»; oppure una «theorica planetarum» che figurava indipendentemente dalla tradizionale «astronomia Ptolemaei» 131. A sua volta l’eclettico monaco Gian Domenico Roccamora, pur subendo ancora a volte il fascino del barocco 132, proseguì nelle innovazioni del predecessore, aggiungendo ulteriori argomenti quali «de arcibus muniendis», «de optica», «de fortificationibus»133. [...].
Nota 132:
"Roccamora (mathematica 1664-1684: I maestri, p. 923) fu autore del Delle cifre dell’Eucharistia. Cioè a dire di quel Libro, che fù discifrato dall’Agnello à i venti quattro Vecchioni dell’Apocalisse, I-IV, Roma, Dragondelli, 1668-1684, grottesca opera di pseudo-esegesi biblica su cui, con ampie citazioni, v. Giovanni Rita, Il Barocco in Sapienza. Università e cultura a Roma nel secolo XVII, in Luoghi della cultura nella Roma di Borromini, Roma, Retablo, 2004, p. 56-58. Da quanto risulta inoltre da ASR, Università 87, f. 6-9 (del 1681) Roccamora aveva progettato una «sfera bizzarrissima» che avrebbe segnato l’ora nelle varie parti della terra oltre alle fasi lunari, eventuali eclissi e perfino riprodotto con giochi d’acqua l’esistenza di fiumi e oceani".
* Cfr. : Annali di Storia delle Università italiane - Volume 9 (2005) - ripresa parziale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Federico La Sala
La nascita della Sapienza
di Arnaldo Casali *
È stata fondata da papa Bonifacio VIII, il 20 aprile 1303, l’università più laica d’Italia: “La Sapienza”; la più grande d’Europa e la ventunesima ed essere nata al mondo.
Un papa che con il concetto di laicità aveva un rapporto molto personale. E cioè grande interesse, attenzione e rispetto, purché anch’essa fosse sottomessa completamente all’autorità religiosa.
A modo suo laicissimo, visto che era più interessato a cultura, politica e turismo ante-litteram che alla spiritualità, non riusciva però proprio a tollerare che tutto questo potesse muoversi autonomamente, senza riconoscere al vicario di Cristo il potere supremo. Mai contrappasso fu più sublime, di un’Università pontificia che oggi ostenta nel nome e nel suo monumento-simbolo una divinità pagana: Minerva, dea della Sapienza, la cui statua troneggia di fronte alla grande vasca nel mezzo della città universitaria e che non bisogna mai guardare - secondo una leggenda studentesca - prima di sostenere gli esami.
Forse fu il più teocratico dei pontefici dell’intera storia della Chiesa, Benedetto Caetani. Era nato ad Anagni, nel Lazio, intorno al 1230 e apparteneva ad una delle famiglie più importanti della Roma medievale che, originaria di Pisa, si spartiva con gli Orsini e i Colonna papi e potere.
Di temperamento energico e dotato di grandi capacità diplomatiche, rese ancora più decisive da una notevole cultura e da profonde conoscenze giuridiche, Benedetto aveva studiato prima a Todi e poi a Bologna, dove si era laureato in Diritto Canonico; poi aveva iniziato la carriera diplomatica in Laterano, prendendo parte anche ad una importante e delicata missione a Londra.
Diventato cardinale a 51 anni e sacerdote dieci anni dopo, nel 1291 era stato in missione in Francia per dirimere una controversia tra clero secolare e ordini religiosi e aveva partecipato a quattro conclavi: quello che aveva eletto Onorio IV nel 1285, quello da cui era uscito papa per la prima volta un frate francescano (Niccolo IV, nel 1288) e poi quello - lunghissimo - seguito alla morte di Nicolò nel 1292 e che era rimasto bloccato due anni a causa della lotta tra le famiglie rivali. Dall’impasse si era usciti quando era venuta fuori l’idea di eleggere una figura completamente al di fuori dei giochi di potere e sicuramente apprezzata dal popolo cristiano: Pietro dal Morrone, monaco eremita con fama di santità, che aveva preso il nome di Celestino V.
Dopo appena 6 mesi di pontificato Celestino, con un gesto del tutto inedito, aveva rinunciato spontaneamente al pontificato. Spontaneamente fino a un certo punto, secondo i suoi sostenitori che poi erano anche i nemici di Bonifacio, accusato di manipolare il papa santo per convincerlo a dimettersi. Quel che è certo è che il cardinale Caetani era diventato quantomeno un autorevole consigliere giuridico per il vecchio eremita finito sul trono più ambito e più scomodo del mondo. E quel che è certo è che appena dieci giorni dopo la rinuncia, i 22 cardinali riuniti in conclave a Napoli (di cui ben 13 erano stati scelti da Celestino) avevano eletto Benedetto, che aveva assunto il nome di Bonifacio VIII.
A scanso di equivoci, la prima cosa che aveva fatto Bonifacio era stata quella di arrestare e chiudere in carcere Celestino, per evitare che i suoi nemici ne facessero un antipapa. Intanto, gran parte del mondo spirituale e intellettuale, accusava il nuovo papa di simonia, ovvero di aver pagato i cardinali che lo avevano eletto.
Convinto assertore della superiorità del potere spirituale su ogni altro potere, dopo aver riportato ordine a Roma, Bonifacio VIII aveva ingaggiato una lotta con il re di Francia Filippo IV il Bello (che gli sarebbe costato il celebre “schiaffo di Anagni”), guadagnandosi - nel frattempo - un posto all’inferno all’interno della Divina Commedia.
Era stato proprio lui, nel 1300, a “inventare” il Giubileo moderno, grande evento turistico-spirituale, ma soprattutto segno tangibile della superiorità della Chiesa su qualsiasi altro potere. Solo lei può infatti perdonare ogni colpa e aprire la porte del cielo.
A rimarcare questa assoluta autorità, Bonifacio aveva aggiunto allo stemma papale la tiara pontificia con due corone, a rappresentare il potere temporale e quello spirituale.
Ultimo importante atto di Bonifacio, pochi mesi prima dell’umiliazione di Anagni e della morte, è la fondazione dell’Università di Roma, formalizzata con la bolla In Supremae praeminentia Dignitatis promulgata il 20 aprile 1303.
L’Università era allora un’istituzione ancora giovanissima, ma in piena espansione.
Con il decadere dell’impero romano, a lungo gli unici luoghi di insegnamento erano stati gli studia organizzati presso le sedi vescovili urbane per l’apprendimento dei fondamenti della grammatica e della retorica e la formazione teologica.
Presso alcuni di essi, a partire dalla fine del decimo secolo, un numero crescente di docenti e studenti provenienti da ogni parte d’Europa, aveva dato vita a gruppi di studio (studia generalia), inizialmente organizzati in modo spontaneo, sulla base della nazionalità, ma presto strutturatisi in corporazioni di docenti e studenti delle Universitates magistrotrum et scholarium.
La prima a sorgere era stata Bologna nel 1088, alla quale era seguita Oxford nel 1167 e poi Parigi nel 1170. Nel corso del XIII secolo le università si erano andate moltiplicando in Italia, Francia, Inghilterra e nella penisola iberica, dove erano diventate un ponte tra mondo europeo e arabo e, tramite questo, veicolo della riscoperta della cultura greca.
Come tutte le corporazioni di mestieri, le università erano dotate di propri statuti e autonome autorità di governo: assumevano i docenti e organizzavano l’attività didattica in un ciclo introduttivo alle arti liberali (6 anni di frequenza), seguito dagli insegnamenti superiori di Diritto, Medicina (6 anni) e Teologia (8 anni), si preoccupavano di garantire gli alloggi e i locali per la comunità di studenti e maestri e ne curavano gli interessi di fronte all’autorità
Dopo Parigi erano nate le università di Vicenza (1204), Valencia (1208), Cambridge (1209), Arezzo (1215), Padova (1222), Napoli (1224), Vercelli (1228), Tolosa (1229), Angers (1229), Salerno (1231), Salamanca (1242), Piacenza (1248), Siviglia (1254), Reggio Emilia (1276), Montpellier (1289), Lisbona (1290), Lerida (1300) e Avignone (1303).
A Roma, prima della istituzione dello “studio bonifaciano”, gli istituti di istruzione superiore erano esclusivamente rivolti al clero di Roma. Tra questi c’era la Scuola capitolare Lateranense, a indirizzo teologico e giuridico, destinata alla formazione dei quadri direttivi del governo ecclesiastico, la Universitas Romanae Curiae, istituita a Lione da Innocenzo IV intorno al 1245, aperta agli impiegati della curia, e che, senza sede stabile a Roma seguiva la corte papale “ubicumque Romanam Curiam residere contigerit” a causa di eventi religiosi o politici; gli Studi generali in teologia, tenuti dalla seconda metà del secolo XIII dagli Ordini mendicanti erano invece riservati ai frati. Mancava quindi un centro di studi superiori aperto alla cittadinanza romana e destinato a formare la futura classe dirigente.
Bonifacio, che è tra i primi papi ad essersi laureato in un’Università (la prima al mondo, quella di Bologna, appunto) vuole dotare anche la sua città di una struttura simile, capace di offrire una formazione in tutte le discipline e aperta anche ai laici. Laici come lui stesso era stato, dopotutto, fino a 60 anni. Quella di Roma diventa così la prima università ad essere fondata dall’autorità politica e religiosa e non costituita spontaneamente da un’associazione di studenti e insegnanti.
Bonifacio la chiama “Studium Urbis” (nome ancora oggi utilizzato nello stemma) e la colloca fuori dalle mura vaticane, ubicazione che segna l’inizio di un nuovo rapporto tra la città di Roma e gli studiosi che in essa giungono da tutte le parti del mondo.
L’università municipale di Roma comprende tutte le facoltà con una forte presenza degli studi giuridici. Nasce come istituzione laica ma subisce inevitabilmente le ingerenze del papato risentendo, nei suoi primi decenni di vita, del clima turbolento che i moti politici e gli scontri tra le fazioni guelfa e ghibellina provocano a Roma.
Nella seconda metà del Trecento, lo Studium è costretto a ricorrere a docenti non romani di Legge, Medicina, Grammatica e Logica, non compromessi nelle lotte politiche. I finanziamenti iniziali giungono dalla tassazione del vino forestiero, oltre che dalla munificenza di alcuni nobili romani. Quando la sede pontificia sarà spostata ad Avignone, la gestione dell’università sarà affidata al Comune di Roma.
Lo Studium Urbis acquista man mano importanza e prestigio e dal 1363 riceve dalla città di Roma un contributo stabile. La sede di Trastevere non è più sufficiente; così nel 1431 papa Eugenio IV, per dare all’Università una struttura più articolata, affianca al rettore quattro amministratori e provvede all’acquisto di alcuni edifici nel rione Sant’Eustachio, tra piazza Navona e il Pantheon. In quell’area sorgerà duecento anni dopo l’edificio della Sapienza.
Già nella seconda metà del ‘400, invece, il termine “Sapientia” viene usato nei documenti per indicare l’insieme di scuole e collegi riuniti nello Studium Urbis.
Con Niccolò V (1447-1455), papa mecenate e protettore di studiosi e letterati, il ginnasio attraverserà un periodo di rinascimento delle lettere latine e greche, con maestri illustri quali Lorenzo Valla, fondatore della critica filologica, Poggio Bracciolini, il grande letterato greco Crysoloras, il cardinal Bessarione e il poeta Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa con il nome di Pio II.
In un periodo di espansione dell’università, Alessandro VI (1492-1503) ne amplierà la sede e i lavori saranno portati avanti da Pio VIII (1503) e Giulio II (1503-1513).
Nel Cinquecento sarà il figlio di Lorenzo De’ Medici, papa Leone X, a dare un forte impulso all’Università romana, chiamando da tutta Europa studiosi famosi. È a Roma che per la prima volta in Europa vengono introdotte materie come i simplicia medicamenta, base della spagirica, un sistema di cure che a partire dall’energia presente nell’uomo cerca di ristabilirne l’equilibrio turbato dalla malattia. È in quegli anni che lavora nello Studium Urbis Bartolomeo Eustachio, uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Sarà sempre papa Leone X a dare impulso agli insegnamenti storici, umanistici, archeologici e scientifici mentre nel 1592 papa Clemente VIII chiamerà a Roma Andrea Cesalpino che l’anno dopo fornirà la prova della circolazione sanguigna.
Sotto l’impulso di Paolo III Farnese (1534-1549), cultore di astronomia e di matematiche, l’università si aprirà inoltre alle scienze e all’archeologia. La crescita continuerà nel Seicento con l’inaugurazione nel 1660 - sotto Alessandro VII - del Palazzo della Sapienza e della chiesa annessa dedicata a Sant’Ivo, protettore degli avvocati. Sarà lo stesso Alessandro VII a fondare la biblioteca universitaria ancora oggi chiamata “Alessandrina”.
Nel 1870, dopo l’unità d’Italia, l’Università passerà al Regno d’Italia e nel 1935 la sede sarà trasferita nella Città piacentiniana, teatro di alcuni dei momenti più importanti della storia politica, sociale e culturale dell’Italia degli ultimi 60 anni. Qui insegnerà infatti Storia del cristianesimo uno dei più importanti teologi del Novecento: Ernesto Bonaiuti, antifascista e modernista, cacciato dall’università per una singolare convergenza di interessi di fascismo e Vaticano, formalizzata in un apposito articolo nei Patti Lateranensi; ma qui fiorirà negli anni ‘60 anche una delle più importanti cattedre di Storia Medievale, destinata a diventare con Raoul Manselli il più importante centro al mondo di studi francescani; e da qui partirà anche la riscoperta della figura di Celestino V, riabilitato in tutta la sua grandezza dopo secoli di luoghi comuni sulla sua presunta vigliaccheria dovuti a quel “fece per viltade il Gran rifiuto” di Dante Alighieri.
Chissà, se lo avesse saputo, cosa avrebbe detto Bonifacio.
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FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini).
Un linguista democratico
di Luca Serianni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07 gennaio 2017)
Di poche personalità si può dire, come di Tullio De Mauro, che abbiano segnato in modo indelebile la cultura italiana dell’ultimo cinquantennio. E lo si può dire senza timore di incorrere nel rischio di una celebrazione postuma, cedendo alla pur comprensibile retorica della circostanza.
De Mauro è stato prima di tutto un linguista, un grande linguista. L’opera di maggiore risonanza internazionale, una risonanza riconosciuta dalle numerose lauree honoris causa, è forse l’edizione, con un ricco commento, del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1962), il testo che espone, con la chiarezza e l’affabilità di un docente che parla ai suoi studenti, i principi dello strutturalismo: ossia di un indirizzo che ha segnato il Novecento euroamericano, non solo nella linguistica ma anche in diverse altre scienze umane, dalla storia all’antropologia alla critica letteraria.
Ho sempre pensato che lo stile espositivo di Saussure, tutto proiettato sull’interlocutore e alieno dall’autocompiacimento dell’intellettuale, fosse un tratto che accomunasse Saussure e il suo interprete: davvero i grandi, le «persone che vagliono molto - come diceva Leopardi - hanno le maniere semplici».
L’opera che in Italia ha segnato uno spartiacque, tra un prima e un poi, è la Storia linguistica dell’Italia unita (1963). Per la prima volta un tema di stretta pertinenza linguistica, l’evoluzione dell’italiano (anzi: la costruzione di “un” italiano, nel quadro estremamente frammentato e pluridialettale del tempo), viene affrontato con ampio ricorso alla demografia e alla statistica e dunque a scienze che fino a quel momento erano rimaste estranee all’orizzonte del cultore di studi latamente letterari.
Le analisi quantitative dei fatti di lingua rappresentano una cifra caratteristica del suo profilo di studioso: Parole e numeri, come recita il titolo di una bella raccolta di saggi, curata insieme con la sua allieva Isabella Chiari e apparsa nel 2005. Ripubblicando in quello stesso anno due scritti di glottologia apparsi quasi cinquant’anni prima (sui casi greci e il nome del dativo), De Mauro osserva che in quelle pagine compaiono «molte cifre assolute e percentuali, molte tabelle, molti di quei numeri che non piacciono agli studenti delle facoltà umanistiche»; aggiungendo poi, con una punta di ben legittimo orgoglio, che quando quelle pagine erano state pensate «la statistica linguistica o meglio l’interpretazione linguistica dei dati statistici aveva mosso solo i primissimi passi», e solo fuori d’Italia.
De Mauro aveva una straordinaria curiosità intellettuale e la capacità (questa davvero rara) di adeguarsi ai tempi, in primo luogo attraverso il ricorso alle grandi risorse tecnologiche che si sono sviluppate soprattutto nel nostro secolo e che hanno cambiato, anche per gli umanisti, lo stesso modo di immaginare e di concepire una ricerca scientifica, non solo quello di svolgerla.
Di qui la descrizione del lessico di una lingua attraverso l’indicazione delle frequenze d’uso e l’individuazione del vocabolario di base, ossia di quelle parole che ricorrono più spesso in qualsiasi produzione orale e scritta. È uno dei principi che ispira il Grande vocabolario italiano dell’uso (1999) che, con i suoi 250mila lemmi, tutti marcati in base al livello d’uso (a seconda che appartengano al lessico fondamentale, a quello tecnico-specialistico, regionale e così via), è il più ampio repertorio esistente dell’italiano contemporaneo.
Una parte non secondaria delle sue energie intellettuali è stata spesa in direzione della scuola: quella frequentata da bambini e adolescenti, certo, ma anche quella che dovrebbe coinvolgere quegli adulti privi di un’istruzione adeguata e a forte rischio di regressione sia quanto a comprensione delle informazioni contenute in un testo scritto sia, e a maggior ragione, nella capacità di argomentazione, anche elementare: la Literacy e il Problem Solving degli anglosassoni.
Nel 1973 l’impulso di De Mauro è stato decisivo nel promuovere l’attività del GISCEL («Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica») e il suo nome resta legato alle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (1975), vigorosa affermazione di principi civili ancor prima che pedagogici, che ebbe ampie ricadute negli insegnanti del tempo.
Tra queste tesi c’è anche l’idea di dare concreta applicazione all’art. 3 della Costituzione, là dove si parla di uguaglianza dei cittadini “senza distinzione di lingua”, in rifermento sia alle lingue minoritarie (De Mauro fu l’ispiratore di una legge del 1999 che diede concreta tutela alle minoranze linguistiche storiche), sia alla deprivazione linguistica, per carenza di cultura, da parte di italofoni nativi.
Ancora di scuola, un impegno mai dismesso, De Mauro era tornato a occuparsi in seno all’Accademia dei Lincei, come attivo membro del Consiglio scientifico di una Fondazione che si propone di rinnovare la didattica di italiano, matematica e scienze attraverso regolari e capillari incontri con gli insegnanti: una strada dunque, anche per il ponte lanciato tra discipline letterarie e scientifiche, ben demauriana.
L’attività di studioso si è sempre accompagnata in lui a quella di intellettuale attivo, e potremmo proprio dire militante. Presidente della Fondazione Bellonci, legata al premio Strega, il più importante premio letterario per la narrativa italiana, De Mauro ne aveva rinnovato gli indirizzi, cercando di far sì che la lettura diventasse sempre più un’abitudine condivisa.
Ma, per chi abbia avuto con lui una lunga consuetudine come nel caso di chi scrive, è difficile separare la sua statura scientifica e intellettuale dallo spessore umano. Con la sua sorridente ironia e autoironia, in cui sembravano precipitare, in senso chimico, l’origine partenopea (era nato a Torre Annunziata nel 1932) e il lungo soggiorno romano; col rispetto e l’attenzione per l’interlocutore, chiunque fosse. Ed è impossibile non ricordare il suo sguardo, mobile e vivacissimo, quando parlava o ascoltava; e abituarsi per davvero al fatto che non ci sia più.
Commemorazione gremita, presenti Visco, Franceschini e Raggi
di Redazione ANSA *
ROMA Un ultimo, sentito abbraccio nella ’sua’ Sapienza, in una aula 1 di Lettere gremitissima dentro e fuori di rappresentanti delle istituzioni, amici, intellettuali, colleghi e studenti: si è svolta in un misto di commozione e sobrietà questa mattina la commemorazione del grande linguista ed ex ministro della pubblica istruzione Tullio De Mauro, scomparso a Roma il 5 gennaio a 84 anni.
"È stato un grande linguista e intellettuale che ha servito il Paese, un uomo libero e negli ultimi tempi un dinamico presidente del Premio Strega", ha affermato il ministro del Mibact Dario Franceschini, intervenuto alla commemorazione, terminata con un lungo applauso e con i presenti tutti in piedi. A porgere omaggio alla figura dell’illustre professore e a stringersi accanto alla moglie Silvana e ai figli Giovanni e Sabina numerosi membri delle istituzioni tra cui il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, e poi Andrea Riccardi, Walter Veltroni, Piero Fassino, Sabino Cassese, Stefano Rodotà, Luigi Abete.
Negli interventi del rettore Eugenio Gaudio e del professore nonché amico di una vita Alberto Asor Rosa, chiamati a tratteggiare il ricordo di De Mauro, la statura intellettuale e umana del linguista scomparso e soprattutto il suo impegno civile, caratterizzato da un occhio sempre vigile e attento alle dinamiche sociali e culturali del Paese.
Il celebre linguista Tullio è morto a Roma a 84 anni. E’ stato docente universitario, già ministro della Pubblica Istruzione e presidente della Fondazione Bellonci, che organizza il premio Strega.
Nato a Torre Annunziata il 31 marzo 1932, Tullio de Mauro, laureatosi in Lettere classiche, ha insegnato nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Docente di Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma, è stato poi ordinario di Linguistica generale presso la stessa università. Nel 1966 è stato tra i fondatori della Società di linguistica italiana, di cui è stato anche presidente (1969-73). È stato consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell’università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente dell’Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97). Dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato.
Nel 2001 è stato nominato dal Presidente della Repubblica Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Per l’insieme delle sue attività di ricerca, l’accademia nazionale dei Lincei gli ha attribuito nel 2006 il premio della Presidenza della Repubblica. Nel 2008 gli è stato conferito l’Honorary Doctorate dall’Università di Waseda (Tokyo). Autore di un’importante traduzione commentata del Cours de linguistique générale di F. de Saussure (1967), tra le sue opere più importanti vanno citati la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) e Il grande dizionario italiano dell’uso.
E ancora - come ricorda la Treccani sul suo sito - Guida all’uso delle parole, Minisemantica dei linguaggi non-verbali e delle lingue, Ai margini del linguaggio, Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Capire le parole, Idee per il governo: la scuola, Linguistica elementare, successivamente ha pubblicato Prima lezione sul linguaggio, La fabbrica delle parole, Parole di giorni lontani, Lezioni di linguistica teorica, In principio c’era la parola?, Parole di giorni un po’ meno lontani, La lingua batte dove il dente duole (con Camilleri) e In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? (2014). Ha anche curato il DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente (1997), il Dizionario della lingua italiana (2000), il Dizionario etimologico (con M. Mancini, 2000) e il Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana (con M. Mancini, 2001). Intensa anche la sua attività pubblicistica: ha collaborato, tra l’altro, con Il Mondo (1956-64) e L’Espresso (1981-90).
Gentiloni, maestro appassionato di lingua italiana - "Ricordo Tullio De Mauro maestro appassionato per quanti amano la scuola, la ricerca e la lingua italiana". Lo scrive su Twitter il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dopo aver appreso la notizia della scomparsa di De Mauro.
Franceschini, ha trasmesso il sapere con passione - "La scomparsa di Tullio De Mauro priva il Paese di un insigne linguista, un uomo di profonda cultura capace di trasmettere con passione sapere e conoscenza, una vivace intelligenza che ho avuto modo di apprezzare negli anni di comune lavoro con il Premio Strega della Fondazione Bellonci". E’ il commento del ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini.
La #fotoSapienza del giorno *
Il nuovo logo della Sapienza compie 10 anni. Il 27 novembre 2006 veniva presentato il nuovo sistema di identità visiva della Sapienza che ha declinato al futuro la storia prestigiosa dell’Ateneo più grande d’Europa, reinterpretando in chiave contemporanea il cherubino, simbolo di pienezza del sapere.
Il cherubino rinnovato è stato in questi 10 anni veicolo di una comunicazione sempre più trasparente e diretta con i nostri pubblici di riferimento: con i nostri studenti, con le istituzioni, con il mondo delle imprese. In questo senso, «Il futuro è passato qui» non è solo un claim che accompagna la comunicazione, ma la sintesi concettuale di un nuovo racconto, di un’idea nuova di Università, la testimonianza visibile del dialogo profondo tra memoria e futuro
(foto da Instagram.com/SapienzaRoma)
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https://www.facebook.com/SapienzaRoma/posts/1243028755757179:0
Università: Cantone, subissati da segnalazioni, collegamento fuga cervelli-corruzione
’Soprattutto sui concorsi. Riforma Gelmini ha creato problemi’ ha spiegato il responsabile dell’Autorità nazionale anticorruzione
di Redazione ANSA *
"C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione". Lo ha sottolineato il responsabile dell’Anac Raffaele Cantone oggi a Firenze, intervenendo al convegno nazionale dei responsabili amministrativi delle università. Cantone lo ha detto dopo aver riferito che l’’Anac è "subissata" di segnalazioni di presunti casi di corruzione negli atenei italiani.
"Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, spesso soprattutto segnalazioni sui concorsi" ha spiegato il responsabile dell’Anac. "Non voglio entrare nel merito, non ho la struttura né la
competenza - ha aggiunto - ma la riforma Gelmini secondo me ha finito per creare più problemi di quanti ne abbia risolti. Per esempio, ha istituzionalizzato il sospetto: l’idea che non ci possano essere rapporti di parentela all’interno dello stesso dipartimento, il che ha portato a situazioni paradossali".
"In una università del Sud è stato istituzionalizzato uno ’scambio’: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Credo che questo sia uno scandalo e che lo sia il fatto che si sia stati costretti a fare questa operazione; se tutto avvenisse in trasparenza, la legge che nasce dalla logica del sospetto è una legge sbagliata".
Faremo linee guida per garantire la discrezionalità - Sull’università "proveremo a fare linee guida ad hoc, che non vogliono burocratizzare ma provare a consentire l’esercizio della discrezionalità in una logica in cui la discrezionalità però non diventi arbitrio, in cui discrezionalità significhi dare conto ai cittadini, non solo gli studenti ma tutti i cittadini perché l’università è il nostro futuro" ha spiegato Cantone.
"L’università - ha aggiunto - dovrebbe essere l’esempio, per rilanciare il nostro Paese. Le classifiche internazionali, purtroppo, in questo senso, e se non ci premiano una delle cause sta anche in una serie di vischiosità del sistema universitario. Non concordo che le università italiane sono baracconi burocratici; ma all’estero tutti credono che lo siano, e sappiamo bene quanto conti non solo il fatto di essere ma anche di apparire. E questo apparire costituisce un danno enorme per il nostro Paese".
GOLIARDA SAPIENZA (1924-1996) *
Il 30 agosto 1996 moriva Goliarda Sapienza, scrittrice, attrice, sceneggiatrice, artista siciliana vissuta a Roma.
Figlia della sindacalista Maria Giudice (la prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino), Goliarda cresce a contatto dell’ambiente anarchico siciliano, in un clima di assoluta libertà da vincoli sociali, tra gli insegnamenti della madre, che era stata la prima a incitare le donne nelle piazze a lottare per i propri diritti. Il padre ritenne opportuno non farle nemmeno frequentare la scuola, per evitare che la figlia fosse soggetta a imposizioni e influenze fasciste.
“Il bambino è il primo operaio sfruttato, dipende dai grandi e sempre per un tozzo di pane, si abbassa a “divertire”, leccare le mani dei padroni, si lascia accarezzare anche quando non ne ha voglia”.
In mezzo agli imprevisti di una vita spesso in povertà, verrà segnata anche dall’esperienza del carcere che ispirerà “L’Università di Rebibbia”.
Le dinamiche di potere, i rapporti fra le persone e quelli con le istituzioni, il confronto con sé stessi, esasperato e reso drammatico dalla solitudine. Ha attraversato quei corridoi bui, lunghi, angusti lontanissimi dal mondo e che però lo rappresentano in pieno... Il paradosso di una società che pretende di rieducare alla vita civile attraverso la detenzione.
“Desideriamo spesso il silenzio, ma quello della vita è sempre sonoro, anche in campagna, al mare, anche nel chiuso della nostra stanza. Qui dove mi trovo il non rumore è stato ideato per terrorizzare la mente che si sente ricoprire di sabbia come in un sepolcro”.
Molti suoi lavori, tra cui il suo romanzo più celebre, “L’arte della gioia” furono pubblicati postumi dove ebbero successo dapprima in Francia e poi in Italia.
E’ stata una perdita importante per il Movimento Femminista degli anni ’60, ’70 e ’80 non poter leggere queste opere riscoperte solo dopo la sua morte che trasudano un femminismo così poco dogmatico, e meravigliosamente sui generis. Resta il compito a noi, che quei libri li abbiamo potuti leggere, farne pratica femminista quotidiana.
“Allora il dolore, l’umiliazione, la paura non erano, come dicevano, una fonte di purificazione e beatitudine. Avevo quella parola per combattere. E col mio esercizio di salute, nella cappella col rosario fra le dita ripetevo: io odio. Questa fu da quel giorno la mia nuova preghiera. E pregando studiai. Cercai nei libri il significato di quella parola”.
“Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali... e poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione.
Imparai a leggere i libri in un altro modo. Man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel “mio” contesto. In quel primo tentativo di individuare la bugia nascosta dietro parole anche per me suggestive, mi accorsi di quante di esse e quindi di quanti falsi concetti ero stata vittima”.
* FONTE: DINAMOpress, 30.08.2016.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SAPIENZA È IL PRIMO ATENEO IN ITALIA PER IL RANKING ARWU 2016 *
È stata pubblicata il 15 agosto 2016 dalla Jiao Tong University di Shanghai la classifica internazionale che prende in esame le 500 università migliori nel mondo.
Nell’Academic Ranking of World Universities 2016 (Arwu) la Sapienza conferma il primato dello scorso anno, collocandosi in testa agli atenei italiani alla 163esima posizione con un punteggio totale di 19.23, unica università italiana nel range 151-200 insieme all’Università di Padova che totalizza un ounteggio di 18.19 alla 183esima posizione. Seguono nel range 201-300 le università di Pisa,Torino, Bologna, Politecinico di Milano, Statale di Milano e Firenze, in ordine di punteggio totale.
Gli indicatori presi in esame dall’Arwu sono rigorosi e comprendono premi Nobel e riconoscimenti accademici ricevuti, qualità della ricerca (paper pubblicati e ricercatori più citati) e le performance rispetto al numero degli iscritti.
In particolare sono 6 i parametri su cui si basa la classifica: premi internazionali di ex studenti (10%) o di ricercatori della singola Università (20%), le citazioni di pubblicazioni scientifiche in Thomson-Reuters (20%), le pubblicazioni “Nature & science” (20%), le pubblicazioni tecnologico-sociali (20%). Questi parametri sono poi correlati con lo staff accademico, dando un ulteriore parametro di produttività pro-capite (10%).
Per le prime 100 università della classifica di Shanghai sono esplicitati la posizione e il punteggio secondo i parametri utilizzati. Le altre 400 sono suddivise in gruppi da 50 o 100, mentre punteggio e posizione possono essere calcolati sulla base dei parametri.
“La Sapienza conferma e consolida il suo prestigio di grande ateneo europeo, di respiro mondiale, collocandosi al primo posto tra le università italiane e tra le prime a livello europeo ed internazionale - commenta il rettore Eugenio Gaudio. A ben guardare - prosegue Gaudio - il risultato è tutto sommato abbastanza positivo anche per il sistema universitario italiano che, anche se non è rappresentato nelle prime 100 posizioni monopolizzate dalle ricche università anglosassoni, vede circa un 1/3 degli atenei del Paese (19 su 60) nelle prime 500 posizioni su 1200 università censite e su 17.000 stimate nel mondo. -Questo significa che il rendimento delle nostre università pubbliche è mediamente elevato, a fronte di un cronico e drammatico sottofinanziamento da parte dello Stato, che vi destina lo 0,42% del Pil (Francia e Germania vi destinano più del doppio) e il basso numero di addetti alla ricerca, oggi meno della metà di quello degli altri Paesi occidentali. In questo quadro emerge l’ottima performance della Sapienza legata alle eccellenze dell’attività di ricerca, alla ricchezza multidisciplinare del nostro ateneo e alla sua secolare tradizione culturale e formativa.
Con un maggior investimento del Paese nella ricerca e sui nostri giovani migliori - conclude Gaudio - il sistema potrebbe decollare ed essere il volano della ripresa e dello sviluppo del Paese, altrimenti è destinato a un lento ma inesorabile declino".
*Fonte: Sapienza Università di Roma
UN GIARDINO PER IPAZIA: MEGLIO TARDI CHE MAI *
Finanlamente dopo secoli di oblio, una piazza, o meglio un giardino, verrà dedicato a Ipàzia (Alessandria d’Egitto, 415) che considerata la prima matematica, astronoma e filosofa della greca antica. La sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto composta di monaci detti parabolani guidati dal Vescovo Cirillo di Alessandra, peraltro poi fatto Santo, che non vedevano di buon occhio una donna dedicarsi a materie allora ritenute prettamente "maschili".
Il Comitato “Una Piazza per Ipazia”, costituitosi a seguito della raccolta firme lanciata dalla sezione ANPI Trullo-Magliana nel dicembre 2014, e promotore della richiesta di intitolazione di una Piazza o Giardino alla filosofa neoplatonica e filomate Ipazia d’Alessandria comunica che è stata finalmente apposta dalla toponomastica di Roma Capitale la targa, in zona Tor Sapienza, che intitola un giardino ad “Ipazia d’Alessandria”.
"Abbiamo più volte sottolineato - spiega il comitato - come Ipazia sia di grande attualità per i significati che veicola la sua singolare esistenza: vittima del fondamentalismo religioso ma anche esempio di donna integerrima, studiosa, scienziata, divulgatrice di conoscenza".
"È per noi significativa in quanto simbolo di una resistenza morale e non violenta all’ordine dominante al quale rispose con il rifiuto di sottomettersi docilmente alla costrizione. Tale rifiuto legandosi all’impegno positivo di difendere valori fondamentali quali l’uguaglianza e la libertà assume la veste dell’affermazione. Da uno degli allievi di Ipazia, Sinesio di Cirene, si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto utilizzava la sperimentazione pratica, Fermat la definì ’la meraviglia del suo secolo’."
"Ci auguriamo - conclude il comitato - che il riconoscimento attribuitole con la dedica di un giardino nella nostra città possa essere uno stimolo per restituirle la visibilità che merita per, parafrasando Sinesio, “tenere desti i semi di sapienza da lei ricevuti”.
Per celebrare l’intitolazione il comitato si farà promotore della cerimonia che si terrà nel Giardino Ipazia d’Alessiandria, in data da definire".
* Comitato “Una Piazza per Ipazia” (ANPI Trullo - Magliana Sez. “F.Bartolini”; Ipazia ImmaginePensiero onlus;Donne di Carta; Associazione Filomati-Philomates Associaton; Associazione Toponomastica Femminile; G.A.MA. DI; UDI Monteverde; Circolo UAAR Roma , Civiltà Laica Roma, Adriano Petta.)
* Fonte: Gravità-Zero, domenica 7 agosto 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Letteratura
Ipazia, maestra del dubbio
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 05.08.2016)
L’età cruciale per diventare dogmatici e intolleranti oppure, al contrario, persone aperte, amanti del dialogo e della pluralità dei punti di vista è l’adolescenza. Una serie infinita di studi sullo sviluppo del cervello umano lo dimostra.
La regista e scrittrice Roberta Torre però, con il suo libro dedicato a Ipazia e la musica dei pianeti - edito da rueBallu nella collana Jeunesse ottopiù, cioè per bambini di più di otto anni, vincitrice del Premio Andersen 2016 come miglior progetto editoriale - ci ricorda implicitamente quanto sia bene cominciare presto a preparare il nostro cervello all’apertura mentale e al pensiero critico. E che cosa c’è di meglio di una scienziata di epoca alessandrina, che sembra anticipare l’approccio fallibilista di Karl Popper, per raccontare una bella storia, attualissima in tempi di Isis, in cui i cattivi sono i fondamentalisti e i buoni sono coloro che socraticamente sanno di non sapere? Solo loro potranno elevare il dubbio a metodo rigoroso, individuando l’unica via percorribile per arrivare alla conoscenza.
Ipazia è stata una martire. Non una martire cistiana, però, bensì una martire uccisa dai cristiani. «A uccidermi - dice in questo racconto, splendidamente illustrato da Pia Valentinis - sono state le persone. Parabolani li chiamavano, dei monaci del deserto, guerrieri, pronti a uccidere per Dio, o meglio per quello che altri uomini più furbi indicavano loro circa il volere di Dio. Che una donna non fosse degna, di insegnare, di parlare, di pensare».
E Ipazia, proprio come Socrate, amava insegnare ovunque le capitasse: «Per strada, alle persone qualsiasi, a chiunque incontrassi e volesse sapere qualcosa sui filosofi del passato, sulle loro idee. Indossavo il mio mantello e uscivo per le vie di Alessandria. Ecco quello che mi manca della vita...». Sì perché il racconto è ambientato in una specie di oltretomba spaziale. Camilla, un’astronauta che ha appena compiuto vent’anni, atterra su un asteroide per fare una serie di rilevazioni da mandare alla base. In realtà non ha pensieri scientifici, come i buchi neri o i limiti della galassia, ma passa il suo tempo ad ascoltare musica rock con gli auricolari. È lì che Ipazia ora passa i suoi giorni. Ne nasce un dialogo, costellato dalle vicende che la videro protagonista nell’Alessandria del quarto secolo dopo Cristo.
Ipazia è una delle poche donne filosofo della storia occidentale, e a quei tempi essere filosofi significava occuparsi anche e soprattutto di astronomia, di matematica, geometria, di tutte le arti liberali. Perfezionò l’astrolabio di Ipparco e insegnò alla scuola della Biblioteca di Alessandria, prima che questa subisse l’ennesima distruzione da parte dei cristiani in lotta contro i seguaci di Serapide, motivati dalla politica loro favorevole dell’imperatore cristiano Teodosio.
Ipazia è divenuta celebre per avere criticato il sistema tolemaico e difeso l’eliocentrismo di Aristarco, se è vero ciò che scrive il suo allievo prediletto, Sinesio. L’opera di Tolomeo non era da considerarsi, agli occhi degli studiosi di Alessandria, definitiva e inattaccabile, ma popperianamente falsificabile.
La filosofia neoplatonica di cui la maestra Ipazia nutriva i suoi discepoli - un neoplatonismo che prendeva le distanze dagli eccessi teologici delle scuole orientali ed era invece improntato più al modello ateniese - li educava al rispetto della pluralità delle ipotesi e alla ricerca della verità.
Ipazia fu massacrata in modo barbaro e violento. Furono i cristiani a ucciderla. Forse perché i suoi insegnamenti astronomici erano visti con sospetto. Forse perché era una donna. Forse perché era “laica”, libera, in un’età di lotte atroci tra fondamentalismi religiosi.
Alla fine forse proprio questo è ciò che Roberta Torre vuole trasmettere ai bambini dagli otto anni in su - almeno fino ai venti di Camilla, che pur appartenendo a una missione scientifica non sembra essere una campionessa di pensiero critico: - la laicità come elemento essenziale delle persone libere, amanti della conoscenza e della civiltà. La musica dei pianeti può legare la neoplatonica Ipazia alla musica dell’iPod di Camilla ma solo se anche lei, come già Sinesio, saprà abbeverarsi alla scuola del dubbio.
«Forse tutta questa rabbia che hanno nell’affermare il loro credo - dice Ipazia - è un modo per non pensare ai dubbi, che pure devono esserci. Come si fa a non avere dubbi?, dicevo a Sinesio, e lo ripeto anche a te, astronauta. Che cosa bella sono i dubbi, sono degli amici che sembrano nemici, ma in verità ti dico che il nostro compito come studenti è quello di diventare amici dei dubbi».
Più sanità solo per chi paga
Salute. Per il Censis 11 milioni di persone hanno rinunciato alle cure per mancanza di soldi. Fuga (programmata dall’alto) dal pubblico.La povertà colpisce la salute di giovani e anziani
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 09.06.2016)
Il programma è in piena esecuzione. Avevano pensato di liquidare la sanità pubblica, ci stanno riuscendo. Ma con un’attenta e programmata senescenza delle strutture e radicamento del precariato, moltiplicazione di liste d’attesa incompatibili con i tempi dei controlli e delle malattie, lasciando come unica soluzione il ricorso alla sanità e alle polizze private. Welfare pubblico, addio. C’è la crisi, e sei senza reddito? Non ti curi, non controlli, crepi. È la vita, dicono. Ma la vita, secondo i canoni di un welfare, non è questa. E non dovrebbe esserlo.
Undici milioni di persone hanno dovuto rinunciare alle cure nel 2016. Secondo la ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute, presentata ieri a Roma in occasione del sesto «Welfare Day», questo è l’esito della legge istituita dal darwinismo sociale: più cure, ma solo per chi può pagarsele. La tendenza è chiara: dal 2012 ci sono due milioni di persone in più ad essere rimaste incastrate nel dispositivo che governa la vita al tempo dell’austerità. Sono anziani, e si capisce: 2,4 milioni di persone.
Ma gli effetti della povertà si fanno sentire anche su 2,2 milioni di «millennials». Con questa espressione pescata nell’arsenale delle parole-feticcio mainstream si intendono i giovani sottoforma di categoria merceologica. Dagli Usa alla Francia, ad esempio, i «millennials» vengono definiti «Generazione Y», ma anche «Generation Next» o «Net Generation». Si parla anche di «Echo boomers» per differenziarli dai «Baby boomers», i nati nel secondo DopoGuerra, la generazione che ha visto nascere il sistema sanitario nazionale, istituito in Italia con la legge del 1978. In generale, la legge del chi paga si cura (meglio) si applica anche ai nati tra la fine degli anni Ottanta e l’11 settembre. Questo è il dato sconvolgente, per cui ancora non esiste una cultura che sappia spiegare il perché: questi giovani non potranno curarsi.
Non potranno farlo perché, dice la ricerca, manca il reddito per pagare i ticket aumentati: il 45,4% (+5,6% in più dal 2013) ha pagato tariffe nel privato uguali o di poco superiori al pubblico. Sono 7,1 milioni gli italiani che nell’ultimo anno hanno fatto ricorso all’intramoenia: il 66,4% per evitare le lunghe file d’attesa. E si capisce: se devi fare un’ecografia per capire se hai un tumore, logica vuole che tu lo voglia sapere subito. Non tra un anno. Il 30,2% del campione sostiene di essersi rivolto alla sanità a pagamento. Resta da capire cosa fa chi non può permetterselo. Si indebita? Probabilmente.
Sulle liste d’attesa il rapporto formula una specie di teoria: tanto più lunghe sono, tanto più è favorita la sanità a pagamento. Non solo: si arriva a formulare la teoria collegata: tanti più italiani sottoscriveranno una polizza sanitaria o aderiranno a un fondo sanitario integrativo, tanto più la sanità pubblica libererà risorse pari a 15 miliardi di euro per acquistare prestazioni per i non abbienti. La singolare teoria è emersa nel corso della presentazione del rapporto: si sostiene che il mercato delle assicurazioni private sanitarie, come quello della previdenza privata, vada alimentato. E valutazioni o prospettive di questo tipo lo fanno.
Ammesso che queste cifre siano vere, c’è un problema: uno stato che taglia la spesa sanitaria, come l’Italia dal 2009, considererà i 15 miliardi in ballo come «risparmi». E li taglierà. È il circolo vizioso dell’austerità in cui sono piombati anche gli enti locali. Senza contare che i «fortunati» che hanno redditi tali da potere rivolgersi alla sanità privata sono anche quelli - ceto medio, mettiamo - che sono colpiti dalla crisi.
Il neoliberismo scommette sulla rendita delle famiglie: serve a sostenere la precarietà dei figli e la sanità dei genitori e dei nonni. Scommessa azzardata, evidentemente: si ragiona, infatti, sul capitale finanziario e sulla sua leggendaria capacità di produrre denaro dal denaro. Questo sarebbe valido anche per le famiglie con i risparmi in banca. Ma i rendimenti dicono tutt’altro. Il governo Renzi pensa di sostenere il ceto medio e il lavoro dipendente con gli 80 euro di bonus Irpef. Il rapporto dimostra che gli 80 euro servono a pagare la sanità privata: dal 2013 al 2015 si è passati da 485 a 569 euro procapite, la spesa privata è a 34,5 miliardi di euro, +3,2%: il doppio dell’aumento della spesa per i consumi delle famiglie. In pochi numeri, ecco dimostrata la fallacia del teorema renziano. «È chiaro che l’Ssn deve fare i conti con la grave crisi economica che le famiglie stanno vivendo. Dev’essere chiaro che non si fanno le nozze con i fichi secchi» ha detto, crudamente, la ministra della Sanità Lorenzin che difende il micro aumento del fondo sanitario nazionale e il micro-sblocco del turn-over del personale. Solo che la crisi è stata prodotta anche dai tagli alla sanità che il suo governo non ha rifinanziato. «I tagli inducono a non curarsi» sostiene Susanna Camusso (Cgil). Per Costantino Troise (Anaao) la rinuncia alle cure è la conseguenza delle scelte anche di questo governo.
Eugenio Gaudio, Rettore della Sapienza di Roma
“Colmare la distanza tra sapere e saper fare”
di Corrado Zunino (la Repubblica, 23.05.2016
Eugenio Gaudio, 60 anni, da ottobre 2014 è rettore dell’università La Sapienza di Roma, la più grande del Paese. Medico chirurgo, nel programma elettorale aveva, in gerarchia alta, il rapporto tra università e lavoro.
Rettore, ci spieghi in che modo l’offerta formativa della Sapienza sta rispondendo ai cambiamenti nel mondo del lavoro.
«Innanzitutto, stiamo aumentando l’offerta a livello internazionale e introducendo concorsi tenuti completamente in inglese per spingere i nostri all’estero e dall’estero attrarre. Poi, abbiamo istituito nuove lauree, direttamente ispirate dal mondo del lavoro. Un corso in inglese su fashion- moda, per esempio, pieno di storia, geografia, cultura del Paese, peculiarità artistiche. Si parte a settembre. Oggi un manager solo economico e giuridico è superato, dobbiamo formarli con competenze umanistiche, psicologiche, filosofiche. Più contaminati e adeguati al capitale umano che devono gestire».
Quali le novità nell’area medica?
«È stata la prima ad adeguarsi e oggi offre i risultati migliori. Due i pilastri: il numero programmato, non chiuso. Programmato in maniera democratica. Consente di studiare e non solo di iscriversi. E poi tutte le lauree di area medica sono professionalizzanti: clinici, tecnici di laboratorio, infermieri. Una novità è stata la riforma delle scuole di specializzazione, prima ancora l’esame unico nazionale. E 60 crediti assegnati per la pratica medica provano a chiudere quella distanza tra sapere e saper fare che è un limite dei nostri laureati. Presto arriveremo all’Esame di Stato consegnato insieme alla laurea e i nostri universitari non butteranno via un anno».
La formazione medica ha una lunga scia di concorsi fasulli, un rapporto non aperto tra insegnante e docente.
“La cultura del “mi metto dietro al professore e attendo” ha prodotto pessime cose, ma è frutto delle aperture senza investimenti degli anni Sessanta. Nel 1950 in Italia, a Medicina, c’erano 400 iscritti l’anno, dal 1969 sono diventati 4.500. E l’intaso di studenti senza sbocchi lavorativi ha creato le file, le lauree senza frequentare, il rapporto ottriato professore-discente. L’esame di specializzazione nazionale ha rotto un legame di scuola che è positivo, ma ha visto troppi abusi. E così l’introduzione di soglie minime nei concorsi. C’è ancora strada da fare».
Scuola
L’università verso lo sciopero generale
La misura è colma. L’iniziativa di protesta e proposta alla Federico II prima tappa di una mobilitazione ampia. Boicottaggi, convegni in tutti gli atenei, sit-in a Roma, nulla resterà intentato per impedire la morte della ricerca.
di Adriana Pollice (il manifesto, 12.02.2016)
NAPOLI. «Le classi dirigenti italiane vogliono liquidare l’Università di massa e tornare a una configurazione classista degli studi superiori. Il mondo universitario deve languire poiché a selezionare le poche élite necessarie alla continuità del processo economico basteranno pochi centri di eccellenza, perlopiù privati»: la rete Per il diritto allo studio e alla ricerca sintetizza così l’effetto delle riforme, contro cui negli atenei cominciano focolai di resistenza. Ieri a Napoli si è tenuta una tavola rotonda per proseguire un percorso di lotta che potrebbe portare a uno sciopero generale: l’intera comunità universitaria dovrebbe scendere in piazza, a partire dagli studenti e dai precari fino agli strutturati e al personale tecnico.
Intanto bisogna fare i conti con due date. Il 29 febbraio i docenti dovranno immettere i dati per consentite la Vqr - Valutazione della qualità della ricerca da parte dell’Anvur - Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario. La Vqr è uno dei parametri in base ai quali verranno redistribuiti i finanziamenti, uno strumento arbitrario come ha dimostrato il professor Giuseppe De Nicolao dell’Università di Pavia, presente ieri alla tavola rotonda.
Una parte dei docenti sta organizzando il boicottaggio, rifiutandosi cioè di immettere i dati nel sistema. Melina Cappelli, ricercatrice di Statistica alla Federico II, ha raccolto 423 firme contro quella che definisce un’arma contro l’università.
Su iniziativa dei rettori della Crui, il 21 marzo in tutti gli atenei, statali e non, si terranno incontri pubblici «per riaffermare il ruolo strategico della ricerca e dell’alta formazione per il futuro del paese». «L’Italia ha il costo del lavoro intellettuale tra i più bassi d’Europa - commenta Gaetano Manfredi, rettore della Federico II e presidente Crui - La politica deve scegliere, se vuole meno università e ricerca deve dirlo in modo esplicito. Con queste regole e questi numeri, dell’università resterà ben poco».
Il boicottaggio della Vqr per adesso sembra coinvolgere circa il 20% dei professori: «A Palermo siamo intorno al 60/70%, a Bologna intorno al 5%. Già la distribuzione geografica rende l’idea di come l’attuale organizzazione strozzi gli atenei meridionali, rendendoli più reattivi alla protesta - spiega Alessandro Arienzo, tra gli organizzatori della tavola rotonda - Stiamo lavorando a una mobilitazione che metta al centro l’intera struttura dell’università e, quindi, del sistema paese. Organizzeremo una giornata nazionale di mobilitazione che preceda quella della Crui. Al 21 marzo vogliamo arrivare con una Carta dell’università e della ricerca. A partire dagli studenti: è il segmento che è stato colpito per primo ma quando hanno chiesto ai docenti sostegno alle loro lotte sono stati ignorati».
Propone una giornata di mobilitazione a Roma il 17 marzo davanti la sede dell’Anvur la Rete dei ricercatori non strutturati: «Il ministero si nasconde dietro un’agenzia asettica, allora andiamo a protestare a quel portone. L’università è stata silente per sei anni, si è svegliata solo ora che sono stati toccati scatti e stipendi ma i precari della ricerca non hanno gli scatti né avranno la pensione. La Vqr è ingegneria sociale che mira a giustificare le diseguaglianze».
I precari della ricerca (circa 60mila) non sono considerati lavoratori ma persone in formazione, non hanno diritto alla disoccupazione e, tra un assegno di ricerca e l’altro, svolgono in media 14mila ore di lezione, partecipano a 4mila commissioni di esame, seguono 3mila tesi.
A rischio è l’intero sistema universitario.
Il rapporto 2015 «Nuovi Divari» della fondazione Res, curato da Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari, fotografa il disastro perpetrato da centrodestra e centrosinistra: dal 2008 si sono persi oltre 10mila tra docenti e ricercatori, tagli superiori al 13% quando la media nel settore pubblico è stata del 5%.
L’Italia è ultima dei paesi Ocse per i fondi destinati all’Università e alla ricerca con l’1% del Pil. Le tasse d’iscrizione sono cresciute negli ultimi sette anni del 51% (il più elevato incremento a livello mondiale) ma solo il 7% degli studenti riceve una borsa di studio (sul 40% di idonei) a fronte del 27% in Francia e del 30% in Germania.
Le risorse, insufficienti, sono distribuite sulla base di due parametri: il costo standard necessario alla formazione di ciascuno studente e la Vqr. Il risultato è che, dal 2010 a oggi, le risorse sono state drenate dal Sud al Nord. Gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%), la metà del calo è al Sud. «Tutto ciò - ha spiegato ieri Viesti - rende l’università meridionale molto più piccola, ma non per questo migliore».
Copia ma non perde il concorso
Il caso del prof ordinario Dario Tomasello, figlio del potentissimo ex rettore.
Nei suoi saggi brani identici a quelli del suo maestro
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 01.02.2016)
Aguzzate la vista», invita la Settimana Enigmistica su vignette identiche dove occorre scoprire dettagli diversi. Qui non occorre manco aguzzarla. Per andare in cattedra un docente messinese ha portato al concorso per l’abilitazione in Letteratura italiana contemporanea testi qua e là platealmente copiati di sana pianta. Fin qui, capita. Non è la prima volta, difficile sia l’ultima. Molto più grave è risposta del ministero. Dove si spiega che la commissione, messa davanti alle prove del plagio, ha deciso di non «modificare il giudizio». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto...
I protagonisti della storia sono due. Di qua Dario Tomasello, dal 2006 «associato» di letteratura italiana contemporanea all’Università di Messina dove il padre Francesco era allora il potentissimo rettore, destinato a rimanere in carica tra mille polemiche fino al 2013. Di là Giuseppe Fontanelli, lui pure associato nello stesso Ateneo. Punti in comune: l’essere stati entrambi allievi di Giuseppe Amoroso, storico luminare della materia. Destini diversi: al concorsone del 2013 il giovane Tomasello passa, il più anziano Fontanelli no.
«Possibile?», mastica amaro il bocciato. Non si dà pace. Finché, come racconterà alla rivista «centonove», viene «colto da una folgorazione, una chiaroveggenza del caso, uno strappo nel cielo di carta». In pratica, spiega oggi, «ho riconosciuto qua e là nei lavori del Tomasello non solo i pensieri ma le parole stesse di Amoroso e sono andato a controllare: c’erano pagine e pagine non ispirate ma riprese da questo o quel libro con il “copia incolla”. Senza virgolette e citazione dei testi originali».
Un esempio? Primo testo: «La vitalità di osservatore accanito del ciclo della natura spinge Pascoli a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie...». Secondo testo: «La vitalità di osservatore accanito dell’esistenza spinge Quasimodo a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie...»
Uguali. Virgola per virgola, tranne due parole (di qua «ciclo della natura», di là «esistenza») ma soprattutto il poeta di cui si parla. Nel primo caso Pascoli nel libro La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli prosatore di Tomasello, nel secondo Quasimodo nel lavoro di Amoroso nel libro collettivo Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre a cura di Finzi.
Cocciutamente deciso a smascherare il plagio, Fontanelli dice di avere per cinque mesi «letto tutto, confrontato tutto, scoperto tutto. O almeno quasi tutto». Messe insieme delle cartelle, mostra pagine e pagine a confronto. Saggio sul futurismo (Bisogno furioso di liberare le parole) di Tomasello: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Saggio sulla narrativa italiana (Forse un assedio) di Amoroso: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Ancora Tomasello: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto i testi nella misura di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Amoroso: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto le pagine sulla regola di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo».
Ancora Tomasello in L’isola oscena: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». Amoroso in Raccontare l’assenza: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». E potremmo andare avanti...
«Ho una produzione sterminata e, confesso, non mi ero proprio accorto del presunto “saccheggio”», disse dopo la denuncia Amoroso, «Ad aprirmi gli occhi è stato Fontanelli». Di più: «Non sono Proust, non pretendo che venissero riconosciuti la mia mano, il mio tratto. Questo mai. Non mi permetterei. Ma...». «Ho sempre agito con correttezza e professionalità», rispose Tomasello, minacciando sventagliate di querele.
Fatto sta che, davanti allo scandalo, la «chiamata» dell’accusato come ordinario a Messina fu sospesa e il nuovo rettore Pietro Navarra girò i documenti al Ministero e alla procura di Milano, competente perché lì si era riunita la commissione. Mesi e mesi di attesa, dubbi, polemiche e infine, giorni fa, al rettore messinese è arrivata una lettera del direttore generale del Miur Daniele Livon. La frase che conta è questa: «Visionata la documentazione» la commissione (che lodava il vincitore anche per i «contributi originali») ritiene di «non dover modificare il giudizio di abilitazione già reso nei riguardi del prof. Tomasello». Proprio educativo, per insegnare agli studenti a non copiare...
FISICA E METAFISICA. "La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere" (Giovanni Amelino-Camelia).
Il 2 dicembre del 1915 veniva pubblicata la versione definitiva della teoria della relatività.
Intervista con Giovanni Amelino-Camelia, fisico dell’università La Sapienza. «Di Einstein ce ne sono almeno tre: c’è il divo che fa le smorfie sulle magliette, il giovane che compie scoperte straordinarie e quello della maturità, che dà contributi trascurabili e perde la bussola»
intervista di Andrea Capocci (il manifesto, 27.11.2015)
Cento anni fa, Albert Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva» della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima, Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e per l’immagine della scienza veicolata dai media.
Solo qualche anno fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. T ra loro anche un italiano: Giovanni Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie.
«Prima però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno solo: ce ne sono almeno tre». In che senso, professore?
C’è il divo, quello che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel 1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona dotata di un valore economico.
E gli altri?
C’è l’Einstein giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci per un uomo solo. Infine, c’è l’Einste della maturità che, dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola, attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico importante, a cavallo della seconda guerra mondiale.
A lei quale Einstein interessa di più?
Quando me lo chiedono, a me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein.
È lo scienziato delle grandi intuizioni...
Anche il suo intuito certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella». Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la meccanica quantistica.
A lei cos’altro hanno insegnato?
Ad esempio, che anche senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi, se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i costituenti più piccoli della materia.
Oggi però i microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli acceleratori di particelle...
Ma persino al Cern non arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese. Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona, deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste particelle.
E dove troviamo queste particelle?
Per esempio, c’è un esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio». In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e meccanica quantistica.
Questa è la strada verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.
PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo"):
I «QUADERNI NERI» DI HEIDEGGER 1931-1948
ROMA, 23-25 NOVEMBRE 2015
I "Quaderni neri" non sono stati una pietra tombale sul pensiero di Heidegger. Al contrario, è avvenuto un fenomeno inconsueto, che va ben al di là dell’interesse suscitato solitamente dagli inediti di un filosofo. Si è aperto un intenso dibattito che ha varcato i confini dell’accademia e che mostra ancora una volta la rilevanza del pensiero di Heidegger nell’orizzonte contemporaneo.
Il convegno aprirà il confronto su un ampio spettro di questioni: non soltanto politiche, ma anche teologiche e filosofiche. E si interrogherà sul modo in cui i "Quaderni neri" stanno modificando, di fatto, la filosofia continentale.
Direzione scientifica: Donatella Di Cesare
Partecipano: Gérard Bensussan, Joseph Cohen, Donatella Di Cesare, Jesus Adrian Escudero, Sebastiano Galanti Grollo, Rico Gutschmidt, Alessandra Iadicicco, Alberto Martinengo, Gian Luigi Paltrinieri, Riccardo Pozzo, Peter Sloterdijk, Francesco Valerio Tommasi, Peter Trawny, Gianni Vattimo, Paolo Vinci, Vincenzo Vitiello, Judith Werner, Holger Zaborowski, Raphael Zagury-Orly
Informazioni organizzative: Alberto Martinengo (alberto.martinengo@unimi.it)
Informazioni per gli studenti: Marcello Di Trocchio (marcello.ditrocchio@gmail.com)
Con il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania
Con il sostegno di Alexander von Humboldt-Stiftung, Sapienza Università di Roma, Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee-CNR, Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale-CNR
Fiera alla Sapienza
Anche gli studenti pagano l’ingresso
Contestavano la chiusura dell’università La Sapienza di Roma per la Maker Faire, la Fiera dell’Innovazione europea (che si chiude domani), e l’obbligo di pagare il biglietto - anche se ridotto - per gli studenti. Per questo ieri pomeriggio in 70 hanno cercato di forzare il blocco della polizia ma sono stati respinti con i manganelli e anche con l’uso degli idranti. Quattro ragazzi arrestati, un altro denunciato, 5 i feriti. Oggi nuovo presidio fuori dall’ateneo.
Corriere della Sera, 17.10.2015
La sapienza delle multinazionali 2.0
DI Roberto Ciccarelli (il manifesto, 13 ottobre 2015) *
La «Maker faire», la fiera degli artigiani digitali (i «makers»), si svolgerà all’università Sapienza di Roma da venerdì 16 a domenica 18 ottobre. In questi giorni, l’imponente piazzale della Minerva e, prossimamente, anche il «pratone» sul quale affacciano le segreterie dell’ateneo più grande d’Europa, sono occupate dai tendoni e padiglioni che ospiteranno la fiera dell’innovazione tecnologica curata dal «digital champion» Riccardo Luna e dall’ideatore di Arduino Massimo Banzi.
La tre giorni «sapientina» è l’edizione europea di una fiera che ha calamitato oltre 1.5 milioni di visitatori complessivamente, sin dal suo lancio a San Mateo, in California nel 2006. L’anno scorso la Maker faire ha attratto a Roma oltre 600 invenzioni in mostra e 90 mila visitatori. Quest’anno i promotori intendono consolidare la fama della «più grande esposizione al mondo dopo le americane “Area Bay” e “New York”». L’iniziativa, promossa dalla Camera di Commercio di Roma, ha un ventaglio di 55 sponsor, i principali sono Intel, Dws, Unidata, Eni, IngDan, Tim e poi Acea, Bnl, Google, Ibm, Cisco, tra gli altri.
La Maker faire è un potente concentrato teorico e informativo sulla nuova frontiera del capitalismo 2.0 che punta le carte sull’innovazione, la creatività, l’auto-imprenditorialità e l’idea del talento individuale o collaborativo. Per ospitare al meglio l’importante vetrina degli artigiani digitali (ne sono attesi 600). Il rettore della Sapienza Eugenio Gaudio ha deciso la chiusura delle attività didattiche della città universitaria (lezioni, esami, convegni, seminari), il blocco dell’accesso alle biblioteche e alle sale lettura per favorire le operazioni di allestimento. Venerdì 16 e sabato 17 anche gli uffici saranno costretti a ferie obbligate. I docenti, i lavoratori e gli studenti interessati all’evento dovranno pagare il biglietto per entrare. Costi ridotti: dai 4 euro per studenti ai 25 per i tre giorni.
La recinzione dello spazio pubblico nel perimetro destinato alla fiera ha colpito non pochi docenti, ricercatori e studenti. Il passa parola è diventato in questi giorni una campagna promossa dagli studenti: «Maker fair... per chi?» con una pagina facebook dedicata. Il tam tam si è tradotto in un sit-in sul pratone della Sapienza e in un incontro con il prorettore alla ricerca Valente e il preside della Facoltà di Scienze Nesi. «Il nostro Ateneo sta approfondendo lo sfruttamento intensivo nella mercificazione dei risultati della ricerca scientifica - sostengono gli studenti - Perché occupare lo spazio universitario costruendo una vetrina per chi specula sull’innovazione?». La domanda chiarisce le ragioni della protesta: non è contro i makers, ma contro l’uso «business» del lavoro intellettuale o creativo di chi crea stampanti 3D, circuiti, cose, robotica, automazione.
II ricercatori “Intermittenti della ricerca Roma” approfondiscono le ragioni della protesta. Sostengono che l’approccio “business” dell’evento è il segno del ribaltamento della filosofia della condivisione e della cooperazione (“sharing”) sottesa originariamente a questo genere di iniziative,“dove si mettevano in comune conoscenze specifiche, si praticavano forme di cooperazione e di condivisione dei saperi. La Maker Faire promuove invece la diffusione di quei saperi che la retorica di Gelmini e Giannini chiama “saperi utili”, vale a dire quelli direttamente spendibili nel mondo dell’impresa, identificandoli come unico modello per mettere in pratica i propri studi e le proprie competenze”.
L’argomentazione raccoglie uno dei punti principali del dibattuto sulla “sharing economy”: l’appropriazione dell’innovazione e la sua canalizzazione in un’economia proprietaria sullo stile, ad esempio di Uber. Le conseguenze di questo approccio sulla creazione e sulla trasmissione dei saperi sono immediate: la necessità da parte dell’artigiano digitale di ottenere un reddito dalla sua creazione è declinata secondo i canoni del “fare impresa”. “Questo modello - spiegano i ricercatori - sembra ricalcare il modello della Ricerca promosso dalle “riforme” universitarie degli ultimi vent’anni: incoraggiare la competitività e, attraverso l’economia della promessa, l’autosfruttamento, come se l’unica via per lavorare nel mondo della ricerca fosse l’autoimprenditorialità e la promozione di se stessi a discapito degli altri e della qualità della ricerca”. Modello cooperativo contro modello business, dunque. È il cuore della tensione che anima a livello mondiale la sharing economy.
«Riteniamo che un evento così gestito e costruito non debba costituire un precedente per l’università pubblica ma un unicum che non si dovrà mai più ripetere» spiegano gli studenti promotori della protesta che chiedono la trasparenza del ritorno economico per l’università; uno spazio autogestito nella fiera per gli studenti; l’accesso libero per chi lavora e studia alla Sapienza. Martedì 13 ottobre è stata promossa una prima mobilitazione, accolta da uno schieramento di polizia a difesa del rettorato (foto di seguito); venerdì 16 invece è in programma un corteo di protesta con partenza da piazza Aldo Moro.
. Fonte: il manifesto (titolo originale Alla Sapienza contestata la Maker faire: «Una vetrina per il business sull’innovazione»)
. DA LEGGERE
Se Maker Faire invade la Sapienza
di LUR - Libera Università Roma
* Comune-info, 13.10.2015 (ripresa parziale).
Miss Università, la polemica: "Egregio Rettore, è un’offesa vederla dare i voti a Miss Università in bikini"
Oltre 550 firme per la petizione promossa da docenti e ricercatrici universitarie affinché il Rettore della Sapienza Eugenio Gaudio si scusi per aver partecipato come giurato, il 6 maggio al concorso al locale Billions di Roma
di MARIANA MAZZUCATO *
"CHIARISSIMO Rettore, insieme con le altre firmatarie della petizione su change.org indirizzata ad Eugenio Gaudio, riteniamo che la sua partecipazione come giurato alla selezione di Miss Università, tenutosi a Roma il 6 maggio 2015 al Billions, non sia compatibile con il suo ruolo istituzionale, e rappresenti una scandalosa macchia sull’ateneo che lei è stato eletto a guidare.
In un contesto in cui la reputazione internazionale dell’Italia è più legata al Bunga Bunga che alla sua enorme eredità scientifica e culturale, la sua partecipazione all’evento non fa che sminuire ulteriormente il ruolo fondamentale svolto in Italia dall’Università (con la U maiuscola) e dalle donne.
L’Università, caro Rettore, non serve solo a distribuire certificati con titoli di studio, ma anche a fornire modelli culturali, intellettuali e professionali alle nuove generazioni. Noi ci aspettiamo che il Rettore dell’Università più grande d’Europa usi la sua posizione strategica per spingere le sue studentesse a credere in se stesse e non nel modo il cui gli uomini valutano il loro corpo; per convincerle che il futuro è nelle loro mani e nella loro testa e non nel loro bikini; per incoraggiarle a lottare per realizzarsi, per mettere in pratica, nel mondo del lavoro e fuori, tutto ciò che hanno imparato all’Università. Ci aspettiamo anche che il Rettore di un’Università non si presti ad un’operazione commerciale a favore di una clinica specializzata in chirurgia e medicina estetica.
In un contesto in cui, a livello globale, si cerca faticosamente di compensare situazioni di macroscopica disparità di genere, la sua partecipazione all’evento dimostra quanto arretrata sia ancora la nostra società.
Per questi motivi, come professioniste e accademiche italiane, attive in diverse parti del mondo, sosteniamo che lei debba porgere le sue scuse pubblicamente a tutte le donne e gli uomini che si sentono offesi dalla sua partecipazione a questo vergognoso evento. Riteniamo inoltre necessario che lei dichiari pubblicamente che l’Università di Roma, La Sapienza - non parteciperà mai più a simili eventi. Ci auguriamo infine che l’Università sostenga iniziative mirate a promuovere il successo e la carriera delle studentesse e a creare modelli culturali femminili di riferimento. Promettiamo, da parte nostra, di rimanere vigili e di monitorare il coinvolgimento suo o di altri rappresentanti della Sapienza in comportamenti che ledono l’immagine della donna".
Insieme a Mariana Mazzucato (docente dell’University of Sussex), hanno firmato per prime l’appello: Valeria Cirillo (Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa), Maria del Sorbo (ricercatrice), Anusca Ferrari (ricercatrice), Elisa Giuliani (Università di Pisa), Simona Iammarino (London School of Economics), Valentina Meliciani (Università di Teramo), Roberta Rabellotti (Università di Pavia), Antonella Riccio (University College London), Maria Savona (University of Sussex), Lucia Sironi (Banca d’Italia), Antonella Sorace (University of Edinburgh), Gabriella Vigliocco (University College London).
* la Repubblica, 31 maggio 2015 - (ripresa parziale, senza immagini).
A.
Una donna rettore di Oxford: è la prima volta dalla fondazione *
L’università di Oxford ha nominato, oggi per la prima volta in otto secoli, una donna rettore: si tratta di Louise Richardson che dirige attualmente l’università di St Andrews in Scozia. Richardson sostituirà l’attuale vice cancelliere di Oxford Andrew Hamilton all’inizio del prossimo anno per un mandato di sette anni.
La sua nomina deve ancora essere approvata dalla Congregazione (l’organo legislativo dell’ateneo). Richardson sarà allora la prima donna ad occupare questa carica dalla fondazione dell’università nel 1230. "Oxford è una delle più prestigiose università del mondo. Mi sento estremamente privilegiata di avere l’opportunità di dirigere questa incredibile istituzione", ha reagito Richardson, 56 anni.
Il Comitato che ha proceduto alla sua nomina "è stato molto colpito dalla forte adesione del professor Richardson ai valori educativi e universitari cari a Oxford", ha spiegato lord patten, Cancelliere dell’ateneo, una carica onorifica.
Nata in Irlanda, Louise Richardson ha studiato storia a Dublino e scienze politiche in California prima di fare un dottorato all’università di Harvard. E’ nota per i suoi lavori sul terrorismo e la sicurezza.
* la Repubblica, 28 maggio 2015
B.
Ignoranza alla Sapienza
di Emiliano Fittipaldi (l’Espresso, 27.05.2015 - ripresa parziale)
Ordunque, il Magnifico Rettore della Sapienza, una delle più prestigiose università italiane, ha deciso che la cultura è dappertutto. Così la sera dello scorso 6 maggio, dopo aver querelato chi vi scrive per un articolo sul direttore generale (l’università chiede un milione di euro di danni) e lasciato le polverose aule delle facoltà romane, s’è messo in tiro e ha fatto un salto al BillionS, una specie di sala da gioco che si autofedinisce "luxury gaming hall". Non per giocare al Bingo, ma per presiedere la giuria di un concorso di grande prestigio. Quello per la fascia di miss Università 2015.
Evento imperdibile, che quest’anno ha finalmente riannodato i fili con la tradizione: da un lustro la sfilata non si teneva più. Inaccettabile mancanza. Il magnifico Eugenio, armato di paletta, s’è così assiso sulla poltrona presidenziale e ha votato per eleggere Miss Matricola, Miss 30 e lode, Miss Ateneo, Miss Cultura, Miss Cervello e Miss Fotogenia. Infine, in un trionfo di tubini neri di berlusconiana memoria, luci e paillettes, ha proclamato la vincitrice. Che vanterà forse un 90-60-90 ma, spiega il comunicato stampa dell’evento, soprattutto «una media esami intorno al 28».
Il rettore, che offrendosi ai fotografi ha permesso la realizzazione di un album da leggenda, non era solo nell’arduo incarico: nella giuria, si legge nelle cronache, c’erano anche «la bellissima attrice e presentatrice Sofia Bruscoli, il capostruttura di Rai Uno Livio Leonardi, la giornalista Anna La Rosa, il marchese Paolo Dentice di Accadia, il conte Manfredi Mattei Filo della Torre e Luigi Fantozzi, chirurgo plastico del centro "La Clinique" di Roma Eur». L’eterno Toni Santagata, infine, «ha cantato due canzoni graditissime dal pubblico».
Ora, nell’Italia liquida ci siamo abituati a tutto. Ma magnifici rettori che premiano bellezze in una sala giochi, ecco, è accadimento che provoca in chi vi scrive ancora un certo effetto. Non solo per l’ovvio rischio boomerang di ogni sfilata di ragazze scosciate, manifestazioni che speravamo recintate dentro Miss Italia (non è un caso che qualche studente ha subito definito il concorso «una buffonata sessista»). Ma anche perché lo sponsor della kermesse è una clinica privata, il Centro "La Clinique" di Roma Eur.
Non una clinica qualsiasi. «L’ingresso al Billions» spiega la nota stampa «è vietato ai minori di 18 anni. A tutte le concorrenti della prima nazionale, sarà assegnato un coupon omaggio presso il Centro "La Clinique". "La Clinique", sponsor ufficiale dell’evento, con oltre 20.000 interventi effettuati è la prima organizzazione italiana di specialisti in chirurgia e medicina estetica». Se qualche concorrente non avesse vinto e volesse ritentare la prossima volta con qualche chance in più, insomma, sa dove andare.
La manifestazione è stata comunque un grande successo: «il BillionS era pieno di vip». Quindi bando ai moralismi: la cultura è anche nelle sale giochi. Facciamo un doveroso un "evviva" alla Sapienza, al magnifico rettore che ha reso possibile l’evento, e pure a tutti i professori della blasonata università romana che - eleggendo Gaudio lo scorso ottobre - hanno consentito a Miss Università di risorgere dalle ceneri. L’appuntamento, per tutti, all’anno prossimo.
Concorso nazionale per Miss Università
È questa la «buona scuola»?
di Lea Melandri (Corriere della Sera, 27.05.2015)
Che dire della sorprendente iniziativa del Magnifico Rettore de La Sapienza, Eugenio Gaudio, che l’8 maggio ha dato il via ufficialmente al Concorso di Miss Università 2015, La studentessa più bella e Sapiente degli Atenei italiani ?
Da quando si è cominciato a parlare della proposta di legge sulla «Buona scuola», non pochi dubbi erano già stati espressi su che cosa sarebbe passato sotto la voce “merito”, “apertura all’esterno”, “sponsorizzazione”, adeguamento della figura di Preside a quella di manager. Adesso ne abbiamo un esempio che non lascia dubbi su quali imprevedibili, perverse interpretazioni se ne possono dare.
Nel locale affollato dove si è svolto l’evento, il BillionS di Roma, il punteggio di “merito” delle studentesse in gara è sembrato che potesse cominciare dal numero degli esami e dai voti ottenuti per finire con quello assegnato da una giuria di illustri professionisti, docenti e imprenditori alla gradevolezza delle loro fattezze fisiche.
Tra i “giudici di bellezza”, oltre al Rettore de La Sapienza, un docente dell’Università Cattolica, alcuni chirurgi plastici. Sponsor ufficiale: il Centro LaClinique, «prima organizzazione italiana di specialisti in chirurgia e medicina estetica». Il premio prevedibile per le prime dieci classificate: una settimana gratis al Resort la Casella, dove potranno fare qualche ritocco alla loro naturale bellezza.
Il corpo a scuola è già presente da sempre, ma è rimasto a lungo il “sottobanco”. Chi, nella stagione lontana dei movimenti non autoritari ha provato a dargli voce, a riconoscergli l’attenzione dovuta a una componente non trascurabile della nostra umanità -passioni, sentimenti, fantasie e desideri non sempre confessabili- ha conosciuto l’intervento tempestivo della mano ferma con cui lo Stato e la Chiesa hanno tenuto per secoli l’educazione sotto il loro controllo.
Oggi, chi rischia sono, al contrario, coloro che vorrebbero sollevare qualche interrogativo sul discutibile connubio tra impegno intellettuale e doti fisiche, tra il ruolo di studioso, insegnante, responsabile di una università e quello di produttore di cosmetici, chirurgo plastico, dirigente di Beauty Farm. Oppure, volendo spingere oltre l’analisi di una iniziativa che fa temere il peggio, quando fosse approvata la riforma della “buona scuola”, sarebbe ancora meno al sicuro chi, come me, azzardasse qualche considerazione su che cosa ne è stato dell’intuizione di partenza del femminismo: la “riappropriazione del corpo”, la costruzione di una individualità femminile liberata da modelli imposti e forzatamente interiorizzati.
Se è facile mettere in discussione il potere che ha ancora il sesso maschile dominante di dare forma al suo immaginario, senza alcuna remora, lo è molto meno chiedersi perché giovani studentesse accettino che la loro bellezza diventi oggetto di merito quanto il loro impegno nello studio, che cosa le spinge a legittimare un antico pregiudizio, solo perché viene loro abilmente riproposto confuso con gli interessi di una scuola sempre più conforme a interessi aziendali.
L’ideologia che ha costruito il femminile come seduzione e maternità non si è eclissata con la rapidità che ci si aspettava, e oggi purtroppo sono le donne stesse a farla attivamente propria. La strada dell’autonomia o della liberazione -come si diceva in passato- è ancora lunga.
Nel frattempo, non possiamo che registrare l’illusione di molte donne di potersi emancipare come corpo, di poter volgere a vantaggio gli stessi “requisiti”, considerati “naturali”, sulla base dei quali sono state per millenni tenute lontano dall’istruzione, dal potere, dal governo del mondo.
A chi obbietta che la bellezza è una dote femminile in più di cui non ci si dovrebbe vergognare, rispondo che le donne l’hanno sempre usata in sostituzione di altri poteri loro negati, così come d’altro canto gli uomini l’hanno piegata al loro piacere, sfruttata per altri fini all’interno della comunità dei loro simili. Il desiderio di cambiamento comincia con la presa di coscienza di che cosa sono stati finora i rapporti tra uomini e donne. Mi rendo conto che tale consapevolezza stenta a farsi strada, ma ormai è affiorata alla storia, e da lì non si torna indietro.
La generazione delle figlie e delle nipoti ha ereditato dai movimenti femministi una eredità controversa: gode di diritti fino a pochi decenni fa impensabili, ma che rischiano di rimanere solo formali quando urtano contro un sentire intimo che conserva abitudini, pregiudizi, adattamenti inconsapevoli al passato. Altrettanto si può dire di una libertà che vede il corpo e le attrattive che il desiderio maschile vi ha attribuito scrollarsi di dosso un controllo secolare, senza perdere per questo la possibilità di tornare a essere “oggetto”, “complemento” di un ordine esistente.
I corpi femminili che si prendono oggi la loro rivalsa sulla scena pubblica si poteva immaginare che avrebbero prima di tutto, e forse ancora a lungo, conservato i segni che la storia, la cultura dominante, vi ha impresso sopra.
Ma che sia la “buona scuola”, che si proclama distruttrice degli stereotipi di genere, a rimetterli in auge così sfacciatamente, non dovrebbe lasciare indifferenti.
Narcisismo e cecità dei baroni uccidono l’università italiana
Autoreferenzialità, fobia digitale, concorsi «adattati»: è l’Italia che non vuole cambiare
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 28.01.2015)
«Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino».
Tranquilli: l’ingombrante genitore del nostro scrittore non era senese, non era barese, non era bresciano e neppure foggiano o trentino. La testimonianza, infatti, è di Haruki Murakami, uno dei più celebri romanzieri giapponesi.
Tutto il mondo è paese? Ma certo. Esiste tuttavia un Homo academicus specificatamente italiano. Al punto che Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea a Urbino dove è stato anche rettore, autore di libri deliziosi a cavallo fra storia e costume come Vuoti di memoria, Il secolo del rumore, Il nome e la storia, ha deciso di dedicare a questa specie umana un feroce e divertito pamphlet.
Si intitola Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom!
C’era il pienone quel giorno, alla conferenza dei rettori. Troppo spesso però, secondo Pivato, l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua “formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti».
L’ex rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono: «Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice “come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso».
E tutto va di conseguenza: «Il professore “come sto io?” se riceve da un amico o un collega un libro, calibra il suo entusiasmo dal numero delle citazioni che ha ottenuto nell’indice dei nomi». E «non parte mai dai problemi universitari, che riguardano in particolare gli studenti e attengono alla diffusione del sapere. Ma dai “suoi” problemi. Che sono al centro del mondo». E mosso da «uno smisurato ego», pubblica libri che non vende a nessuno, ma se lo incrociate «vi dice subito che il libro è giunto già alla terza o quarta edizione, e magari che sta entrando in classifica, pronto a scalzare i best sellers di Camilleri...».
Di più: «Spesso l’importanza del volume è sottolineata dal numero delle pagine che il docente “come sto io” mima allargando a dismisura le mani per darti l’idea del “tomone” che ha pubblicato. Come se l’importanza di un libro si misurasse a chili». E naturalmente il libro «fa giustizia di tutte le teorie e le ipotesi precedenti».
E se la grafomania fosse sfogata negli ebook? Ma per carità! «Un buon numero d’insegnanti, soprattutto quelli delle discipline umanistiche, non ha ancora dimestichezza con gli strumenti digitali. Anzi, oppone loro un vero e proprio rifiuto. La motivazione più ricorrente è quella che la scrittura con carta e penna riveste un fascino d’ antan che non può contaminarsi con la modernità». E per di più non sarebbero più possibili certi trucchetti per imporre l’adozione del proprio tomo agli studenti. Come quello di un docente che, per evitare che gli allievi si passassero i libri usati, ha fatto stampare il suo con un’accortezza: «L’ultima parte era costituita da una serie di pagine con domande ed esercizi che lo studente doveva compilare a penna e quindi staccare e consegnare al professore per la verifica. In questo modo, terminato l’esame, il testo, mancante della parte finale, non era più utilizzabile».
C’è chi dirà: «Uffa! Veleni». No: come giustamente recita la fascetta, quello di Pivato è un pamphlet malizioso, irridente ma tremendamente serio. Che getta sale sulle piaghe di un sistema universitario troppo spesso ostile a ogni riforma. Legato a riti e reverenze ampollose verso il Chiarissimo, l’Amplissimo, il Magnifico... Dove il rettore d’un ateneo privato al Nord può essere contemporaneamente il «magnifico» in «un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di distanza». Dove «il camaleontismo del professore mostra incredibili doti di adattamento ai meccanismi concorsuali» e l’imperativo è taroccare de Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere».
Insomma, un luogo chiuso dove «i codici etici concretamente adottati dalle università affrontano tendenzialmente tutti i temi, ma per lo più in modo astratto». Dove esattamente al contrario che nei grandi atenei internazionali che sono un viavai di eccellenze, lo jus loci , il radicamento vita natural durante nel cantuccio della propria facoltà, «costituisce una delle regole più ferree». Dove le ore obbligatorie di lezione sono al massimo 120 l’anno contro le 192 in Francia, le 279 in Baviera, le 252 (ma fino a 360) in Spagna, le 240 in Gran Bretagna...
Abbiamo scommesso: c’è chi liquiderà il pamphlet, frutto di un grande amore ammaccato per l’università, come uno sfogo brillante ma fatto di mezze verità. E sbufferà: ma come, uno dei nostri che offre munizioni ai nostri nemici! Vadano a rileggersi Curzio Malaparte e la sua idea del patriottismo: «Un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza».
Magno Gaudio, il rettore è l’ombra di Frati
A La Sapienza di Roma finisce l’era del barone più discusso d’Italia, ma il nuovo Magnifico è un suo uomo di fiducia
di Carlo Di Foggia (il Fatto, 04.10.2014)
Solo il tempo fugherà la sensazione che ieri aleggiava all’ombra della Minerva: come il Gattopardo, anche Sapienza cambia per non cambiare. Rispettati i pronostici della vigilia, l’Ateneo più grande d’Europa (103 mila iscritti) si affida nuovamente a un esponente dell’area medica: Eugenio Gaudio, preside della facoltà di Medicina, per vent’anni feudo del suo predecessore, il plurindagato (e spesso archiviato) Luigi Frati con cui ha condiviso 9 anni da vice negli uffici della presidenza.
La scelta non era ampia. Dopo il ritiro simultaneo di 4 candidati (su sei) già dopo il primo turno, Gaudio ha ottenuto poco meno del 60 per cento dei voti, battendo l’unico sfidante rimasto, il prorettore ed ex capo dipartimento di Fisica Giancarlo Ruocco. Non è un mistero che il preside di Medicina puntasse a un risultato ancora più netto e le 217 schede bianche uscite ieri dalle urne raccontano di un tentativo di prolungare i giochi. Non è servito: toccherà a questo 58 enne medico cosentino vicino all’Opus Dei e con ottimi sponsor nella pastorale universitaria guidata dal vescovo Lorenzo Leuzzi ricevere la pesante eredità dell’era Frati.
I LEGAMI con quest’ultimo sono noti. Nel 2000 Gaudio fu chiamato a Medicina proprio da Frati. Mentre il magnifico risanava i conti a suon di tagli e accorpamenti di facoltà, medicina è cresciuta: triplicandosi. Tutto, raccontano i maligni, per accontentare i fedeli Gaudio e Adriano Redler, ex assessore e consigliere regionale, poi forzista e candidato alle ultime Europee.
Come spesso accade nel primo ateneo romano, i legami si dispiegano in famiglia. Al dipartimento di Carlo Gaudio, fratello di Eugenio, il magnifico Luigi affidò il figlio Giacomo, cardiochirurgo nella stessa facoltà del padre, dove hanno trovato posto anche la moglie e l’altra figlia, Paola, laureata in giurisprudenza ma ordinario di medicina legale, che invece rientra proprio nel dipartimento di Eugenio.
A maggio scorso, nella struttura, un concorso è stato annullato dal Tar del Lazio: quello per la cattedra di Medicina legale, affidata a Vittorio Fineschi, ma prima ricoperta da Paolo Arbarello, uno dei luminari della materia in Italia, scalzato dopo 16 anni di servizio per decisione “unilaterale” (si legge nella sentenza) del rettore e del Senato accademico. La causa? “Incompatibilità” con un altro incarico ricoperto dal docente, di cui però erano stati informati sia Frati che Gaudio. Insomma, una figuraccia. Negli ultimi tempi, il preside di medicina ha poi curato per conto del rettore le trattative con la Regione per risolvere la grana del Policlinico. “Gaudio ha preso il massimo dei voti degli studenti (l’80 per cento, ndr): questo è il segnale di un vero rinnovamento”, spiega il magnifico uscente. Vero, due delle più grandi sigle si erano da tempo schierate a favore del rettore di medicina, vuoi perché la più importante, “Vento di cambiamento”, è nata e cresciuta in seno alla facoltà, vuoi perché condivide con i vertici l’origine cosentina. E dalla Calabria proviene una cospicua fetta del personale de La Sapienza.
DAL CANTO suo, il neo rettore ha già fatto sapere di non voler parlare del suo predecessore. Il magnifico ha provato fino all’ultimo a guidare i giochi, cercando di convincere Gaudio ad accettare i voti, e un ruolo in rettorato, di Tiziana Catarci, l’altro candidato (poi ritiratosi).
Nei corridoi dell’amministrazione raccontano di una riunione durata un’ora e iniziata poco dopo la chiusura dei seggi al primo turno: nulla da fare, Gaudio ha proseguito da solo. “Non farò l’ex, mi dedicherò ad altro” ha tagliato corto ieri Frati. Non è un mistero che l’ormai ex rettore ambisca alla guida della fondazione Sapienza, che incassa gli affitti del gigantesco patrimonio immobiliare dell’Ateneo e gestisce i lasciti testamentari, conservando il ruolo di direttore del prestigioso centro Neuromed del Molise. Più che il passato però, è il presente a porre le sfide più difficili. La cura Frati ha riportato in attivo i conti (da meno 60 a più 8,5 milioni nel 2013) ma in 10 anni Sapienza ha perso circa 40mila iscritti. Nel complesso Sapienza muove un volume di risorse che supera il miliardo di euro e tra docenti e personale amministrativo conta più di diecimila unità
Di certo, l’ambizione non manca. Durante la campagna elettorale Gaudio ha promesso l’impossibile: la promozione di tutti gli abilitati, scatenando in rete la presa in giro degli studenti.
L’irresistibile ascesa di Luigi Frati, figlio di un minatore diventato il più potente (e discusso) rettore d’Italia
Fino alla denuncia della questura di Roma
Dagli affari di famiglia alla lite con la polizia l’ultima stagione del ras della Sapienza
di Sebastiano Messina (la Repubblica, 29.08.2014)
NON sappiamo ancora se sarà ricordato come il difensore della libertà di volantinaggio - per aver tentato di sottrarre ai poliziotti quel rumeno che per dieci euro distribuiva volantini anonimi contro un professore che ha osato candidarsi a prendere il suo posto - o come il primo rettore che ha gridato «polizia di merda!» in un commissariato. Quel che è certo è che Luigi Frati, «fino al 31 ottobre rettore della Sapienza», come lui si è firmato scrivendo al questore per sottolineare chi stavano denunciando, dovrà difendersi dalle accuse di abuso d’ufficio, resistenza a pubblico ufficiale e calunnia.
Non se l’era immaginata così la sua ultima stagione, il figlio di un minatore che è diventato il più potente cattedratico d’Italia, per vent’anni preside e dominus assoluto della facoltà di Medicina e per altri dieci - prima come pro-rettore vicario e poi come rettore - al comando della Sapienza, restando inchiodato alla sua poltrona persino dopo il pensionamento. Finora aveva sempre pensato a salire sempre più in alto, dal giorno in cui suo padre lo portò con sé in miniera, come apprendista: «Avevo 14 anni e mi occupavo di dare l’acqua ai minatori» raccontò una volta al Messaggero . «Un paio di mesi mi sono bastati. Ho scoperto l’esistenza dell’ascensore sociale: o vai giù o vai su».
E lui l’ascensore l’ha preso al piano giusto, quello della politica. A 36 anni, grazie al sindacato cislino Federscuola, si fa nominare - lui che è solo un docente incaricato - nel Consiglio universitario nazionale. Ci rimarrà per 21 anni («Ho messo in cattedra più di 200 professori», ama vantarsi) mentre il suo ascensore comincia a salire. Primo piano, la cattedra di Patologia generale alla Sapienza. Secondo piano, la vicepresidenza della Commissione unica del farmaco. Terzo piano, la presidenza del Consiglio superiore di Sanità. Quarto piano, il posto di primario di Oncologia. Arrivato al quinto piano - preside della facoltà di Medicina - Frati mette radici e ci rimane per vent’anni esatti. Risulta abilissimo nella moltiplicazione delle cattedre: con lui il Policlinico arriva ad avere un primario ogni sei pazienti e un consiglio di facoltà più affollato della Camera dei deputati: 700 membri.
Già che c’è, Frati fa prendere l’ascensore anche alla moglie, Luciana Rita Angeletti, insegnante di lettere in un liceo: per lei c’è una cattedra di Storia della Medicina. Poi fa salire anche la figlia maggiore, Paola. Lei, discoletta, aveva voluto laurearsi in Giurisprudenza, ma il comprensivo papà non si è arreso: oggi è ordinaria di Medicina legale. Restava Giacomo, il secondogenito. Poteva il padre la- sciarlo fuori dall’ascensore? Certo che no. Anzi, proprio per lui Frati - che intanto nel 2008 è salito di un altro piano, il sesto, quello di rettore dell’Università - realizza il suo capolavoro: accompagnarlo fino alla poltrona di primario prima che compia 37 anni.
L’impresa merita di essere raccontata. Il giovane Giacomo vuol fare il cardiochirurgo. E naturalmente ci riesce. Ricercatore a 28 anni, diventa professore associato a 31. Vince il concorso con una prova (orale) sui trapianti cardiaci, davanti a una commissione composta da due igienisti e da tre odontoiatri. A quel punto il premuroso padre riesca a ottenere l’apertura di un centro di cardiochirurgia a Latina (costo: 32 milioni) dove il giovanotto diventa aiuto primario. L’esperimento non riesce e il centro verrà chiuso, dopo la scoperta che la mortalità era pari a due volte e mezza la media nazionale.
Ma intanto Giacomo ha vinto anche il concorso a ordinario, e il padre lo chiama nella sua facoltà. Con un tempismo straordinario: solo quattro giorni prima che scattino le norme antinepotismo, con il divieto tassativo di assegnare cattedre ai parenti fino al quarto grado. Ora si tratta di trovargli il posto di primario. Antonio Capparelli, nominato un mese prima da Frati direttore generale del Policlinico, crea dal nulla un reparto ad personam: «Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicare alle malattie cardio-vascolari». E chi nomina come primario? Giacomo Frati. L’operazione è così clamorosa che la procura apre un’inchiesta, su quel reparto «di fatto voluto dal rettore Luigi Frati per favorire il figlio Giacomo», scrivono i pm Pioletti e Caporale.
Quella però era solo la penultima tappa, perché il rettore vuole per il suo erede il primariato di Cardiochirurgia. Ce ne sarebbero due, ma sono occupati. Come si fa a liberare quei posti? Ci pensa ancora una volta papà. Prima sospende il primario del Policlinico, Michele Toscano, trascinandolo per quindici volte davanti al Tar, poi denuncia - facendolo persino arrestare - quello del Sant’Andrea, Riccardo Sinatra, accusandolo nientemeno che di aver fatto fare turni di 24 ore agli specializzandi. Il Tar gli dà torto, e i due primari sono ancora al loro posto. Ma Frati non si arrende: l’ascensore del figlio deve fare un altro piano. E lui, come ha scritto al questore, è «fino al 31 ottobre rettore della Sapienza».
La polizia blocca un romeno che distribuiva volantini contro un candidato alla successione di Frati
Che si scontra con gli agenti e poi accusa: “Siete forti coi deboli”
Roma, urla e spintoni in commissariato la questura denuncia il rettore della Sapienza
di Corrado Zunino (la Repubblica, 28.08.2014)
ROMA. Le bollenti elezioni per il nuovo rettore dell’Università La Sapienza in Roma, la terza più grande in Europa, hanno già prodotto un atto inedito: la questura di Roma ha denunciato il rettore in carica e uscente, il professor Luigi Frati, da dieci anni alla guida dell’ateneo (quattro da vice e sei da rettore). I fatti si sono svolti l’8 luglio scorso, ma emergono soltanto adesso e sono stati confermati dal questore di Roma, Massimo Maria Mazza. È successo che il rettore ha cercato di portare via dagli uffici del commissariato di polizia interno alla Sapienza, in viale dell’Università, un romeno fermato dagli agenti e in quei minuti sotto interrogatorio: serviva, l’interrogatorio, per ricostruire una vicenda di volantinaggio elettorale all’interno dell’ateneo contro uno dei candidati, il professor Giancarlo Ruocco.
Il rettore in carica - come si può leggere nei verbali di polizia, confermati da una lettera inviata al questore dallo stesso Frati - la mattina dell’8 luglio è entrato nel “commissariato universitario”, ha fatto qualche domanda al piantone e, avvistato un giovane straniero seduto di fronte al commissario Mario Spaziani, ha chiesto che gli fosse consegnato: «Questa è La Sapienza, fino a prova contraria, e di questa università sono il responsabile fino alla fine di ottobre... Lasciate stare gli innocenti, quest’uomo non ha fatto niente di male... Piuttosto andate a sgombrare gli studenti che occupano abusivamente il Lucernaio ».
Gli ufficiali di polizia giudiziaria, colpiti dalla richiesta e dall’aggressività dei toni, hanno fatto notare a Frati che non poteva restare lì, che in corso c’era la testimonianza di una persona, ma il rettore ha insistito: «Questa è la mia università», e ha preso per un braccio il romeno. C’è stata una reazione dei poliziotti e un accenno di spinte e resistenze fino a quando Frati non ha mollato la presa ed è uscito dagli uffici commentando ad alta voce: «Polizia di m...». Il commissario Spaziani ha contattato rapidamente il questore, che ha chiesto prima un rapporto preciso e quindi ha invitato il commissario a firmare una denuncia penale nei confronti del professor Frati: abuso d’ufficio, resistenza e calunnia (riferito, appunto, al «Polizia di m...») sono i reati contestati.
Nella stessa mattina, rientrato in rettorato, il professor Frati ha scritto una lettera di protesta al questore di Roma in cui dichiara incomprensibile il motivo per cui in un ateneo «dove non vi è mai stata censura», non appena «viene criticato un candidato a rettore, colui che mette i volantini sotto il parabrezza, un innocuo personaggio, viene fermato». Si chiede nella lettera, Frati: «Perché questo brillante attivismo nei confronti di un poveraccio e una tolleranza con gli altri?». E chiude con un attacco, messo nero su bianco, alla polizia: «Ci sono intoccabili e poveracci, tal che si è deboli con i forti che compiono illegalità e forti con un poveraccio che per pochi euro distribuisce volantini ». Il prologo della vicenda è nel lascito cattivo di una campagna elettorale avvelenata per sei mesi: sei candidati (due sostenuti da Frati, tre apertamente contrari, uno agnostico) si stanno infatti contendendo la prossima reggenza della Sapienza: s’inizia a votare il 23 settembre prossimo. Quella mattina, l’8 luglio, appunto, il giovane rumeno era stato avvistato di fronte all’ingresso dell’ateneo con un pacco di volantini in mano. I fogli stampati portavano questo titolo: “Da Amaldi a Ruocco: la triste parabola del dipartimento di Fisica della Sapienza”.
Giancarlo Ruocco, 55 anni, è il prorettore per la ricerca e il candidato più temuto da Frati. Nel corso delle presentazioni al corpo elettorale, non si è tenuto le critiche: «Il rettore uscente ha i suoi candidati», aveva detto, «campagna elettorale e finanziamenti si stanno confondendo, La Sapienza è una montagna velata dalla nebbia dove s’allarga la palude degli interessi personali».
Il volantino distribuito in università altro non era che una mail inviata all’interno della Sapienza dal professor Luciano Pietronero, un altro fisico, storico avversario di Ruocco. La mail diventata volantino accusava il candidato Ruocco, «in passato rigoroso studioso vicino all’ala dura di Rifondazione comunista», di essersi trasformato in un arbitrario uomo di potere con la promozione a capo del dipartimento di Fisica e dell’Italian institute of technology. Il professor Ruocco, oggi, definisce tutto questo «spazzatura».
Segnalato dai vigilantes della Sapienza e fermato dalla polizia, il giovane romeno che volantinava ha subito confessato: «Un mio connazionale mi ha dato dieci euro e un pacco di carta alto così chiedendomi di venire all’università a distribuirla». Il connazionale è stato rintracciato dalla polizia in poche ore e ha confessato di aver ricevuto, a sua volta, 30 euro e una risma degli stessi volantini da un signore in giacca e cravatta. Per ora sconosciuto. Due giorni dopo l’ingresso del rettore Frati in commissariato. Il 10 luglio, un funzionario della Digos ha consegnato al rettore, nei suoi uffici, la denuncia presentata dalla polizia di Roma. Il rettore Frati, interpellato direttamente e attraverso il suo staff, non ha voluto commentare.
Oasi d’acqua dentro la Terra: forse grandi 10 volte l’oceano Pacifico
Su Nature uno studio che apre nuovi scenari sull’evoluzione del magmatismo terrestre e della tettonica delle placche. Tra i ricercatori anche un italiano *
SE LE STIME dello studio venissero confermate, l’idea della conformazione generale del nostro pianeta andrebbe completamente rivista: all’interno della Terra ci sarebbero oasi d’acqua la cui estensione totale potrebbe essere pari a 10 volte quella dell’oceano Pacifico, che copre 1/5 della superficie del pianeta.
A stimarlo un team di ricercatori, di cui fa parte anche Fabrizio Nestola dell’Università di Padova, che hanno pubblicato su Nature uno studio che apre nuovi scenari sull’evoluzione del magmatismo terrestre e della tettonica delle placche.
Il lavoro dei ricercatori parte dall’olivina, un minerale che costituisce il 60% dell’interno della Terra, dalla superficie fino ai 410 chilometri. E che, con l’aumento di pressione e temperatura si trasforma in minerali con la stessa formula ma una differente disposizione spaziale dei suoi atomi, diventando prima wadsleyite e ringwoodite, che si dovrebbero trovare tra mantello superiore e mantello inferiore cioè in quella zona detta di transizione tra i 410 e i 660 chilometri di profondità.
Analizzando la propagazione delle onde sismiche in profondità, tuttavia, gli scienziati ritenevano che in quella fascia si dovesse trovare qualcosa di densità inferiore: creando in laboratorio i due minerali con un minore densità i ricercatori hanno generato artificialmente a wadsleyite e ringwoodite in grado di ospitare fino al 2,5% di acqua avvicinando così la densità dei due materiali a quella dell’olivina e facendo pensare che la fascia sia davvero un’oasi di acqua all’interno della Terra.
Il team di ricerca ha individuato per la prima volta un campione di ringwoodite terrestre ancora incapsulato all’interno di un diamante trovato in un giacimento brasiliano del distretto di Juina e tale campione contiene circa l’1,4% di acqua. "La scoperta - spiega Nestola - non solo permette finalmente di spiegare le anomalie osservate tramite tomografia sismica profonda, ma apre uno scenario completamente nuovo sull’interno del nostro pianeta.
Infatti, l’1,4% di acqua nella ringwoodite permette di stimare un contenuto medio dell’1% di acqua nella zona di transizione. Tale percentuale corrisponde a uno spessore di acqua liquida di circa 8 km sull’intera superficie terrestre. Considerando che l’Oceano Pacifico copre circa un quinto di tutta la superficie terrestre ed è profondo in media 4,2 km, per confronto, è come se avessimo ben "nascosta" all’interno della Terra una quantità di acqua pari a circa 10 oceani profondi come il Pacifico".
Caos Sapienza
L’assalto degli studenti alla casta del rettore
I ragazzi in corteo dopo le cariche di giovedì: “Frati si dimetta”
Lui, sotto indagine per la nomina del figlio: “resto un altro anno”
di Luca De Carolis e Tommaso Rodano (il Fatto, 14.12.2013)
C’è una nuova, grande scritta rossa ad accogliere il rettore della Sapienza all’ingresso dell’ateneo: “Frati vattene”. Gli studenti ieri l’hanno verniciata quasi dappertutto. Accanto alla porta del rettorato dove giovedì sono stati caricati dalla polizia, di fronte al dormitorio occupato di via De Lollis e su una delle fontane di marmo bianco all’entrata della città universitaria. “Erano diciassette anni che le forze dell’ordine non mettevano piede qui dentro - spiega uno dei ragazzi, Fabio - l’altro giorno il rettore li ha fatti entrare, permettendogli di colpirci alle spalle. Ora si assuma le sue responsabilità e se ne vada”.
Giovedì gli studenti della Sapienza protestavano contro un convegno sulla green economy, al quale avrebbero dovuto partecipare anche Enrico Letta e il presidente della Repubblica (che hanno preferito rinunciare). Sono volate uova, fumogeni e bombe carta. L’intervento della polizia è stato tutt’altro che morbido. Durante le due cariche sono stati fermati due studenti, poi rilasciati con una denuncia a piede libero. Dopo gli scontri, gli universitari sono tornati a manifestare. Nella notte hanno occupato le facoltà di Scienze Politiche e Igiene.
Ieri mattina si sono dati appuntamento a mezzogiorno, di fronte a Lettere. Un centinaio di ragazzi si è diretto verso l’Aula magna, mentre un’altra cinquantina ha occupato i corridoi del rettorato per alcune ore. Dopo un’assemblea congiunta, sono usciti di nuovo in corteo. Per tutto il percorso hanno scandito slogan contro Luigi Frati, chiedendone le dimissioni. Non solo per le cariche dell’altro ieri, ma soprattutto per la gestione del potere in cinque anni da rettore della più grande università d’Europa: “Se non se ne va da solo - scandiva un ragazzo al megafono - lo cacceremo noi”.
IL MAGNIFICO Frati, non fa una piega. L’ex preside di Medicina se ne rimarrà sulla sua poltrona, per il suo ultimo anno da rettore. In pensione come professore dal 1° novembre, rimarrà in carica sino al 31 ottobre 2014. “Rimango un altro anno perché lo prevede la legge Gelmini” dice Frati al Fatto, rivendicando: “Avevo diritto a una proroga di due anni, ma ho scelto la pensione per liberare risorse per colleghi più giovani”. Gli studenti lo accusano di aver chiamato la polizia. Ma lui nega: “Giovedì mi trovavo nell’aula della conferenza, da dove si sentivano botti e bombe carta: la polizia c’era già quando sono arrivato e avrà fatto opera di contenimento. Figuriamoci se ho dato ordine di caricare gli studenti, io stavo dentro”. Ma della protesta degli studenti che ne pensa? “Hanno mille ragioni, ma devono protestare in modo non violento”.
Frati insomma tira dritto, nella Sapienza stipata dei suoi cari. La moglie, Luciana Rita Angeletti, insegna Storia della medicina, la figlia Paola, Medicina legale, proprio nell’ex facoltà del babbo. E sempre a Medicina insegna il cardiochirurgo Giacomo Frati, diventato professore associato a 31 anni, ora ordinario. Come raccontò Report, il figlio del rettore discusse la prova orale sui trapianti cardiaci davanti a una commissione composta da due professori di Igiene e tre odontoiatri. E proprio i rapporti familiari riemergono nelle carte giudiziarie.
Pochi giorni fa, è arrivata la notizia della chiusura delle indagini (spesso il preludio al rinvio a giudizio) della Procura di Roma sul rettore. Secondo l’accusa dei pm Frati, assieme ad altre tre persone, avrebbe creato nel 2011 un’unità programmatica autonoma rispetto a Cardiochirurgia, mettendovi alla direzione il figlio Giacomo. Il rettore risponde così: “La notizia della chiusura delle indagini è assolutamente vera, ma io non sono stato mai interrogato. Quando verrò chiamato chiarirò tutto, non ho mai firmato nulla per mio figlio”.
La biblioteca parlamentare conserva un milione e trecentomila volumi
Il complesso di S. Maria sopra Minerva, restaurato, è poco conosciuto
L’Isola della Sapienza dove è custodita la memoria d’Italia
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 3.1.2013)
C’è un’Isola della Sapienza nel cuore di Roma, il più grande centro storico del mondo, fra i palazzi del potere dove si svolge nel bene o nel male la vita politica nazionale. Il complesso ex domenicano di Santa Maria sopra Minerva, ora restaurato all’interno e all’esterno, ospita la Biblioteca della Camera dei Deputati (con ingresso da via del Seminario 76) collegata a quella del Senato, trasferita anch’essa nella stessa area dal 2003. Un prezioso deposito di storia, arte e cultura che contiene circa un milione e trecentomila volumi, a cominciare da quelli del Parlamento subalpino.
Articolata in 12 sale di consultazione, la monumentale Biblioteca viene frequentata da più di 50 mila ricercatori e studiosi all’anno. È aperta al pubblico, ma non è ancora conosciuta e visitata come meriterebbe. Adesso, completato il restauro delle facciate, l’Electa ha realizzato un volume illustrato per la Camera dei Deputati, a cura di Renata Cristina Mazzantini, di prossima uscita. E c’è da auspicare che, oltre a documentare le ricchezze di questo straordinario complesso architettonico, l’opera possa contribuire anche a custodire l’esperienza storica del Parlamento italiano, nell’incerta transizione dalla Seconda alla futura Terza Repubblica.
Il nome in latino di “Insula Sapientiae”, utilizzato più recentemente dalla Camera e dal Senato in diverse occasioni, deriva da una felice definizione di Franco Borsi, storico dell’arte, che aveva già coniato l’appellativo “Insula colta” per designare il complesso conventuale di Santa Maria sopra Minerva. Spiega la curatrice nella sua introduzione: “Il termine Insula richiama la morfologia del sito e la tipologia edilizia della sua architettura, mentre il genitivo Sapientiae fa riferimento alla continuità tra mondo pagano e mondo cristiano”. Ed è una continuità attuata sia nella basilica, attraverso la conversione mariana del mito di Minerva, sia nelle tre biblioteche pubbliche che ancora oggi preservano la natura sociale e culturale del luogo.
Le foto aree del centro di Roma mostrano che il perimetro dell’Insula è quadrangolare, piuttosto irregolare, definito su due lati da piazza della Minerva e da piazza San Macuto. Ed entrambe vi s’incastrano nettamente. I vertici del quadrilatero coincidono con alcune delle più suggestive piazze capitoline: quella della Rotonda e quella di Sant’Ignazio, collegate a nord dalla curva di via del Seminario; quelle del Collegio Romano e della Minerva, unite a sud dal tracciato sinuoso di via Santa Caterina da Siena. Ma le strade che delineano il perimetro dell’Insula sono talmente strette da non avere veri marciapiedi e dall’alto sembrano spazi scavati, quasi solchi, piuttosto che ambienti costruiti.
Nel Seicento, l’Insula divenne la sede del Tribunale della Santa Inquisizione. Qui, in nome del conflitto tra fede e scienza, fu processato e messo in cella Galileo Galilei. E proprio in queste sale il matematico fu costretto a pronunciare la sua abiura sui moti del sole e della terra, prima di riconoscere il sistema planetario proposto dalle Sacre scritture.
Ma è senz’altro il patrimonio del Polo bibliotecario parlamentare la maggiore ricchezza di quest’Isola della Sapienza: quel milione e trecentomila volumi che racchiudono la storia istituzionale del nostro Paese. Dal nucleo originario del Parlamento subalpino fino ai documenti e agli atti dei giorni nostri. Nel secondo dopoguerra, la Biblioteca tende progressivamente a specializzarsi sugli studi di diritto, italiano e straniero; di scienza politica, di politica internazionale, di scienza dell’amministrazione e di storia contemporanea, con un’ampia copertura della saggistica in lingua straniera e un’attenzione particolare alle fonti statistiche, alle biografie e bibliografie. Attualmente acquisisce circa ottomila monografie all’anno, ha una collezione di duemila riviste correnti e circa 4.500 riviste ormai chiuse, a cui s’aggiungono più di tremila pubblicazioni periodiche di altra natura (annuari, annali, atti accademici, serie statistiche, atti parlamentari e collezioni legislative).
In uno degli edifici che formano il complesso, arricchito dagli affreschi della prima metà del Seicento di cui racconta nel libro il professor Claudio Strinati con l’abituale competenza, ha sede poi dal 1991 l’Archivio storico della Camera dei Deputati: dallo Statuto Albertino del 1848 alla Camera del Regno d’Italia, fondato nel 1861, fino alla Camera repubblicana. Un percorso istituzionale che si snoda nell’arco di oltre un secolo e mezzo, da Torino a Firenze e Roma. Tra le serie più importanti, la collezione di 30.767 fascicoli dei disegni di legge presentati dal maggio 1848 all’ottobre 1943.
A che cosa può servire ormai tutto questo materiale cartaceo nell’era di Internet e dell’editoria elettronica? In realtà, anche la raccolta dei fascicoli è già consultabile online, attraverso un inventario che consente di effettuare ricerche per chiavi di accesso. Ma, attraverso il servizio “Chiedi alla Biblioteca”, la Camera fornisce informazioni e assistenza nella ricerca bibliografica e legislativa agli organi istituzionali (dettagli sul sito: http//biblioteca. camera. it). In tempi di “spending review”, una struttura del genere può anche apparire magari un lusso o uno spreco. Ma questa è, appunto, la memoria storica del nostro Parlamento. E un Paese senza memoria, rischia di diventare anche un Paese senza futuro.
I guardiani della democrazia
di Guglielmo Ragozzino (il manifesto, 22.07.2012)
Con nomi diversi, con caratteristiche proprie di ciascuna specifica civiltà giuridica, la Corte suprema svolge spesso il compito di tenere a freno gli impulsi più classisti del potere politico ed economico di riferimento. Lo ha fatto la Corte negli Stati uniti in difesa della riforma sanitaria di Barack Obama, in Germania la Corte di Karlsruhe ha tenuto duro sul reddito di cittadinanza e in questi ultimi giorni resiste, estremo baluardo europeo, contro il Fiscal compact e contro l’Ems - Meccanismo europeo di stabilità. E in questo è stimolata da Die Linke: segno che perfino in Germania, prima di cedere, la sinistra non rinunciataria le tenta tutte.
In Italia - ieri - un nuovo segnale dalla Corte Costituzionale. La nostra «Consulta» ha addirittura messo in salvo il patto tra cittadini rappresentato dai referendum di un anno fa, i famosi referendum sull’acqua pubblica. Nel sistema italiano un referendum è un secondo modo, diretto, per fare una legge, a fianco dell’altro, più tradizionale, svolto dalle rappresentanze parlamentari. Serve una legge esistente (da abolire), la raccolta di mezzo milione di firme e il voto della maggioranza degli elettori. I poteri forti, nel loro alternarsi, sono rimasti compatti almeno su un punto. Ai referendum non hanno mai creduto, l’hanno sempre scambiati per un giorno di vacanza, un grasso martedì di carnevale, per poi non farne niente, tornare alla politica vera, all’economia delle spartizioni decisive.
Anche in questo caso: i governi, nell’anno successivo ai referendum sull’acqua, hanno scelto la linea di minimizzarne l’esito, tranquillizzare le imprese, nazionali e multinazionali: «Niente cambia, tutto come prima», assicurando i loro decisivi interessi idrici nella futura irrimediabile siccità. L’acqua come grande business promesso per i cent’anni avvenire, con lauti profitti sicuri; l’acqua dolce, privata, da catturare e mettere in circolo, a disposizione dei popoli, delle città, delle famiglie, purché in grado di pagare le salate bollette.
Certo i governi di Roma hanno giocato sulle parole e sulle frasi dei referendum in attesa che non fossero del tutto dimenticate, ma nella sostanza hanno spiegato ai futuri padroni dell’acqua che non c’era spazio per ogni e qualsiasi fantasia legata a stravaganti beni comuni, anzi alla "Tragedia dei beni comuni", secondo l’insegnamento di tanti anni fa e ancora per loro validissimo, di Garrett Hardin.
La decisione della Corte italiana, sulla base della richiesta di sei regioni, ha sconvolto i piani. Gli interventi dei quotidiani importanti, a parte la felicità espressa da Mattei e Lucarelli sul nostro manifesto, per conto di noi tutti, hanno mostrato fino in fondo il disorientamento dei grandi poteri.
Dopo tutto i beni comuni esistono, o almeno alla Corte costituzionale ci credono, è stata la prima riflessione, seguita dalla seconda: «e adesso che si fa»? L’idea di dover fare i conti con qualcuno (milioni di schede, la maggioranza dei cittadini) e con qualcosa (una scelta opposta alla loro, generosa, solidale) li manda in tilt. Chi glielo dirà ai banchieri dell’acqua, ai boss delle spiagge, del cemento, dei rifiuti, dei tunnel, dei rigassificatori, del petrolio e a chi compra e vende pezzi di natura, che le cose stanno cambiando?
La conoscenza come bene comune
di Elinor Ostrom*
Il 12 giugno è morta Elinor Ostrom, insignita nel 2009 del premio Nobel per l’Economia. La ricordiamo pubblicando un estratto dell’introduzione al volume "La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica", a cura di E. Ostrom e di C. Hess, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2009.
Con la parola “conoscenza” (knowledge) si intendono in questo libro tutte le idee, le informazioni e i dati comprensibili, in qualsiasi forma essi vengano espressi o ottenuti. Il nostro approccio è in linea con quello di Davenport e Prusak (1998, p. 6), i quali scrivono che «la conoscenza deriva dalle informazioni come le informazioni derivano dai dati». Machlup (1983, p. 641) ha introdotto questa distinzione fra dati, informazioni e conoscenza, in cui i primi sono frammenti di informazione allo stato grezzo, le informazioni sono costituite dall’organizzazione contestualizzata dei dati, e la conoscenza è l’assimilazione delle informazioni e la comprensione del modo in cui esse vanno utilizzate. In questo libro impieghiamo il termine “conoscenza” per riferirci a tutte le forme di sapere conseguito attraverso l’esperienza o lo studio, sia esso espresso in forma di cultura locale, scientifica, erudita o in qualsiasi altra. Il concetto include anche le opere creative come per esempio la musica, le arti visive e il teatro. Alcuni ritengono che la conoscenza sia “dialettica”, nel senso che possiede una doppia “faccia”: in quanto merce e in quanto elemento fondante della società (Reichman e Franklin 1999; Braman 1989). Questa doppia funzionalità - come esigenza umana e come bene economico - è indizio immediato della natura complessa di questa risorsa. Acquisire e scoprire conoscenza è al contempo un processo sociale e un processo profondamente personale (Polanyi 1958).
Ancora: la conoscenza è cumulativa. Nel caso delle idee l’effetto cumulativo genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti, ma sia quello dell’accesso sia quello della conservazione erano problemi seri già molto prima dell’avvento delle tecnologie digitali. Una quantità infinita di conoscenza attende di essere disvelata. La scoperta delle conoscenze future è un tesoro collettivo di cui dobbiamo rispondere di fronte alle generazioni che ci seguiranno. Ecco perché la sfida di quella attuale è tenere aperti i sentieri della scoperta.
Assicurare l’accesso alla conoscenza diventa più facile se se ne analizza la natura e si mette bene a fuoco la sua peculiarità di bene comune. Questo approccio è in contrasto con la corrente letteratura economica, nella quale la conoscenza è stata spesso indicata come tipico esempio di bene pubblico “puro”: un bene disponibile per tutti e il cui uso da parte di una persona non limita le possibilità d’uso da parte degli altri. Nella trattazione classica dei beni pubblici, Paul A. Samuelson (1954, pp. 387- 389) ha classificato tutti i beni che possono essere utilizzati dagli esseri umani come puramente privati o puramente pubblici. Samuelson e altri, tra cui Musgrave (1959), hanno posto tutta l’enfasi sull’ esclusione: i beni dal cui uso gli individui potevano essere esclusi andavano considerati privati. Nell’affrontare questi problemi, gli economisti si concentrarono dapprima sull’impossibilità dell’esclusione, per poi orientarsi verso una classificazione basata sull’alto costo dell’esclusione. Da quel momento i beni sono stati trat-tati come se esistesse una sola dimensione. Solo quando gli studiosi hanno sviluppato una duplice classificazione dei beni (V. Ostrom ed E. Ostrom 1977), è stato pienamente riconosciuta l’esistenza di un loro secondo attributo. Il nuovo approccio ha introdotto infatti il concetto di sottraibilità (a volte definita anche rivalità) - per cui l’uso del bene da parte di una persona sottrae qualcosa dalla disponibilità dello stesso per gli altri - come fattore determinante di pari importanza per la natura di un bene. Ciò ha condotto a una classificazione bidimensionale dei beni. La conoscenza, nella sua forma intangibile, è rientrata allora nella categoria di bene pubblico, dal momento che, una volta compiuta una scoperta, è difficile impedire ad altre persone di venirne a conoscenza. L’utilizzo della conoscenza (come per esempio la teoria della relatività di Einstein) da parte di una persona non sottrae nulla alla capacità di fruizione da parte di un’altra persona. Questo esempio, naturalmente, si riferisce alle idee, ai pensieri e al sapere derivanti dalla lettura di un libro: non al libro in quanto oggetto, che sarebbe classificato come bene privato.
In questo volume impieghiamo le espressioni beni comuni della conoscenza e beni comuni dell’informazione in maniera intercambiabile. Alcuni capitoli si concentrano in particolare sulla comunicazione scientifica e accademica, ma le questioni discusse hanno un’importanza cruciale che si estende ben al di là della “torre d’avorio”. Ciascun capitolo si dedica a un particolare aspetto della conoscenza in forma digitale, principalmente perché le tecnologie che consentono una distribuzione globale e interattiva dell’informazione hanno trasformato radicalmente la struttura della conoscenza come risorsa. Uno dei fattori critici relativi alla conoscenza digitale è la continua e radicale trasformazione (“ipercambiamento” o (hyperchange) ( delle tecnologie e delle reti sociali che coinvolge ogni aspetto della gestione e del governo delle conoscenze, compresi i modi in cui esse sono generate, immagazzinate e conservate.
I sempre più numerosi studi sui vari approcci ai beni comuni della conoscenza mostrano la complessità e la natura interdisciplinare di queste risorse. Alcuni beni comuni della conoscenza risiedono al livello locale, altri al livello globale o in una posizione intermedia e tutti sono suscettibili di una molteplicità di utilizzi diversi e sono oggetto di interessi in competizione. Le aziende hanno premuto per misure più rigide a tutela di brevetti e copyright, mentre molti ricercatori, studiosi e professionisti si impegnano per assicurare il libero accesso alle informazioni. Le università si trovano su entrambi i fronti del dibattito sui beni comuni: da una parte, sono detentrici di un crescente numero di brevetti e fanno sempre più affidamento sulle sovvenzioni alla ricerca da parte delle aziende; dall’altra, incoraggiano il libero accesso alla conoscenza e la creazione di archivi digitali per i risultati delle ricerche svolte nei loro dipartimenti.
Gran parte dei problemi e dilemmi che affrontiamo in questo libro sono sorti in seguito all’invenzione delle nuove tecnologie digitali. L’introduzione di nuove tecnologie può rivelarsi decisiva per la robustezza o la vulnerabilità di un bene comune. Le nuove tecnologie possono consentire l’appropriazione di quelli che prima erano beni pubblici gratuiti e liberi: così è avvenuto, per esempio, nel caso di numerosi “beni comuni globali” come i fondali marini, l’atmosfera, lo spettro elettromagnetico e lo spazio. Questa capacità di appropriarsi di ciò che prima non consentiva appropriazione determina una meta-morfosi sostanziale nella natura stessa della risorsa: da bene pubblico non sottraibile e non esclusivo, essa è convertita in una risorsa comune che deve essere gestita, monitorata e protetta, per garantirne la sostenibilità e la preservazione.
* Sbilanciamoci.org, 16 giugno 2012
Vi racconto i concorsi
di Angelo d’Orsi (il manifesto, 12.06.2012)
Ho lanciato qualche tempo fa, sul manifesto, con il collega Piero Bevilacqua, l’appello< popuplink http://www.amigi.org/“L’Università che vogliamo”>, che non solo ha avuto un notevole successo, ma ha prodotto una serie di assemblee culminate negli Stati generali dell’Università italiana (il 31 marzo a Roma), da cui è poi scaturito, in un paziente lavoro di raccolta di suggerimenti, aggiunte, correzioni e revisioni, un documento che abbiamo chiamato Carta di Roma (ora sui siti www.amigi.org e www.historiamagistra.it).
Su questa base numerosi docenti di vario ambito disciplinare, organizzati in commissioni di lavoro, stanno provando a disegnare un progetto radicalmente alternativo all’università che in una sostanziale continuità (sia pure con qualche momento di timida rottura), ha portato da Luigi Berlinguer all’attuale ministro Profumo, toccando la punta più efferata nella cosiddetta riforma Gelmini. In attesa di ottenere qualche risultato pratico, ci tocca ancora assistere o subire le nefandezze del sistema.
Sono, come si sa, ormai pochissimi i concorsi per l’assunzione di personale docente e ricercatore e sono pressoché tutti seguiti da ricorsi dei concorrenti sconfitti. Normale, si dirà, in una situazione di terribile lotta per la vita, ove si pensi che ormai ci sono decine di migliaia di precari della ricerca che reggono larga parte del peso didattico e organizzativo dei nostri atenei, tutti senza prospettiva, e la gran parte più vicina ai 40 che ai 30 anni, e non pochi sono coloro che hanno traguardato il mezzo secolo di vita. E oltre. Dunque la lotta è durissima: come sempre guerre tra poveri determinate da politiche miopi (che purtroppo hanno accomunato largamente governi di centrodestra e di centrosinistra), da strutturali carenze di fondi, via via aggravate dai famigerati tagli lineari e dal micidiale combinato disposto di incapacità organizzativa e pochezza culturale.
Malgrado questo, l’Università italiana, vittima negli ultimi anni di una sistematica campagna di diffamazione basata su cifre truccate (Giavazzi-Alesina e Perotti, tanto per far qualche nome: consiglio l’illuminante librino di Francesco Coniglione, Maledetta Università, Di Girolamo editore), e inique generalizzazioni, non è affatto tra le peggiori del mondo, come amava ripetere la passata ministra.
Eppure le sue colpe le ha. E non vuole emendarsene. La maggiore concerne appunto il cosiddetto reclutamento. Ovvero i concorsi. Quelli che producono ricorsi. Malgrado oggi l’attenzione della pubblica opinione sia diventata assai più forte, e a dispetto delle sentenze dei Tar che cominciano a dar ragione ai ricorrenti, i membri delle Commissioni giudicatrici continuano a comportarsi come padreterni, convinti di poter imporre le loro scelte anche quando del tutto implausibili, certi dell’impunità, anche se vanno contro le leggi e i regolamenti; e, soprattutto, fiduciosi che nell’Accademia nessuno si muoverà per esprimere un dissenso, levare una voce di protesta, perché tutti aspettano il proprio turno per compiere in autonomia, ossia prescindendo dal valore dei candidati, le proprie scelte: ossia far vincere chi deve vincere.
Ora, intendiamoci, ci sono ottime ragioni per sostenere la cooptazione, e personalmente le ho esposte, per iscritto e oralmente, in molte circostanze, anche su questo giornale, su MicroMega rivista e on line, nel dibattito che ha accompagnato e predisposto la Carta di Roma. La cooptazione è il mezzo attraverso cui si formano le scuole, lo strumento col quale un maestro passa il testimone agli allievi migliori, dopo averli formati, selezionati, accuditi, fatti crescere, insegnando loro metodo e tecniche. Ma la cooptazione, lecita, e a mio avviso giusta, deve avere un limite: bisogna che il candidato da cooptare abbia i requisiti minimi, ossia non sia palesemente inferiore agli altri concorrenti (in ogni caso attraverso la cooptazione il maestro si qualifica o si squalifica).
Di solito per ovviare a questo problema si fanno concorsi blindati: ossia i titolari di una certa disciplina si accordano tra loro affinché nessuno vada a "rompere le scatole" (così si dice nel lessico accademico), mandando i propri allievi a concorrere a un posto che è stato richiesto e bandito con un vincitore in pectore, designato dal cattedratico di quel certo ateneo e facoltà. In questo modo l’ "interno" avrà vita facile: i candidati forti saranno dirottati ad altro concorso, invitati cioè ad aspettare il proprio turno, quello che il cattedratico indicherà, con l’accordo, se possibile, dei seniores di quella certa disciplina. E se vi saranno dei riottosi, toccherà ai loro padrini convincerli a rinunciare. O saranno gli stessi commissari a esercitare pressione, se si sono presentati, affinché si ritirino. Tanto più il vincitore in pectore è debole, tanto meno numerosi debbono essere i suoi competitors. Ovvio.
Ma esistono altre pratiche, quando il sorteggio (sempre ove si creda ai sorteggi effettuati presso il Ministero, senza alcun controllo esterno; io personalmente ci credo poco) sia sfavorevole: ossia due commissari si accordano sul vincitore ancora prima che la commissione sia insediata; e il vincitore, ovviamente, è di solito l’allievo/a di uno dei due, e fanno carte false per farlo prevalere, semplicemente contando sulla forza della maggioranza, a prescindere dal cosiddetto ius loci (il diritto di far prevalere l’interno, quanto meno a parità di merito), e soprattutto a prescindere dalla giustizia e dalla verità.
Clamoroso il recentissimo caso di Catania, per un posto da ricercatore a tempo determinato (3 anni, più 2 eventuali) di Storia contemporanea nel quale, contro l’evidenza, il buon senso e persino la normativa vigente, la commissione ha fatto vincere un’architetta, tale Melania Nucifora (ignota alle cronache della storiografia), addirittura priva del titolo di Dottore di ricerca (oggi praticamente obbligatorio), e con una produzione scientifica incongruente col settore disciplinare (Msto/02), a danno di un candidato incomparabilmente più forte, provvisto di ben 4 monografie. Un episodio che suona come un’offesa alla stessa università che ha bandito il posto, e che, pur davanti alla sentenza del Tar che ha dato ragione al ricorrente (Giambattista Scirè, apprezzato studioso, già ben noto alla comunità degli storici), sembra disinteressarsi della vicenda.
Altrettanto, gli storici contemporaneisti. Cane non mangia cane. Ma non sarebbe ora di rompere il silenzio? E di rialzare la schiena? La commissione, invitata dal Tar a rivedere il suo giudizio, clamorosamente incongruo rispetto alla realtà dei candidati, e da molti punti di vista, illegittimo, non ha fatto una piega. Si è nuovamente riunita e ha riconfermato pari pari il giudizio. Ammettere di aver sbagliato? Giammai! Complimenti ai colleghi. Ora è pendente alla Camera una interrogazione sul caso, svolta da un deputato del Pd, a sua volta storico di professione. E aspettiamo con curiosità la risposta del ministro o di chi per lui.
A Catania insomma ha prevalso, nella maniera più brutale, lo ius loci (ma non la cooptazione; là non c’è scuola che tenga, e la candidata, sebbene legata a qualcuno dei commissari da collaborazioni varie, non è certo l’allieva che si sta formando, provenendo da tutt’altri studi, che poco o nulla attengono alla stessa storiografia).
Invece a Torino un concorso - avviato, da molto tempo e non concluso - ha seguito l’altra strada, quella che ho indicato come alternativa (altrettanto inaccettabile) allo ius loci. Prima ancora di avere preso visione di titoli e pubblicazioni dei candidati, due commissari, in combutta tra loro, si sono presentati avendo già in tasca il nome del vincitore, anzi della vincitrice, nella persona dell’allieva e collaboratrice della presidente della Commissione: candidata palesemente tra i meno meritevoli di coloro che si sono presentati (numerosi perché qui non c’è stato l’accordo preliminare con il commissario interno all’Ateneo che ha bandito: «Non far presentare tizio e la prossima volta ti prometto che...»). Anzi, una candidata le cui pubblicazioni non erano neppure pienamente congruenti al settore disciplinare (Sps/02, Storia delle dottrine politiche). Il terzo commissario, l’interno, ha dichiarato di rinunciare a combattere per la persona per la quale, secondo il principio della cooptazione, aveva chiesto e ottenuto il posto (posto assai appetito, trattandosi di ricercatore a tempo indeterminato!). E aveva invocato un «vero concorso». Ossia, prescindiamo da tutto, e valutiamo i concorrenti al di fuori di ogni altra logica che non sia il famoso "merito" di cui dal ministro in carica, ai commentatori professionali, fino agli ignari avventori del Caffè Sport si riempiono la bocca, tra un cornetto e un cappuccino: troviamo un candidato oggettivamente meritevole sul quale far convergere i nostri voti. La risposta dei colleghi è stata: noi siamo due, tu sei uno.
A questo punto, con una dura lettera di denuncia alle autorità del suo Ateneo (dalle quali si è sentito non sostenuto), ha presentato le dimissioni. E ha ripreso la sua battaglia. Non più per far vincere il/la migliore, ma almeno per mostrare che cosa siano i concorsi farsa. Invece di firmare la solita relazione di minoranza, e aspettare il ricorso di un candidato, ha preferito passare subito al disvelamento. Non servirà? Ma gutta cavat lapidem. Se tutti facessero lo stesso, invece di tacere in attesa delle proprie rivincite, ossia di commettere loro domani, a danno di qualcuno, le ingiustizie di cui oggi sono vittime i propri allievi o comunque "protetti", forse si accelererebbe il processo di modifica di questi demenziali meccanismi di reclutamento, che per loro natura favoriscono arbìtri, e producono iniquità, provocando l’ovvio, progressivo scadimento del livello scientifico e dello stessa funzione culturale e civile dell’Università italiana.
Davanti a fatti come quelli qui accennati, non ci possiamo limitare ai discorsi, magari a mezza voce. Occorre squarciare il velo omertoso che avvolge il sistema e che rischia di divenirne il sudario. No. Non è questa l’Università che vogliamo.
Matematica e cultura
Aprite quella porta sui numeri
Non è facile decifrare la sua irragionevole efficacia
Difficile ma ipnotica: “E’ la matematica a dominare ogni nostro gesto”
di Michele Emmer (La Stampa TuttoScienze, 28.03.2012)
Il 23 settembre 1949 va in stampa un libro destinato a diventare famoso: «Le modulor. Essai sur une misure harmonique à l’échelle humaine applicable universellement à l’architecture et à la mécanique». Autore Le Corbusier.
Aveva un sogno l’architetto francese: «Il mio sogno è di erigere, nelle aree fabbricabili, una griglia delle proporzioni, che serva come indicazione per l’intero progetto, un modello che presenti un’infinita serie di differenti combinazioni e proporzioni e che il muratore, il carpentiere, il falegname dovranno consultare ogni qualvolta debbano scegliere le misure per il loro lavoro; in modo che tutte le opere saranno unificate dall’armonia. Prendiamo un uomo con il braccio alzato che in questa posizione raggiunga l’altezza di due metri e venti... Con tale griglia da costruzione, disegnata per essere in armonia con l’uomo collocatovi dentro, sono certo che si otterranno una serie di misure concilianti la dimensione umana a quella matematica».
Perché la matematica? «La matematica è la struttura regale studiata dall’uomo per avvicinarlo alla comprensione dell’universo. Afferra l’assoluto e l’infinito, il comprensibile e l’eternamente ambiguo. Ha muri sui quali si può salire e scendere senza alcun risultato; ogni tanto c’è una porta, allora si apre, si entra e ci si trova in un altro regno, il regno degli dei, il luogo che racchiude la chiave dei grandi sistemi. Queste porte sono le porte del miracolo».
Qualche anno dopo, nel 1958, un artista olandese destinato a diventare famoso, Maurits C. Escher, apriva un’altra porta: «Mi è capitato di imbattermi nel problema della divisione regolare del piano, delle figure che si ripetono all’infinito. Ho visto un alto muro e, dato che avevo la premonizione che nascondesse un enigma, vi sono salito con qualche difficoltà. Una volta arrivato dall’altra parte, mi sono ritrovato in un luogo selvaggio e ho avuto grande difficoltà a trovare la mia strada, sino a quando sono arrivato alla grande porta aperta della matematica».
Negli stessi anni di Escher Paperino compiva un viaggio nel regno della «matemagica» che si concludeva con le parole: «Non ci sono limiti a ciò che la mente può concepire e creare. Ogni giorno che passa le porte si spalancano su nuove conquiste scientifiche e le porte che oggi sono chiuse saranno aperte domani, con la stessa chiave: la matematica! La matematica è l’alfabeto con cui Dio compose l’Universo».
I legami tra la matematica e le arti, la letteratura, la poesia, l’architettura, la musica, il teatro e il cinema, hanno una storia antica che si rinnova continuamente. Insomma, il rapporto è inestricabile e la matematica è parte essenziale della cultura. «La matematica è una forza culturale di primo piano nella civiltà occidentale ha osservato Morris Kline, nel 1953, in “Mathematics in Western Culture”. - La matematica ha determinato la direzione e il contenuto di buona parte del pensiero filosofico, ha distrutto e ricostruito dottrine religiose, ha costituito il nerbo di teorie economiche e politiche, ha plasmato i principali stili pittorici, musicali, architettonici e letterari, ha procreato la nostra logica e ha fornito le risposte migliori che abbiamo alle domande fondamentali sull’uomo. Infine, essendo una realizzazione incomparabilmente raffinata, offre soddisfazioni e valori estetici almeno pari a quelli offerti da qualsiasi altro settore della cultura». Si dirà, parole di un matematico!
Non ci sono dubbi che negli ultimi anni, oltre ad un travolgente utilizzo di idee e strumenti matematici in tutti i campi del sapere e delle tecnologia, i rapporti tra matematica e cultura hanno visto una grande ripresa. Dal teatro all’architettura. In questo ultimo caso non solo come strumento del costruire, ma come fonte di ispirazione di nuove forme e idee. Il che non deve tuttavia far cadere nell’errore che la matematica sia una disciplina semplice e facilmente divulgabile.
«La matematica è un mondo a sé stante e bisogna viverci a lungo per sentire tutto ciò che necessariamente vi appartiene», ha osservato Robert Musil ne «I turbamenti del giovane Törless». A se stante ma, per dirla con una frase del fisico Eugene P. Wigner, è indubbia «l’irragionevole efficacia della matematica», non solo per le scienze della natura ma anche nella cultura. «La matematica non è solo uno dei mezzi essenziali del pensiero primario, ma anche una scienza delle proporzioni. E, poiché questa scienza ha in sé questi elementi fondamentali e li mette in relazione significativa, è naturale che simili fatti possano essere trasformati in immagini». Parole di uno dei grandi artisti del Novecento, Max Bill, nell’articolo «Il modo matematico di pensare nell’arte del nostro tempo», pubblicato nel 1949, lo stesso anno del libro di Le Corbusier.
A questi temi è dedicato da 14 anni, a Venezia, il convegno «Matematica e cultura»: l’edizione che si apre il 30 marzo tratterà di cinema, letteratura, musica e della tante applicazioni della matematica (info su www.mat.uniroma1.it/venezia2012). Con un omaggio a un genio dei numeri come Alan Turing: nel 2012 si celebrano i 100 anni della nascita.
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E’ PROFESSORE DI MATEMATICA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA IL LIBRO: «NUMERI IMMAGINARI. CINEMA E MATEMATICA» BOLLATI BORINGHIERI"
La bravura non ha nome e cognome
Altrove i ministri tornano a casa perché non hanno pagato i contributi alle colf. Da noi quelli come Luigi Frati si arrabbiano
di Claudio Fava (l’Unità, 03.03.2012)
La bravura non ha nome e cognome, dice Luigi Frati, rettore alla Sapienza di Roma. Nel corso degli anni, la «sua» facoltà di medicina (Frati ne è stato preside per quasi una vita) gli ha sistemato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, cattedra di storia della medicina), la figlia Paola (laurea in giurisprudenza, cattedra di medicina legale) e adesso il figlio Giacomo, ricercatore a ventotto anni, associato a trentuno, diventato ordinario di cardiochirurgia a trentasei anni dopo aver superato l’attentissimo vaglio di una commissione d’esame formata da tre dentisti e due igienisti.
D’impronta britannica il commento di Frati senior sulla carriera del figlio: «Giacomo mio s’è fatto un culo come un pajolo... il merito, ahò, ‘ndove lo metti il merito?». Già, dove lo mettiamo il merito? Frati junior l’ha applicato ad alcuni manichini, esercitandosi ad operare a cuore aperto su di loro in attesa di diventare professore e di ricevere in dote il suo reparto, pazienti inclusi.
La notizia non è questa cronaca da hostaria romana (con l’acca, però). La notizia è che non c’è notizia, nel senso che non è successo nulla. Il rettore è al suo posto, i famigli pure, la straordinaria coincidenza di un intero nucleo familiare sistemato a prescindere da tutto (dai percorsi universitari, dai legami di parentela, da un elementare senso di decenza) è stata letta, commentata e archiviata come si fa con le partite della nazionale: andrà meglio la prossima.
In altri Paesi, non più civilizzati del nostro, i ministri tornano a casa perché non hanno pagato contributi alle colf, i capi di stato si dimettono perché hanno sollecitato contributi per la moglie, i manager pubblici si autosospendono perché si sono fatti offrire una cena non dovuta. In Italia quelli come Frati invece s’incazzano, minacciano querela e restano inchiavardati al loro posto, ossequiati e inamovibili. Colpa loro? No. Colpa di chi tollera, tace e guarda altrove.
S’è perduto il valore dei gesti, il linguaggio di chi mostra con un gesto da che parte sta da dignità delle cose e delle persone. Senza scomodare il re della Danimarca che s’appuntò sul petto la stella gialla di David quando i nazisti chiesero alle loro nuove colonie europee di procedere col censimento a vista dei giudei (con quel gesto salvò la vita ad alcune centinaia di migliaia di ebrei), senza evocare la sobria coerenza di quei dodici docenti (dodici su milleottocento...) che nel ’38 si rifiutarono di giurare fedeltà al duce (e persero il posto, ma preservarono un briciolo d’onore all’università italiana), senza dover ricorrere a Bartleby lo scrivano che disse, senza aggiungere altro, «preferirei di no» (e non cambiò idea), insomma senza scivolare nelle celebrazioni, è però possibile che non ci sia alta e pubblica istituzione che non proponga una parola, un pensiero preoccupato, una critica ai comportamenti e ai ragionamenti del rettore della più grande università d’Europa?
Dal Quirinale, nei giorni scorsi, è stata recapitata ai giornali una lettera del Presidente che, garbatamente ma puntualmente, lamentava la critica formulata nei suoi confronti da un deputato del Pd: quella critica era solo un’opinione, ma è stata ritenuta meritevole di una replica personale dalla più alta carica dello Stato. Anche sul siparietto familiare del rettore della Sapienza, che intanto ci fa sapere di aver ricevuto anche la proposta di una candidatura per la carica di sindaco di Roma, il paese si sarebbe aspettato un qualche inarcarsi di sopracciglia.
Per esempio, al posto del ministro dell’Università, anche per puro scrupolo di verità, avremmo chiesto che ci venissero inviati gli atti relativi al concorso vinto da figlio del rettore (quello che opera i manichini): se non altro per far sapere a igienisti e dentisti che - da commissari d’esame devono decidere sulla competenza di un futuro cardiochirurgo, che la salute materiale dei cittadini e quella morale dell’università sono in cima ai nostri pensieri.
Perché se nei nostri pensieri non c’è spazio per le fulminee carriere dei figli del rettore, con che titolo ce la prendiamo con i vigili urbani romani che chiedevano la mazzetta per arrotondare la paga e concedere licenze abusive e certificazioni taroccate? Lo so, quelli truffavano, è un reato, è colpa grave... Poi però s’è saputo che i colleghi, anche quelli onesti, sapevamo. Ma tacevano. Ecco il punto: a far sempre finta di niente, sul magnifico rettore o sui vigili urbani romani, si finisce per abituarsi a tutto. Anche al peggio.
La carriera lampo del primario che operava i manichini
Giacomo Frati. Chirurgo e figlio del rettore della Sapienza, Luigi Frati
La carriera del primario che operava i manichini
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 28.02.2012)
Vi fareste operare al cuore da chi non ha « mai visto la cardiochirurgia » e si è impratichito solo con i manichini? Se la domanda vi sembra demenziale, sappiate che è già successo. O almeno così dice, in un’intervista stupefacente, il figlio del rettore della Sapienza. Che con una sfolgorante carriera si è ritrovato giovanissimo a fare il professore nella facoltà del papà, della mamma e della sorella.
Che per essere un grandissimo chirurgo si debba avere necessariamente un curriculum scientifico universitario, per carità, non è detto. Ambroise Paré, il fondatore della moderna chirurgia, pare fosse figlio di una peripatetica e cominciò nella scia del padre facendo insieme il chirurgo e il barbiere. E il capo-chirurgo dell’«équipe 2» del primo trapianto di cuore in Sud Africa, nel 1967, al fianco di Christiaan Barnard, pare sia stato Hamilton Naki, che era un autodidatta con la terza media che essendo nero figurava assunto come giardiniere ma aveva le mani d’oro al punto di ricevere, finita l’apartheid, una laurea ad honorem e il riconoscimento di Barnard: «Tecnicamente era meglio di me».
Detto questo, il modo in cui Giacomo Frati si è ritrovato alla guida di un’Unità Programmatica di (teorica) avanguardia al Policlinico di Roma appare sempre più sbalorditivo. Ricordate? Ne parlammo due settimane fa, dopo l’apertura di un’inchiesta giudiziaria. Riassumendo, il giovanotto riesce in una manciata di anni (ricercatore a 28, professore associato a 31, in cattedra a 36) a diventare ordinario nella stessa facoltà di medicina in cui il padre, il potentissimo rettore Luigi, è stato per una vita il preside e ha già piazzato la moglie Luciana Rita Angeletti (laurea in lettere, storia della medicina) e la figlia Paola, laureata in legge e accasata a Medicina Legale.
Un genio tra tanti «sfigati»? Sarà... Ma certo gli ultimi passaggi della vertiginosa carriera di Giacomo sono sconcertanti. Prima l’esame da cardiochirurgo vinto grazie al giudizio di una commissione di due igienisti e tre dentisti: «Giusto? Forse no però questo non è un problema mio...». Poi la chiamata a Latina dove era stata aperta una «succursale» di cardiologia della Sapienza presso la casa di cura Icot. Poi il ritorno a Roma appena in tempo prima che le nuove regole contro il nepotismo della riforma Gelmini impedissero l’agognato ricongiungimento familiare. Poi la creazione su misura per lui, togliendo un po’ di letti a un altro reparto, di un’«Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» che gli consente di avere un ruolo equiparato a quello di primario, novità decisa dal direttore generale Antonio Capparelli. Nominato poche settimane prima ai vertici del Policlinico proprio da Luigi Frati, il premuroso papà.
Troppo anche per un ateneo storicamente abituato a una certa dose di nepotismo. Eppure, neanche un verdetto del Tar che dà ragione a quanti avevano presentato un esposto contro gli esiti della «gara» vinta da Giacomo («illogicità del criterio adottato», «irragionevole penalizzazione degli idonei», «danno grave e irreparabile») è riuscito a frenare l’irrefrenabile ascesa del giovanotto. Anzi, il giorno dopo avere perso il ricorso in appello contro quella sentenza, l’università gli ha fatto fare un nuovo passo in avanti.
Né sono riusciti a bagnare l’impermeabile scorza di Luigi Frati (dominus assoluto di un sistema trasversale alla destra e alla sinistra che sta benissimo a molti baroni) alcune contestazioni nel Senato accademico o una miriade di mugugni sul Web. Né poteva infastidirlo, pochi giorni fa, il professor Antonio Sili Scavalli, segretario regionale della Fials e responsabile aziendale dello stesso sindacato, che ha mandato una diffida a Renata Polverini chiedendo come fosse possibile che Giacomo Frati, chiamato al Policlinico per attivare una guardia medica di cardiochirurgia, sia stato quattro mesi dopo promosso e contestualmente abbia chiesto, da primario, di essere esentato dalle noiose guardie notturne.
Ma le domande più fastidiose poste dal sindacato, che preannuncia un esposto alla magistratura, sono altre. È vero che in un anno e mezzo i dati sulla produttività dell’unità di Giacomo Frati «fornirebbero un numero pari a zero»? Ed è vero che in questo periodo il giovine chirurgo ha fatto in tutto 5 interventi «peraltro di cardiochirurgia classica» che dunque non c’entrano niente con la creazione su misura del reparto di «avanguardia»? E soprattutto: qual era la mortalità di quella dependance di cardiochirurgia a Latina dove si era impratichito?
Il punto più delicato è questo. Lo dicono nemici di Frati come il senatore Claudio Fazzone, che mesi fa ironizzò sull’«alta qualità portata a Latina» dal rettore: «Penso si riferisca alla cardiochirurgia che ha effettuato 44 interventi in un anno, di basso profilo, col più alto indice di mortalità del Lazio». Ma lo dice soprattutto un decreto della Regione del 29 settembre 2010. Dove si legge che nonostante a Latina fossero stati fatti «zero» interventi chirurgici «di alta complessità, i risultati all’Icot erano pessimi.
Tanto da spingere la Regione Lazio a chiudere la dependance universitaria, a costo di dover pagare alla casa di cura dove stava un risarcimento milionario: «La disattivazione dei posti letto di cardiochirurgia dell’Icot di Latina è sostenuta da valutazioni relative ai volumi di attività estremamente ridotti e alla bassa performance. Nel 2009, la struttura ha effettuato 44 interventi cardiochirurgici (pari all’1% del totale regionale) ed è ultima nel Lazio per capacità di attrazione, con una percentuale di ricoveri a carico di residenti fuori regione intorno al 2% (valore medio regionale del 9%). L’indice di inappropriatezza d’uso dei posti letto è 3 volte più elevato rispetto alla media regionale». Quanto «bassa» fosse la performance, lo dice una tabella riservata del «PReValE», il Programma regionale di valutazione degli esiti, recuperata da Sabrina Giannini, di «Report». Tabella dove, alla voce «Bypass aorto-coronarico» per il 2008-2009 sulla mortalità nei primi 30 giorni dei pazienti sottoposti ad intervento chirurgico, risulta che non ce la fece il 2,25% degli operati (su 356) al Gemelli, lo 0,46% (su 656) al San Camillo-Forlanini, il 2,67% (su 225) all’Umberto I, il 3,01 (su 632) all’European hospital e via così. Risultato finale: una media di mortalità, per quanto queste statistiche vadano prese con le pinze, intorno al 2,5%.
Bene: in un servizio per «Reportime» di Milena Gabanelli, servizio da questa mattina su corriere.it, Sabrina Giannini mostra quella tabella a Giacomo Frati: come mai all’Icot c’era una mortalità del 6% e cioè più che doppia? Il giovane «astro nascente» della famiglia del rettore sbanda. E si avvita in una risposta strabiliante: «Cioè, la cardiochirurgia qui è partita da zero. Faccio presente che quando noi abbiamo iniziato tutto il personale, anche infermieristico, era un personale che non aveva mai visto la cardiochirurgia. Abbiamo fatto simulazione in sala anche con i manichini. Anche per il posizionamento dei devices della circolazione extracorporea».
Fateci capire: «tutto il personale» (tutto, compresi dunque i chirurghi) era così a digiuno di cardiochirurgia che prima di operare dei pazienti si era addestrato coi manichini? Che storia è questa? Si sono impratichiti via via sui malati che avevano affidato loro la vita? Per difendere quel reparto, mentre la Regione decideva (troppi rpaerti) di rinunciare ad aprire nuove cardiochirurgie a Viterbo, Frosinone e Rieti, Luigi Frati disse in un’intervista a «La Provincia»: «Mi chiedo perché mai uno di Latina non abbia il diritto di farsi operare nella sua città». Ma da chi, signor rettore? A che prezzo? In quale altro paese del mondo, dopo tutto ciò che è emerso, potrebbe restare ancora imbullonato al suo posto?
Antropologia e matematica
Alla Fondazione Isi e all’Università La Sapienza le ricerche sull’origine della comunicazione
Così imparammo a dire rosso
Dai modelli della complessità la nuova interpretazione del linguaggio
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze 15.02.2012)
Vittorio Loreto Fisico RUOLO: E’ PROFESSORE DI FISICA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA E COORDINATORE DEL GRUPPO DI «INFORMATION DYNAMICS» ALLA FONDAZIONE ISI DI TORINO
Se le parole si inceppano, meglio saltare sui numeri. Per esempio quando si indagano le acrobazie dei linguaggi, come sbocciano e si trasformano, come si impongono e si estinguono. E infatti nella nicchia ecologica dei linguisti si stanno intrufolando i fisici ed i matematici, trascinando con sé la potenza di calcolo delle formule e i verdetti spiazzanti degli algoritmi. E non solo. Insinuano punti di vista inattesi e a volte provocatori, incrinando la sacralità di quella che consideriamo la nostra dote più sofisticata, e allo stesso tempo plasmano modelli inediti per rispondere a un interrogativo antichissimo: perché parliamo e così tanto?
Professor Vittorio Loreto, lei è fisico all’Università La Sapienza di Roma e coordinatore del gruppo di «Information Dynamics» alla Fondazione ISI di Torino ed è proprio uno di questi «alieni»: incrocia strumenti teorici e computazionali (come i giochi linguistici) con test sul Web. Che cosa pretendono di svelare i suoi numeri?
«Partiamo dal metodo: il mio team costruisce dei modelli sintetici al calcolatore, che riproducono le interazioni tra coppie di individui e le replicano in serie per studiarne gli effetti su larga scala. Si tratta di simulazioni numeriche, con cui si esplorano alcune ipotesi cognitive sui modi in cui comunichiamo».
Lei si è interessato, tra l’altro, a come si possano inventare i nomi dei colori.
«In particolare all’universalità della categorizzazione dei colori. Si è osservato che in alcune popolazioni pre-industrializzate i nomi dei colori primari si limitano a due e indicano il chiaro e lo scuro. Quando emerge un terzo vocabolo, questo è quasi invariabilmente il rosso, seguito - di nuovo in una successione pressoché costante dal verde e dal giallo e in una fase ulteriore da blu, marrone e poi violetto, rosa, arancio e grigio. Finora nessuno aveva dato una spiegazione convincente di questo ordine».
Qual è l’interpretazione?
«Siamo partiti da un punto fondamentale, anteriore al linguaggio stesso e di tipo fisiologico: ciò che ci accomuna è il potere risolutivo dell’occhio, vale a dire la capacità di discriminare i colori sulla base delle loro frequenze. Per alcune, come il blu o l’arancio, siamo più sensibili, mentre nei confronti di altre, come il rosso, abbiamo prestazioni inferiori. La conseguenza è significativa».
Può spiegarla?
«Se si ha una bassa capacità di discriminazione per le tonalità del rosso, è probabile che le persone si accorderanno rapidamente su che cosa sia. Quando invece cresce l’accuratezza della visione di altre tonalità, tipo il blu o l’arancio, l’accordo su ciò che sono e non sono richiede molto più tempo, perché si moltiplicano i distinguo. Queste differenze sono importanti, perché permettono di stabilire delle ipotesi con cui quantificare i tempi evolutivi richiesti per far emergere un sistema condiviso con il quale nominare i colori. Sono risultati nuovi, numerici, appunto, con i quali cominciamo a osservare il linguaggio a partire da principi di comunicazione».
Si riferiscono ai «giochi linguistici», in cui riproducete la transizione da una fase di frammentazione della comunicazione a un’altra di consenso generalizzato?
«Partiamo da simulazioni della comunicazione tra due persone e le allarghiamo a intere popolazioni, analizzando modi e tempi. L’approccio vale per le categorie dei colori, ma anche per altre realtà a cui ci stiamo dedicando: l’emergere delle strutture sintattiche, per esempio, oltre che dei significati e dei simboli».
E così ai linguisti «tradizionali» servite un’ingombrante sorpresa, cioè una nuova disciplina, la «linguistica in silico»: non vi accontentate di teorie, ma tentate esperimenti su larga scala.
«La chiamiamo “in silico” per le caratteristiche dei test: vengono condotti con i calcolatori sia su popolazioni artificiali sia in modi ancora più sofisticati. Alla Fondazione ISI e all’Università Sapienza studiamo come utilizzare il Web, esaltandone le caratteristiche di laboratorio ideale. Se finora le scienze sociali dovevano accontentarsi di campioni limitati, ora i social networks garantiscono una base enorme di utenti e permettono di riprodurre realisticamente i protocolli d’interazione tra individui, e non solo in ambito linguistico».
Può fare un esempio?
«“Mechanical Turk”: è una piattaforma Web che riproduce un mercato del lavoro virtuale, in cui gli utenti svolgono una serie di compiti - dalla categorizzazione di immagini alla trascrizione di registrazioni - e vengono retribuiti da specifici “datori di lavoro”. E’ l’esempio di una tendenza generale in cui il Web sta diventando un’infrastruttura per una “computazione sociale”, poiché consente di coordinare le capacità cognitive di computer umani, realizzando così esperimenti di massa nell’ambito delle scienze sociali. Si tratta di uno scenario agli albori, ma ricco di promesse e applicazioni: all’ISI e alla Sapienza lavoriamo a un progetto europeo sulle dinamiche di opinione. Vogliamo capire come si formano e si trasformano, dall’inquinamento ai cambiamenti climatici».
Ritorniamo al linguaggio: una volta filtrato dai numeri, che cosa appare?
«Un sistema complesso. Dall’interazione ripetuta di tanti elementi semplici vengono alla superficie esiti non prevedibili. Il linguaggio significa cambiamenti continui: ecco perché abbiamo appena iniziato a scalfirne i misteri».
Il declino della Sapienza all’ombra di Parentopoli
Al 430º posto nel mondo
Luigi Frati. Nell’ateneo dopo moglie e figlia anche il figlio del rettore
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 10.02.2012)
« Parentopoli? Ma perché non parlate di " Ignorantopoli"? Questo è il vero problema dell’università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore! » , sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca. Ma la Procura non è d’accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze. E sull’arrivo dell’ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere.
Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all’intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L’Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario.
Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un’eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà.
Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l’aula Grande di Patologia Generale».
Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene, quella volta, a guastare un po’ la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell’aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come "crazi" che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c’è qui mia moglie...».
Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è "la moglie di", sono io che sono "il marito di"».
Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report: discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo.
«Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l’inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io... Non parliamo di cuore o di fegato, però...». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d’igiene potevano adeguatamente...». «Forse no però questo non è un problema mio...».
Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell’entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione.
Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica, sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po’ di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l’Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell’ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell’uomo che lo aveva appena promosso. Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell’inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste?
Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l’ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall’Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse.
Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due?
Un manifesto: L’università che vogliamo
L’UNIVERSITÀ CHE VOGLIAMO
Un appello di docenti e ricercatori universitari al ministro Profumo e al Governo Monti *
L’Università italiana sopravvive, difficoltosamente, in una condizione di disagio e di crescente emarginazione che ha pochi termini di confronto nella storia recente. Essa ha visto fortemente ridotte le risorse economiche per il suo funzionamento, molto prima che si manifestasse la crisi mondiale e malgrado le modeste dotazioni di partenza rispetto agli altri Paesi industrializzati. Tutti i saperi umanistici e buona parte delle scienze sociali sono da tempo sfavoriti, a beneficio di discipline che si immaginano più direttamente utili alla crescita economica, o genericamente al “Mercato”. Si tratta di una tendenza in atto da anni che ci accomuna all’Europa e a larga parte del mondo. A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile, trasformabile in valore di mercato, altrimenti sono ritenuti economicamente non sostenibili.
Perciò oggi si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo, le Università europee sono sotto l’assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà - docenti, studenti, personale amministrativo - è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici.
Noi crediamo che questo modello di Università europea, avviato con il cosiddetto “processo di Bologna” abbia rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato, le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l’autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società. Tutto ciò riguarda non solo il nesso saperi/mercato, ma anche il modello sociale, come è evidente alla luce dell’innalzamento delle tasse d’iscrizione, delle politiche di numero chiuso e della scelta di segmentare, alla luce di politiche classiste, il sistema universitario nazionale facendosi schermo del mito dell’eccellenza.
Al fondo di questo fallimento c’è una esperienza storica recente che illumina sinistramente l’intero quadro europeo. È quello che possiamo chiamare il grandioso scacco americano. Gli USA, elaboratori del modello che l’UE ha voluto tardivamente imitare, sono il Paese che in assoluto ha investito di più nella formazione universitaria e nella ricerca, finalizzate ad accrescere la potenza economica. Ma a dispetto dell’immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. Per concludere con una apoteosi: gli USA, che hanno visto trionfare negli ultimi decenni nuove tecnoscienze come l’informatica e la genetica, hanno trascinato il mondo nella più grave crisi economico-finanziaria degli ultimi 80 anni.
Questa lezione storica ci dice che il sapere tecnoscientifico, da sé, interamente finalizzato alla crescita economica e senza un progetto equo e solidale di società, privo della luce della cultura critica, è destinato a fallire. Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l’erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto.
Per tale ragione, i firmatari del presente Manifesto indicano i punti programmatici cui dovrebbe ispirarsi un progetto di università che avvii la fuoriuscita dal modello liberistico di un’Europa ormai sull’orlo del collasso. Occorre al più presto abolire il fallimentare sistema del 3+2 dall’organizzazione degli studi e ripristinare i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli.
Occorre abolire i crediti (i famigerati CFU) come criteri di valutazione degli esami. Il fatto che essi siano utilizzati anche nel resto d’Europa è una buona ragione per incominciare a scardinare il misero economicismo che è stato iniettato anche negli atenei del Vecchio Continente.
Occorre ripensare i criteri di valutazione che riguardano i saperi umanistici. Noi crediamo giusto che l’Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. Una condizione che implica anche un controllo - certamente mediato, ma serio, non propagandistico - del buon uso delle risorse provenienti dal contributo fiscale di tutti i cittadini. Ma tale controllo deve riguardare soprattutto i Consigli di Amministrazione degli Atenei, che devono diventare assolutamente trasparenti, con adeguata pubblicità, nelle loro scelte e nei loro bilanci.
L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano.
Occorre ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato abolita dalla legge Gelmini. Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori, con liste nazionali di idoneità, che tengano conto della produzione scientifica, dell’esperienza maturata nell’attività didattica, nell’attività gestionale, e nell’organizzazione culturale: le Facoltà dovranno poter scegliere all’interno di quelle liste e chiamare liberamente gli idonei.
Ma è necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d’Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà. Oggi si piangono ipocrite lacrime sulla disoccupazione della gioventù. Ma quale migliore occasione per il governo in carica di fornire risorse ai ricercatori senza lavoro, ai tanti giovani che passano dai dottorati ai master senza mai trovare un approdo, una istituzione in cui continuare studi e ricerche?
È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università. La complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, ci chiede un dialogo tra le discipline, una organizzazione degli studi che non esalti la solitaria eccellenza individuale, ma la cooperazione fra campi diversi della conoscenza, così come la società ci chiede la cura collettiva dei beni comuni.
15 gennaio 2012
Promotori: Piero Bevilacqua (Storia contemporanea, Sapienza, Roma), Angelo d’Orsi (Storia del pensiero politico, Università di Torino).
Per aderire scrivere qui: universitachevogliamo@gmail.com
* http://eddyburg.it/article/articleview/18376/0/341/, 24.01.2012
Appello
TRADIMENTO MONTI
di Alex Zanotelli *
SALVIAMO IL REFERENDUM DELL’ACQUA
Era il 13 giugno, esattamente 7 mesi fa, quando 26 milioni di italiani/e sancivano l’acqua bene comune :”Ubriachi eravamo di gioia... le spalle cariche dei propri covoni!(Salmo,126)
E oggi,13 gennaio ritorniamo a “seminare nel pianto..” (Salmo,126) perché il governo Monti vuole privatizzare la Madre. Sapevamo che il governo Monti era un governo di banche e banchieri, ma mai, mai ci saremmo aspettati che un governo, cosidetto tecnico, osasse di nuovo mettere le mani sull’acqua, la Madre di tutta la vita sul pianeta.
E’ quanto emerge oramai con chiarezza dalla fase 2 dell’attuale governo, che impone le liberalizzazioni in tutti i settori.Infatti le dichiarazioni di ministri e sottosegretari, in questi ultimi giorni, sembrano indicare che quella è la strada anche per l’acqua. Iniziando con le affermazioni di A.Catricalà, sottosegretario alla Presidenza, che ha detto che l’acqua è uno dei settori da aprire al mercato.E C.Passera, ministro all’economia,ha affermato :”Il referendum ha fatto saltare il meccanismo che rende obbligatoria la cessione ai privati del servizio di gestione dell’acqua, ma non ha mai impedito in sé la liberalizzazione del settore.” E ancora più spudoratamente il sottosegretario all’economia G. Polillo ha rincarato la dose: “Il referendum sull’acqua è stato un mezzo imbroglio. Sia chiaro che l’acqua è e rimane un bene pubblico. E’ il servizio di distribuzione che va liberalizzato.”E non meno clamorosa è l’affermazione del ministro dell’ambiente C.Clini:”Il costo dell’acqua oggi in Italia non corrisponde al servizio reso.....La gestione dell’acqua come risorsa pubblica deve corrispondere alla valorizzazione del contenuto economico della gestione.”
Forse tutte queste dichiarazioni preannunciavano il decreto del governo (che sarà votato il 19 gennaio) che all’art.20 afferma che il servizio idrico - considerato servizio di interesse economico generale - potrebbe essere gestito solo tramite gara o da società per azioni, eliminando così la gestione pubblica del servizio idrico. Per dirla ancora più semplicemente, si vuole eliminare l’esperienza che ha iniziato il Comune di Napoli che ha trasformato la società per azioni a totale capitale pubblico(ARIN ) in ABC (Acqua Bene Comune-Ente di diritto pubblico).
E’ il tradimento totale del referendum che prevedeva la gestione pubblica dell’acqua senza scopo di lucro .E’ il tradimento del governo dei professori.E’ il tradimento della democrazia.
Per i potentati economico-finanziari italiani l’acqua è un boccone troppo ghiotto da farselo sfuggire.Per le grandi multinazionali europee dell’acqua(Veolia,Suez,Coca-Cola...) che da Bruxelles spingono il governo Monti verso la privatizzazione, temono e tremano per la nostra vittoria referendaria,soprattutto il contagio in Europa.
“Un potere immorale e mafioso -ha giustamente scritto Roberto Lessio, nel suo libro All’ombra dell’acqua- si sta impossessando dell’acqua del pianeta.E’ in corso l’ultima guerra per il possesso finale dell’ultima merce:l’acqua.Per i tanti processi di privatizzazione dei servizi pubblici in corso, quello dell’accesso all’acqua è il più criminale.Perchè è il più disonesto, il più sporco, il più pericoloso per l’esistenza umana.”
Per questo dobbiamo reagire tutti con forza a tutti i livelli, mobilitandoci per difendere l’esito referendario, ben sapendo che è in gioco anche la nostra democrazia.
Chiediamo al più presto una mobilitazione nazionale, da tenersi a Roma perché questo governo ascolti la voce di quei milioni di italiani/e che hanno votato perché l’acqua resti pubblica .
Chiediamo altresì che il governo Monti riceva il Forum italiano dei movimenti per l’acqua,ciò che ci è stato negato finora.
Rilanciamo con forza la campagna di “obbedienza al referendum” per trasformare le Spa in Ente di diritto pubblico(disobbedendo così al governo Monti).
Sollecitiamo i Comuni a manifestare la propria disobbedienza alla privatizzazione dell’acqua con striscioni e bandiere dell’acqua.
E infine ai 26 milioni di cittadini/e di manifestare il proprio dissenso esponendo dal proprio balcone, uno striscione con la scritta :”Giù le mani dall’acqua”!
In piedi, popolo dell’acqua!
Ce l’abbiamo fatta con il referendum, ce la faremo anche adesso!
E di nuovo la nostra bocca esploderà di gioia (Salmo,126)
Alex Zanotelli
Napoli, 13 gennaio 2012
* IL DIALOGO, Lunedì 16 Gennaio,2012 Ore: 16:02
22-23 September 2011
Sapienza, Università di Roma - Dipartimento di Fisica e Dipartimento di Filosofia
Convegno
MENZOGNE?
IL CONCETTO DI FALSITA’ DELLA COMUNICAZIONE FILOSOFICA E SCIENTIFICA
Relatori: ADELINO CATTANI, CARLO COSMELLI, ROBERTO D’AUTILIA, FEDERICO DI TROCCHIO, PIETRO GRECO, CRISTINA MARRAS, STEFANO MASO, LUCIO RUSSO, NICLA VASSALLO, FRANCESCO VERDE
La comunicazione scientifica, una volta limitata al semplice aspetto della comunicazione di informazioni tecnico-scientifiche, è diventata un elemento determinante in molti aspetti della vita quotidiana del cittadino moderno. Dopo un lungo periodo in cui lo scienziato (il filosofo) discettava di problemi scientifici in ambienti estremamente ristretti e poteva quindi comunicare o tramite linguaggi ermetici o tramite gerghi quasi-iniziatici, si è visto come la scienza sperimentale di Galileo abbia interessato anche il modo di comunicare scienza, e non solo quello di “farla”. Questa esigenza di comunicazione ha portato nel tempo con significative anticipazioni già nel mondo antico greco-romano, alla necessità di compiere sempre più profonde e dettagliate ricerche sul linguaggio, inteso all’inizio come mezzo di comunicazione e più modernamente ora percepito come un ambiente entro il quale il pensiero si sviluppa e viene comunicato.
La comunicazione scientifica è diventata quindi un elemento intimamente legato alle caratteristiche delle società moderne. Qualunque aspetto della vita è oggi influenzato e trasformato da una serie di messaggi di natura scientifico-tecnologica intesi sia come semplici “informazioni”, che come “istruzioni per scegliere”, che come “istruzioni per fare”. Il cittadino inoltre, facendo parte di un’estesa comunità, utilizza queste informazioni per catalizzare tutta una serie di comportamenti sociali che si traducono nelle strategie di scelta di macro-aree di popolazione. Il risultato sarà quindi di avere creato, partendo da semplici one-to-one messages, una rete di relazioni complesse che evolvono in maniera non ovvia.
Comitato: CARLO COSMELLI, CRISTINA MARRAS, EMIDIO SPINELLI
Programma: http://agenda.infn.it/conferenceTimeTable.py?confId=3532
Manifesto: http://agenda.infn.it/internalPage.py?pageId=3&confId=3532
Sito: http://www.phys.uniroma1.it/DipWeb/menzogne.htm
E don Milani disse: «L’acqua è di tutti»
di Lorenzo Milani (Avvenire, 09 giugno 2011) *
Caro direttore,
col progetto di consorzio di cui ti parlai si darebbe l’acqua a nove famiglie. Quasi metà del mio popolo. Il finanziamento è facile perché siamo protetti dalla legge per la montagna. La benemerita 991 la quale ci offre addirittura o di regalo il 75 per cento della spesa oppure, se preferiamo, in mutuo l’intera somma. Mutuo da pagarsi in 30 anni al 4 per cento comprensivo di ammortamento e interessi. Nel caso specifico, l’acquedotto costerà circa 2 milioni. Se vogliamo sborsarli noi, il governo fra due anni ci rende un milione e mezzo.
L’altro mezzo milione ce lo divideremo per 9 che siamo e così l’acqua ci sarà costata 55.000 lire per casa. Oppure anche nulla; basta prendere pala e piccone e scavarci da noi il fossetto per la conduttura e ecco risparmiate anche le 55.000 lire.
Se invece non avessimo modo di anticipare il capitale allora si può preferire il mutuo. Il 4 per cento di due milioni è 80.000 lire all’anno. Divise per nove dà 8.800 lire per uno. Se pensi che 8.000 lire per l’acqua forse le spendi anche te in città e se pensi che a te l’acqua non rende, mentre a un contadino e in montagna vuol dire raddoppiare la rendita e dimezzare la fatica, capirai che anche questo secondo sistema è straordinariamente vantaggioso. Insomma bisogna concludere che la 991 è una legge sociale e meravigliosa.
Mi piacerebbe darti un’idea chiara di quel che significa l’acqua quassù, ma per oggi mi contenterò di dirti solo questo: s’è fatto il conto che per ogni famiglia del popolo il rifornimento d’acqua richieda in media 4 ore di lavoro di un uomo valido ogni giorno. Se i contadini avessero quella parità di diritti con gli operai che non hanno, cioè per esempio quella di lavorare solo 8 ore al giorno, si potrebbe dunque dire che qui l’uomo lavora mezza giornata solo per procurarsi l’acqua. Dico acqua, non vino! Tu invece per l’acqua lavori dai tre ai quattro minuti al giorno. A rileggere l’articolo 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale» mi vengono i bordoni. Ma oggi non volevo parlarti dei paria d’Italia, ma d’un’altra cosa.
Dicevamo dunque che c’è questa 991 che pare adempia la promessa del 2° paragrafo dell’art. 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini». A te, cittadino di città, la Repubblica non regala un milione e mezzo, né ti presta i soldi al 4 per cento compreso l’ammortamento. A noi sì.
Basta far domanda e aver qualche conoscenza. Infatti eravamo già a buon punto perché un proprietario mi aveva promesso di concederci una sua sorgente assolutamente inutilizzata e inutilizzabile per lui, la quale è ricca anche in settembre e sgorga e si perde in un prato poco sopra alla prima casa che vorremmo servire. Due settimane dopo, un piccolo incidente. Quel proprietario ha un carattere volubile. Una mattina s’è svegliato d’umore diverso e m’ha detto che la sorgente non la concede più. Ho insistito. S’è piccato. Ora non lo scoscendi più neanche colle mine.
Ma il guaio è che quando ho chiesto a un legale se c’è verso d’ottenere l’esproprio di quella sorgente, ma risposto di no. Sicché la bizzettina di quell’omino, fatto insignificante in sé, ha l’atomico potere di buttare all’aria le nostre speranza d’acqua, il nostro consorzio, la famosa 991, il famoso articolo 3, le fatiche dei 556 costituenti, la sovranità dei loro 28 milioni di elettori, tanti morti della Resistenza (siamo sul monte Giovi! Ho nel popolo le famiglie di 14 fucilati per rappresaglia). Ma qui la sproporzione tra causa ed effetto è troppa! Un grande edificio che crolla perché un ragazzo gli ha tirato coll’archetto! C’è un baco interiore dunque che svuota la grandiosità dell’edificio di ogni intrinseco significato. Il nome di quel baco tu lo conosci. Si chiama: idolatria del diritto di proprietà.
A 1955 anni dalla Buona Novella, a 64 anni dalla Rerum Novarum, dopo tanto sangue sparso, dopo 10 anni di maggioranza dei cattolici e tanto parlare e tanto chiasso, aleggia ancora vigile onnipresente dominatore su tutto il nostro edificio giuridico. Tabù. Son 10 anni che i cattolici hanno in pugno i due poteri: legislativo e esecutivo. Per l’uso di quale dei due pensi che saranno più severamente giudicati dalla storia e forse anche da Dio? Che la storia condannerà la nostra società è profezia facile a farsi.Basterebbe il solo fatto della disoccupazione oppure il solo fatto degli alloggi.
Ma una storia serena non potrà non valutare forse qualche scusante, certo qualche attenuante: l’ostacolo della burocrazia insabbiatrice, quello dell’Italia sconvolta dalla guerra, quello degli impegni internazionali...
Insomma, tra attenuanti e aggravanti, chi studierà l’opera dei cattolici in Italia forse non riuscirà a dimostrare che la loro incapacità sia un’incapacità costituzionale. Saremo perdonati dunque anche se in questa preziosa decennale occasione di potere non avremo saputo mostrare al mondo cosa sappiamo fare. Ma guai se non avremo almeno mostrato cosa vorremmo fare. Perché il non saper fare nulla di buono è retaggio di ogni creatura. Sia essa credente o atea, sia in alto o basso loco costituita. Ma il non sapere cosa si vuole, questo è retaggio solo di quelle creature che non hanno avuto Rivelazione da Dio. A noi Dio ha parlato. Possediamo la sua legge scritta per steso in 73 libri e in più possediamo da 20 secoli anche un Interprete vivente e autorizzato di quei libri.
Quell’Interprete ha già parlato più volte, ma se non bastasse si può rivolgersi in ogni momento a lui e sottoporgli nuovi dubbi e nuove idee. A noi cattolici non può dunque far difetto al luce. Peccatori come gli altri, passi.
Ma ciechi come gli altri no. Noi i veggenti o nulla. Se no val meglio l’umile e disperato brancolare dei laici. Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l’acqua è di tutti. Quando avranno fatto questo, poco male se poi non si riuscirà a mandare due carabinieri a piantar la bandiera della Repubblica su quella sorgente.
Manderanno qualche accidente al governo e ai preti che lo difendono. Poco male. Partiranno per il piano ad allungarvi le file dei disoccupati e dei senza tetto. Non sarà ancora il maggior male. Purché sia salva almeno la nostra specifica vocazione di illuminati e di illuminatori. Per adempire quella basta il solo enunciare leggi giuste, indipendente dal razzolar poi bene o male.
Chi non crede dirà allora di noi che pretendiamo di saper troppo, avrà orrore dei nostri dogmi e delle nostre certezze, negherà che Dio ci abbia parlato o che il papa ci possa precisare la Parola di Dio. Dicendo così avrà detto solo che siamo un po’ troppo cattolici. Per noi è un onore. Ma sommo disonore è invece se potranno dire di noi che, con tutte le pretese di rivelazione che abbiamo, non sappiamo poi neanche di dove veniamo o dove andiamo, e qual è la gerarchia dei valori, e qual è il bene e quale il male, e a chi appartengono le polle d’acqua che sgorgano nel prato di un ricco, in un paesino di poveri.
* Don Milani scrisse questa lettera dalla montagna alla fine del 1955 e venne pubblicata sul «Giornale del Mattino» di Bernabei. Singolare consonanza con i temi dei referendum dei prossimi giorni. «Mi piacerebbe darti un’idea di quel che significa l’acqua quassù: per ogni famiglia il rifornimento richiede in media 4 ore ogni giorno Qui l’uomo fatica mezza giornata solo per procurarsi da bere» «Tu per l’acqua lavori 3 o 4 minuti...» "Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l’acqua è di tutti." (Finesettimana.org)
La carriera da record del figlio del rettore
Frati jr ordinario a 36 anni alla Sapienza di Roma nonostante le bocciature del Tar
Su Report in onda stasera su RaiTre la storia della famiglia più potente dell’ateneo
Poche settimane fa l’ultima promozione: direttore di unità al Policlinico
di Mauro Favale (la Repubblica, 15.05.2011)
ROMA - La carriera è folgorante, un’eccezione nell’Italia dei baroni: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31, ordinario a 36. E pazienza se il cognome pesa: come ripete sempre suo padre, Luigi Frati, magnifico rettore della Sapienza di Roma, «la bravura non ha nome né cognome». E poi, il secondogenito di Luigi, Giacomo Frati, di traguardi continua a conquistarne e l’ultimo gradino l’ha superato il 19 aprile. Quel giorno è diventato direttore dell’unità programmatica del Policlinico Umberto I. E probabilmente è solo una coincidenza il fatto che appena 24 ore prima, la Sapienza era stata sconfitta nell’appello presentato dopo una sentenza del Tar che dà ragione ad Alessandro Moretti, ricercatore di geoeconomia dello stesso ateneo. Un ricorso contro la decisione, votata in autunno dal senato accademico, di assumere 25 ricercatori e professori (tra cui proprio Giacomo Frati), scavalcando chi, come Moretti, aveva già in tasca e da 5 anni, un’idoneità per associato.
Il Tar dà ragione a Moretti, parla di danno grave e irreparabile e di «criterio illogico che comporta una penalizzazione». Ma nonostante la sentenza, alla Sapienza si va avanti come se nulla fosse. La vicenda la racconta un’inchiesta di Report, firmata da Sabrina Giannini, in onda questa sera su RaiTre. Una puntata sui concorsi: si parla di notai, magistrati del Consiglio di Stato e professori universitari. In particolare quei baroni che, nel corso degli anni hanno costruito il proprio feudo chiamando attorno a sé parenti più o meno stretti.
Proprio come Frati (certo non l’unico esempio): con lui ha lavorato la moglie (oggi in pensione) docente di storia della medicina passata in pochi anni dall’insegnamento in un liceo a quello in università. E con lui, tuttora, oltre a Giacomo, c’è anche Paola, l’altra figlia, laureata in giurisprudenza e ordinaria di medicina legale.
Ma è su Giacomo che si concentra Report: perché destò scalpore, a dicembre, la decisione della Sapienza di richiamarlo poco prima che entrasse in vigore la riforma Gelmini con la sua norma anti-parentopoli che vieta l’assunzione come docenti per coloro che hanno parenti nella stessa facoltà. Un divieto esteso fino al quarto grado e che avrebbe impedito "il ricongiungimento familiare" dei Frati.
Ma se ora, nonostante ricorsi al tar e appelli persi, con l’entrata in vigore della riforma, tutto questo non sarà più possibile, alla Sapienza non mancheranno le assunzioni "a chiamata diretta". Secondo Report, il primo ateneo di Roma (in cui è docente un consulente del ministro Gelmini) è riuscito a strappare dal ministero più di un milione di euro di fondi extra che serviranno anche per assumere due docenti e per promuoverne una ventina.
E Frati? Il suo mandato scade tra un anno. Prima di entrare in carica, per 15 anni, è stato preside di Medicina, la facoltà che governa l’Umberto I. Un ospedale universitario con un buco da 160 milioni di euro, in cui i chirurghi effettuano in media 30 interventi l’anno (in Europa, negli altri policlinici universitari, la media è di 120-130) e in cui Frati è ancora primario del day hospital oncologico. Peccato, però, che come hanno testimoniato le telecamere di Report, Frati, in quel reparto non ci metta piede da anni.
Il barone e l’invertito
di Marco D’Eramo (il manifesto, 12 aprile 2011)
Invertiti, avvertiti, convertiti, divertiti, pervertiti, riveriti, sovvertiti di tutta Italia, unitevi! Anzi uniamoci contro l’esimio barone Roberto De Mattei che sulle onde di Radio Maria attribuisce la caduta dell’impero romano all’«effeminatezza degli invertiti» e teme per l’Italia «l’invasione dell’Islam» («religione indubbiamente basata sulla violenza e sulla sopraffazione»). Uniamoci noi per liberarci di quest’inquietante macchietta, che non è un radioimbonitore qualunque, ma è il vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
Cioè dell’organo statale preposto alla ricerca scientifica. Facciamolo, visto che migliaia e migliaia di intrepidi scienziati italiani se ne guardano bene. E, per ragioni di bottega, lo temono e si tacciono. Questo paladino del razionalismo critico era noto finora per le tesi creazioniste, per avere organizzato nel 1999 un convegno antidarwiniano e per aver scritto nel 2009 Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, pamphlet finanziato con 9.000 euro di denaro pubblico.
Ma da ultimo si è superato, prima con la fantasiosa spiegazione del perché declinò la civiltà classica (un declino davvero lungo: Socrate e Platone «invertiti» erano - per usare l’elegante termine di De Mattei - nove secoli prima che l’impero romano fosse dissolto). E poi per aver spiegato, sempre su Radio Maria, che il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone «sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio», tesi ribadita ieri in un’intervista ad Antonio Gnoli di Repubblica: «Anche i popoli possono peccare e per questo essere puniti».
Non sappiamo se De Mattei sarà ricordato come l’uomo che schiantò Darwin. Ma certo già oggi è colui che ha disintegrato la reputazione prima di Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, e poi dell’intero corpo scientifico italiano. Infatti quel che rende insopportabili le panzane del già professore associato all’università di Cassino è quel che il pensiero femminista chiama «il luogo di enunciazione».
Molti telepredicatori statunitensi propagano castronerie ancora più surreali, ma almeno loro non sono stati messi alla testa dell’apparato pubblico di ricerca scientifica. Invece le ministre Moratti e Gelmini lo nominarono nel consiglio d’amministrazione del Cnr per ingraziarsi un po’ il Vaticano e un po’ la corrente di Gianfranco Fini, visto che De Mattei è considerato in quota ai finiani: e quest’affiliazione non è estranea all’indulgenza, soprattutto recente, mostrata nei suoi confronti dai professori di centrosinistra. Certo che De Mattei al Cnr è come un iconoclasta alla Galleria degli Uffizi. Con un altro governo sarebbe stato inimmaginabile mettere un creazionista bigotto nella sala di controllo della ricerca.
Ma chi da questa storia esce peggio è la comunità scientifica e accademica italiana. Più delle corbellerie omofobe di De Mattei, a colpire è il silenzio pavido degli scienziati. È la loro viltà. Abbiamo tanto sparlato degli accademici sovietici che subirono le assurde dottrine biologiche di Lyssenko senza fiatare, per paura di perdere il posto, per compromesso, per quieto vivere, perché magari nel frattempo Stalin lasciava lavorare veri scienziati come Pyotr Kapitza e Lev Landau.
Ma allora cosa dovremmo dire dei nostri accademici, dei ricercatori che tacciono o tutt’al più mugugnano sottovoce? (Il mugugno era diritto garantito alle ciurme in cambio del divieto -pena la morte - di ammutinamento). Anzi bofonchiano. A volte persino lo difendono perché il prode De Mattei sarebbe l’unico baluardo che ripara il presidente del Cnr Luciano Maiani dalle Gelmini, dai Berlusconi, o dai tagli di Tremonti.
Il fisico Maiani è un valentuomo, ma il peso della Chiesa l’ha sentito tutto sulle sue spalle: quando nel 2007 firmò una lettera pubblicata dal manifesto in cui alcuni docenti (tra cui Marcello Cini e Giorgio Parisi) definivano «incongrua» la visita di papa Ratzinger all’università La Sapienza di Roma, come per incanto la sua nomina al Cnr fu bloccata per mesi in Commissione. È così che discepoli di Galileo, scienziati evoluzionisti e baciapile oscurantisti vivono tutti insieme felici e contenti.
IL CASO
Università, Napolitano: sì a riforma ma riscontra "criticità" nel testo
Dubbi tecnici su alcuni articoli della legge varata dal Senato il 23 dicembre tra le proteste di studenti e docenti. Gelmini: "Osservazioni non su elementi portanti". Gli studenti: "Chiediamo a rettori di disobbedire" *
ROMA - Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi promulgato la legge di riforma (testo) 1dell’università approvata dal Parlamento il 23 dicembre 2, rilevando la presenza di "criticità" nel testo. In una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri il capo dello Stato auspica infatti che "con successiva legislazione ministeriale" si risolvano le "talune criticità" riscontrate nel testo. Già in occasione dell’approvazione della legge in Senato, il Quirinale aveva espresso dubbi 3su alcune incongruenze tecniche del testo, poi specificate nella lettera.
In particolare, i rilievi del presidente riguardano l’articolo che riguarda la concessione di borse di studio anche su base della "appartenenza territoriale". Punto voluto dalla Lega nord nella riforma e considerato dal Quirinale a rischio incostituzionalità. Il presidente della Repubblica fa poi un preciso riferimento agli odg sul "sottofinanziamento del sistema universitario italiano" rispetto alla media europea.
Nella lettera al presidente del Consiglio, Napolitano sollecita quindi il governo a un confronto con tutte le parti per superare le criticità che permangono nel testo. E ricordando in modo inusuale il faticoso percorso della riforma, auspica che "il governo ricerchi un costruttivo confronto con tutte le parti interessate". Lo scontro si consegna dunque alla prossima fase, quella dei decreti attuativi.
Gelmini: "Osservazioni non su punti portanti". Ma il rettore... Per il ministro Gelmini le osservazioni del presidente della Repubblica non costituiscono una critica di sostanza alla sua riforma. ’’Esprimo la mia piena soddisfazione per la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica. Terremo, insieme al presidente Berlusconi, in massima considerazione le sue osservazioni. Appare evidente dall’analisi dei punti rilevati che nessuno di essi tocca elementi portanti e qualificanti della legge. Aver approvato la legge sull’università è un segnale positivo per il Paese perché dimostra che, seppur tra mille difficoltà, è possibile realizzare le riforme’’ ha detto il ministro dell’Istruzione.
Commenta il rettore di Sassari Attilio Mastini: "Non credo proprio che i rilievi del presidente della Repubblica siano secondari o irrilevanti. Si veda il richiamo ai finanziamenti, al dialogo con le altre componenti. E poi, per quanto riguarda l’articolo 6, il presidente riconosce la fondamentale funzione docente svolta dai ricercatori e afferma la necessità che il titolo aggregato non venga assegnato a intermittenza mese per mese, cancellandolo alla fine di ciascun anno accademico".
Il testo integrale della nota di Napolitano. "Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi promulgato la legge recante "Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonchè delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario". Il Capo dello Stato - si legge in una nota diffusa dal Quirinale- ha contestualmente indirizzato la seguente lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri:
Promulgo la legge, ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, non avendo ravvisato nel testo motivi evidenti e gravi per chiedere una nuova deliberazione alle Camere, correttiva della legge approvata a conclusione di un lungo e faticoso iter parlamentare. L’attuazione della legge è del resto demandata a un elevato numero di provvedimenti, a mezzo di delega legislativa, di regolamenti governativi e di decreti ministeriali; quel che sta per avviarsi è dunque un processo di riforma, nel corso del quale saranno concretamente definiti gli indirizzi indicati nel testo legislativo e potranno essere anche affrontate talune criticità, riscontrabili in particolare negli articoli 4, 23 e 26.
Per quel che riguarda l’articolo 6, concernente il titolo di professore aggregato - pur non lasciando la norma, da un punto di vista sostanziale, spazio a dubbi interpretativi della reale volontà del legislatore - si attende che ai fini di un auspicabile migliore coordinamento formale, il governo adempia senza indugio all’impegno assunto dal Ministro Gelmini nella seduta del 21 dicembre in Senato, eventualmente attraverso la soppressione del comma 5 dell’articolo. Per quanto concerne l’art. 4 relativo alla concessione di borse di studio agli studenti, appare non pienamente coerente con il criterio del merito nella parte in cui prevede una riserva basata anche sul criterio dell’appartenenza territoriale. Inoltre l’art. 23, nel disciplinare i contratti per attività di insegnamento, appare di dubbia ragionevolezza nella parte in cui aggiunge una limitazione oggettiva riferita al reddito ai requisiti soggettivi di carattere scientifico e professionale. Infine è opportuno che l’art. 26, nel prevedere l’interpretazione autentica dell’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 2 del 2004 sia formulato in termini non equivoci e corrispondenti al consolidato indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale.
Al di là del possibile superamento - nel corso del processo di attuazione della legge - delle criticità relative agli articoli menzionati, resta importante l’iniziativa che spetta al governo in esecuzione degli ordini del giorno Valditara e altri G 28.100, Rusconi ed altri G24.301, accolti nella seduta del 21 dicembre in Senato, contenenti precise indicazioni anche integrative - sul piano dei contenuti e delle risorse - delle scelte compiute con la legge successivamente approvata dall’Assemblea. Auspico infine che su tutti gli impegni assunti con l’accoglimento degli ordini del giorno e sugli sviluppi della complessa fase attuativa del provvedimento, il governo ricerchi un costruttivo confronto con tutte le parti interessate".
Gli sudenti: "Bloccheremo riforma negli atenei". Non hanno alcuna intenzione di arrendersi, neanche dopo la firma del Ddl, gli studenti universitari che promettono ancora battaglia: ’’Non siamo sorpresi. - commentano gli studenti di Link-Coordinamento Universitario - Il presidente Napolitano ci ha ricevuto e ascoltato con rispetto, ma non ci aspettavamo che fosse lui a dare battaglia al posto nostro. A bloccare la riforma Gelmini dovranno essere gli studenti, i dottorandi, i precari, i ricercatori, i tecnici-amministrativi, tutti coloro che vivono sulla propria pelle la schiavitù della precarietà e il furto di futuro operato da questa riforma’’. Il piano della mobilitazione, fanno sapere gli studenti, si sposta dal parlamento verso il governo, con l’attesa dei decreti attuativi, e verso gli atenei, con l’adeguamento degli statuti universitari alla nuova legge. ’’Chiediamo fin da subito a tutti i rettori di disobbedire, e su questo daremo battaglia. - annunciano - Costruiremo proposte di statuti universitari in grado di bloccare la riforma e cambiare l’università dal basso’’. Link fa poi notare che una delle ’’criticita’’’ individuate dal presidente Napolitano riguarda l’emendamento della Lega Nord che riserva ai residenti in una regione una quota delle borse di studio: ’’Il presidente ha sottolineato come quella norma razzista sia completamente incoerente con una legge che dice di favorire il merito - spiegano -. Ora tocca al governo rispettare la Costituzione e cancellare la norma razzista nel decreti attuativi’’. Di ’conquista’ degli studenti in merito alle osservazioni di Napolitano parla Luca Cafagna, 25 anni, studente di Scienze Politiche della Sapienza di Roma: ’’Le osservazioni del presidente della Repubblica alla legge Gelmini sono una piccola conquista del nostro movimento’’.
L’Udu - Unione degli studenti universitari, commenta così la firma di Napolitano. ’’La Gelmini non ha mai deliberatamente ascoltato le ragioni della protesta studentesca, non ha mai ricevuto documenti di organi accademici favorevoli alla riforma se non dei Rettori. Questo Governo si e’ chiuso in se’ stesso ed appeso a tre voti ha scelto di proseguire nell’approvazione di una legge quadro stravolgente per il sistema universitario e destrutturante’’. "Ha avuto piu’ di un anno di tempo per ascoltare le nostre ragioni, l’apertura al confronto dopo l’approvazione di una legge quadro e’ propria di una turista della democrazia. Continueremo la nostra mobilitazione per raccogliere, come abbiamo fatto in questi mesi, lo sdegno verso un Governo autoreferenziale e autoritario’’.
Di Pietro: "Legge iniqua", Pd: "Governo apra confronto". ’’Il rispetto istituzionale che abbiamo verso la Presidenza della Repubblica ci impone di prendere atto della decisione di Napolitano. Resta il fatto che riteniamo questo provvedimento ingiusto, iniquo ed incostituzionale’’. Lo afferma in una nota il Presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che aggiunge: ’’Ci auguriamo, ad ogni modo, che i dibattiti e le riflessioni successive possano frenare la portata devastante che caratterizza la riforma". Della necessità che il Governo apra un confronto con le parti interessate parla la capogruppo del Pd nella commissione Cultura della Camera Manuela Ghizzoni: ’’La lettera del Presidente della Repubblica conferma la grande attenzione e sensibilità riposta dal Quirinale. Altresì impegna il governo a un confronto con le parti interessate in tutta la complessa fase attuativa della legge Gelmini’’.
* la Repubblica, 30 dicembre 2010
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note : http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4810
di Enrico Piovesana *
Nel pomeriggio del 14 dicembre, il giorno della fiducia a Berlusconi, mentre Roma bruciava e gli studenti assediavano i palazzi della politica, la commissione Cultura del Senato approvava a maggioranza lo ’schema di decreto ministeriale recante ripartizione del Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, per l’anno 2010’.
Tra gli stanziamenti previsti da questo decreto a firma del ministro Mariastella Gelmini - che all’inizio di gennaio verrà sottoposto al parere della commissione Cultura della Camera - figurano ben 5 milioni di euro ’’a sostegno del progetto pluriennale ’Talmud’, che vede il Cnr collaborare con l’Unione delle comunità ebraiche italiane - Collegio rabbinico italiano (Ucei-Cri) per la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica’’.
Mentre con una mano la Gelmini cala la pesante scure dei tagli sulla scuola pubblica e sull’università, con l’altra mano dà dieci miliardi delle vecchie lire a un’équipe di trenta traduttori specializzati che lavoreranno per cinque anni alla traduzione italiana del testo sacro ebraico. Un lavoro monumentale, visto che il Talmud consta di seimila pagine divise in quaranta volumi. L’anziano rabbino di Gerusalemme, Adin Steinsaltz, ci ha messo cinquant’anni per tradurre in ebraico moderno il testo originale in aramaico.
Un lavoro certamente importante per la comunità ebraica italiana, che evidentemente sulla Gelmini esercita un’influenza ben maggiore di quella del mondo scolastico e accademico nazionale.
Enrico Piovesana
Fonte: http://it.peacereporter.net/articolo/25960/Gelmini%2C+5+milioni+per+tradurre+il+Talmud
Quei ragazzi inascoltati
Il Senato affidato alla matriarca leghista Rosi Mauro «è la pucchiacchia in mano a creatura». È la sceneggiata, in mezza giornata già un cult di youtube, sul contrasto tra la più sofisticata macchina procedurale e le maniere sbrigative di una volitiva massaia rurale che ha cercato di governare il Senato con la stessa sapienza con cui si governano e si cucinano i conigli. Ma è anche uno dei momenti probabilmente più maschilisti del nostro Parlamento.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 22.12.2010)
Questo governo sa come manovrare intrighi e gestire affari opachi, ma non sa fare la cosa più normale e importante: tenere una relazione di ascolto riflessivo con i cittadini che fuori dalle istituzioni vogliono far sentire la loro voce a chi è stato eletto per prendere decisioni nel nome di tutti. La violenza che si è scatenata nei cortei degli studenti è stata manipolata ed usata per criminalizzare tutto il movimento, giustificare il pugno duro della coercizione e imporre il volere di chi comanda. La risposta al dissenso che questa maggioranza dei 3 voti di limpido consenso dà, è quanto di più improvvido e autoritario; è la dimostrazione del fatto che gli studenti non sono considerati degni interlocutori da questa maggioranza, la quale probabilmente mette in conto che quelli degli studenti non sono voti suoi. Punire gli studenti è come punire l’opposizione tutta, quella parte del Paese che questo governo non rappresenta, che vuole anzi umiliare e reprimere; quella parte che non applaude e che è rubricata come "comunista" e va dalle toghe non domate, ai giornali non padronali, agli operai non marchionisti. Gli studenti sono in buona compagnia. Le loro esigenze sono senza voce, trattate come una questione di "sicurezza".
Eppure le esigenze espresse dagli studenti non sono corporative, non chiedono prebende, l’azzeramento di un mutuo o promesse di posti ad personam. Chiedono cose politiche: che questo progetto di riforma venga fermato e rivisto nella sostanza perché è pessimo per gli studenti di questa generazione e di quelle successive. A queste obiezioni, la politica che siede a Palazzo Chigi e in Parlamento non ha risposte se non il dileggio e il pugno duro. Da settimane gli studenti dicono all’opinione pubblica una cosa molto semplice: manca in questa proposta di riforma una visione di futuro positiva e di crescita per i giovani, ovvero per il Paese. Un riforma che restringe e rende asfittica la ricerca, che monitora la didattica con metodi da contabilità aziendale, che non riesce a dare il senso di un’università aperta al ricambio generazionale per merito provato e documentato. L’immagine dell’università che il ministro Gelmini ci propone è indifferente al mondo della ricerca e soprattutto ai principi scritti nella Costituzione che parlano di eguali opportunità e di cultura come patrimonio nazionale da proteggere e alimentare.
Da anni, i vari governi che si sono insediati, di destra come di sinistra, hanno voluto lasciare alla storia una loro "riforma" dell’università. In molti casi, hanno sbriciolato l’università che c’era nelle risorse e avvilita nelle potenzialità, senza riuscire a renderla migliore. Il risultato di questo sperpero sistematico è il seguente: le scuole e i licei formano generazioni di fuoriusciuti; le tasse dei contribuenti italiani contribuiscono al futuro dei Paesi stranieri. Dal Belgio alla Spagna, dall’Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada o al Brasile: dovunque si trova la stessa realtà, quella di studenti italiani espatriati, non per cercare l’Eldorado o perché figli di papà in viaggio, ma perché bravi e senza futuro degno e onesto nel loro Paese. È questa la realtà, il fatto di riferimento che l’algida Gelmini dovrebbe considerare quando trincera la sua riforma con la rituale dichiarazione che si tratta di una "buona riforma". Non si fa una riforma che è "buona". Si fa una riforma che è ottima, la migliore possibile data la situazione reale alla quale deve rispondere. Una riforma "buona" in questa contingenza è cattivissima: per il sistema di reclutamento, per la subordinazione dei criteri del valore a quelli aziendali, per un’intollerabile decurtazione delle risorse. Zero Euro. È questo il senso della riforma Gelmini. L’anorresia dei cervelli.
Di fronte a questi problemi, che gli studenti comprendono benissimo, la risposta del governo è in linea con la sua identità politica: paternalismo («i genitori facciano stare a casa i figli», come se i ragazzi non fossero adulti e liberi di decidere) e autoritarismo. Infantilizzazione e dominio repressivo; anche a costo di rispolverare l’arresto preventivo, un istituto che con le carte dei diritti non ha alcuna relazione; mentre ce l’ha con il regime del Ventennio nero: quando Mussolini andava in visita in una città si mettevano preventivamente in carcere i sospetti sovversivi per rilasciarli quando il duce se n’era andato. Le soluzioni proposte dal governo non sono né impreviste né irrazionali perché l’autoritarismo è l’esito certo quando si interrompe la relazione tra cittadinanza e rappresentanza. Non la si chiami democrazia autoritaria però, perché la democrazia autoritaria è un non-senso. Ciò che può esistere e c’è, è un esecutivo autoritario che soffoca la democrazia.
Mentre si votano i tagli all’Università l’Italia paga oltre 15 miliardi per aerei militari
di Daniele Martini (il Fatto, 22.12.2010)
Si chiama Joint Strike F-35, è un cacciabombardiere monoposto sofisticatissimo, definito dai tecnici di “quinta generazione”. Costa uno sproposito, 130 milioni di euro ad esemplare, e per l’Italia sta diventando la pietra dello scandalo. Per diversi motivi. Primo: nonostante il bilancio dello Stato pianga e il governo tagli in ogni direzione, infierendo soprattutto nei confronti dell’Istruzione, dai fondi per l’Università alla ricerca, dalle borse di studio alle pulizie delle aule, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è in procinto di firmare il contratto per la fornitura della bellezza di 131 aerei, dando un’accelerata finale a un impegno assunto 12 anni fa dal governo presieduto da Massimo D’Alema. Costo stimato: oltre 15 miliardi di euro, la spesa più alta in assoluto decisa da un governo italiano per un aereo militare. Azienda fornitrice la Lockheed Martin, marchio che in Italia fa venire alla mente un’altra stagione e un altro scandalo avvenuto tra il 1972 e il 1976, collegato anche quello a una fornitura di aerei, i mastodontici C 130 da trasporto militare. Una vicenda in cui rimasero coinvolti, tra gli altri, lo Stato maggiore dell’Aeronautica e il presidente della Finmeccanica, Camillo Crociani, che dovette rifugiarsi in Messico. Gli spiccioli di Alenia
NELLA LEGGE diStabilità (la ex Finanziaria) sono già stati stanziati i primi 471 milioni per dare all’Italia la possibilità di presentarsi al tavolo per la firma definitiva, più altri 185 milioni che sono la prima tranche di un contratto da 800 milioni che lo Stato ha stipulato con la ditta costruttrice Maltauro per la realizzazione nell’area dell’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara, di hangar e strutture per la produzione della parte italiana dell’aereo (le ali) riservata all’Alenia, società posseduta al 100 per cento da Finmeccanica, a sua volta quotata in Borsa, posseduta solo per un terzo dalla parte pubblica e per il resto da privati. In pratica lo Stato sta pagando per intero i costi per le strutture produttive di un’azienda in larga misura privata. L’avvio dei lavori è previsto per l’inizio di gennaio.
Secondo motivo di perplessità: per recuperare le risorse per gli F-35, il ministro non esita a contrarre gli stanziamenti per l’acquisto di un altro aereo da combattimento, l’Eurofighter Typhoon, anche questo molto costoso, ma che almeno aveva il merito, dal punto di vista economico e strategico, di essere prodotto da aziende europee. L’Eurofighter è frutto della cooperazione tra Italia, Germania, Inghilterra e Spagna e dà lavoro a 100 mila persone in Europa, piùdi20milainItalia.Equando fu lanciato diversi anni fa, fu presentato come un esempio del tentativo di avviare un progressivo sganciamento strategico dal dominio americano sul versante della tecnologia e della produzione bellica. In confronto, gli F-35 americani lasciano molto meno all’Europa e in particolare all’Italia (ufficialmente considerata solo “partner di secondo livello”), poco più che le briciole, 600 operai, secondo le prime stime, più 2 mila tecnici, in parte spostati dalle linee dell’Eurofighter. Un gran saluto al caccia “europeo”
IL GOVERNO italiano non ha cancellato del tutto gli acquisti del caccia europeo, ma li sta riducendo parecchio e dopo averne comprato una quarantina di esemplari, ne acquisirà altri 60 fino al 2018, ma cancellerà la fornitura successiva, quella che i tecnici chiamano la “tranche 3B”. Per rientrare un po’ dei costi altissimi sostenuti finora per l’Eurofighter, l’Italia sta cercando insieme ad altri governi europei (Spagna, Germania, Gran Bretagna) di piazzarlo in mezzo mondo, dalla Romania all’India, dalla Turchia all’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi al Qatar.
Terzo motivo di dubbio: le caratteristiche specifiche dell’aereo e i ripetuti rallentamenti della fase di sperimentazione dei prototipi. Secondo Silvia Corti, ricercatrice dell’Archivio Disarmo, l’F-35 è un aereo “dotato di grande forza distruttiva e in grado di trasportare armi nucleari”, requisiti che a prima vista non si attagliano molto alle forze armate italiane. Secondo un altro esperto,Francesco Vignarca, perfino i massimi vertici Lockheed hanno ammesso che lo sviluppo del progetto è rallentato da “grossi problemi tecnici e industriali”, mentre l’organismo tecnico di controllo del parlamento Usa, ha espresso riserve sull’efficacia di un progetto d’arma così mastodontico. Aumentano le spese
L’ULTIMO ELEMENTO di dubbio consiste nel fatto che l’acquisto dei costosissimi F-35 avviene nell’ambito di un nutrito programma di spese militari approvato alcune settimane fa dalla commissione Difesa del Senato (con l’astensione del Partito democratico) nel corso di una seduta lampo durata meno di un’ora. In quell’occasione fu dato il via libera all’acquisto di un arsenale: 10 elicotteri per l’Aeronautica (200 milioni di euro nel periodo 2010-2018), siluri per sommergibili (125 milioni), armamenti controcarro da montare sugli elicotteri d’attacco (altri 200 milioni), una nave di supporto subacqueo in grado di sostituire la vecchia Anteo (125 milioni). Poi 22 milioni per l’acquisto di mortai da 81 millimetri, e infine l’avvio di un sistema di informazioni fra diversi paesi, il Dii (Defense Information Infrastructure), valore 236
La protesta studentesca. Cortei e occupazioni: «Si va avanti almeno fino al 9 dicembre»
Assemblea alla Sapienza. «Difendiamo i baroni? Assurdo, lottiamo per il diritto allo studio»
«Il governo non vuole ascoltarci ma noi adesso non ci fermiamo»
Assemblee nelle facoltà occupate. La mobilitazione continua. «Saremo in piazza quando il ddl andrà in discussione al Senato».
«Gravissima la militarizzazione della città. Il sit in a Montecitorio era autorizzato».
di Jolanda Bufalini (l’Unità, 02.12.2010)
Dipartimento di Fisica, palazzina Marconi, città universitaria, Roma: la lotta continua. Fra i cartelloni appesi all’ingresso ce n’è uno con il curriculum di Mariastella Gelmini e un altro che raffronta i tagli a università e ricerca con gli stanziamenti per il Ponte di Messina e per la TAV.
Gli studenti sono in assemblea nell’aula Majorana, affollatissima. Discutono su come andare avanti: «Saremo di nuovo in piazza quando il ddl Gelmini andrà in discussione al Senato». Intanto arriva l’appello di tutte le associazioni: «Per quella data occupazione simbolica di tutti i rettorati». Le decisioni di questa assemblea dovranno coordinarsi con quelle delle altre facoltà occupate, alla Sapienza sono Medicina e Giurisprudenza (fatto quasi senza precedenti), Scienze politiche e Lettere. Poi c’è Architettura a Valle Giulia e Ingegneria a San Pietro in Vincoli.
L’occupazione continua ma si fa lezione lo stesso, la biblioteca è piena di gente che studia, «interrompiamo solo nei giorni di mobilitazione in piazza», dicono. Altro tema dell’assemblea è, spiegano Alfredo, Alessia, Ornella, Francesco, «la valutazione dei fatti di martedì, la gravissima militarizzazione di Roma». «Hanno bloccato l’intera città». «Il dissenso è alla base della democrazia e protestare mentre si vota una legge che ti riguarda sotto il parlamento è la forma più normale di democrazia».
«Ci hanno vietato una piazza autorizzata, per il sit in a Montecitorio la Cgil aveva chiesto l’autorizzazione». «I romani bloccati nel traffico devono ringraziare loro». «Unità cinofile, esercito, polizia, guarda di finanza, blindati e camionette a decine contro un corteo. Cosa pensavano, che stesse arrivando un esercito?». «Forse per noi è stato meglio così, abbiamo avuto molta più visibilità». Siete strumentalizzati dai baroni, conservatori dello status quo, usati dall’opposizione. Come rispondete a queste accuse? «Ma come si fa a dire queste cose si infervora Alfredo, II anno, che si è diplomato al severissimo Righi quando c’è l’evidenza delle parole scritte. La legge dà potere solo ai professori ordinari, taglia fuori i ricercatori».
CONSERVATORI
Anche Ornella è al secondo anno, viene da Molfetta in Puglia, abita alla casa dello studente. Vuole fare l’astrofisica. «Non vogliamo lasciare le cose come stanno. La cosa più grave sono i tagli che distruggono l’università pubblica, il diritto allo studio che dovrebbe garantire pari opportunità: il reddito è l’ultimo parametro, prima vengono i coefficenti di merito e la somma dei voti. Così io sono a rischio, trecentesima in graduatoria, e una mia collega che non ha avuto tutti i crediti necessari in tre giorni è stata buttata fuori dalla Casa dello Studente. La nostra è una facoltà difficile ma i nostri volti valgono quanto quelli degli altri. Sto ancora aspettando la seconda rata della borsa di studio».
Il premier dice che a manifestare sono i fuori corso. Alessia: «Io sono fuori corso, iscritta al IV anno. Ho perso un anno perché sono pendolare, vengo ogni giorno da Latina, due ore ad andare, due a tornare. Purtroppo il mio Ise (reddito familiare) non è abbastanza basso da poter avere la borsa di studio ma non è così alto da potermi permettere di stare a Roma. Quando ho lezione alle 8 devo partire alle 5 e un quarto. Dopo un anno così sei stressato, esaurito e perdi colpi. È un cane che si morde la coda, senza diritto allo studio le differenze nelle condizioni di partenza diventano gigantesche». Perché ha scelto Fisica? «È dalle elementari che ho deciso, voglio fare la fisica teorica. La ricercatrice...».
Il Pd dedicherà la sua manifestazione dell’11 all’università. Alfredo: «Cavalca l’onda ma la loro riforma era un po’ meglio di questa ma non molto. E hanno scelto di non bloccare tutto, di non fare ostruzionismo». Alessia: «Quando abbiamo fatto le lezioni in piazza a Montecitorio ci dicevano che non l’avrebbero fatta passare questa legge. Poi hanno fatto un’opposizione morbida».
Francesco è matricola, iscritto al primo anno: «Vengo dal Tasso, sono abituato alle occupazioni. Mi sembra giusto come si svolge qua, senza interrompere le lezioni e con le assemblee per organizzarsi per le manifestazioni. L’occupazione è giusta se è un’eccezione».
“Scenderemo in piazza il giorno della fiducia”
Gli studenti: il movimento non si fermerà con la riforma
di Caterina Perniconi (il Fatto, 02.11.2010)
Un movimento estemporaneo o una rivolta generazionale? Se siamo di fronte a un nuovo ‘68 o a un altro ‘77 si capirà solo dopo il 14 dicembre. Quando si potrà misurare l’intensità della forza dei giovani scesi in piazza e saliti sui tetti in questi giorni. Il Senato, infatti, oggi deciderà se la riforma dell’Università sarà discussa prima o dopo la richiesta di fiducia al governo. Nel primo caso, l’approvazione è quasi scontata, nel secondo sarà legata a doppio filo con le sorti dell’esecutivo. Solo allora si chiariranno le intenzioni e la forza propulsiva degli studenti mobilitati in tutta Italia.
L’ONDA, NEL 2009, si infranse nella barriera della riforma scolastica. L’eredità che è stata lasciata è il fortunato slogan “noi la crisi non la paghiamo”. Infatti quello che sembrava un tumulto generazionale si è invece spento come un fuoco di paglia in pochi mesi.
Oggi siamo di fronte a una protesta partita soprattutto per mantenere il diritto allo studio. Ma le parole d’ordine guardano lontano, e i ragazzi si definiscono una “generazione senza futuro”. Sono andati in rete, hanno dato vita alla prima protesta organizzata per via “telematica”, mettendo in contatto i siti internet e le web radio di tutte le università. Questo ha permesso di occupare le autostrade, le stazioni e i monumenti contemporaneamente, decidendolo con un clic o con una catena di sms. “Rispetto all’Onda c’è un livello di coordinamento molto maggiore - spiega Claudio Riccio, portavoce di Link, uno dei movimenti studenteschi - c’è confronto tra tutte le realtà”. Del resto anche Claudio, che guida il coordinamento universitario da un anno e mezzo, ai tempi dell’Onda viveva a Bari, mentre da settembre si è trasferito a Roma, dove c’è il “cervello” dell’associazione.
“NON SONO IL LEADER perché non c’è un leader - spiega Riccio - se ci capita di mettere ai voti un’iniziativa, il voto di Roma vale come quello di Viterbo, non ci sono differenze”. Ma esiste un movimento senza leader? “Si, se ci sono molte persone a rappresentarlo. Questa volta protestiamo perché siamo una generazione senza futuro e non ci esauriremo con la riforma. Saremo in piazza il 14 dicembre, perché il nostro domani dipende anche da quel voto”. Telefonando ad Andrea Aimar, uno dei leader delle proteste torinesi, si scopre che i due sono in contatto. “Si, conosco Riccio, ci coordiniamo, anche se veniamo da realtà diverse cerchiamo di essere un movimento unico, di non disperdere le energie”. A Palazzo Nuovo c’è ancora la mobilitazione, al Politecnico si discutono le prossime mosse. Se la riforma sarà calendarizzata nei rapidamente al Senato, l’ipotesi è quella di una grande manifestazione a Roma per dimostrare la reale forza del movimento.
Ma ci sono anche realtà diverse, che con la protesta nazionale non hanno contatti. A Palermo raggiungiamo Fausto Melluso, rappresentante del movimento degli Universitari: “Il nostro è un gruppo nato localmente in modo spontaneo - spiega - la riforma è una battaglia importante ma non l’unica. L’Università di Palermo ha molti problemi e noi vogliamo portarli tutti alla luce”. Anche in Sicilia promettono battaglia fino al 14 dicembre: “Questa riforma dà piene deleghe al governo su molti argomenti, come il diritto allo studio, che di pendono direttamente dal voto di fiducia e quindi da quale governo ci amministrerà. Noi vogliamo farglielo sapere”. Ancora due settimane, quindi, per capire quali saranno le proposte dei giovani del 2010. Che ieri, per tenere alta la tensione, hanno bloccato i binari della stazione di Napoli. E che nei promettono (almeno) altri 10 giorni di manifestazioni.
Bari: Scienze politiche e Giurisprudenza. Benevento: Scienze. Bologna: Lettere e Filosofia. Catania: Scienze e Fisica. Firenze: Lettere. Napoli: Lettere alla Federico II, palazzo Giusso all’Orientale. Milano: Lettere, Ingegneria. Padova: Psicologia. Palermo: Lettere. Pisa: spazi occupati in tutte le facoltà. Roma: Lettere, Scienze politiche, Fisica, Giurisprudenza, Architettura e Geologia a La Sapienza. Dams, Giurisprudenza e Scienze a Roma3. Siena: Scienze politiche, Giurisprudenza, Lettere, Economia. Siracusa: Architettura. Taranto: Giurisprudenza Torino: occupato Palazzo Nuovo.Trento: Sociologia. In molte altre città ci sono mobilitazioni e occupazioni di spazi accedemici.
L’istruzione precaria
di Carlo Galli (la Repubblica, 01.12.2010)
La via crucis della riforma Gelmini è terminata, con la sua approvazione alla Camera. Non è una riforma epocale, come sostiene la ministra, se non per le modalità con cui il Palazzo l’ha varata, contro la protesta - questa sì nuova, per l’imponenza della mobilitazione giovanile, macchiata da qualche violenza dei centri sociali - che ha pesantemente interessato le città del nord, del centro, del sud. Una riforma che passa con i voti in aula e, nelle piazze, con i colpi di manganello e di lacrimogeni, reali e simbolici. Altro non è, infatti, l’affermazione di Berlusconi che i giovani per bene sono quelli che stanno a casa a studiare, uno stereotipo reazionario dei tempi del Sessantotto, per di più sulla bocca di chi pare frequentare abitualmente non la gioventù studiosa, quanto piuttosto quella avvenente e compiacente. è una riforma contrabbandata come rivoluzionaria, poiché sarebbe in grado di sconfiggere le "baronie", il mostro che a sentire la destra è responsabile di ogni male dell’Università - della corruzione, del clientelismo, del nepotismo, dell’inerzia, della proliferazione delle sedi, dei fuoricorso, delle ingiustizie concorsuali. Un mostro abilissimo, che avrebbe plagiato i giovani, spingendoli, nella loro ingenuità, a contrastare la legge che invece sconfiggerà il malaffare dei professori universitari.
Ebbene, i baroni grazie a questa legge potranno continuare a decidere indisturbati chi insegnerà nelle università. L’abilitazione nazionale, che avrebbe dovuto sanare gli scandali degli attuali concorsi locali, potrà essere concessa indiscriminatamente, senza limiti numerici, e le università potranno così scegliere, fra la massa degli abilitati, i docenti più graditi ai vari potentati.
La valutazione della ricerca, che dovrebbe far emergere e sanzionare i docenti inattivi, non decolla neppure con le istituzioni che già esistono: e la riforma l’affida a un nuovo carrozzone di Stato, che esiste solo sulla carta.
L’autonomia universitaria è di fatto cancellata sia perché, nonostante siano state eliminate in extremis alcune norme che prefiguravano un vero commissariamento da parte del ministero dell’Economia, questo resta in ogni caso il grande guardiano del sistema universitario; sia perché la riforma, per diventare effettiva, ha bisogno di più di cento nuovi regolamenti, che dovranno essere tutti approvati dal ministero della Pubblica Istruzione.
Per i giovani che vogliono entrare nella carriera universitaria, poi, c’è solo la prospettiva di un lungo precariato, fino a dieci anni, che si snoderà tra assegni di ricerca e posti da ricercatore a termine; ma non c’è alcuna garanzia che apra, ad almeno una parte di loro, uno sviluppo di carriera verso la stabilizzazione. La via dell’emigrazione resta lo sbocco per i talenti che l’Italia prepara, per regalarli poi ad altri Paesi.
Se nelle sue finalità positive la riforma fa acqua da tutte le parti, in quelle negative è più efficace. Il peso dei professori (del Senato Accademico) nella gestione complessiva degli atenei cala molto, a favore soprattutto dei rettori, del Consiglio d’amministrazione (infarcito di esterni, sul modello delle Asl), e del direttore generale.
Anche se l’autoritarismo aziendalistico che informava il testo originale è in parte attutito, l’intento punitivo verso una delle poche élites non compattamente schierata con la destra è piuttosto evidente. Tra breve, toccherà anche alla magistratura, che però è ben più potentemente attrezzata per resistere. I professori in futuro saranno meno numerosi, per effetto della valanga di pensionamenti in atto e del mancato rimpiazzo; ma saranno anche meno autonomi, più simili a impiegati che a quella magistratura scientifica della nazione che in passato aspiravano a essere. E ciò avviene per indiscutibili colpe di alcuni di loro, e anche per preciso indirizzo politico di questo governo, che con la cultura e la ricerca certamente non si trova a proprio agio, e che ha cavalcato spregiudicatamente un generalizzato sfavore dell’opinione pubblica - solo parzialmente giustificato - verso l’Università.
Soprattutto, per questa riforma non ci sono stanziamenti aggiuntivi. A differenza di quanto avviene nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, in Italia l’università è un costo, e non un investimento. è un problema, e non una risorsa. La società della conoscenza è un orizzonte non condiviso dalla destra al governo. Non ci sono soldi per incentivare il merito dei professori, e non ci sono - anzi, sono quasi del tutto spariti i pochi che c’erano - per le borse di studio per gli studenti; e questi hanno capito ben presto (altro che sprovvedutezza!) che nel loro futuro ci sono più tasse ma non una politica di miglioramento reale del sistema universitario in termini di servizi e di qualificazione della docenza.
Baronie appena scalfite, centralismo normativo, riproduzione del precariato, degrado complessivo dell’immagine dell’Università e sua possibile ‘aslizzazione’, compressione del ruolo dei docenti e degli studenti, ulteriore frustrazione dei giovani, nessun investimento. Queste sono le cattive notizie, dovute al fatto che questa destra, oscillante fra il populismo e il gattopardismo, non ha un’idea di università, come non ha un’idea di Paese. La buona notizia è che la riforma resterà probabilmente inapplicata, perché la crisi di governo la spazzerà via. La corsa contro il tempo per approvarla, infatti, ha verosimilmente il solo scopo di munire la destra di almeno una riforma da sbandierare in campagna elettorale. A questo - a propaganda - si è ridotta l’università, al tempo del governo Berlusconi.
LA RIFORMA CONTESTATA - GIORNATA DI TENSIONE
Via libera alla riforma dell’Università Berlusconi: in piazza solo i fuoricorso
Governo battuto due volte alla
Camera, poi in serata c’è il "sì".
Gli studenti in rivolta nelle città.
Il premier: «Chi studia è a casa».
Pd contro Maroni sulla sicurezza *
ROMA Via libera sofferto dell’Aula di Montecitorio alla riforma dell’Università. I finiani ancora una volta mettono in evidenza la loro «insostituibilità» per la tenuta parlamentare del governo. E, prima del voto finale, mandano sotto l’esecutivo due volte su altrettanti emendamenti che hanno il via libera anche dall’opposizione. Testi che vengono approvati contro il parere del governo con una ventina di voti di scarto.
Ma Silvio Berlusconi difende a spada tratta il ddl e attacca i manifestanti: «I veri studenti sono a casa a studiare», dice, chi va ora in piazza «sono i fuoricorso dei centri sociali». Poi ad approvazione ottenuta, esulta: contro l’occupazione da parte della sinistra dei settori della cultura, della scuola e dell’Università, è stato inferto «un colpo mortale a parentopoli», dimostrando inoltre al paese di essere «il governo del fare». Ma la giornata, con i due voti dei finiani a battere il governo, ha consegnato motivi di soddisfazione anche all’opposizione che non ha perso l’occasione per attaccare la riforma a testa bassa. Ed è scontro in aula con il centrodestra che insorge contro i «massimalismi» di Pd e Idv.
Ogni volta che un emendamento di Fli viene messo ai voti, mentre è aperta la votazione dai banchi del centrosinistra si sente la classica "ola" degli stadi di calcio in vista di un’azione decisiva. Ma è anche scontro al calor bianco sulla sicurezza nelle città italiane ’invasè da tantissimi studenti che protestano contro la riforma. Pd e Idv attaccano il ministro dell’ Interno accusandolo di aver «militarizzato» Roma. Lui si difende parlando di «difesa adeguata». Silvio Berlusconi, dunque, difende il testo Gelmini. «È - rivendica - una buona riforma che favorisce studenti, professori e più in generale tutto il mondo accademico e dunque deve passare se vogliamo finalmente ammodernare l’Università». Il presidente del Consiglio non si capacita delle proteste e dell’opposizione alla riforma: «È stata discussa con tutte le parti in causa, modificata, migliorata e credo che meglio di così non si potesse proprio fare». Per questo, osserva Sandro Bondi, «un’opposizione responsabile dovrebbe sostenerla». E invece, secondo Ignazio La Russa, «la sinistra solidarizza con i violenti».
Gli «estremisti che hanno bloccato Roma e causato gravi incidenti non hanno reso un buon servizio alla stragrande maggioranza di studenti scesi in piazza con motivazioni non totalmente condivisibili ma certamente animate da una positiva volontà di partecipazione e di miglioramento delle condizioni della nostra Università», si schiera il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che esprime solidarietà «alle Forze di Polizia, ai cittadini romani e ai tantissimi giovani in buona fede, la cui protesta «è stata strumentalizzata». Incidenti che per il presidente del Senato Renato Schifani, che condanna gli attacchi alle forze dell’ordine, «non hanno certamente giovato alla vita democratica e a chi voleva manifestare pacificamente».
Ma per il Pd responsabile della tensione è solo e soltanto il governo. «Mi pare - denuncia il leader Pierluigi Bersani - che nella stragrande maggioranza studenti e ricercatori si siano mossi in modo pacifico. Ha impressionato la città militarizzata. E se si è arrivati a questa tensione è per irresponsabilità dell’Esecutivo che ha perso la testa e la presa sui problemi del paese». E sotto attacco della sinistra radicale è il ministro dell’Interno Roberto Maroni, cui Nichi Vendola contesta «una responsabilità gravissima», perchè sta facendo diventare «le proteste studentesche una vicenda di disordine pubblico». IL responsabile del Viminale non ci sta: «Io - rivendica - ho il compito di gestire l’ordine pubblico e evitare incidenti e l’assalto ai luoghi sacri della democrazia, come avvenuto la scorsa settimana in Senato. E mi pare che tutto stia avvenendo con grande responsabilità delle forze dell’ordine che hanno subito violenza e stanno gestendo una situazione molto complicata».
*La Stampa, 30/11/2010
IL CONFRONTO
Università, faccia a faccia sulla riforma
Le tesi Gelmini, le risposte dell’opposizione
di CARMINE SAVIANO *
Ribattono punto su punto. Se il ministro Gelmini continua a spiegare la bontà della riforma che porta il suo nome, le opposizioni sono pronte a dimostrare, dati alla mano, che si tratta di "fandonie". Abbiamo messo a confronto le due posizioni, scegliendo cinque temi, i più discussi: l’organicità della riforma, la meritocrazia, il potere dei baronati accademici, il reclutamento dei ricercatori e la riorganizzazione degli atenei. Un faccia a faccia virtuale per comprendere i lati oscuri della riforma. Alle affermazioni della Gelmini abbiamo fatto rispondere Walter Tocci, deputato del Pd.
Una riforma organica. Su questo punto, le affermazioni del ministero sembrerebbero non concedere replica. "Questa legge è il primo provvedimento organico che riforma l’intero sistema universitario". Vero o falso?
Ecco la risposta delle opposizioni: "Non è vero, c’è già stata già la riforma Moratti che prometteva di essere organica". E ancora: "Ci hanno provato, ma proprio in quegli anni sono iniziati i guasti. La riforma Gelmini, che promette le stesse cose farà la stessa fine. Ma qualcosa di organico c’è: queste legge finanzia le avventure economiche di Tremonti e Berlusconi, che invece di investire in conoscenza fanno tutt’altro".
Meritocrazia e trasparenza. E’ uno degli slogan centrali con cui la riforma viene presentata dal Governo: "Il reclutamento del personale e la governance dell’università vengono
riformati secondo criteri meritocratici e di trasparenza".
La replica delle opposizioni parte dal fatto che la Gelmini non è riuscita a far funzionare neanche gli organi esistenti che si occupano di trasparenza, come l’agenzia di valutazione degli atenei. E senza dati è impossibile valutare gli effetti della riforma su questi temi. Poi l’affondo: "Al ministero si fanno delle cose da fine regime: si equipara il Cepu alle università pubbliche non statali. Alla Bocconi, insomma".
Il baronato e Parentopoli. La lotta al baronato è uno dei principi guida. Tutte le parti della riforma sono ispirate alla "lotta agli sprechi, ai rettori a vita e a parentopoli".
Dalle opposizioni i commenti sono caustici: "Quella sulla fine di parentopoli è un’altra delle bugie che ha raccontato il ministro. Per farla finita con i concorsi locali, si fa il concorso nazionale. Ma nel testo scritto è prevista un’abilitazione numerica, ovvero senza valutazione dei candidati. Si imbarca tutto. E alla fine si dovrà tornerà a livello locale. Con l’esito di aver solo raddoppiato le procedure".
I ricercatori. Quello dell’accesso dei giovani ricercatori, è uno dei temi più sentiti dall’opinione pubblica. La legge Gelmini promette di introdurre interventi volti a favorire la formazione e l’accesso dei giovani studiosi alla carriera accademica".
Critiche anche su questo punto. Si va da "i laboratori stranieri sono pieni di giovani italiani che hanno abbandonato il paese e non si ha notizia di file alle frontiere per tornare", fino a "tutti sanno che la Legge Gelmini aggraverà la situazione". E ancora: "con il nuovo meccanismo, un giovane passerà quindici anni in questa condizione. L’ultimo Nobel per la fisica ha 36 anni. Da noi a quell’età non si sarà ancora diventati professori".
La riorganizzazione degli atenei. Per semplificare e rendere efficiente l’università, si promettono "riduzioni molto forti delle facoltà, al massimo 12 per ateneo". E, per garantire la produttività, "la presenza di membri esterni nei Cda delle università".
La replica, in questo caso, è affidata ai numeri. La posizione dei partiti che osteggiano la riforma Gelmini è chiara: la legge consiste in 500 norme, ci vorranno 100 regolamenti attuativi per renderla efficacie, 35 dei quali dovranno essere emenati solo dal governo. Tra i commenti "Se la riforma passa, il governo si dovrà riunire una volta a settimana solo per emanarli", "è solo un’alluvione normativa", "l’università diventerà come le Asl".
Una legge contro i deboli. Per Walter Tocci, deputato del Pd, "la cosa pazzesca è che si parla solo di norme e non si parla delle cose importanti: la ricerca la didattica, gli studenti. Ovvero le cose che fanno l’università". L’analisi è dura: "Non ci sono più soldi per la ricerca, non c’è un piano nazionale di investimenti. Per la didattica: veniamo da una riforma che dovrebbe essere sottoposta a manutenzione. E poi gli studenti che non ottengono le borse di studio cui hanno diritto". Un futuro sempre più grigio: "Quest’anno sono diminuite le immatricolazioni. E sono I figli delle classi meno agiate che non ce la fanno più. La riforma Gelmini è una legge che aggrava le ingiustizie sociali".
* la Repubblica, 30 novembre 2010
I beni comuni ripensano la democrazia
di Paolo Cacciari (il manifesto , 26.11.2010)
Un nuovo spettro si aggira sul mondo: la socializzazione dei beni comuni. Moltitudini inquiete stanno imparando a riconoscerli. Alcuni gruppi hanno cominciato a rivendicarne l’uso. Altri sperimentano già forme di gestione fuori mercato. Commons movment lo si trova tra le popolazioni indigene delle foreste dell’Amazzonia e nei Free Culture Forum ( digital commons) delle principali città europee, come è nelle innumerevoli vertenze contro il saccheggio del territorio e nei movimenti per una agricoltura contadina, nelle reti di economie solidali e nei gruppi che fanno cooperazione decentrata, nei movimenti per l’acqua pubblica e per la giustizia climatica. Rivendicano l’accesso alla conoscenza, la sovranità alimentare e non solo, l’autonomia nella gestione dei propri bisogni e dei propri desideri.
I beni comuni sono stati sdoganati nel mondo scientifico dagli studi del primo premio Nobel donna per l’economia Elinor Ostrom. Sono entrati nelle Costituzioni nazionali grazie all’Ecuador di Evo Morales. Sono osservati e studiati da sociologi e politologi grazie al lavoro di Paul Hawken che ha creato un gigantesco database (www.wiserearth.org ) delle organizzazioni che se ne occupano. Da ultimo sono stati rilanciati da un convegno della fondazione Heinrich Böll Stiftung: " Costructing a Commons-Based Policy Platform", che si è svolto a Berlino i primi di novembre (materiali preparatori, documento finale reperibile nel loro sito e persino un piccolo cartone animato sta girando su: youtube.com/watch?v=WT6vbAu_UjI ) con il contributo anche di studiosi e attivisti italiani come Giovanna Ricoveri e Marco Berlinguer.
Cosa accomuna questi movimenti? La scoperta dell’esistenza di beni naturali, cognitivi, relazionali che sono di tutti e non appartengono a nessuno: res communes omnium. Beni speciali, doni del creato e lasciti delle generazioni precedenti di cui tutti necessitiamo e di cui tutti dobbiamo poter beneficiare. Elementi primari, basici. Scrive la fondazione Heinrich Böll: «I beni comuni sono la precondizione di tutti gli obiettivi sociali, inclusi quelli ambientali». Beni e servizi che nessuno può dire di aver prodotto in proprio e che quindi nessuno può arrogarsi il diritto di possedere, comprare, vendere, distruggere. Alcuni, gli ecosistem service, sono semplicemente indispensabili alla preservazione di ogni forma di vita: atmosfera, acqua, suolo fertile, energia, cicli trofici. Altri, i beni cognitivi, sono indispensabili a connettere le relazioni umane: lingue, codici, saperi, istituzioni sociali. Inoltre, vorrei sommessamente ricordare che il sole, l’aria, il territorio, le parole... non sono solo pannelli fotovoltaici, turbine, suolo edificabile, linguaggi tecnici per ottimizzare la produttività sociale, ma anche profumi, fragranze, paesaggi, creatività. Ingredienti anch’essi diversamente utili alla preservazione della salubrità mentale di ciascuno di noi.
Chi decide quali sono i beni comuni? L’attività stessa di commoning (come l’ha battezzata Peter Linebaugh), le pratiche di cittadinanza attiva ( Engin Isin), il fare comunanza, condividere conoscenze, risorse, servizi rendendoli accessibili a tutti. I beni comuni sono ciò che la società stessa sceglie di gestire collettivamente. I beni comuni hanno una essenza naturale ed una sociale. Oggi, da noi, è l’acqua. A dicembre a Cancun sarà di scena il clima. Nelle università e nei centri di ricerca è in gioco la libertà di ricerca. Nei territori colpiti dalla crisi economica è il lavoro (come ha ben scritto la Fiom sui manifesti della manifestazione del 16 ottobre). Pezzo dopo pezzo, momento per momento, i beni comuni sono i tasselli di una idea di società che si prende la libertà di pensare al dopo-crisi o, meglio, al dopo crisi di civiltà e di senso che stiamo vivendo.
Il riconoscimento, la rivendicazione e la gestione dei beni comuni rappresentano un rovesciamento dei criteri con cui siamo abituati a pensare il mondo. Dentro i parametri dei beni comuni natura e lavoro non sono più utilizzabili come "carburante" nei processi di produzione e di consumo, fattori da sacrificare all’imperativo della massima resa del capitale investito, ma come il fine stesso dello sforzo cooperativo sociale che deve essere mirato alla rigenerazione delle risorse naturali (preservandole il più a lungo possibile, adoperandosi per rallentare, non per incrementare, l’entropia naturale del sistema) e alla realizzazione della creatività umana, consentendo a ciascuno di apportare un contributo utile al proprio e all’altrui benessere. Niente di meno che una trasformazione delle relazioni sociali a partire da un cambio di modello dell’idealtipo umano assunto come riferimento da qualche secolo a questa parte: da egoista, individualista, proprietario a consapevole, cooperante.
Proviamo ad elencare alcuni capisaldi della società dei beni comuni. Essa richiede una salto nell’orientamento del diritto: gli oggetti naturali possono essere titolari di diritti legittimi indipendentemente dagli utilizzatori. Nemmeno lo Stato può essere considerato sopra le leggi che presiedono la conservazione della biosfera che costituisce un patrimonio non disponibile, inviolabile. A Cancun si parlerà della proposta di istituire un tribunale internazionale di giustizia climatica e ambientale. L’orizzonte del diritto tradizionale e della democrazia liberale verrà messo in discussione.
Un salto nelle concezioni filosofiche che regolano la scienza con la rinuncia al dominio assoluto dell’uomo padrone e signore sulla natura. La vita sulla terra non è frazionabile, serve una ricomposizione tra bios ed ethos. Le scienze cosiddette post-normali mettono in discussione il riduzionismo e il meccanicismo.
Una idea radicale di democrazia orizzontale, non gerarchica, in cui le comunità abbiano la libertà di disporre dei beni di riferimento a loro afferenti. Un’idea di democrazia che va oltre il concetto di sovranità e di proprietà. Nessun "interesse generale", nessuna "maggioranza", nessuna "superiore razionalità tecnica" può giustificare il dominio su altri, la distruzione di beni irriproducibili e insostituibili, unici, come lo siamo ognuno di noi.
Qualche tempo fa, rispondendo a Carla Ravaioli, Guido Rossi si lamentava: «Basta capitalismo. Ma con che cosa lo si sostituisce? Nessuno ha un’idea in testa» ( il manifesto 31.10.2010). Lo stesso concetto ha sviluppato Slavoj Zizek: «Siamo letteralmente sommersi da requisitorie contro gli orrori del capitalismo: giorno dopo giorno veniamo sommersi da inchieste giornalistiche, reportage televisivi e best-seller che ci raccontano di industriali che saccheggiano l’ambiente, di banchieri corrotti che si ingozzano di bonus esorbitanti mentre le loro casseforti pompano denaro pubblico, di fornitori di catene prêt-à-porter che fanno lavorare i bambini dodici ore al giorno. Eppure, per quanto taglienti queste critiche possano apparire, si smussano appena uscite dal loro fodero: mai infatti rimettono in discussione il quadro liberal-democratico all’interno del quale il capitalismo compie le sue rapine». ( Le Monde Diplomatique, novembre 2010). Ecco, seguire l’idea della gestione collettiva dei beni comuni può servire a costruire un progetto concreto dell’alternativa possibile.
Il lungo elenco degli atenei a rischio
così i ricercatori bloccano le lezioni
Da anni garantiscono la didattica anche se non è un loro compito. E ora, per protesta contro la Gelmini che li ha tagliati, mettono on line la lista delle università dove non andranno oltre le loro mansioni. Mentre è corsa contro il tempo per approvare la riforma
di SALVO INTRAVAIA *
Avvio delle lezioni nel caos all’università. La protesta dei ricercatori contro la riforma Gelmini rischia di bloccare buona parte dell’offerta formativa per l’anno accademico 2010/2011. I ricercatori, che da anni si occupano anche della didattica impartendo anche più di un insegnamento, sono determinati e intendono incrociare le braccia. Il loro contratto non prevede infatti l’obbligo di insegnare e il loro rifiuto getterà nel panico presidi e rettori. Intanto, la politica sta cercando di chiudere al più presto la partita della riforma, magari con qualche aggiustamento che scongiuri il blocco delle attività didattiche da parte dei ricercatori.
Il Cnru (il Coordinamento nazionale dei ricercatori universitari) pochi giorni fa ha messo in linea una lettera aperta indirizzata a studenti e genitori, che spiega loro a cosa andranno incontro quest’anno. "I ricercatori universitari italiani stanno protestando contro il disegno di legge sull’università e la manovra finanziaria dell’onorevole Tremonti. Questa forma di protesta - avvertono - comporterà disagi anche per voi". L’elenco di università e facoltà in cui i ricercatori hanno deciso di ritirare la loro disponibilità all’insegnamento è lunghissima.
Da Torino a Palermo, nei mesi scorsi si sono svolte assemblee e manifestazioni che si sono concluse quasi sempre allo stesso modo: un documento in cui viene ritirata la disponibilità ad impartire lezioni da parte dei ricercatori. Al Politecnico di Bari sono 74 coloro che hanno dichiarato la loro "indisponibilità a coprire incarichi di insegnamento e di garanzia" per il prossimo anno accademico. Stesso discorso per i ricercatori di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, della facoltà di Psicologia e della facoltà di Lingue e letterature straniere dell’università di Torino.
"A Palermo - scrivono i ricercatori di Medicina - molto probabilmente non potranno essere attivati gran parte dei corsi di laurea triennali a partire dal prossimo anno accademico". Stesso discorso per la facoltà di Lettere e Filosofia e Ingegneria gestionale: complessivamente nell’ateneo siciliano il 56% dei ricercatori. A Roma iniziative analoghe riguardano Tor Vergata e La Sapienza. Ma anche Siena, L’Aquila, Brescia, Camerino, Catania, Genova, Reggio Emilia, Napoli, Parma, Pavia, Trieste, Udine e Verona, solo per citare alcuni atenei. Ovviamente, la situazione è fluida: non tutti i ricercatori aderiranno alla protesta le braccia. Ma non è difficile immaginare che la presa di posizione dei ricercatori rischia di fare saltare tutto. Negli atenei italiani sono oltre 25 mila: 4 "docenti" su 10. E quasi tutti sono titolari di almeno un insegnamento.
Ma non basta: i 34 mila prof ordinari e associati sono coadiuvati da 20 mila docenti a contratto. Se, quindi, i 25 mila ricercatori dovessero decidere in blocco di astenersi dalle lezioni, l’intera macchina didattica si incepperebbe. "I ricercatori - scrivono quelli del Cnru - stanno protestando nell’unica maniera civile e legale a loro concessa, quindi, non insegneranno più". Ed elencano anche le conseguenze di questa decisione. "La riduzione dell’offerta formativa degli atenei: molti studenti andando nelle segreterie non troveranno più, probabilmente, i corsi che avrebbero voluto frequentare e dovranno cercarseli in altre università, ammesso che - spiegano - in altre università, senza i ricercatori, tali corsi possano essere attivati. Questa è la realtà".
Una prospettiva da incubo per le decine di migliaia di studenti che si accingono a varcare la soglia degli atenei italiani. Ma non solo. Secondo i ricercatori, "le tasse di iscrizione aumenteranno, i servizi per gli studenti si ridurranno, l’offerta formativa calerà drasticamente in quantità e qualità". E si tratta di esempi. A chi si rivolgeranno gli studenti per i dubbi sulla lezione? I ricercatori sono in generale più disponibili dei prof. Alla base della protesta i tagli imposti dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, al sistema universitario pubblico, ma anche per la riforma Gelmini che, per dirla con parole loro, "rottama" i ricercatori attuali. Che fine faranno, si chiedono, nell’università riformata?
Intanto, l’approvazione della riforma va per le lunghe. Pochi giorni fa, su richiesta del capogruppo alla camera del Pd, Dario Franceschini, la discussione del disegno di legge approvato al Senato è stata calendarizzata per il 14 ottobre prossimo. Ma, fa notare il presidente della Crui (la Conferenza dei rettori italiani) Enrico Decleva, a metà ottobre incombe la sessione di bilancio e tutto potrebbe slittare al 2011. E se a marzo si andasse alle elezioni anticipate, la riforma naufragherebbe. Ma potrebbe essere Gianfranco Fini a togliere le castagne dal fuoco al governo. Fini ha proposto di fare votare la camera anche venerdì 15 e sabato 16 ottobre, per approvare in tutta fretta la riforma già passata al Senato. In questo caso, però, non potrebbero introdursi le modifiche che i ricercatori sperano di ottenere.
* la Repubblica, 06 ottobre 2010
Blocco della didattica all’Alma Mater
"Sostituiremo i ricercatori che aderiscono"
La protesta contro la Gelmini costa caro: i ricercatori dell’Università di Bologna che non terranno lezione saranno rimpiazzati da docenti a contratto. Lo ha deciso il senato accademico inviando un ultimatum che scadrà venerdì alle dodici: "Non possiamo permetterci di bloccare corsi fondamentali". La risposta: "E’ gravissimo" *
La protesta contro la Gelmini costa caro: i ricercatori dell’Università di Bologna che aderiscono al blocco della didattica saranno sostituiti da docenti a contratto, almeno quelli dei corsi fondamentali. Lo ha deciso il Senato accademico all’unanimità. Sarà spedita una lettera a tutti i presidi di facoltà che a loro volta la gireranno ai ricercatori chiedendo se hanno intenzione di aderire al blocco della didattica o meno. La risposta dovrà arrivare entro venerdì alle 12 e chi non lo farà sarà considerato come non disponibile a fare lezione. Ogni facoltà spedirà i dati raccolti alla sede centrale che deciderà quanti e quali corsi coprire con bandi per docenti a contratto. La priorità è per i corsi fondamentali. I ricercatori: "Ci rimpiazzano, è gravissimo".
La decisione. Tramite il prorettore alla didattica, Gianluca Fiorentini, l’Alma Mater fa sapere di avere fatto di tutto a sostegno dei ricercatori, a cui va "solidarietà politica e umana". Insomma, "non c’è nessuna guerra", ma chi si rifiuterà di fare lezione per protesta contro il Governo sarà rimpiazzato nella didattica. "Abbiamo il dovere di dare continuità all’attività formativa - giustifica Fiorentini - un conto è se diminuisce la qualità della didattica, un conto è il blocco totale delle lezioni. Il danno, non solo d’immagine per l’Ateneo ma anche sociale per le famiglie e la collettività, è enorme. Non possiamo creare questo danno in un momento così difficile".
L’ultimatum. I tempi sono stretti. Alcune facoltà, come Architettura, iniziano i corsi già la prossima settimana e i bandi durano minimo 15 giorni. Anche per questo i vertici dell’Alma Mater hanno deciso di non fare slittare l’inizio dei corsi a ottobre, come chiedevano i ricercatori. "L’organizzazione della didattica è molto complessa - spiega Fiorentini - se si sposta in avanti, non si recupera più. Qualche corso può iniziare con una settimana di ritardo, ma gli insegnamenti che hanno già i docenti possono partire subito". Insomma, afferma il prorettore, "adesso siamo arrivati a un punto che non possiamo più aspettare. A luglio il Senato aveva chiesto ai ricercatori di comunicare entro settembre quanti avevano deciso di aderire alla protesta. A inizio mese non erano ancora pronti, perchè era ancora in corso il dibattito interno e il rettore ha deciso di aspettare ancora, il che è un grande segnale d’attenzione". Arrivati a metà settembre l’Ateneo ha deciso che non si poteva più andare oltre e ha accelerato i tempi.
I costi per i nuovi contratti. Il bando sarà per docenti interni ed esterni all’Alma Mater e sarà finanziato con fondi straordinari (ancora non è chiaro però se a carico delle casse centrali o delle singole facoltà). Di cifre nessuno ne parla e anzi Fiorentini smentisce i tre milioni di euro di cui si era vociferato nell’assemblea dei ricercatori.
I ricercatori. Anna Maria Pisi, ricercatrice e rappresentante in Senato dell’area di Scienze biologiche, geologiche e agrarie, ha contestato già tra gli scranni dell’organo accademico la decisione avallata dal rettore Ivano Dionigi. Intervistata dall’agenzia Dire spiega: "Per me è una scelta molto grave significa che come ricercatori non valiamo niente per l’Ateneo". Tra l’altro, sottolinea, "noi ricercatori non siamo obbligati ad assumere carichi didattici. Noi siamo assunti solo per fare ricerca e le lezioni le facciamo gratuitamente". Non è però solo la prospettiva di essere sostituiti a far saltare sulla sedia i rappresentanti dei ricercatori. Anche aver accelerato i tempi da parte dell’Ateneo ha lasciato l’amaro in bocca. "Ho chiesto di spostare il termine della risposta alla lettera a lunedì anzichè venerdì - spiega Pisi - e mi ha sostenuto anche qualche preside. Mi è stato risposto che non si poteva fare perchè non ci sarebbe stato tempo a sufficienza per i bandi. Invece aspettare un giorno in più non sarebbe stata la fine del mondo". Con questa mossa, la paura è che la protesta si possa sgonfiare. Anche se Pisi assicura che "andremo avanti comunque: è l’unica arma che abbiamo".
* la Repubblica, 14 settembre 2010
Nel pugno del possesso
di Erri De Luca (la Repubblica, 22 aprile 2010) *
«La terra ha inventato la formula dell’acqua, combinando due parti di idrogeno con una di ossigeno. Due gas che, se accostati, esplodono, si sono ritrovati nella goccia, la materia prima della vita. L’acqua è il loro trattato di pace. Buffa e triste la presunzione di chi ne pretende il possesso, mettendo alle sorgenti il cartello di proprietà privata. Vorrebbe dimostrare diritto di possesso sulle nuvole, sulla neve, sulla pioggia. Non vuole ammettere di essere uno sputo di passaggio, la creatura umana, ogni volta trasecola di fronte all’evidenza di essere una pulce ammaestrata. È mia, è mia, strepita come un bimbo con la palla. Invece niente è suo, niente dura nel pugno del possesso. Amo ogni forza che me lo ricorda, amo i vulcani e tutta la magnifica energia che costringe il ritorno all’umiltà»
* Testo segnalato e inviato da don Aldo Antonelli.
L’INIZIATIVA *
"Ricercatori fannulloni e improduttivi"
Le risposte alle accuse del rettore Frati *
Polemiche per le parole di Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma, che ha criticato la produttività dei ricercatori auspicando la cacciata dei fannulloni dall’università. "Il 30% dei ricercatori della facoltà di Giurisprudenza non ha prodotto nulla nell’ambito della ricerca scientifica e in generale alla Sapienza il 10% dei ricercatori non ha prodotto nulla in 10 anni. Queste persone vanno cacciate dall’Università", ha detto Frati. "C’è chi ruba lo stipendio: ci sono persone che lo prendono da anni e non fanno nulla", ha proseguito, "Facciamo pulizia a casa nostra per avere più potere morale".
Parole che fanno discutere. Chiediamo ai ricercatori di commentare le dichiarazioni del rettore raccontando la loro esperienza nelle università italiane. Per inviare le vostre testimonianze usate il modulo qui sotto, indicando nome, cognome e ateneo d’appartenenza.
Il Paese-faina che disprezza l’Università
di ANTONIO SCURATI (La Stampa, 22/5/2010)
Nel silenzio più totale, nell’indifferenza generale, è in discussione in Parlamento un disegno di legge di riforma dell’università da cui dipenderà il futuro del nostro Paese. Lo scopo dichiarato dai riformatori (il governo) è di ridurre gli sprechi e razionalizzare le risorse, la conseguenza reale sarebbe - stando agli oppositori (quasi l’intero mondo accademico) - di condurre il sistema universitario pubblico al collasso nel giro di pochissimi anni. Il sistema universitario ha le sue colpe, ed è scarsamente difendibile, ma la cura sarebbe, in questo caso, un’eutanasia mascherata. Chi ha ragione? E’ una battaglia tra riformisti e conservatori, tra risanatori e difensori di privilegi corporativi, oppure tra difensori dell’università pubblica e suoi curatori fallimentari? «Senza alcun onere aggiuntivo».
La risposta sta tutta in questa formula burocratica, una formula che ricorre più di venti volte nel testo di legge per la riforma dell’università. Si può riformare un’istituzione grande e complessa come quella universitaria senza investire ma, al contrario, tagliando ulteriormente i già scarsi investimenti? La risposta agli interrogativi precedenti dipende da quest’ultimo e la risposta è la seguente: no, non si può. Una cura dell’organismo malato dell’università pubblica che gli sottragga linfa vitale invece di immetterne, lo farà ulteriormente deperire e finirà per ucciderlo. Per questo motivo, ha ragione chi sostiene che la vera legge sull’università è la legge finanziaria. Ci sarebbero molti aspetti condivisibili della riforma in discussione. Il punto critico, però, è che la vera riforma sta nella legge finanziaria che le impone una drastica riduzione degli investimenti, tramutando iniziative magari virtuose in risultati gravemente dannosi. Facciamo un esempio. Esempio cruciale: la ricerca. La riforma consente ai ricercatori di ottenere due contratti triennali, al termine dei quali possono concorrere all’ingresso in ruolo.
Ebbene, in un’università prospera questa normativa avrebbe l’effetto benefico di abbassare l’età di accesso alla professione della ricerca; in un’università povera avrebbe, invece, l’effetto perverso di peggiorare le condizioni di precariato e sfruttamento dei ricercatori. Dopo sei anni di apprendistato sottopagato, verrebbero mandati a casa. E il problema è che, nel nostro Paese, il quadro generale prevede un’università povera, sempre più povera. L’Italia è al ventunesimo posto nella classifica della spesa dei Paesi Ocse in ricerca e sviluppo per le grandi imprese e ancora più in basso in quella degli investimenti pubblici (s’investe l’1,18 del Pil, circa la metà della media europea). Oggi, dalle nostre parti, dopo anni di gavetta, un ricercatore universitario vincitore di concorso percepisce uno stipendio di 1480 euro al mese. Il che significa che i giovani scienziati da cui ci aspettiamo la cura del cancro, la scoperta di fonti di energia rinnovabile o, anche - perché no? - la nuova cultura che ci consenta di interpretare e capire il nostro tempo, guadagnano meno dell’idraulico che ci ripara il lavandino.
E, si badi bene, non è soltanto questione di conto in banca: questa sproporzione tra stipendi e valore sociale della conoscenza è indice di un’università in cui i fisici che lavorano nella facoltà che fu di Enrico Fermi fanno ricerca negli scantinati. La miseria degli stipendi è, insomma, segno di un letterale disprezzo per il sapere. Un Paese che disprezzi il sapere è un Paese che manca le proprie occasioni di scoperta, depaupera i propri capitali di conoscenza, svilisce il potenziale umano dei propri giovani. Si tratta di valori inestimabili. La difesa dell’università pubblica significa, perciò, difesa di un’idea del bene comune, della prosperità futura, delle risorse non divisibili ma condivisibili. Un Paese che disprezzi il sapere è un Paese prostrato, inerte, incattivito, un Paese-lucertola, immobile, guardingo, letargico, dominato dalla paura e dal risentimento.
Un Paese-faina, notturno, solitario, predace, sedotto dal richiamo della vita selvatica, in cui tutti, singoli e corporazioni, sperano di cavarsela da soli, e che per questo non ha bisogno di cultura, ricerca, immaginazione, progettazione di futuro: tutte cose che si possono fare solo insieme. Nessuno si salva da solo. Ci saranno proteste, in molte università si parla già di non far partire il prossimo anno accademico. Se questa lotta verrà vista come il tentativo di difendere i privilegi di una corporazione, l’università pubblica, lasciata sola, è destinata a morire da sola. Si accascerà al suolo, ignorata da tutti, in una via del centro, tra la folla dello shopping prefestivo. Se invece il Paese sceglierà di difenderla - e chiederà di migliorarla, certo -, perché è la sua università, il suo patrimonio, la sua ricchezza, allora questo sarà un segno che non tutto è perduto. L’alternativa è tra un futuro da sudditi di un reame di solitudini e uno da cittadini di una casa comune. Non dovrebbe essere così difficile scegliere.
Socrate e Ratzinger
di Ferdinando Camon (il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2010)
La lettera del cardinale Ratzinger, pubblicata ieri da tutti i giornali, con la quale l’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina delle Fede risponde sul problema di dispensare dagli oneri sacerdotali il reverendo Miller Kiesle, colpevole di pedofilia, invitando a prender tempo e a tener presente anche il bene della Chiesa cattolica, è un importantissimo documento storico. Perché dimostra che il cardinale (come il Papa precedente, e quello precedente ancora) avvertiva nell’affrontare i casi di pedofilia tra i preti lo scontro tra due beni: il bene delle vittime e il bene della Chiesa. I due beni non vanno d’accordo, chi ha il potere di decidere deve scegliere: o protegge le vittime danneggiando la Chiesa, o protegge la Chiesa abbandonando le vittime.
Una sconosciuta lettrice ha mandato a un giornale una letterina semplice semplice in cui espone un problema terribile per il cattolico credente. Dice: “Anch’io, se sapessi che un prete commette atti di pedofilia, non lo denuncerei alla giustizia civile ma solo alla chiesa, perché prima di dire o fare qualcosa, mi pongo sempre la domanda: a chi giova, a Dio o a Satana?”. Non denunciando, eviti un oltraggio alla Chiesa, e questo è bene, Dio lo gradisce e lo chiede. Denunciando, fai uno scandalo enorme, la Chiesa resta colpita, e questo è Satana che lo chiede e lo gradisce.
C’è un librino esile che nessuno cita (e questo mi stupisce), centrato in pieno sul problema di fronte al quale si trova Ratzinger, e prima di lui gli altri papi. È un dialogo di Socrate intitolato “Eutifrone”. Eutifrone è un sacerdote, Socrate lo trova per strada (il sacerdote sta andando a testimoniare in non so qual processo), lo ferma e impianta una discussione su questo tema: un’azione è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? Eutifrone, da buon sacerdote, risponde: un’azione è buona se piace a Dio. Socrate cerca di spostarlo sull’altra risposta, ma non fa in tempo, il dialogo s’interrompe.
C’è un film di qualche anno fa intitolato “Water”, acqua, e ambientato in India, in cui per pochi minuti, trequattro, appare Gandhi. Non c’entra niente con la trama del film, ma passa in treno, la gente accorre per salutarlo, lui scende per compiacerla, fa pochi passi e regala una briciola si saggezza. Dice: “Fino a ieri credevo che Dio fosse la verità, oggi so che la verità è Dio”. È un salto enorme. Il salto che Socrate cerca di far fare ad Eutifrone. Il salto che Paolo VI non ha fatto, né Giovanni Paolo II, né Ratzinger fino alla lettera ai fedeli irlandesi di poche settimane fa. Se una cosa è buona perché piace a Dio, allora non-denunciare non solo non è una colpa, ma è un merito. Se c’è da scegliere tra Dio e la Giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda.
Solo la lettera ai fedeli irlandesi rovescia questo principio. Perché dice ai preti pedofili: “Dovete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti”. Non è più vero che, se c’è da scegliere tra Dio e giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. È vero l’inverso: scegliendo la giustizia scegli Dio.
La lettera pubblicata ieri e firmata da Ratzinger è del 1985, allora tutta la cultura cattolica (tranne quella del dissenso) era vincolata a scegliere Dio, con ciò scegliendo il bene. Spostarla a scegliere il bene, nella convinzione che lì sta Dio, è un’operazione titanica, per la quale ci vorrà un lungo tempo. Con la lettera agli irlandesi questo tempo comincia. Incolpare Ratzinger di essersi formato nel tempo precedente non ha senso. È più giusto dargli atto di aver inaugurato il grande transito, cominciando a spingere la Chiesa fuori dall’etica pre-socratica.
(fercamon@alice.it )
L’«AMBASCIATA»
E la Sapienza rilancia l’invito a Ratzinger *
Due anni fa il «gran rifiuto» dell’Università «La Sapienza» alla visita di Benedetto XVI. Ieri il nuovo invito del rettore Luigi Frati, affinché la visita si svolga in un prossimo futuro. Il numero uno del più importante ateneo romano - oltre che tra i più prestigiosi d’Europa - affida l’invito al cardinale vicario, Agostino Vallini, che lo accoglie con un sorriso e che, al termine della Messa celebrata nella Cappella dell’Università, lo commenta con i giornalisti presenti. «Non posso decidere io naturalmente, ma so che il Santo Padre, come pastore, ama Roma e tutte le sue realtà. Quando riceverà un invito ufficiale, valuterà».
Il 17 gennaio 2008 papa Ratzinger avrebbe dovuto tenere un discorso alla «Sapienza» in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, ma rinunciò per motivi di sicurezza dopo le forti proteste di gruppi minoritari di studenti, cui si era aggiunta anche l’esplicita contrarietà di alcuni docenti. «Quello che il Papa aveva preparato per quell’occasione - ha ricordato ieri Vallini - era un discorso di alta cultura che certamente può unire, mai dividere. La parola del Papa - ha sottolineato - unisce sempre, non divide mai».
Rivolgendo il suo saluto di benvenuto prima della Messa celebrata per inaugurare il nuovo portone e il nuovo piazzale antistante la Cappella universitaria, il rettore Frati aveva rinnovato l’invito al Papa «a venire in questa Cappella per celebrare la Messa e ad incontrare in Aula Magna i ricercatori, i giovani, gli studenti». Un ulteriore segnale di amicizia che si aggiunge a quelli dei mesi scorsi, da quando Frati è alla guida dell’ateneo romano.
E proprio pensando ai giovani, il cardinale Vallini ha anche risposto ad alcune domande dei giornalisti presenti sul necessario raccordo tra studio e lavoro. «Noi ci auguriamo - ha detto - che in questo momento così difficile si possano aprire strade di inserimento per l’esercizio di un diritto fondamentale» qual è quello del lavoro. «È una grande pena - ha proseguito - non riuscire ancora ad offrire lavoro ad ogni giovane dopo tanti anni di studio, di sacrifici». L’inserimento dignitoso, ha concluso, è «un sacrosanto diritto di tutti i cittadini».
* Avvenire, 22 gennaio 2010
Tasse alle stelle, i giovani protestano e occupano l’ateneo più celebre
Il problema delle imposte alte accomuna tutte le università americane
California, rivolta degli studenti
la polizia sgombera Berkeley
dal nostro inviato ANGELO AQUARO *
NEW YORK - Dicono che non è finita qui, che questo è soltanto l’inizio, che il movimento si è appena svegliato. Ma come? L’aumento delle tasse resta, il 32 per cento in più. E l’università è già stata liberata... "Non tutte le conquiste sono materiali", dice Ianna Owen, 23 anni, "questa volta crediamo davvero di avere smosso la gente".
Questa volta? Dici Berkeley e pensi subito alle rivolte anti-Vietnam che hanno fatto la storia. Da qui partì la protesta studentesca che infiammò il mondo negli anni Sessanta. Da qui partì la rivoluzione di Mario Savio e Art Goldberg. Esattamente 45 anni fa. Un 20 novembre. Si mosse perfino Joan Baez: concerto gratuito e poi in marcia con gli studenti. Migliaia di studenti.
Questo 20 novembre è andata diversamente. I ragazzi giovedì scorso si erano preparati per bene. "Staremo dentro il più a lungo possibile", aveva promesso Andi Walden, 21 anni. Cibi e sacchi a pelo. La polizia è arrivata alle 7 di venerdì mattina. Gli occupanti erano una quarantina. Sono rimasti fino alle 5 del pomeriggio: la polizia ha fatto irruzione, gli studenti sono usciti tra gli applausi della folla. Tre arresti. No, non è finita. L’aumento delle tasse sta infiammando tutte le università d’America. Il caso californiano è il più eclatante e non solo per quel nome: Berkeley. La California da febbraio a luglio ha tagliato 30 miliardi tra sanità e salute. Il Golden State è condannato a farlo: per far passare nuove tasse ci vuole una maggioranza super dei due terzi. E nel budget delle dieci università statali manca un miliardo di dollari.
"Le nostre mani sono state forzate a farlo", ha detto Mark Yudof, il presidente dell’università della California. "Quando non hai un dollaro, non hai un dollaro". Intanto agli studenti si chiede di scucirne 2.500 in più. Un aumento che porta a 10mila dollari la retta annuale: il triplo di dieci anni fa. Escluso ovviamente vitto e alloggio: che fanno la bellezza di altri 16mila dollari. Ayanna Moody, che frequenta il secondo anno, teme di non farcela: "Ho lavorato così sodo per arrivare in una delle università più prestigiose. E ora che faccio? Tornare indietro sarebbe deprimente: piuttosto perché non tagliano i loro stipendi?".
Neppure il governatore Schwarzenegger sa come uscirne. "È tempo di rivedere tutto il nostro sistema di spesa e di raccolta delle tasse". E intanto? "Intanto gli studenti devono soffrire per un po’". Ma l’invito non è stato accettato. La rivolta ha creato un vero e proprio assedio per tutta la settimana. I ragazzi sono partiti allargando subito la lotta e chiedendo il reintegro di 38 dipendenti sacrificati sull’altare dei tagli. "Fee hike! We strike": tasse alle stelle, e noi scioperiamo. Ma non è un problema solo locale. Almeno 35 sono gli Stati con problemi di budget scolastico. Dalla Florida a New York le tasse sono aumentate del 15 per cento. Michigan e New Mexico tagliano corsi e alzano i contributi. Forse ha ragione Ianna: la protesta è appena cominciata.
* © la Repubblica, 22 novembre 2009
"Merito? Lei non può insegnarcelo"
di Maristella Iervasi *
“Non tagliateci le gambe. Salviamo la ricerca”. Lo slogan campeggia nell’aula A della facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza di Roma. Tutta l’Onda è in assemblea contro il ddl Gelmini sulla governance degli Atenei con dentro il tema del merito, la valutazione e il prestito d’onore e l’ingresso dei privati nelle Università. Il microfono passa di mano in mano: studenti, ricercatori precari, dottorandi, responsabili nazionali dei coodinamenti della scuola e della Federazione dei lavoratori della Conoscenza (Cgil). E la Gelmini e la sua riforma ne escono con le gambe rotte.
Il movimento dell’Onda è tutt’altro che morto. Presto l’attività di tutti gli Atenei verrà bloccata e la mobilitazione sarà lunga, fino a primavera. E’ questo che è scritto nella mozione approvata da tutte le università d’Italia. Già certe le prime date: il 2 dicembre, manifestazioni in tutti i territori. Mentre l’11 anche l’Onda sarà allo sciopero generale della Cgil a Roma contro i tagli previsti dalla legge 133 “ma non per far da passarella ad Epifani”, sottolineano a Scienze politiche.
Andrea è arrivato da Cagliari. Studia Ingegneria e ai colleghi campani dice: “Se voi a Napoli avete i Casalesi, noi a Cagliari abbiamo il Pdl”. E la platea si scioglie in un lungo applauso. “Non dobbiamo permettere di parlare di merito ad un ministro che non ha merito. Combattiamola smontando la sua riforma”, è l’invito dello studente.
Francesco, del coordinamento precari scuola, chiede la solidarietà per gli studenti medi in occupazione e propone per l’11 dicembre di “assaltare” tutti insieme il ministero dell’Istruzione. Arrabbiatissima è anche Valentina, ricercatrice precaria di medicina a Torino: “Combattere la governance che regala gli Atenei alla Confindustria”. E Vanessa, studentessa della Sapienza, sottolinea: “Il ddl Gelmini è reazionario. Vogliono toglierci la scelta di poter studiare. Sono stati tagliati interi settori dell’offerta formativa, la ricerca di base è scomparsa. Agli Atenei sono rimaste le briciole. Ci vuole subito la guerriglia delle intelligenze”.
Claudio di Bari raccoglie la proposta e la rigira così: “Facciamo un attacco ben studiato: smascheriamo e disveliamo tutti gli obiettivi della riforma. Se chiediamo solo il ritiro dei tagli della legge 133 facciamo il loro gioco, mentre non esiste il merito senza un welfare universale. Non c’è merito senza reddito”.
Gli interventi si suggono fino a sera. Gli universatari e i ricercatori fuori sede si fermano a Roma per il week-end. In calendario la stesura di un documento-mozione condiviso. E’ più che un tam tam. La Gelmini è avvisata. L’Onda è in movimento e non s’arresta.
* l’Unità, 20 novembre 2009
Venerdì tutta l’Onda alla Sapienza *
Venerdì 20 Novembre ci sarà un’assemblea nazionale alla Sapienza dei precari alle ore 10. Per l’occasione è stato redatto un appello «per rilanciare il movimento».
«Il disegno di legge per la riforma dell’Università, da poco approvato in Consiglio dei ministri, ci impone di riprendere la parola - si legge nel testo- È passato un anno, infatti, da quel movimento straordinario che ha congelato ogni ipotesi di riforma organica dell’università, invadendo le piazze di tutta Italia. Un movimento, quello dell’Onda, che ha saputo reinventare il conflitto in un Paese trafitto dalle destre e privo di opposizione. Un movimento che, partito nelle università, è dilagato nelle scuole e ha coinvolto anche noi, precari della ricerca, già protagonisti delle lotte contro il Ddl Moratti nell’autunno del 2005. La forza dell’Onda ha in buona parte fermato l’iniziativa governativa (ricordiamo che al seguito dell’approvazione del Dl 137 sulla scuola - 29 ottobre del 2008, la Gelmini aveva promesso un decreto legge anche per l’università), ma non è riuscita ad ottenere l’annullamento dei tagli finanziari alla formazione».
«Il Ddl colpisce a morte l’università pubblica - prosegue il documento- riorganizzandola a partire dall’insistenza dei tagli. Viene abolita la terza fascia di docenza, quella dei ricercatori a tempo indeterminato. Solo contratti a termine per chi fa ricerca. È chiaro dunque che se questo ddL venisse approvato dalle Camere si definirebbe un punto di non ritorno».
* l’Unità, 17 novembre 2009
Aria, acqua e pane
di Guglielmo Ragozzino (il manifesto, 17.11.2009)
Cina e Stati uniti, insieme, producono il 40% di tutte le emissioni umane di anidride carbonica. Gli scienziati hanno mostrato che le emissioni sono responsabili del riscaldamento climatico e dei disastri ambientali conseguenti. La Conferenza delle nazioni unite che si aprirà il 7 dicembre a Copenhagen, dopo una lunga preparazione, caricata di tutte le speranze, ha il compito di decidere forme comuni di mitigazione e adattamento - o per dirla tutta, di sopravvivenza. Cina e Stati uniti hanno però deciso, insieme, di non accettare vincoli di sorta. Sono disponibili a una dichiarazione d’intenti, politica e forte, ma non a un impegno preciso. A questo punto, la Conferenza danese potrebbe anche non cominciare. Il suo esito deludente è scontato. Il 40% si è chiamato fuori.
I due paesi del nuovissimo G2 si equivalgono per le emissioni, ma mentre quelle cinesi crescono anno dopo anno, quelle della potenza rivale si stanno, lentamente, riducendo. Pechino esige un risarcimento preventivo per l’inquinamento americano del passato; non vuole dollari, visto che ne ha già troppi, ma tecnologie appropriate. Washington, dal canto suo, afferma la propria disponibilità a tagliare le proprie emissioni all’unisono con gli altri grandi inquinatori, ma non prima degli altri. Da sempre l’America pretende di decidere in modo autonomo; e oggi il problema del presidente Barack Obama è quello di strappare al suo Senato un voto accettabile sulla sanità. A questo fine è disposto a ogni compromesso, per quanto devastante sia sul piano ambientale.
Nel frattempo, a Roma, la Conferenza della Fao (Organizzazione del cibo e dell’alimentazione) si è aperta con queste parole del segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon: «Oggi moriranno 17mila bambini. Di fame». La scarsità di cibo, in forma grave, tocca ormai un miliardo di persone.
I problemi sono noti: l’aridità crescente, forma crudele e inevitabile dei cambiamenti climatici, la rapina di terreni fertili alle popolazioni poverissime, denunciata da Manitese, la produzione agricola indirizzata all’esportazione verso i consumi dei ricchi, il potere delle multinazionali dei semi. Le promesse del Millennio di dimezzare la fame entro il 2015 resta lettera morta. Agli affamati solo buoni consigli, cinque in tutto e anche assai complicati. Solo per capire di che si tratta occorre un dottorato in scienze alimentari e politiche. Cinque consigli e niente soldi. I 44 miliardi di dollari promessi dai paesi ricchi sono aria fritta.
Sempre a Roma, sempre oggi, per rendere onore alla fame e all’aridità crescente, all’inquinamento dell’aria, si sta vendendo l’acqua ai privati. Alla Camera dei deputati si decide di privatizzare. Un frammento dell’opposizione si oppone; tutti gli altri stanno a guardare. Per qualche modesto intrigo politico la Lega ha cambiato posizione e grandi gruppi, italiani e multinazionali stanno vincendo la partita dell’acqua. Stanno vincendo non vuol dire che abbiano già vinto. I movimenti dell’acqua - il Forum, il Contratto mondiale - sono ancora in campo.
Le tre questioni - aria, pane, acqua - sono beni comuni, inalienabili. Nessuna persona dovrebbe esserne privata; nessuna costretta a mendicare. Il capitale che vuole impadronirsi di tutto non è in gran forma. Ha quasi portato alla rovina il pianeta. Si dovrebbe metterlo in condizione di non nuocere, non uccidere, non inquinare. Non rubare la nostra acqua.
"In principio c’era la parola?", un pamphlet di Tullio De Mauro
Quando la lingua ci fa uguali
di Francesco Erbani (la Repubblica, 9.11.2009)
Basterebbero due parole, bu e ba, diceva il padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussure, per fare una lingua. Bu e ba, aggiungeva, si dividerebbero tutti i significati possibili di cui avrebbe bisogno la comunità che con quella lingua si esprimesse. Era un paradosso. Ma neanche tanto, scrive Tullio De Mauro in In principio c’era la parola? (Il Mulino, pagg. 77, euro 9). Quell’annotazione fu considerata una bizzarria da chi mise insieme il Corso di linguistica generale, l’opera più importante di Saussure ricostruita sulla base delle sue lezioni a Ginevra. E infatti fu cassata. Per fortuna, grazie allo stesso De Mauro, di quel testo, che è all’origine della filosofia del linguaggio novecentesca, questa e altre parti sono state recuperate.
E questa è una parte molto importante nella natura di una lingua: sta a indicare che una lingua non è un sistema chiuso. Ha le sue regole, ma fra le regole fondamentali c’è che deve funzionare, cioè deve consentire alle persone di capirsi. Ed ecco perché, sottolinea De Mauro, il paradosso del bu e del ba rende evidenti i nessi fra lingua e società e, per altro verso, definisce quanto, attraverso l’elasticità di una lingua, ci si comprenda anche fra diversi. Con buona pace, scrive il linguista, di chi propone classi-ponte o direttamente classi-ghetto «per immigrati o meno dotati: un’idea non condivisibile, per non dire che è un’idea sciagurata».
L’adattabilità di una lingua è dimostrata dalla sua "onnipotenza semiotica" - come diceva un altro grande linguista, Luis Prieto. Una lingua ha una capacità illimitata di designare oggetti e concetti, può estendersi all’infinito esattamente come - riprendendo il paradosso di Saussure - può ridursi al minimo. Qualunque cosa è dicibile in una lingua, non solo grazie alle parole che la compongono, quelle vecchie e quelle che si possono creare (e tante, tantissime se ne creano in questi ultimi tempi), ma anche grazie alle innumerevoli possibilità combinatorie, oppure all’uso delle stesse parole in contesti diversi, che di per sé amplia i confini di una lingua (De Mauro fa l’esempio di parole come aria, forza, valore). O grazie alla grammatica. O, ancora, grazie a quello che si chiama metalinguaggio: la capacità che ognuno di noi ha di parlare della propria lingua, di dare e di condividere definizioni di parole. Come nel caso, suggerito da De Mauro, del romano che in un bar di Milano chiede un cornetto senza sapere che per i milanesi il cornetto è un fagiolino, mentre a Roma è una brioche. Un caso di incomunicabilità? Niente affatto: spiegando che cosa intende per cornetto, il romano riuscirà a farsi capire e il barista milanese sarà in grado di servirlo.
La condivisione di un senso, costruita attraverso la lingua, è indice di un legame all’interno di una comunità, che molto sarebbe piaciuto a don Lorenzo Milani. Ed è una esemplare operazione metalinguistica. Ma è anche il modo per dare attuazione nientemeno che a uno degli articoli fondamentali della Costituzione italiana, il numero 3, il quale stabilisce che tutti i cittadini abbiano pari dignità e siano uguali davanti alla legge senza distinzioni, fra le altre cose, di lingua.
Il presidente alla Sapienza insiste sulla necessità di contenere la spesa ma anche di rivederne i capitoli: "E’ meschino sottovalutare la ricerca"
Napolitano, allarme conti pubblici
"Ricondurre debito sotto controllo"
E studenti e ricercatori inscenano una nuova protesta anti-Gelmini
ROMA - La spesa pubblica è "oltre i limiti di indebitamente tollerabile", e anche per questo bisogna "ricondurre sotto controllo il debito pubblico pesante": lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parlando oggi all’università La Sapienza della capitale. Con gli studenti che hanno inscenato una nuova protesta anti-Gelmini.
"C’è una enorme difficoltà - ha sottolineato il capo dello Stato, nel suo discorso - a modificare l’ordine delle voci della spesa pubblica, che si sono venute incorporando attraverso comportamenti pluridecennali e quindi a introdurre priorità che modifichino quelle che, essendo riconosciute come tali, si sono sedimentate nel volume di una spesa pubblica che ha ecceduto largamente i limiti di un indebitamento normale e tollerabile e che senza dubbio deve essere ricondotto sotto controllo".
"Mi auguro - ha detto ancora Napolitano - che in questo sforzo anche di superamento della situazione debitoria pesante per lo Stato italiano si riescano ad affermare altre priorità nella distribuzione dei fondi pubblici". Ad esempio, la ricerca, settore nel quale "preoccupa la carenza dei mezzi e dei fondi: è meschino sottovalutare l’importanza della ricerca", e il modo in cui "incide sullo sviluppo economico ma anche umano di tutto il Paese".
"Abbiamo un ritardo serio da colmare", ha concluso il presidente della Repubblica. Stigmatizzando "la caduta dei fondi per la ricerca in Italia, negli ultimi venta’nni, passata attraverso diversi periodi politici e diversi governi".
Accolto dal rettore della Sapienza Luigi Frati, il capo dello Stato è stato salutato, al suo ingresso nell’aula magna, da un prolungato applauso. Ma la sua visita è stata anche un’occasione, per gli studenti e precari, di inscenare una nuova protesta contro il ministro dell’Università Mariastella Gelmini: due ricercatori si sono calati con una corda dalla facoltà di Lettere, per poi dare vita, in aula magna, a una dimostrazione silenziosa (in tutto una veentina di persone): "No lodo Gelmini, da La Sapienza, a l’ignoranza", c’era scritto su uno dei cartelli esposti.
"Il nostro - hanno spiegato i ragazzi - è stato un gesto non contro il presidente Napolitano ma solo per puntare l’attenzione sui precari e dottorandi della ricerca che lavorano per realizzare i progetti alcuni dei quali premiati oggi". Gli studenti oltre ai cartelli hanno distribuito una lettera indirizzata a Napolitano, "che non siamo riuscito a consegnare".
* la Repubblica, 12 ottobre 2009
Beni comuni
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 27 maggio 200)
Enclosures, ovvero recinzione, definizione di confini e sviluppo complementare di leggi sulla avvenuta appropriazione privata di bene fino ad allora comune. Il case study più noto di un bene comune divenuto proprietà privata è sicuramente quello più volte commentato da Karl Marx in una serie di articoli scritti a partire dal 1842 per la rivista Rehinische Zeitung. Il futuro autore de Il capitale era alle prese con una serie di provvedimenti che la Dieta renana era chiamata a approvare e che avevano come oggetto la definizione di regole e sanzioni per chi si appropriava di legna raccolta nelle foreste e nei boschi che la consuetudine e il vecchio diritto medievale stabiliva come «comuni». Con ironia, Marx, in una serie di lunghi articoli, si era scagliato contro queste proposte di «recinzione» fino a quando un editto imperiale aveva chiuso la rivista. Ma la sua esperienza di direttore della rivista gli tornerà utile, nei Grundrisse e ne Il capitale, per uno dei più affascinanti affreschi storici sulla genesi del capitalismo industriale. Ancora oggi quelle pagine marxiane costituiscono uno delle sintesi ineguagliate nel descrivere la violenza insita nello sviluppo capitalista.
Solo recentemente però alcuni ricercatori e attivisti sono ritornati a studiare e discutere con interesse le pagine marxiane sull’accumulazione originaria sostenendo, a ragione, che le enclosures non sono un episodio circoscritto e transitorio dello sviluppo economico, ma che si rinnovano ogni volta che il capitalismo si diffonde come modo di produzione e come rapporto sociale. E così se le recinzioni delle terre hanno favorito l’emergere della manifattura, altre appropriazioni private di beni comuni hanno consentito la riproduzione allargata del capitalismo. Tra la fine del lungo Novecento e l’inizio dell’attuale millennio, le enclosures sono state infatti un fenomeno che ha coinvolto l’acqua, la sanità, la formazione, la conoscenza, cioè fattori che, usando termini marxiani, attenevano tutti alla riproduzione della forza-lavoro e che hanno costituito l’esoscheletro del welfare state nel capitalismo industriale.
Dalla terra al genoma umano
È a questo insieme di problemi che il filosofo francese Daniel Bensaid affronta ne Gli spossessati, volume che ha l’indubbio pregio di tessere il filo rosso che lega le riflessioni marxiane sull’accumulazione originaria e le attuali politiche di enclosures (Ombre Corte, pp. 116, euro 11). Nelle pagine che lo compongono, l’autore riesce infatti a stabilire linee di continuità e di discontinuità tra quell’insieme di leggi che hanno consentito tra la il Settecento e l’Ottocento la cancellazione di consuetudini secolari, la formazione del proletariato e le politiche contemporanee di privatizzazione. Ma se le recinzioni delle terre comuni ha visto la formazione della industria manifatturiera e lo sviluppo del moderno diritto proprietario, le attuali enclosures aprono la strada a un diverso capitalismo che l’autore qualifica come neoliberista a partire dalla deregulation dei servizi sociali che ha costituito una delle linee di sviluppo economico in un mondo sempre più interconnesso.
Tesi convincente se assieme a questo va assunto come nodo teorico e politico la trasformazione della conoscenza come fattore direttamente produttivo, come testimoniano la produzione di software, la trasformazione delle università in imprese culturali o la mappatura del genoma umano. La politica delle enclosures è cioè sempre propedeutica alla diffusione e all’innovazione del modo di produzione capitalistico. Le attuali politiche di enclosures rispondono così proprio a questa necessità politica e economica del capitalismo di innovarsi e di diffondersi su scala planetaria el capitalismo, come ha d’altronde brillantemente sostenuto Sandro Mezzadra in un saggio dedicato all’accumulazione primitiva (La condizione postcoloniale, Ombre corte).
Come è noto, per Marx la recinzione delle terre, oltre a introdurre meccanismi mercantili nell’agricoltura e a distruggere consuetudini secolari nell’accesso alle terre comuni, ha favorito la formazione di una forza-lavoro che si è riversata nelle città in cerca di un lavoro. Seguendo le riflessioni marxiane, occorre capire come le attuali politiche dell’enclosures hanno modificato la realtà sociale contemporanea, quali le consuetudini che ha cancellato e sopratutto quali le forme di resistenza che ha incontrato.
Per Daniel Bensaid l’aspetto più rilevante che la recinzione del sapere e la privatizzazione dei beni comuni è appunto lo sconfinamento dei rapporti sociali capitalistici in ambiti vitali - la riproduzione della forza-lavoro, per usare termini marxiani - finora esclusi dal regime di accumulazione basato sul lavoro salariato e il profitto. Sconfinamento che pone con drammatica urgenza la dimensione politica delle enclosures, come d’altronde ha affermato in una recente intervista apparsa nell’ultimo della rivista Erre.
Va comunque ricordato come il problema dei beni comuni sia stato uno dei temi portanti del movimento no-global, che ha saputo, spesso creativamente, mettere insieme, ad esempio, le battaglie contro la privatizzazione dell’acqua alla denuncia delle politiche modernizzatrici portate avanti dalla Banca mondiale, il Fmi e il Wto. Oppure indicazioni «politiche» assieme a una significativa «prassi teorica» attorno a questi temi sono venute anche dall’eterogeneo mondo del free software, dell’open source o dai recenti movimenti universitari in Italia, Francia, Grecia e Stati Uniti.
L’impossibile scarsità
Ed è a partire dalla riflessione attorno a queste esperienze che si muovono i migliori degli ultimi anni raccolti nel volume La conoscenza come bene comune (Bruno Mondadori, pp. 404, euro 42) curato dagli studiosi statunitensi Charlotte Hess e Elinor Ostrom. A differenza del testo di Bensaid questi saggi sostengono, a ragione, che per la conoscenza en general la politica delle enclosures devono misurarsi con un fattore che certo non appartiene alla recinzione delle terre comuni, dell’acqua e delle fonti energetiche. Infatti questi beni comuni tangibili sono risorse limitate e le enclosures hanno consentito, tra le altre cose, di definire il loro valore economico proprio, le regole del loro sfruttamento, attraverso la proprietà privata, all’interno di un regime di scarsità. La conoscenza non risponde però a questo criterio.
La produzione e la circolazione del sapere non sono vincolati al suo consumo, perché la lettura di un libro, l’ascolto di un brano musicale, la visione di un film diventano atti propedeutici alla produzione di altri manufatti culturali senza che questo significa la «cancellazione» dei precedenti. In altri termini, la conoscenza non correre il rischio di incappare nella «tragedia dei beni comuni», quella strana leggenda che, in nome della tutela e ottimale gestione di un bene scarso, serviva a legittimare l’individualismo proprietario. E tuttavia l’applicazione del diritto proprietario alla conoscenza cerca di ricondurre la sua produzione e circolazione a un regime di scarsità, in nome proprio del suo miglior utilizzo economico.
Questa peculiarità della conoscenza - un bene comune pressoché inesauribile - rende il regime della proprietà intellettuale insopportabile e, al di là della difesa del singolo autore, è da considerare solo uno strumento che garantisce una rendita di posizione delle multinazionali impegnate nella produzione di software o più in generale dell’industria culturale. Da qui la rilevanza del free software, dell’open source e di tutte le esperienze che rivendicano il libero accesso e la condivisione della conoscenza.
Una critica marxiana alle contemporanee politiche delle enclosures deve così assumere il fatto che sono proprio le norme della proprietà intellettuale che puntano a rendere scarso un bene, la conoscenza, che risponde invece a una logica accumulativa. Attiene infatti alla natura umana sviluppare relazioni sociali che producono continuamente sapere, conoscenza, informazione che a loro volta alimenta quelle stesse relazioni sociali. Le norme sul copyright, i brevetti e i marchi puntano invece, attraverso il diritto proprietario, a rendere scarso ciò che non lo è.
Le tante proposte tese a inasprire le leggi sulla proprietà intellettuale assieme alle riforme che tendono a definire una ferrea gerarchia tra una dequalificata formazione scolastica e universitaria di massa e pochi centri di eccellenza sono quindi propedeutiche a estendere alla conoscenza en general il regime dell’accumulazione capitalistica. Da qui l’importanza che entrambi i volumi pongono sulla centralità della produzione culturale nel capitalismo contemporaneo. E rilevanti politicamente sono anche i movimenti di resistenza che tanto nella produzione scientifica che nelle università si sono sviluppati attorno al rifiuto della proprietà intellettuale e dell’accesso differenziato alla formazione e universitaria.
Il volume di Daniel Bensaid e quello della Bruno Mondadori, ognuno a suo modo, aiuta a comprendere il fatto che le enclosures come un terreno di conflitto a cui sarebbe folle sottrarsi. Perché la posta in gioco non è solo la possibilità di scaricarsi dalla rete un film o un brano musicale, ma le condizioni del nostro vivere in società. E di come al regno della necessità, così fortemente alimentato dal diritto proprietario, è preferibile costruire un regno della libertà.
L’Onda torna in piazza. E sfida il divieto a manifestare
di Paola Zanca *
Per spiegare le loro intenzioni, hanno scritto una lettera. Gli studenti dell’Onda domani alle 14 tornano in piazza. Ma prima hanno deciso di scrivere «alla città di Roma, ai suoi cittadini e alle sue istituzioni, ai movimenti sociali, ai sindacati, alle forze politiche». Vogliono informarli delle loro intenzioni: «Sabato 28 marzo - scrivono - le studentesse e gli studenti, le precarie e i precari dell’Onda si incontreranno in piazzale Aldo Moro, si uniranno ai collettivi degli studenti medi e da lì si sposteranno in corteo e raggiungeranno il concentramento di piazza Esedra per partecipare alla manifestazione contro il G14 sugli ammortizzatori sociali, il welfare e il lavoro che si svolgerà, dal 29 al 31 di marzo, presso la Farnesina».
Niente di strano, si dirà. Una manifestazione come le altre. Ma non è così: l’ultima volta, il 18 marzo scorso, gli studenti che avevano provato a raggiungere in corteo la manifestazione della Cgil a piazza Santi Apostoli erano stati caricati. A Roma, infatti, è in vigore un nuovo protocollo sulle iniziative di piazza, che regola rigidamente i percorsi che si possono fare, previa autorizzazione, e quelli che sono vietati, sempre e comunque. Per questo gli studenti avvertono la città: perchè il loro corteo, domani, è vietato.
Gli studenti, insomma, ci riprovano: ripartono da piazzale Aldo Moro, «in primo luogo per ribadire un diritto fondamentale: il diritto al dissenso» e in secondo luogo per rivendicare «quel diritto, ormai quasi “consuetudinario”, di poterlo fare a partire dalla città universitaria». «Con l’Onda di ottobre e di novembre - spiegano gli studenti - questa consuetudine si è enormemente estesa, per numero e qualità. Corteo locale o nazionale per le studentesse e gli studenti dell’Onda significava e significa partire da piazzale Aldo Moro, percorrere la città, bloccare il traffico e far sentire la propria voce, dopo averla usata con passione e con coraggio nelle facoltà, nei corridoi, nelle classi universitarie. Normale - aggiungono - per chi vive le proprie giornate nell’università vederla e viverla come il luogo proprio della protesta, dell’impegno critico, della passione politica. Sono decenni che l’università è punto di partenza delle manifestazioni studentesche sulla formazione, sui nuovi diritti, contro la guerra e contro il razzismo, non saranno di certo le manganellate della scorsa settimana, né tanto meno il protocollo a cancellare questa abitudine virtuosa».
E proprio riguardo al protocollo, gli studenti ci tengono ad aggiungere qualcosa. «Come in molti hanno ripetuto in questi giorni (Cgil compresa) - spiegano - il protocollo non ha valore normativo e universale, vincola i firmatari e non chi il protocollo non l’ha firmato. Le regole, quando valgono per tutti, debbono essere decise da tutti e questo non è certo il caso del protocollo. Inutile segnalare - aggiungono - che non siamo tenuti a rispettare una cosa che non ci riguarda, né tanto meno ad abbassare la testa nei confronti di chi del protocollo intende fare un uso muscolare e liberticida».
La manifestazione di sabato non parla solo di università e diritto allo studio: è anche e soprattutto una protesta contro la crisi. Gli studenti la chiamano una «catastrofe dell’università, della ricerca, della formazione, del mondo del lavoro e delle garanzie sociali in genere». Noi, dicono i giovani universitari «non abbiamo intenzione di perdere e di tornare a casa, nella nostra solitudine. Noi saremo ancora tanti e a fianco a noi ci saranno anche precari, lavoratori, migranti, senza casa, tutti coloro che non hanno prodotto la crisi e non intendono pagarla. Per questo ultimo motivo, oltre che per i precedenti - concludono - la scelta di piazzale Aldo Moro ci sembra la migliore».
* l’Unità, 27 marzo 2009
La Sapienza, cariche della polizia contro gli studenti
Momenti di tensione all’Università di Roma La Sapienza. Gli studenti che avevano dato vita ad un corteo interno hanno tentato di uscire fuori dalla città universitaria cercando di forzare il cordone di poliziotti e carabinieri. Le forze dell’ordine hanno caricato gli studenti respingendoli all’interno dell’ateneo.
Battendo in ritirata verso il rettorato dell’Università La Sapienza gli studenti hanno lanciato bottiglie ma soprattutto scarpe contro le forze dell’ordine. Ora i circa trecento ragazzi che stamani avevano dato vita ad una manifestazione interna all’ateneo hanno desistito dal dare vita ad un corteo esterno: si sono radunati sulla scalinata del rettorato per un sit-in.
L’entrata principale dell’università a piazzale Aldo Moro è presidiata dalle forze dell’ordine come tutti gli altri accessi all’ateneo. Gli studenti sono ora dentro la città universitaria e gridano slogan contro la polizia.
«Vogliamo andare nelle nostre strade: libertà di movimento». Uno degli slogan degli studenti che stanno protestando con iniziative collegate allo sciopero della Flc-Cgil «contro i tagli all’istruzione operati dal governo».
Uno studente denuncia di essere stato picchiato da 4 agenti: «Mi hanno menato in quattro con il manganello girato - spiega Emanuele mostrando i segni rossi sulla schiena e su un gomito - ma a via De Lollis le cariche sono state più dure e ho visto diversi ragazzi con il ghiaccio sulla testa». Infatti, dopo la carica avvenuta in piazzale Aldo Moro, anche all’uscita de La sapienza su via Cesare De Lollis si sono verificati nuovi scontri tra forze dell’ordine e studenti.
Obiettivo degli studenti era quello di arrivare sotto al ministero dell’Economia: «Volevamo lanciare delle ciabatte contro il ministero per protesta, come hanno fatto gli studenti delle università francesi contro i loro ministeri e come ha fatto il giornalista iracheno contro Bush».
A questo punto gli studenti chiedono anche al sindacato di difenderli: «La Cgil condanni la cariche, prenda le difese del movimento e stralci il protocollo di intesa sui cortei - dicono - Questo protocollo autorizza la violenza. La Cgil dica da che parte sta».
L’Udu, l’unione degli universitari, conferma che «la violenza contro gli studenti è stata ingiustificata, riteniamo che a tutti debba essere garantita la libertà di poter esprimere le proprie idee. Allo stesso tempo - aggiungono - riteniamo che le manifestazioni si debbano svolgere nel rispetto delle regole perchè sono proprio le regole a garantire i diritti di chi manifesta. L’atteggiamento di oggi della polizia è frutto della volontà di questo governo che anche in autunno, a fronte di un comportamento sempre pacifico da parte degli studenti, non ha fatto altro che aumentare le tensioni con atteggiamenti repressivi piuttosto che di dialogo con chi giustamente manifestava».
* l’Unità, 18 marzo 2009
Sapienza, studenti contestano Fini
E c’è anche chi urla: "Fascista"
"Ci fa ridere che Fini venga qui a fare una lezione sul Parlamento dal momento che proprio il Parlamento ci ha esautorato dal dialogo"
di Katia Ancona *
"Vergogna, vergogna" e poi striscioni di condanna per "Il massacro di Gaza". Così il presidente della Camera Gianfranco Fini è stato accolto oggi all’Università di Roma La Sapienza, proprio davanti al Rettorato, dove si sono radunati alcune centinaia di studenti. Fini è alla Sapienza per inaugurare l’anno accademico del Master in Istituzione Europee e Storia Costituzionale. Un giovane ha urlato "fascista", ma è stato bloccato e identificato dagli agenti.
"Ci fa ridere che Fini venga qui a fare una lezione sul Parlamento dal momento che proprio il Parlamento ci ha esautorato dal dialogo" spiega Luca, studente dell’Onda mentre si allontana un attimo dalla scalinata del Rettorato dove è in corso la protesta. "Ridicolo da parte di una maggioranza che si è staccata da tutto e che vuole dismettere l’università pubblica".
Per gli studenti "è paradossale la situazione in cui ci troviamo, ci hanno impedito di sfilare pacificamente all’interno della città universitaria, di avvicinarci alla facoltà di Fisica per avvertire gli altri studenti di questa lezione, la polizia ha addirittura tirato fuori le transenne per farci stare alla larga".
E relativamente al ragazzo che avrebbe urlato "fascista" al presidente della Camera Luca dice: "Può essere, c’erano tante persone io personalmente non l’ho sentito".
I ragazzi hanno con sé alcuni striscioni: "Non abbiamo fiducia nelle vostre riforme, fini-tela!", "Basta tagli all’università", inoltre sono stati calati alcuni striscioni dalle pareti delle facoltà: "Criminale è chi vieta il dissenso".
Tra i cartelli anche un riferimento alle parole del sindaco Gianni Alemanno che nei giorni scorsi aveva detto che l’ateneo romano "è ostaggio di 300 criminali", i ragazzi replicano: "Voi quattro immuni, noi 300 criminali". Ma anche "Università senza con-Fini", "Fiducia, Fini non giustifica i mezzi", "Il vostro controllo non è sicurezza" e "No alla legge Fini sulle droghe": sono altri slogan su alcuni striscioni.
"Noi vogliamo anche ribadire la nostra contrarietà alla guerra in Medio Oriente - prosegue Luca - non ci sono giustificazioni al massacro dei civili palestinesi, e questa nostra contrarietà vogliamo farla sentire forte al presidente della Camera".
"Vogliamo dire ’vergogna’ anche al Rettore Frati che la scorsa settimana aveva detto ’la democrazia è in pericolo’, però oggi non ci ha fatto entrare.
* la Repubblica, 21 gennaio 2009
Cresce la tensione dopo le parole del sindaco di Roma e di Frati sugli inviti alla Sapienza
"Criminale è chi smantella l’Università"
l’Onda contro Alemanno e il rettore
di Carlo Picozza (la Repubblica, 6.1.2009)
ROMA - «Criminale è il disegno di quanti, come il sindaco e il rettore, vogliono smantellare l’università». Non si fa aspettare la risposta dell’Onda alle parole del sindaco Gianni Alemanno («La Sapienza è ostaggio di 300 piccoli criminali») e alle «interpretazioni» che ne dà il rettore Luigi Frati. L’affermazione di Alemanno («Criminali; gente di cui dobbiamo liberarci») è benzina sul fuoco delle polemiche per l’incontro (saltato) con l’ex br Valerio Morucci e l’annuncio a Repubblica del nuovo invito consegnato dal rettore al Papa (dopo quello, contestato, per la prolusione di Benedetto XVI all’apertura dello scorso anno accademico).
«La demonizzazione del movimento», per Francesco Raparelli, dottorando in Filosofia, «mira a nascondere le insidie della privatizzazione degli atenei, dei tagli a ricerca e personale, dell’abbassamento dei saperi. Si punta alla normalizzazione, complice Frati che vuole usare questa come merce di scambio con il governo per qualche briciola in più». «Il rettore», aggiunge Luca Cafagna (Scienze politiche), «vorrebbe ridurre l’esperienza di democrazia dell’Onda all’azione di una minoranza e, guarda caso, parla di libertà di parola quando nessuno, nell’università chiusa per ferie, può parlare».
«Ogni giorno Frati fa un gioco diverso», ancora Raparelli, «ora fa le veci dell’alleato Alemanno tentando di minimizzarne le affermazioni, aggiustandone il tiro pro domo sua e addita come bersaglio del sindaco i senzatetto che hanno occupato la vecchia sede dell’ospedale dei tumori, un edificio che gli sta a cuore». «I due vogliono depistare dall’operazione di smantellamento dell’università», dice Alioscia Castronovo, laureando di Lettere. «Criminale è questo disegno non quello di quanti vi si oppongono». Anche i docenti reagiscono alle parole di Alemanno. Il presidente dell’ateneo della Scienza, Fabrizio Martinelli, sente «puzza di "pulizia culturale"». E Fabrizio Vestroni, preside di Ingegneria, esorta: «Più equilibrio. E dialogo».
Frati: consegnato l’invito. E dopo il caso Morucci nuove regole per gli ospiti
Apertura a testimoni anche "scomodi" come gli ex br. Però con il contraddittorio
La Sapienza aspetta il Papa la sfida del rettore ai laici
di CARLO PICOZZA *
ROMA - L’invito formale per una visita alla Sapienza, il rettore Luigi Frati l’ha consegnato direttamente nelle mani del Papa. Lo ha fatto "accogliendo la richiesta di Benedetto XVI di avere il foglio del discorso da me fatto in rappresentanza dei rettori e nel quale rinnovavo la richiesta di una sua visita".
All’incontro degli universitari romani con il Papa, per gli auguri di Natale nella tradizionale messa a San Pietro, è seguito "un segnale di attenzione da parte del portavoce del pontefice, due giorni dopo, con una sorta di assicurazione a raccogliere l’invito, cosa più unica che rara per padre Federico Lombardi".
Insomma, il Papa andrà alla Sapienza? "Penso proprio di sì. Sarebbe irragionevole rifiutarne ancora una volta la visita in una occasione opportuna". Ë quindi anche secondo l’attuale rettore sarebbe stata inopportuna la presenza di Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico nel 705° anniversario della fondazione dell’università? "Inopportuna mi è sembrata la posizione dei 67 colleghi che hanno firmato la lettera contro, non tanto per l’espressione di una legittima laicità, quanto per i giudizi espressi sul pensiero del pontefice. L’università deve essere un luogo aperto: il suo compito è la diffusione delle conoscenze scientifiche e della cultura. Con un’unica regola: che a trattare gli argomenti siano quanti sulla materia hanno studiato, fatto ricerche e pubblicazioni".
Perciò ribadisce il suo "no" secco all’ex br Morucci? "Terrorismo, Foibe, Olocausto: sui grandi temi siano gli esperti a parlare. Vengano qui a insegnare o a incontrare gli studenti e, se ce ne fosse bisogno, siano loro a chiamare i protagonisti, aggressori, testimoni e vittime, degli eventi tragici oggetto di studio o del solo confronto". "Quanti si sono macchiati di sangue non si erigano a maestri", dice. "Neanche quando, sinceramente pentiti, possono mettere a disposizione la loro esperienza. Occorrono, filtri, strumenti e regole per il confronto su questi temi se non si vuole offendere la memoria di quanti non possono più dire la loro".
E le "regole" - il giorno dopo l’alt alla "lezione" dell’ex brigatista rosso componente del gruppo di fuoco della strage in via Fani, del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro - Frati le sta preparando, insieme con una lettera a docenti e studenti del Senato accademico e del cda dell’ateneo. Quali sarebbero? "Quelle che consentano all’università di svolgere le attività di formazione e ricerca rifuggendo da tentazioni che ne snaturerebbero il ruolo. Questo è luogo di studi non un Parlamento né una tribuna politica".
Ma il rettore vuole tornare sulla visita del pontefice. Fruga tra i file del suo computer: "Ecco il testo letto davanti al Papa e che lui, alla fine del mio intervento, mi ha chiesto di lasciargli: "Confesso di non aver capito, da ricercatore prima che da credente, il pregiudizio che nel gennaio 2008 ha mosso chi ha fatto riferimento al caso Galileo per giustificare una contrarietà alla Sua visita alla Sapienza. E come rettore, nella prolusione all’anno accademico, ho detto che attendiamo una Sua visita. Invito che in questa occasione rivolgiamo a Lei, studioso raffinato di filosofia, ma anche a Lei come vescovo di questa città"".
"Un anno fa", continua Frati, "un gruppo di colleghi scrisse al rettore di allora ritenendo inopportuno l’invito al Papa a tenere la prolusione all’anno accademico. Non si trattava di una prolusione, ma di un intervento dopo l’inaugurazione. L’invito a tenere la prolusione non c’è mai stato e non ci sarà. L’invito a venire alla Sapienza c’è stato e ci sarà ancora. Con modalità senza equivoci".
* la Repubblica, 4 gennaio 2009
Assemblea all’Università Roma Tre
Saviano: centrosinistra connivente da anni *
ROMA - «Al di là delle attuali vicende in corso a Napoli e di come andranno a finire, una cosa va detta: che il centrosinistra avesse relazioni con la criminalità organizzata lo si sapeva da dieci anni. Non a caso la Campania e la Calabria, feudi del centrosinistra, hanno il record per crimini di questo tipo». È una delle "frecciate" della lezione tenuta ieri da Roberto Saviano, autore di "Gomorra", all’Università Roma Tre. Lo scrittore era stato invitato dagli studenti dell’Onda.
Saviano ha fatto appello alla consapevolezza degli elettori per spezzare l’abbraccio del malaffare sulla politica: «Gli elettori di sinistra e di destra devono una volta per sempre, al di là delle loro idee politiche, scegliere persone diverse a rappresentarli». E ha aggiunto che «essere accusato dalla mia gente di aver diffamato la mia terra è una cosa ingiusta: quello che emerge in ogni inchiesta è che, al di là del fatto se sei di destra o di sinistra, sei coinvolto in certe cose perchè è così che funziona». La lezione di Saviano, oltre ai riferimenti politici, si è basata sulla storia della camorra raccontata attraverso foto emblematiche di vittime della criminalità. «E’ una vera e propria guerra quelle che si combatte al Sud - ha sottolineato lo scrittore -. Una guerra che ha fatto quattromila morti, più del fondamentalismo islamico in Europa».
* la Repubblica, 18.12.2008
Annullato il corteo, in 500 sono entrati nell’aula magna del rettorato
Frati: "Sono dei fascisti che non fanno parlare la gente"
Università, blitz degli studenti
Interrotta cerimonia a Roma
Via libera del Senato al decreto Gelmini
ROMA - Niente corteo, meglio l’occupazione. Un gruppo di studenti ha fatto irruzione all’interno dell’aula magna della Sapienza a Roma dove il rettore Luigi Frati aveva appena terminato il suo intervento per l’apertura dell’anno accademico. La cerimonia è stata così interrotta. Sul palco è stato steso uno striscione ("Che di tagli non si muoia più: vergogna!") mentre Frati, che aveva appena terminato il suo intervento, ha abbandonato la cerimonia da una porta laterale, apostrofato dagli studenti al grido di "buffone". "Non c’e’ niente da inaugurare" è il coro che scandiscono gli universitari. Che annunciano: "I cancelli all’esterno della città universitaria sono stati chiusi per non fare entrare altri manifestanti che cercano di sfondarli dall’esterno".
Dura la replica di Frati: " Fascisti sono quelli che non fanno parlare la gente. Io lo so bene perchè sono figlio di partigiano. Io sono quello di sinistra, non il pariolino che si veste da rivoluzionario".
Nel frattempo si è sciolta la manifestazione degli studenti delle scuole superiori romane in piazza della Repubblica. Pochi i partecipanti al corteo che da piazza Barberini hanno raggiunto la piazza ed hanno poi rinunciato a proseguire la protesta senza quindi raggiungere il ministero dell’Istruzione così come era stato programmato. "Oggi la manifestazione è andata male - dice Tito Russo uno degli organizzatori rappresentante dell’Unione degli studenti - ’colpa’ della pioggia e del poco tempo che hanno avuto alcune parti del movimento per organizzarsi".
Senato, via al decreto. Nel frattempo il Senato ha approvato il decreto Gelmini sull’Università, il provvedimento passa ora all’esame della Camera. A favore hanno votato le forze di maggioranza (Pdl e Lega), contrari Pd e Idv. Non ha partecipato al voto l’Udc.
Roma. Un centinaio di studenti ha protestato sotto palazzo Grazioli, la residenza romana del presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Gli studenti, al grido ’vergogna’ e ’buffone’, hanno voluto denunciare, è stato spiegato, in merito alla vicenda dello studente morto a Rivoli "la gravità delle parole di Berlusconi, che ha voluto ridurre vergognosamente a fatalità quello che è stato invece la conseguenza tragica di anni di tagli alla spesa sociale nel paese". Infine un gruppo studenti ha occupato l’ufficio scolastico regionale del Lazio.
Torino. Una trentina di universitari aderenti all’assemblea ’no Gelmini’ sono entrati poco fa al centro congressi Torino Incontra dove è in corso un convegno promosso dall’amministrazione comunale insieme all’Associazione Torino Internazionale per discutere di federalismo e futuro della città. Gli universitari chiedono di poter entrare nella sala e leggere un documento, ma le forze dell’ordine stanno cercando di contenerli. Ci sono stati quindi momenti di tensione. Ora gli studenti sono entrati nella sala dove è in corso un’intervista al sindaco di Torino Sergio Chiamparino e hanno srotolato uno striscione con la scritta ’Noi non paghiamo la vostra crisi’.
Macerata. Occupazione lampo del Rettorato e ’acquisto’ cash dell’Università di Macerata da parte di due emissari della ’Fondazione Onda anomala’, muniti di due valigette di finte banconote. E’ l’ultima performance del Movimento No 133, che stamani (assente il rettore) ha occupato simbolicamente per un’ora gli uffici del Rettorato, srotolando dalla finestra uno striscione di otto metri con la scritta ’La pagate voi la vostra crisi, reddito per tutti - Onda anomala verso il 12 dicembre’.
Bolzano. Gli studenti di Bolzano hanno organizzato una forma alternativa di protesta e, approfittando dell’apertura del mercatino di Natale del capoluogo di provincia, verranno distribuiti 6000 volantini nella sola area del centro storico con tema la protesta studentesca, le motivazioni e gli obiettivi.
* la Repubblica, 28 novembre 2008
Parola d’ordine autoriforma
di Eleonora Martini (il manifesto, 18.11.2008)
Partire da sé per cambiare il mondo. L’Onda, rispetto ai più recenti movimenti studenteschi, è anomala anche per questo. Leggendo i documenti finali approvati domenica dall’assemblea plenaria degli atenei in lotta dopo due giorni di dibattiti alla Sapienza di Roma, una cosa appare chiara: il filo rosso che tiene insieme l’attacco alla legge 133 con la critica all’attuale modello di società, che lega welfare e diritto allo studio, non ha nulla di ideologico. È il portato di un vissuto personale, di un’esperienza corporea prima ancora che intellettuale. Un movimento che non ama lo status quo e mette in chiaro fin dalle prime righe del documento che «gli unici alleati del governo all’interno del mondo della formazione sono in realtà quei baroni che a parole si dice di voler combattere».
L’analisi delle facoltà in mobilitazione comunque non può che partire dalla critica ai «processi di aziendalizzazione e privatizzazione dell’università» e ai «tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla formazione» impartiti dall’attuale governo che, «dopo quindici anni di pessime riforme», sono il colpo definitivo al sistema pubblico dell’istruzione. Vanno perciò abolite subito le lauree del 3+2, il numero chiuso e la frequenza obbligatoria. Ma «non vanno dimenticate le responsabilità di chi l’università ha gestito con meccanismi corporativi e clientelari», di chi «soffoca la ricerca con la gerarchizzazione» e fonda il suo potere sullo «sfruttamento generalizzato del lavoro precario».
Difendere «l’istruzione pubblica, gratuita, senza blocchi di accesso e con una didattica più qualificata» significa innanzitutto reddito garantito diretto e indiretto e accesso ai consumi intellettuali. E significa anche difendere l’indipendenza e l’autonomia della ricerca che non può essere subordinata alle logiche di mercato. Per questo occorre ripensare «un nuovo concetto di valutazione»: non più «legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni», deve invece calarsi «nei contesti territoriali in cui le università sono inserite».
Ai finanziamenti, che devono raggiungere almeno i livelli indicati dal Trattato di Lisbona (3% del Pil contro l’attuale 1%), deve essere permesso l’accesso incondizionato anche ai ricercatori non strutturati e ai dottorandi. Che sono proprio le figure più "fragili" di tutto il sistema universitario: sfruttati per lavori non pagati, per attività che non competono loro e al servizio dei baroni, chiedono di entrare a pieno titolo negli organi decisionali, a cominciare dalle commissioni di valutazione.
«Al lavoro di ricerca deve corrispondere un salario adeguato e diritti stabiliti nello statuto dei lavoratori», scrivono. Vanno aboliti i «dottorati senza borsa» e va istituito un «contratto unico di lavoro subordinato una volta terminato il dottorato, di durata non inferiore ai due anni: esso deve sostituire l’attuale giungla di contratti precari».
A questo proposito, si apprestano a preparare «una grande inchiesta sul lavoro precario nell’università», che fa il paio con il censimento dei precari negli enti pubblici di ricerca indetto dagli studiosi della cognizione del Cnr (http://laral.istc.cnr.it). E poiché «il lavoro di ricerca prevede la mobilità come elemento irrinunciabile, ma continuamente ostacolato dalle differenze dei diversi sistemi nazionali», propongono la convocazione di una riunione europea che metta in circolo le diverse vertenze sviluppate dai movimenti di studenti e ricercatori precari nel resto del continente».
Last but not least, la questione di genere: «Da una parte - scrivono nel report del workshop organizzato dalla facoltà di Fisica - la progressione della carriera delle donne è fortemente filtrata ai livelli più bassi, dall’altra le donne subiscono il perenne ricatto biologico, aggravato dalla precarietà, per cui la maternità diventa la via di espulsione dal mondo della ricerca».
Un movimento che si vuole «irrappresentabile» e che sa che «il cambiamento non è delegabile», e «va agito anche nel conflitto», si pone fin da subito l’obiettivo di «superare qualsiasi forma di rappresentanza interna». Anche l’autoriforma dell’università - sottolineano - «non è un tentativo di burocratizzazione» ma «è invece l’apertura di un processo che già vive nelle pratiche del movimento».
Da verificare, semmai, la capacità di tradurla «da subito in concreti elementi di programma e di agenda politica». Una scelta di metodo nel rispetto dell’anomalia. Non a caso l’Onda «si sente vicina ai movimenti territoriali, quelli a difesa dei beni comuni, dell’ambiente, contro le guerre e le grandi opere - spiega Giorgio Sestili, del collettivo di Fisica - perché sono gli unici, dal 2004 ad oggi, ad aver saputo costruire una reale opposizione ai governi, anche di centrosinistra». Autonomi e indipendenti da sigle sindacali e partitiche. E come loro capaci di interrogarsi sulle cause e le possibili vie d’uscita dell’attuale crisi economica per fronteggiare la quale si giustificano tagli indiscriminati e privatizzazioni. Ma l’Onda guarda anche alle lotte dei lavoratori: «Da subito abbiamo guardato alla Francia e ci siamo posti l’obiettivo di creare forti alleanze con lavoratori, immigrati, donne: da soli gli studenti non possono inceppare il meccanismo della produzione».
Università, compito per il weekend: scrivere l’autoriforma *
Dopo settimane di mobilitazione, è arrivato il momento di mettere tutto nero su bianco. L’Università La Sapienza di Roma, sabato e domenica, accoglie l’assemblea nazionale degli studenti: due giorni per discutere di “autoriforma”. Ovvero, per dare voce a chi negli atenei ci studia e ci lavora. E forse sa meglio della Gelmini cosa c’è che non va.
Obiettivo dell’assemblea è quello di elaborare, al posto dei provvedimenti volti a «razionalizzare e ridurre la spesa e il debito pubblico» del decreto 133, una serie di proposte per riformare davvero il sistema universitario italiano. Una «costituente», la chiamano gli studenti. Perché nessuno vuole difendere lo status quo - che è fatto di precariato, di logiche baronali, di una formazione sempre più spizzicata e superficiale - ma tutti vogliono poter dire la loro.
Il weekend di mobilitazione si apre sabato con un’assemblea plenaria, poi tocca ai gruppi di lavoro affrontare le singole questioni, i pilastri dell’autoriforma: si discuterà innanzitutto di didattica, altri si concentreranno su welfare e diritto allo studio, altri ancora elaboreranno proposte su formazione e lavoro.
Tutti i risultati dell’assemblea saranno disponibili sulle pagine web degli Atenei in rivolta o su Uniriot, il network delle «facoltà ribelli». All’assemblea partecipano i collettivi studenteschi delle principali università italiane, ma è previsto l’arrivo anche di alcune delegazioni straniere da Parigi, da Barcellona, da Londra.
Domenica, infine, l’obiettivo è anche quello di rimettere insieme la protesta degli universitari con quella della scuola tutta. «L’onda anomala che attraversa le università di tutta Italia - spiegano da La Sapienza - è la stessa che vede mobilitarsi le maestre elementari contro la distruzione del tempo pieno e del modello pedagogico della scuola primaria, la stessa che parla alle centinaia di migliaia di insegnanti precari delle scuole superiori che perderanno ogni speranza di lavoro e stabilizzazione a causa dei tagli di Tremonti e Gelmini, la stessa che sta mobilitando i ricercatori precari dell’Università e degli enti di ricerca per rivendicare la stabilizzazione e il rilancio della ricerca pubblica. Per questo - spiegano - nella giornata di domenica 16 novembre vogliamo costruire una grande Assemblea nazionale di tutto il mondo della scuola e della formazione, con la partecipazione di studenti medi ed universitari, maestre, insegnanti, ricercatori, perché l’onda anomala continui a portare in piazza la rabbia dell’intero mondo della formazione».
* l’Unità, 15.11.2008
La scienza conferma "l’effetto rubino"
Sollecita l’istinto primitivo del maschio
Come i babbuini che perdono la testa se la femmina arrossisce
di Alessandra Retico (la Repubblica, 29.10.2008)
Come il sangue, come l’amore. Effetto rosso: sensi che bruciano, passione che esplode. Gli uomini non capiscono più niente (o tutto, dipende) davanti a una donna con un abito rubino, una maglietta scarlatta, una scarpa rubizza. La natura prevarica ogni cultura, qualsiasi altra ragione. Se The woman è in red, il maschio la desidera. E manco si accorge del perché. Reazione istintiva e meglio ancora: primitiva. Come quella dei babbuini e degli scimpanzé, che perdono la testa quando le loro femmine "arrossiscono" in alcuni punti chiave durante l’ovulazione. Al segnale, la carne di lui rapida risponde.
Così i maschi del genere umano, lo attesta la scienza. Uno studio degli psicologi Andrew Elliott e Daniela Niesta dell’università di Rochester di New York, conferma quello che la letteratura, l’immaginario, il cinema, l’esperienza ci avevano già fatto capire: il rosso è la spia e la scintilla, il simbolo e la materia dell’amore. «Sulla fisica e la fisiologia dei colori si sa molto, assai meno delle loro conseguenze sulla psiche. Sulla loro capacità di condizionare i comportamenti».
I risultati dell’analisi sul Journal of Personality and Social Psychology. I ricercatori hanno mostrato a un gruppo di maschi foto di donne diverse con camicie rosse o blu, o dentro cornici di colori diversi compreso il rosso. O foto della stessa donna, una volta in rosso e l’altra in blu. Ha sempre vinto nelle preferenze sessuali la concorrente rossa, anche se era la medesima in blu nel turno di visione precedente. L’attrazione non segue i contenuti, e cioè la donna dentro il rosso, ma la cornice colorata. «Gli uomini agiscono come animali nel sesso». Senza offesa, naturalmente.
L’effetto afrodisiaco del rosso può anche essere il risultato di un condizionamento sociale, certo. Ma secondo gli studiosi risponde a più profondi meccanismi biologici, atavici e primordiali. Qualche postilla: rosso è sexy solo per gli uomini, le donne non ne vengono influenzate se viene usato da altre donne, in contesti diversi da quelli amorosi (durante un esame, una gara) vedere rosso peggiora i risultati. Aziende, pubblicitari, stilisti, designer, agenzie matrimoniali avvertite, possono sfruttare se già non lo fanno, red passion. Infine, persa la cultura per certe galanterie, fortuna che c’è la biologia. Con un tocco di rosso, lui offrirà persino una (signora) cena.
Guarini: "La riforma Gelmini taglierà 113 milioni alla Sapienza"
L’addio dell’ex rettore Guarini: riforma assurda
L’ex rettore "Decisione lesive dell’autonomia e del ruolo delle università"
di Carlo Alberto Bucci (la Repubblica Roma, 31.10.2008)
Il vecchio matematico napoletano torna ai suoi studi di statistica economica. Ma, prima di lasciare il rettorato che ha tenuto per quattro, lunghi anni, Renato Guarini fa i conti esatti sulle perdite che il suo ateneo patirà nell’immediato futuro. «Per la Sapienza - ha sottolineato il Magnifico nel discorso di addio - ci saranno tagli pari a 5 milioni di euro nel 2009, 15 milioni nel 2010, 25 nel 2011, 33 nel 2012, e 35 nel 2013». Totale, 113 milioni in meno. In un badget (finora di circa 1 miliardo di euro l’anno, la metà coperta dallo Stato con il Fondo di finanziamento ordinario mentre un 10 per cento è assicurato dalle tasse degli studenti) che verrà alleggerito di un quinto nei prossimi cinque anni. E questo in un «ateneo sottofinanziato già prima dei tagli estivi».
Il conto del ragioniere Guarini l’ha fatto ieri mattina in Aula magna, mentre la città veniva attraversata dell’imponente manifestazione contro la legge Gelmini. Un movimento, quello dell’"Onda anomala", che il Magnifico ha appoggiato e accompagnato con le parole della sua relazione di fine mandato, riepilogo di 11 anni (del 1997 è la nomina a vice) di gestione dell’ateneo più grande d’Europa: «Coloro che di volta in volta si alternano nella gestione del potere, sembrano tenere in considerazione il lavoro delle università solo per l’utilità che possono ricavarne». Critiche quindi anche al governo di centrosinistra. Poi l’affondo sul presente: «La più recente conferma di questo atteggiamento del decisore politico, è rappresentata da alcuni articoli della manovra finanziaria, la legge 133, varata nella scorsa estate, che prevede tagli indiscriminati dei finanziamenti, lesivi dell’autonomia, del ruolo e della missione delle università pubbliche».
La cerimonia è iniziata con le note dell’orchestra di musica classica composta da studenti, docenti e impiegata. E, prima dell’epilogo a sorpresa con la cantante della jazz band della Sapienza che ha intonato il celebre motivo di Mina ("Renato, Renato, Renato, così carino ...."), Guarini ha sintetizzato in venti minuti la voluminosa relazione (130 pagine date alle stampe) su «questi quattro anni positivi». Sono stati destinati «24 milioni di euro alla ricerca e mantenuti invariati i finanziamenti alle attività prioritarie, nonostante la manovra estiva del governo che ha sottofinanziato la Sapienza». Inoltre, «abbiamo realizzato tremila nuovi posti banco, riordinato la didattica, avviato ampliamenti edilizi». La Sapienza si è estesa per 40mila metri quadri (dall’ex scuola Silvio Pellico alla vetreria Sciarra). Ed è in attesa che sia inaugurato il parcheggio sotterraneo che permetterà di pedonalizzare la città universitaria. Il 500esimo, ultimo discorso da rettore di Guarini, che, a 76 anni, ricoprirà il ruolo di presidente della Fondazione Sapienza, è stato salutato dal successore Luigi Frati («noi lo ringraziamo tutti, purtroppo la Sapienza vive un momento difficile ma vi assicuro che i tradizionali valori dell’università non cambieranno»). E sottoscritto dal presidente della Provincia, Nicola Zingaretti: «Le parole del rettore Guarini sugli effetti che il decreto Gelmini avrà sulla Sapienza con un taglio di 113 milioni di euro, chiariscono ulteriormente la grande importanza che le mobilitazioni di questi giorni messe in atto da studenti, docenti e genitori hanno per il nostro Paese».
E i fisici della Sapienza scesero in trincea
"Così la ricerca fa crac"
Nella scuola di Fermi l’epicentro della protesta
"Con questo governo oggi Einstein sarebbe un precario o un fannullone"
"Qui non si investe più, i giovani fuggono, in futuro la scienza sarà indiana e cinese"
di Beppe Savaste (la Repubblica, 26.10.08)
ROMA - Nel moltiplicarsi delle occupazioni, la didattica delle università non si è affatto bloccata. Al contrario si è trasferita nella città, fuori dagli steccati accademici. È pubblica, come il sapere che si vuole difendere. A Roma, come in altre città d’Italia, è in corso un grande democratico festival culturale, e le piazze sono teatro di lezioni en plein air. Una delle più emozionanti è stata sicuramente quella dei fisici della Sapienza, in piazza Montecitorio: un migliaio di studenti ad ascoltare la bella lezione del professor Giovanni Jona-Lasinio, studioso di fisica delle particelle, che con l’altro grande fisico italiano Nicola Cabibbo, pioniere nello studio dei quark e Nobel mancato.
Segue la lezione di un altro grande fisico, Giorgio Parisi, docente di Calcolo delle probabilità. Parisi affascina percorrendo la maturazione delle idee di Einstein tra quantistica e relatività, ma entusiasma dichiarando che oggi, con questo governo, «Einstein sarebbe un precario, magari un fannullone che si sollazza nell’elaborare teorie invece di lavorare». E invita gli studenti a «resistere a questo governo di barbari che sta distruggendo la nazione, e misconosce la Costituzione sulla promozione della ricerca scientifica, la libertà d’insegnamento e il diritto al lavoro». La protesta è contro un economicismo miope che non sa valutare gli investimenti a lunga scadenza, e con essi l’educazione e la ricerca; una sorta di «guerra contro l’intelligenza», una politica ispirata dal misconoscimento verso ciò che a torto è giudicato improduttivo, come l’educazione e la cultura. «Costringere i giovani che studiano con passione a cercare lavoro all’estero significa per l’Italia negarsi il futuro», dice Parisi.
La facoltà di Fisica della Sapienza è un osservatorio privilegiato. Durante l’occupazione si è svolto il convegno internazionale su Edoardo Amaldi nel centenario della nascita. Amaldi, già del gruppo di via Panisperna, fondatore della fisica del dopoguerra, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e tra i primi direttori del Cern di Ginevra, è un po’ il maestro di tutti. All’apertura della conferenza gli studenti hanno letto un documento in inglese dove si ricorda come Amaldi avesse sempre insistito nel considerare la ricerca un investimento pubblico necessario, non un onere: poiché senza ricerca non vi sarebbe sviluppo alcuno. Lo ricorda Carlo Bernardini, ex direttore del dipartimento di Fisica del Cnr, che con gli altri colleghi è stato commosso dalla pacatezza di quel testo. «È evidente - dice - che tagliare i fondi, aumentare le tasse, annientare l’università pubblica vuol dire uccidere la civiltà. Gli economisti che hanno ispirato il governo non capiscono che per un’università di qualità serve investire sulla ricerca. L’India e la Cina lo fanno, in futuro la scienza sarà cinese e indiana».
Nicola Cabibbo, già presidente dell’Istituto di fisica nucleare, ora alla guida della Pontificia accademia delle scienze, non nasconde i suoi timori: «Siamo molto preoccupati di fronte a questi tagli indiscriminati. Tutti gli istituti di fisica sono minacciati, pur producendo eccellenze a livello mondiale. Il dipartimento della Sapienza è di altissimo valore, gli studenti lo sanno, e da questa consapevolezza nasce la protesta, totalmente condivisibile». Studenti e docenti hanno in cantiere altre lezioni esterne e oggi un incontro con i bambini delle elementari, una sorta di didattica ludica della fisica con esperimenti sull’elettromagnetismo e sul pendolo, seguita da una discussione sul decreto Gelmini.
«La cultura è una sola», dice Gianluca Trentadue, docente di Fisica teorica all’università di Parma, da molti anni collaboratore coi colleghi romani al Cern di Ginevra, alla realizzazione del nuovo grande acceleratore appena inaugurato alla presenza di tutti i ministri i cui governi partecipano alla ricerca, tranne il ministro Gelmini. «Colpire con tagli e disprezzo una parte di essa, vuol dire colpire tutta la cultura. Già oggi spendiamo in ricerca meno della metà di altri paesi europei. Tagliare ancora i fondi significa azzerare la presenza italiana in tanti laboratori internazionali».
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha risposto alla lettera consegnatagli ieri, in occasione di una cerimonia all’Università “La Sapienza” di Roma, da una rappresentanza di studenti, dottorandi e ricercatori.
Questo il testo integrale della lettera del Capo dello Stato: *
“Cari studenti, dottorandi e ricercatori della Sapienza, ho ascoltato e letto con attenzione la lettera che mi avete consegnato e colgo l’occasione per indirizzarvi alcuni chiarimenti e spunti di riflessione. Innanzitutto : penso vi sia chiaro quale ordinamento la Costituzione abbia disegnato per la Repubblica. La nostra è una democrazia parlamentare - simile a quella di quasi tutti gli altri Stati europei - in cui al Capo dello Stato non sono attribuiti poteri esecutivi. Io non debbo dunque “decidere da che parte stare” : non posso stare dalla parte del governo e delle sue scelte, né dalla parte opposta. Le politiche relative a qualsiasi campo dell’azione dello Stato vengono definite dal Parlamento, in seno al quale la maggioranza e l’opposizione sono chiamate al confronto tra le rispettive proposte, che possono configurare soluzioni alternative ai problemi da affrontare. Al Presidente della Repubblica non spetta pronunciarsi nel merito dell’una o dell’altra soluzione in discussione, né suggerirne una propria , ma spetta solo richiamarsi ai principi e alle regole della Costituzione.
Ciò non significa - sia chiaro - che io mi senta estraneo (“abbandonandole a se stesse”, per usare la vostra espressione) alle esigenze della scuola, della ricerca, dell’Università. Al contrario : a queste esigenze, e alle problematiche connesse, ho dedicato, nello svolgimento delle mie attuali funzioni, da più di due anni, la più convinta e appassionata attenzione e iniziativa. E’ davvero in giuoco il futuro del paese : se l’Italia vuole evitare un’emorragia di preziosi giovani talenti, che trovano riconoscimento all’estero, gli investimenti nella ricerca - soprattutto - dovrebbero costituire una priorità, anche nella allocazione delle risorse, pubbliche e private.
Dico “dovrebbero” perché in realtà le scelte pubbliche (e anche quelle del sistema delle imprese) non sembrano riconoscere tale “priorità”, a cui troppe altre ne vengono affiancate - in particolare quando si discute di legge finanziaria e di bilancio - col risultato che già da anni non ci si attiene ad alcun criterio di priorità e non si persegue un nuovo equilibrio nella distribuzione delle risorse tra i diversi settori di spesa.
Di qui le preoccupazioni di fondo che spiegano la vostra ansietà, fatta di gravi incertezze per l’avvenire vostro e della nazione. E’ indispensabile che su questi temi non si cristallizzi un clima di pura contrapposizione, ma ci si apra all’ascolto reciproco, a una seria considerazione delle rispettive ragioni.
Il governo ha ritenuto necessario e urgente definire, fin dal giugno scorso, sia pure per grandi aggregati, le previsioni di spesa per i prossimi tre anni, al fine di rispettare l’impegno da tempo sottoscritto dall’Italia in sede europea per l’azzeramento del deficit di bilancio e per la graduale, ma netta e costante, riduzione del debito pubblico. Sono certo che anche a voi non sfugge l’importanza strategica di questo obbiettivo, il cui raggiungimento è condizione per uno sviluppo di politiche pubbliche meno pesantemente condizionato dall’onere del debito via via accumulatosi.
Tuttavia io auspico :
1) che si creino spazi per un confronto - in sede parlamentare - su come meglio definire e distribuire nel tempo i tagli ritenuti complessivamente indispensabili della spesa pubblica tra i ministeri e i varii programmi, valutando attentamente l’esigenza di salvaguardare livelli adeguati di spesa per la ricerca e la formazione ;
2) che a sostegno di questo sforzo, si formulino proposte anche da parte di studenti e docenti, per razionalizzare la spesa ed elevarne la qualità, con particolare riferimento all’Università, dovendosi rimuovere distorsioni, insufficienze e sprechi che nessuno può negare. E ciò sposta il discorso sulla tematica degli ordinamenti e della gestione del sistema universitario : tematica sulla quale è atteso un confronto tra il governo e gli organismi rappresentativi delle Università.
Occorre che tutte le istituzioni e le forze sociali e culturali si predispongano senza indugio a tale confronto, in termini riflessivi e costruttivi : dando prova, anche voi, responsabilmente, di “determinazione e intelligenza”, come avete scritto a conclusione della vostra lettera”.
* Sito del Presidente della Repubblica. C o m u n i c a t o: Roma, 22 ottobre 2008
Il Presidente Napolitano ha incontrato una delegazione di studenti all’Università La Sapienza *
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della sua partecipazione questa mattina all’Università degli Studi di Roma "La Sapienza" alla cerimonia di commemorazione dello storico Giuliano Procacci, ha incontrato, nello studio del Rettore, una delegazione di studenti che gli ha consegnato una lettera sull’attuale situazione dell’Università.
Il Capo dello Stato ha annunciato una risposta.
* FONTE: Sito del Presidente della Repubblica.
Cosa dare agli studenti
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 21.10.2008)
Dobbiamo prendere atto di una realtà: l’analfabetismo civile della società italiana è un fenomeno gravissimo. E non è per caso che lo scontro sociale si sta riaccendendo intorno alla scuola. I giovani, le famiglie, gli insegnanti stanno prendendo coscienza di quello che li aspetta: una scuola pubblica pesantemente impoverita nei servizi, nel personale, negli edifici e nelle attrezzature. A cui si aggiunge una università di infimo livello, fabbrica di lauree ridicole e di docenti senza qualità. Il tempo è giudicato maturo da chi comanda per liquidare la pesante struttura della scuola pubblica e per affiancare all’università pubblica in via di smantellamento fondazioni private capaci di velocizzare la fornitura del personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo.
La giustificazione che regge la proposta è quella dello stato di crisi delle finanze pubbliche, aggravato oggi dalla tempesta mondiale delle banche. Ma la voce che si leva dalle piazze e che trova la via dei fax e delle mail per raggiungere il Quirinale dice che, accanto alle banche, prima e più delle banche, c’è ancora chi vuole salvare la formazione dei giovani e la qualità del nostro sistema della ricerca universitaria. È urgente affermare che qui si gioca una partita strategica essenziale. Prenderne coscienza è fondamentale. Lo stanno facendo le famiglie, gli studenti, i docenti, con proteste e richieste di interessi diversi, non sempre componibili tra di loro. Alle famiglie la riforma minacciata per decreto renderà più complicato raggiungere scuole accorpate, più ridotto il tempo dell’affidamento dei figli, più povera l’offerta culturale. Agli scolari e agli studenti toccherà in sorte un luogo di rafforzata disciplina esteriore negli abiti, nella condotta, e di inadeguata offerta per la crescita civile e culturale. Queste economie tagliate con l’accetta sul sistema scolastico ricordano quel Procuste che segava le gambe ai clienti per adattarli alla dimensione dei suoi letti.
La scuola è il pilastro fondamentale della società civile in una democrazia vitale, il luogo della socializzazione e dell’avvio a una cittadinanza consapevole, l’unico mezzo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l’impatto dei flussi migratori mondiali abituando a crescere negli stessi ambienti coloro che, da adulti, si troveranno fuori dalla scuola a convivere nella stessa società. La rivelazione della stupefacente crescita numerica della popolazione italiana ci ha fornito i numeri di quel che è accaduto negli ultimi anni, ma ha fatto anche di più: ha dimostrato implicitamente quello che i risentimenti, le chiusure, i pregiudizi e le paure seminate a piene mani cercano di nascondere, il fatto cioè che ciascuno di noi conta per uno e che tutti insieme facciamo la somma paese. Democrazia e demografia debbono andare di pari passo. L’idea di istituire classi differenziate è sorella di quell’altra balorda idea delle impronte digitali da prendere ai bambini rom.
Riuscirà la protesta degli studenti a frenare la deriva italiana? La giovinezza e la speranza di cambiare in meglio il mondo sono sorelle. Speriamo, dunque. Quanto ai compagni di strada che i giovani in agitazione e le loro famiglie stanno incontrando, la loro solidarietà non potrà esimerli da qualche esame di coscienza. Sulla protesta dei sindacati gravano quei limiti corporativi che tanto hanno pesato in passato nell’ostacolare l’avanzata dei docenti migliori e la rimozione dei peggiori e nel sostituire pressioni e contrattazioni alla logica del concorso pubblico senza limitazioni, senza fasce protette o categorie riservate. Ma è ai docenti e al sistema che governa l’università come luogo di insegnamento e di ricerca che oggi si chiede una prova speciale di credibilità. Ne saranno, ne saremo capaci? C’è da dubitarne. Un fatto recente rafforza i dubbi.
Se il clan dei casalesi compie una strage in un centro abitato in pieno giorno, nessuno vede, nessuno denunzia, nessuno testimonia. Precisiamo: nessun italiano. La "vittoria dello Stato" di cui nel caso di Castel Volturno si è gloriato il ministro dell’Interno è dovuta a un immigrato, l’unico salvatosi dalla strage. Un uomo solo, terrorizzato, sfuggito alla morte, ma capace di un atto di coraggio elementare, di una domanda di giustizia che non è giunta da nessun’altra parte. Ma parliamo dell’università. Qui le stragi ci sono ma non si vedono. Sono stragi di speranze e di intelligenze. Ogni anno in questa stagione il saldo demografico dell’università si chiude in negativo: i giovani migliori vanno all’estero, i pochi che vengono in Italia da fuori vi arrivano da paesi più poveri e più incolti del nostro. Anche qui è stato un immigrato, un raro esempio di "ritorno dei cervelli" a fare una radiografia impietosa e documentata del sistema universitario.
Il professor Roberto Perotti, già docente alla Columbia University di New York, oggi alla Bocconi, ne L’Università truccata (edizioni Einaudi) ha denunziato le malattie dell’Università e ha avanzato proposte. Pagina dopo pagina leggiamo nomi e cognomi. Una tabella a pagina 22 ricostruisce il sistema di parentela che domina la facoltà di economia dell’Università di Bari come pure quelle di Medicina e Chirurgia di Bari e della Sapienza di Roma. E una tabella fittissima di ben cinque pagine illustra il meccanismo dei "concorsi dei rampolli". Le regole della parentela sono elementari nelle popolazioni primitive studiate dal grande antropologo Claude Levi-Strauss. Lo sono anche nelle tribù accademiche italiane. Qui basta un padre Magnifico Rettore a determinare l’irresistibile entrata dei membri della sua famiglia nell’università che governa e nel suo stesso dipartimento. Naturalmente il problema non è la consanguineità dei professori ma il blocco degli studi e la penalizzazione dei giovani migliori che la logica mafiosa dominante nei concorsi ha prodotto con la scomparsa tendenziale delle università italiane dalla parte alta della comunità scientifica internazionale.
Le pagine di Perotti fitte di nomi e cognomi potevano scatenare una tempesta di querele e di proteste, riempire le aule dei tribunali di dignità offese. Non è accaduto niente. Le toghe infangate e svergognate hanno continuano a coprire magnificenze fasulle abbarbicate a cattedre e rettorati. Si diceva una volta: "Calunniate, calunniate, qualcosa resterà". Viene voglia di dire oggi: criticate, criticate, niente resterà. Resta solo uno stato d’animo di invidia e di rancore, diffuso tra le famiglie soccombenti e nella poltiglia umana che dallo spettacolo dell’ignoranza trionfante e prevaricante ricava solo una spinta alla maldicenza anonima e indifferenziata e può consolarsi così delle proprie frustrazioni. Ma lo scandalo vero è la sordità delle istituzioni e dei poteri. In un’altra cultura avremmo visto probabilmente manifestazioni pubbliche, esibizioni delle vergogne su lenzuolate di nomi, proteste di associazioni e di sindacati, inchieste di magistrati, interrogazioni parlamentari.
Nel libro di Perotti c’è quanto basterebbe in un paese dotato di un vero governo e di una vera opposizione per mettere in movimento almeno una inchiesta parlamentare. Anche perché gli intrecci osceni che avvengono nei concorsi non sono fatti solo di dinastie familiari. Come tutti sanno, il vigente principio dello "ius loci" affida al potere delle cosche accademiche localmente prevalenti la selezione delle nuove leve di docenti attraverso il paravento di finti concorsi. Su questa materia è stato detto tutto. Non è stato fatto nulla. Quel che è stato fatto è un disastro bipartisan che negli ultimi anni, col sistema del tre per due e con la regola concorsuale dello "ius loci" ha svenduto le residue energie dell’università italiana, ha riempito le scuole di ignoranti e ha moltiplicato le etichette di fantasia per fare posto agli asini obbedienti al potere del capocosca locale.
Ora siamo arrivati al rendiconto finale. Lo sforzo degli studenti in agitazione per coinvolgere i docenti e di riceverne pacche sulle spalle è patetico. Ci fa misurare la distanza dalle aspre e irridenti satire del ‘68, quando l’apparizione di un professore in un’assemblea studentesca faceva scattare cori di derisione. I giovani di allora oggi sono vecchi. Molti di quelli che allora dominarono le assemblee studentesche occupano o hanno occupato cattedre, ministeri seggi parlamentari. Pesa sulle loro spalle un fallimento che non hanno saputo evitare, che hanno spesso contribuito ad accelerare. Il loro eventuale appoggio andrebbe esorcizzato come una minaccia da chi vuole veramente che la scuola e l’università italiana riprendano la loro funzione di cuore pulsante della società. Lo tengano presente i giovani che oggi, timidamente, cominciano a uscire dal torpore di un paese gravemente malato.
l’Unità/ Roma, 22.10. 2008
Alla Sapienza quattro facoltà occupate
Nel mirino della protesta la legge 133. Così in 2mila contestano il rettore Frati per la scelta di non fermare l’anno accademico. Poi bloccano Chimica, Scienze Politiche, Fisica e Lettere
di Greta Filippini
Blocco dell’anno a la Sapienza? Il Senato, riunito in seduta straordinaria, ha detto “no”. Ad attendere la presa di posizione istituzionale contro la legge 133, si sono riuniti in 2mila. Studenti provenienti da tutte le facoltà, in piedi sulle scale del rettorato, megafoni alla mano, hanno urlato la loro protesta contro i tagli all’istruzione e la privatizzazione della scuola. «L’Università Spa noi non la vogliamo», hanno scritto gli universitari su uno striscione srotolato per il sit-in. Niente blocco, dunque, ma un’unica giornata di stop alle lezioni, fissata per venerdì 24. La decisione non ha colto di sorpresa gli studenti che, al “totoblocco” davano quasi certo il rifiuto del Rettore Frati e dei colleghi. «Buffoni, buffoni», hanno urlato in coro gli universitari all’annuncio della decisione e subito si sono riuniti in assemblea nelle varie facoltà. In serata, poi, la notizia: occupazione a Chimica e a Scienze Politiche, seguite a ruota da Fisica e Lettere. A nulla è valsa la lettera aperta consegnata in mattinata nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita alla Sapienza per la cerimonia in onore dello storico Giuliano Procacci. “Ci auguriamo che anche lei decida da che parte stare e non abbandoni a se stessa la scuola”, era l’appello finale contenuto nel comunicato degli studenti. «Con il Presidente abbiamo avuto un colloquio di 20 minuti - ha raccontato Sestili -. Napolitano si è detto preoccupato per le sorti della scuola pubblica e ci ha assicurato che risponderà pubblicamente alla lettera». Oggi, altra giornata calda all’ateneo capitolino. In programma, infatti, l’inaugurazione dell’anno accademico della facoltà di Economia. «Una festa senza brindisi - promette Fabiola -. Apriremo l’anno, portando davanti a presidi, docenti e studenti la criticità di questa legge».
Acque agitate anche all’Università Roma3. Ieri mattina, in 700 hanno partecipato all’assemblea organizzata dagli studenti della facoltà di Lettere e Filosofia per chiedere la sospensione della didattica. Durante l’incontro, una quindicina di ragazzi del Blocco Studentesco, gruppo attivista di estrema destra, hanno preso la parola e sono stati fischiati dagli studenti dei collettivi universitari. Spintoni ed insulti si sono susseguiti da una parte e dall’altra fino all’intervento della Polizia. Fissata per martedì prossimo una nuova assemblea per discutere le ulteriori mobilitazioni.
Assemblee, cortei e occupazioni, ieri, anche in numerosi licei capitolini. Dopo il blocco spontaneo delle lezioni al Liceo Ettore Majorana, in mattinata hanno abbandonato i banchi anche gli studenti del Liceo Scientifico Pasteur. Nel IV Municipio, intanto, i ragazzi della scuola Giordano Bruno si sono aggregati al corteo dell’Istituto Nomentano, che nel primo pomeriggio era stato occupato dal Blocco Studentesco. «Domani saremo ancora qui - hanno dichiarto quelli del Blocco - e non escludiamo di occupare nei prossimi giorni anche il Giordano Bruno».
’’Oggi convocherò Maroni per dargli istruzioni dettagliate’’
Scuola, Berlusconi: ’’Non permetterò occupazioni, interverrà la polizia’’
Il presidente del Consiglio: ’’Non sono un fatto di democrazia ma pura violenza verso gli altri studenti’’. E attacca: ’’Dalla sinistra inutili allarmismi e falsità, tentano solo di fare un’opposizione di piazza’’. Poi assicura: ’’Non ci saranno tagli’’. Sulle classi ponte: ’’Nessun razzismo’’. Veltroni: ’’Governo ritiri decreto Gelmini’’. Continuano le proteste in tutta Italia . A Torino, dopo Fisica e Agraria, occupato anche Palazzo Nuovo
Roma, 22 ott. (Adnkronos/Ign) - "Voglio fare un avviso ai naviganti: non permetterò occupazioni delle scuole e delle università", perché questa è una "violenza". Silvio Berlusconi annuncia la linea dura contro l’occupazione di scuole e università in una conferenza stampa a palazzo Chigi: "Oggi convocherò Maroni per dargli indicazioni dettagliate al fine di evitare attraverso l’intervento delle forze dell’ordine per evitare occupazioni".
"La realtà che conosciamo in questi giorni e in queste ore - spiega Berlusconi difendendo a spada tratta la riforma Gelmini - è una realtà di aule universitarie piene di ragazzi che intendono studiare. Poi ci sono questi manifestanti, organizzati dall’estrema sinistra, molto spesso dai centri sociali come succede a Milano. Quindi non consentirò l’occupazione di università e di scuole, perché non è dimostrazione e un’applicazione di libertà, non è un fatto di democrazia ma è pura violenza nei confronti degli altri studenti, delle famiglie, delle istituzioni e nei confronti dello Stato".
Il premier assicura di non volere instaurare uno Stato di polizia ma solo tutelare il diritto dei cittadini e di chi vuole studiare e spiega: "Dirò a Maroni che i diritti dei cittadini, studenti o genitori, vanno fatti rispettare contro chi si oppone all’esercizio pieno di questi diritti".
Poi, assicurando che "non ci sara nessun taglio alla scuola pubblica", attacca l’opposizione: "Le proteste della sinistra contro la riforma Gelmini sono solo il tentativo di fare un’opposizione di piazza ma non portano a nulla". "Noi abbiamo approvato semplicemente un decreto, non si tratta della riforma della scuola - precisa -. Evidentemente loro hanno visto che tutti i nostri provvedimenti sono inattaccabili e ora se la prendono con questo, creando allarmismi inutili tra la gente e dicendo cose false" che non corrispondono al vero.
Berlusconi difende poi la mozione sulle cosiddette classi ponte dedicate ai figli degli immigrati e approvata alla Camera: "Si tratta di strumenti di integrazione, di buonsenso, certamente non razzisti". L’obiettivo è soltanto quello di far conoscere ai bambini extracomunitari la nostra lingua perché ci sono classi dove "si parlano anche 10 lingue. Bisogna che conoscano l’italiano. Noi puntiamo all’integrazione, non c’è nessun razzismo ma solo buonsenso".
Da parte sua il segretario del Pd Walter Veltroni dai microfoni di ’Radio anch’io’ sottolinea: "Se fossi nel governo farei un gesto politico: ritirerei quel decreto Gelmini che è alla base di tutta questa sofferenza e ritirerei le misure finanziarie prese".
Intanto, continuano le proteste in tutta Italia contro la riforma della scuola del ministro Gelmini. A Torino, dopo Fisica e Agraria, l’occupazione si è estesa anche a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche. L’iniziativa è stata decisa ieri sera dall’Assemblea No Gelmini al termine di un incontro a cui hanno partecipato un migliaio di studenti. ’’La decisione - spiega una nota dell’Assemblea - si inserisce in un percorso di mobilitazione a livello nazionale e si pone come obiettivo quello di estendere il più possibile la partecipazione di tutto il mondo accademico’’.
"Polizia contro le occupazioni"
Scuola, linea dura di Berlusconi. Gli studenti: non ci fermerà
di Carmelo Lopapa (la Repubblica 23.10.2008)
ROMA - Manda un avviso ai «naviganti». Che poi sarebbero studenti, famiglie, insegnanti e anche ai mezzi di informazione. «L’ordine deve essere garantito, lo Stato deve fare lo Stato». Le proteste e le occupazioni di questi giorni contro il decreto Gelmini e la riforma della scuola, frutto della strumentalizzazione «della sinistra e dei centri sociali», devono cessare. E il provvedimento del governo non sarà ritirato, tutt’altro. Silvio Berlusconi prova a liberarsi dall’assedio della piazza, dei coertei, delle assemblee e delle lezioni per strada. E trasforma la contestazione del mondo della scuola in un problema di ordine pubblico.
Poche ore prima di imbarcarsi sul volo che lo porterà per alcuni giorni in Cina, convoca il ministro dell’Interno Roberto Maroni. Con lui vorrebbe concordare le modalità di utilizzo delle forze di polizia per sgomberare scuole e atenei, girargli «istruzioni dettagliate su come intervenire». Poi, nel faccia a faccia pomeridiano col capo del Viminale per un’ora a Palazzo Grazioli, le cose andranno diversamente. Nessun piano di sgomberi, per ora. Sta di fatto che l’annuncio - fatto in conferenza stampa al fianco della ministra nel mirino Mariastella Gelmini - ha l’effetto di una carica di dinamite. Cortei e proteste anche non autorizzate da Roma a Milano. Altre occupazioni annunciate per oggi in mezza Italia. L’opposizione che si mobilita e accusa il premier di agire da «provocatore», di «soffiare sul fuoco», di meditare una «strategia della tensione». Il clima politico si surriscalda al punto da indurre il Quirinale a intervenire e lo stesso fa il presidente dei vescovi Angelo Bagnasco: «I problemi complessi non si risolvono con soluzioni semplici, servono moderazione ed equilibrio».
All’incontro con la stampa organizzato nel giro di poche ore per porre un argine al dilagare della protesta, Berlusconi si presenta con un minidossier di undici pagine sulla scuola e «tutte le bugie della sinistra». Lui, ex «studente modello e diligentissimo» che certo non avrebbe «mai occupato» una scuola, giudica semplicemente «falsi i messaggi dei leader della sinistra che sgambettano in tv» e che starebbe dietro la protesta coi centri sociali. E siccome «la realtà di questi giorni è ben altra di quella raccontata dai mezzi di informazione, ma è fatta di aule piene di ragazzi che intendono studiare», ecco la stretta, la svolta rigorista. «Non consentirò l’occupazione di università e di scuole, perché non è dimostrazione di libertà e democrazia, ma pura violenza nei confronti degli altri studenti, delle famiglie e nei confronti dello Stato». E preannuncia l’incontro che di lì a qualche ora avrebbe avuto a Palazzo Grazioli col ministro dell’Interno Maroni: «Gli darò istruzioni dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell’ordine». Polizia in azione, dunque, anche se dall’altra parte della barricata dovessero esserci, come ci sono, gli insegnanti. Linea dura anche sul decreto: «Sulla riforma della scuola andremo avanti», avverte in risposta a Veltroni che lo aveva invitato a ritirarlo. «Non retrocederò di un centimetro, avete 4 anni e mezzo per farci il callo». Alla Gelmini rimprovera sorridendo di aver sbagliato a parlare di maestro unico, «meglio dire prevalente», poi elenca una per una le «bugie» di sinistra e occupanti e pregi della riforma. Che intanto procede a gonfie vele in Parlamento. Respinte ieri al Senato dalla maggioranza le otto pregiudiziali costituzionali sollevate dalle opposizioni, la riforma viaggia verso il voto finale previsto per mercoledì prossimo.
L’ultima parola del premier è per la manifestazione del Pd del 25 ottobre. «È una possibilità della democrazia ed anche noi ne usufruimmo - riconosce a distanza al Veltroni che più volte glielo ha ricordato in questi giorni - Ma noi manifestammo contro la pressione fiscale del governo Prodi. La loro è solo contro il governo e non ha proposte».
A La Sapienza la risposta degli studenti. E da Roma a Torino i rettori dicono: no ad azioni di forza
di Federica Fantozzi (l’Unità, 23.10.2008)
UNA STUDENTESSA del primo anno, schiacciata tra la folla, libera la mano intrecciata a quella dell’amica per non perdersi, e risponde al cellulare: «Era mio padre. Ha paura che ci picchino». Sui gradini dell’aula magna de La Sapienza, molte matricole con la faccia da liceali, lontane dai megafoni e certe che si tratti di «un fermento spontaneo e apolitico». Anche i ragazzi dei collettivi - Dario, Francesco, Aliosha - fiutano la trappola: «Nessuno volantini per partiti e sindacati - gridano - Questo movimento rifiuta le bandiere. Chi è venuto a mettere il cappello se ne vada».
Eppure l’avvertimento del premier sigilla insieme le anime dell’occupazione, e la giornata cambia segno. Addio workshop e riunioni: scatta l’assemblea congiunta di tutte le facoltà. Non solo Lettere, Scienze Politiche, Fisica e Chimica, quelle occupate. I ragazzi, all’aperto, ascoltano e chiacchierano di altro. Valentina frequenta Psicologia, ha le treccine e la spilla arcobaleno: «Il governo risponde con militarizzazione e sgombero. Non lo accetteremo». «Non diciamo solo no - spiega una rossa con lentiggini e occhi acquamarina, secondo anno di Lettere - Faremo proposte». Per esempio? «Più ricerca, basta con i cervelli che all’estero fanno carriera. Più elasticità nei piani di studio. No ai manuali dei titolari di cattedra: non vogliamo venerare un prof, vogliamo imparare». Mai manifestato prima? «Al liceo, contro la guerra in Iraq». Antipolitici? «Fino a un certo punto» ammette un’altra.
Il primo punto dell’assemblea è Berlusconi, con Sacconi anti-scioperi e Brunetta anti-fannulloni. La richiesta è che il rettore Guarini neghi l’ingresso alle forze dell’ordine. Lui li accontenterà: «Rispettare la libertà di espressione e l’autonomia dell’università. Qui non si è mai ricorso ad azioni di forza e non lo faremo mai». Anche da Padova e Torino arriva lo stop dei rettori alle «prove muscolari del governo».
Francesco, aria da bravo ragazzo: «È un governo illegittimo e criminale. Non abbiamo paura». Giorgio rivela con orgoglio che a Fisica hanno fatto trovare i dipartimenti «serrati con la catena» perché «occupare significa bloccare laboratori, uffici, tutto». Aiuole piene di zaini, caschi, bottigliette d’acqua. Una ragazza beve da un biberon decorato. Perché occupate? Gli stessi motivi corrono di bocca in bocca: le tasse universitarie più alte, i tagli devastanti, le università in mano alle imprese private. Come lo avete saputo? Soprattutto dai Tg e grazie al passaparola. Ora le cose vanno bene? «No, ma così andranno peggio».
Al microfono «un papà delle elementari» sommerso di applausi: «Anche noi abbiamo occupato, dormito sui tappetini per una settimana, non abbiamo retto di più con i bimbi. Ogni notte pensavamo: speriamo che parta l’università. Tolgono il futuro ai nostri figli, ai vostri fratellini». Giorgio di Ingegneria è accolto da fischi di sorpresa: «Non partecipano mai». Il più lucido è Matteo Pacini di Studi Orientali: «Vogliono che reagiamo per screditarci davanti all’opinione pubblica. Dobbiamo essere determinati e intelligenti». Propone di portare la protesta al Festival del Cinema, alla Farnesina, davanti al Senato. Si impappina: «Non intendo ma... Mi spiace dirlo... Non possiamo essere faziosi».
Raggiante Dario da Psicologia: «La mia facoltà immobile da anni si è scossa». Entusiasmo per l’annuncio che Economia ha disturbando l’inaugurazione dell’anno accademico. Emiliano partecipa da lavoratore: «Lo studio è l’unica forma di liberazione della mente». Cori di «La Sapienza/Non ha più pazienza» e «Gente come noi/Non molla mai». Un isolato petardo al grido di «noi bruciamo tutto». Dario è uno dei leader: «Preoccupati? Indignati. Parole così non si sentivano dagli anni ‘60 e qualificano l’atteggiamento del governo».
Occupazioni e cortei in tutta Italia. Lo slogan dei romani: io non ho paura
Traffico bloccato da sit-in improvvisati a Roma, Trieste e Milano.
Occupazioni a Torino e all’Orientale di Napoli
di Alessandro Capponi (Corriere della Sera, 23.10.2008)
ROMA - «Bloccare tutto, le università e le scuole, e anche le stazioni, e le città, e ovunque, davanti ad ogni portone d’ingresso delle facoltà, dobbiamo affiggere la scritta "Io non ho paura"». L’applauso, per lo studente di Fisica Giorgio Sestili, che parla alla Sapienza, ecco, l’applauso: dura minuti. «Io non ho paura», lo slogan nasce così. E in serata ecco la presa di posizione del rettore: Renato Guarini dice, semplicemente, che non autorizzerà l’ingresso della polizia perché «La Sapienza, anche nei momenti più drammatici e di maggiore tensione, non ha mai fatto ricorso ad azioni di forza».
Ma ciò che accade a Roma - nelle tre università romane - non è che un aspetto della protesta studentesca: in tutta Italia, da ieri, da quando Berlusconi ha promesso l’arrivo della polizia per sgomberare gli atenei, occupazioni e cortei si moltiplicano. Traffico bloccato da sit in improvvisati: nella Capitale, a Trieste, a Milano. A Napoli l’«Orientale è occupata », come spiega lo striscione all’ingresso. Le assemblee e i cortei non si contano. Milano, Torino, Firenze, Cagliari, Bari, Palermo, Napoli, Catania: ovunque, gli studenti si organizzano, fanno lezione all’aperto, sfilano. A Genova oggi ci sarà il funerale dell’università. Contro la legge 133, certo, ma anche per «resistere » alle «minacce del premier ». I rettori, come quello della Sapienza e quello dell’Aquila, dicono chiaramente una cosa: no alla polizia nell’università. Il 14 novembre, a Roma, manifestazione nazionale con studenti «universitari, medi e - spiega un altro dei leader della protesta, Francesco Raparelli - dell’intero mondo della formazione».
L’appello è per gli studenti di tutta Italia: «Occupate tutto». «Protestiamo in modo intelligente, come ha detto Napolitano - dice Sestili - facciamo cortei da giorni e non è successo nulla. È un movimento trasversale, qui parlano ragazzi di destra e di centro. Questa è la dismissione dell’università, ed è grave per tutti». Cartelli intorno a lui: «Blocchiamo le ferrovie», «né sapientini né manichini». Francesco, di Scienze politiche, dice che «questo governo è criminale ». A Milano cinquecento studenti fanno lezione in piazza Duomo e poi bloccano il traffico, un corteo a Trieste, un altro a Roma, uno a Bari. Il rettore della Sapienza, Renato Guarini, risponde così alle parole di Berlusconi: «Le criticità devono essere affrontate con un dialogo costruttivo, concordo con quanto detto da Napolitano.
Nella tradizione delle università europee l’ingresso delle forze dell’ordine viene autorizzato dai rettori». Lui, come detto, non ha intenzione di farlo. Per il Magnifico dell’Aquila, Ferdinando Di Iorio, le dichiarazioni del premier «sono gravissime. Non si rende conto su quale terreno si muove». La polizia dentro le università? «Qui non accadrà mai». A Firenze, in piazza della Signoria, lezione dell’astrofisica Margherita Hack che dedica poche parole al proposito di Berlusconi: «È una vergogna».
di Ezio Mauro (la Repubblica 23.10.2008)
Davanti a una protesta per la riforma della scuola che si allarga in tutt’Italia e coinvolge studenti, professori, presidi e anche rettori, il Presidente del Consiglio ha reagito annunciando che spedirà la polizia nelle Università, per impedire le occupazioni. La capacità berlusconiana di criminalizzare ogni forma di opposizione alla sua leadership è dunque arrivata fin qui, a militarizzare un progetto di riforma scolastica, a trasformare la nascita di un movimento in reato, a far diventare la questione universitaria un problema di ordine pubblico, riportando quarant’anni dopo le forze dell’ordine negli atenei senza che siano successi incidenti e scontri: ma quasi prefigurandoli.
Qualcuno dovrebbe spiegare al Premier che la pubblica discussione e il dissenso sono invece elementi propri di una società democratica, non attentati al totem della potestà suprema di decidere senza alcun limite e alcun condizionamento, che trasforma la legittima autonomia del governo in comando ed arbitrio. Come se il governo del Paese fosse anche l’unico soggetto deputato a "fare" politica nell’Italia del 2008, con un contorno di sudditi. E come se gli studenti fossero clienti, e non attori, di una scuola dove l’istruzione è un servizio e non un diritto.
Se ci fosse un calcolo, le frasi di Berlusconi sembrerebbero pensate apposta per incendiare le Università, confondendo in un falò antagonista i ragazzi delle scuole (magari con il diversivo mediatico di qualche disordine) e i manifestanti del Pd, sabato. Ma più che il calcolo, conta l’istinto, e soprattutto la vera cifra del potere berlusconiano, cioè l’insofferenza per il dissenso.
Lo testimonia l’attacco ai giornali e alla Rai fatto da un Premier editore, proprietario di tre reti televisive private e col controllo politico delle tre reti pubbliche, dunque senza il senso della decenza, visto che a settembre lo spazio dedicato dai sei telegiornali maggiori al governo, al suo leader e alla maggioranza varia dal 50,17 per cento all’82,25. Forse Berlusconi vuol militarizzare anche la libera stampa residua. O forse "salvarla", come farà con le banche.
La repressione
di Michele Serra (la Repubblica 23.10.2008)
In presenza di un movimento inedito, molto composito e fino adesso pacifico, il premier non sa opporre altro che un goffo proposito repressivo
Neanche il più acerrimo detrattore del presidente del Consiglio poteva mettere in conto le desolanti dichiarazioni di ieri a proposito di scuola e ordine pubblico. L’uso della forza per reprimere i movimenti di piazza - e specialmente l’intervento della polizia nei licei e nelle università - è in democrazia materia delicatissima.
E lo è rimasta perfino negli anni di fuoco delle rivolte studentesche, quando l’ultima parola, in materia di ingresso della forza pubblica dentro i luoghi dello studio, quasi sempre spettava a rettori e presidi prima che ai questori.
Oggi, in presenza di un movimento inedito, molto composito (studenti, docenti, ricercatori, genitori: nella totalità utenti e dipendenti di un servizio pubblico) e fino adesso pacifico, il premier non sa opporre altro che un minaccioso e goffo proposito repressivo. In perfetta sintonia con la schietta invocazione di una soluzione poliziesca, Berlusconi ha snocciolato molto in breve (non ha tempo da perdere) un’analisi dei fatti di una pochezza desolante, riassumibile nella vecchia idea padronale "qui si lavora e non si parla di politica". Dimostranti e occupanti come impiccio sedizioso al corretto esercizio dello studio e di quant’altro, come se una società democratica non fosse il luogo naturale dei conflitti e della loro composizione politica, ma un’azienda di vecchio anzi vecchissimo stampo nella quale si lavora, si obbedisce e si tace. Eloquente il contrappunto del sottosegretario Sacconi, che denuncia allarmato la presenza nei cortei di studenti "politicizzati": ecco un politico che considera l’impegno politico come un’aggravante.
Si intende che Berlusconi abbia assunto queste posizioni frontali, e destinate ad accendere gli animi, perché si sente forte di un mandato popolare che, nella sua personalissima interpretazione, lo autorizza a portare a compimento i suoi propositi politici costi quello che costi, tagliando corto con le lungaggini, le esitazioni, le pratiche "consociative" e quant’altro minacci di attardare o contrastare le decisioni del governo. Ma anche ammesso che davvero l’aspettativa "popolare" predominante sia così brutale e sbrigativa, e che davvero il sessanta per cento degli italiani auspichi modi bruschi, il governo di un paese democratico ha il compito di rispettare e fare rispettare i diritti di tutti, non solo della sua claque per quanto vasta e agguerrita essa sia. Che fare di chi si oppone, come trattare quel buon quaranta per cento di italiani che ancora non ha appaltato il proprio destino, le proprie aspirazioni, il proprio modo di pensare a Silvio Berlusconi e ai suoi ministri?
E se poi il dissenso ha dimensioni di massa, e si dispiega � come in questo caso � sul terreno appassionato e vulnerabile della protesta giovanile, suscettibile di infiltrazioni di frange di violenti che non vedono l’ora di trovare un contesto favorevole, con quale smisurata irresponsabilità un presidente del Consiglio che se la passa da statista sventola per prima cosa il vecchio drappo reazionario della repressione? Gli "opposti estremismi", teoria semplificatrice ma dolorosamente verificata in passato da questo paese dai nervi poco saldi, mai avevano trovato uno dei propri espliciti agganci proprio nelle istituzioni. La vecchia ipocrisia democristiana conteneva al suo interno anche una salutare componente di senso dello Stato, e i lavori sporchi, e le maniere forti, procedevano per vie losche e sotterranee. E’ davvero un progresso scoprire, nel 2008, che è il premier in persona a invocare la maniere forti, in una sorta di glasnost della repressione? In un paese che ha pagato un prezzo spaventoso alla violenza politica e all’odio ideologico, con ancora la fresca memoria dei fatti di Genova, mentre già i titoli dei giornali di destra e alcuni slogan dei cortei di sinistra buttano benzina sul fuoco, che cosa si deve pensare di un presidente del Consiglio che divide la società in due tronconi, uno buono che lo applaude e l’altro cattivo da sgomberare con gli autoblindo?
E’ la prima volta, questa, che una delle puerili retromarce del premier ("mi hanno frainteso, non ho detto questo, sono loro che mentono") sarebbe accolta con sollievo.
E la Sapienza fa lezione davanti Montecitorio
di Laura Mari (la Repubblica/Roma, 20.10.2008)
La protesta degli universitari contro il decreto Tremonti arriva davanti a Montecitorio. Questa mattina, a partire dalle 10.30, docenti e studenti di Fisica della Sapienza terranno delle lezioni proprio davanti alla sede della Camera dei Deputati. Dopo le mobilitazioni della scorsa settimana, che hanno visto migliaia di studenti protestare sotto il ministero dell’Economia e quello dell’Istruzione, oggi l’appuntamento contro i tagli della finanziaria agli atenei pubblici è davanti a Montecitorio. «Mentre in tutte le facoltà della Sapienza questa mattina si terranno assemblee e dibattiti - fanno sapere i collettivi - gli studenti di Fisica coinvolgeranno l’opinione pubblica portando alla luce del sole il loro dissenso contro il decreto 133 e organizzando lezioni all’aperto». Incontri che sono iniziati ieri davanti alla Casa del Cinema di Villa Borghese.
Oggi pomeriggio, presso la facoltà di Lettere della Sapienza, si terrà un’assemblea per decidere le prossime mobilitazioni. «Stiamo pensando - annunciano gli studenti - di scrivere un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affinché intervenga in difesa del sistema universitario italiano». E domani, in concomitanza con la riunione del senato accademico, gli studenti della Sapienza hanno indetto un presidio davanti al rettorato per invocare l’immediato blocco della didattica.
Intervista
Walter Tocci: «Gli aspetti peggiori dello stato e del mercato»
(il manifesto, 17.10.2008)
Il suo ultimo libro, edito da Ediesse, è titolato «Politica della scienza?» ed è quel punto interrogativo ben in vista a spingerci a chiedere a Walter Tocci, direttore del Crs, alcune considerazioni in merito alla questione delle fondazioni.
Sette minuti e mezzo di discussione in aula e la riforma Gelmini-Tremonti è bella che fatta. Che ne pensa?
Siamo di fronte al più grave colpo inferto all’organizzazione del sapere a partire dal dopoguerra. In quei sette minuti e mezzo sono stati sottratti, rispettivamente, otto miliardi di euro alla scuola e 4 all’università. Circa un punto di pil.
Però i due ministri ci indicano una via d’uscita. Le fondazioni.
La questione delle fondazioni sta tutta dentro ad un’ottica classica di privatizzazione che non funziona più neanche a Wall Stree. Figuriamoci da noi. Un’ottica che svela il rapporto sempre più perverso che si va instaurando tra pubblico e privato.
Cosa intende?
Che da un lato si parla di fondazioni, cioè di soggetti di diritto privato e dall’altro si rilancia il centralismo statale.
Scusi Tocci, ma lo stato non dovrebbe limitarsi, rispetto alle fondazioni, ad erogare risorse?
Assolutamente no. Le fondazioni, così come sono concepite, continueranno ad essere oggetto di controllo ministeriale. Anzi, direi, «pluriministeriale»: economia, istruzione e corte dei conti. Vede, è lo stesso meccanismo che sta alla base di un fenomeno come quello delle università private che da un lato godono di assistenza statale e dall’altro riescono ad ottenere finanziamenti indipendentemente dalla valutazione o dal controllo degli obiettivi. Secondo Tremonti l’interesse privato delle aziende - che lui naturalmente chiama responsabilità sociale - potrebbe aiutare l’università. Vede, in Italia una linea puramente e autenticamente liberista non esiste. Dirò di più, non esiste un altro paese occidentale dove l’investimento privato in ricerca è inferiore a quello pubblico.
E allora tanto vale trasformare le università in soggetti di diritto privato.
Stiamo attenti. Il progetto delle fondazioni sembra andare nella direzione di una privatizzazione dell’università ma, in realtà, il suo unico scopo è quello di affamarle, le università. E sono certo che si salveranno solo quegli atenei pronti a venire a patti col potere politico. Grazie alle fondazioni il mercato entrerà nello stato e il risultato sarà quello di un controllo maggiore. Detto in altri termini, ad incontrarsi saranno gli aspetti peggiori del pubblico e del privato.
Gran parte della mobilitazione di questi giorni vede coinvolti i ricercatori.
Questa riforma impedisce la possibilità di qualsivoglia cambio generazionale. Questo vale per i ricercatori molti dei quali lavorano in luoghi altamente qualificati e di assoluta utilità per il paese - come l’Istituto superiore di sanità o l’Istat - e vale per i più giovani che sempre di più si troveranno costretti ad andare all’estero. Di fronte a noi ci sono due generazioni che definire maltrattate è dir poco. E questo quando nel mondo la vera competizione è sui cervelli.
l’Unità, 17.10.2008
Università, rabbia e Sapienza Facoltà occupata, dilaga la protesta
di Eduardo Di Blasi
All’inizio sono una piramide umana impilata lungo le scale che portano al Rettorato della Sapienza. Dietro la statua della Minerva, in un’assemblea di migliaia di persone che un’aula non può contenere, si alternano le loro voci. Parla anche il pro rettore Luigi Frati. Parole pesate una per una davanti a quella platea attenta e rumorosa che gli organizzatori stimano in diecimila persone. Parla dell’idea delle fondazioni bancarie nelle università come di uno «scenario cretino» il pro rettore, degli atenei italiani che hanno perso quel ruolo di «ascensori sociali», di meritocrazia ed equal opportunities, dei tagli che lui stesso farà «ma in funzione degli studenti» (dirà dopo: «Se io devo fare un corso di carciofologia solo perché ho un professore specialista di carciofologia, allora io il corso lo cancello. Dobbiamo lasciare gli insegnamenti utili agli studenti, non quelli utili ai professori. E certo non si possono tagliare i fondi in modo orizzontale come fa il governo»). Dice, infine, quello che ci aspettava: è contrario al blocco della didattica proposto dalle assemblee di facoltà. Lo giudica un metodo inadeguato. «Dobbiamo riconciliare l’università con il Paese. Se non facciamo questo il Paese penserà sempre che sia giusto tagliare le risorse che ci vengono date».
Resta comunque un no alla proposta, che la folla interpreta come il via libera alla mobilitazione. In pochi minuti è già pronto il corteo: direzione via XX settembre, ministero dell’Economia. Al grido di «Stiamo arrivando! Tremonti stiamo arrivando!», il serpentone si muove in direzione di largo Aldo Moro. In testa le avanguardie dei collettivi, più politicizzati, nel mezzo e in coda gli studenti e i dottorandi di Chimica, Fisica e Matematica, quasi emozionati di trovarsi nel mezzo di una città a far valere le proprie idee. Il corteo attraversa viale Castro Pretorio in direzione di Porta Pia, poi piega per via XX settembre. Sono le due del pomeriggio quando davanti alla sede del governo si alza fortissimo il grido «Noi la crisi non la paghiamo!», slogan della protesta romana. Volano anche «buu», fischi e quattro uova contro il portone. Niente di più. A quel punto si deve decidere ancora se chiuderla lì o portare la protesta nel cuore della città. Si chiede alle forze dell’ordine di poter andare al Parlamento, poi a Termini, infine ci si mette d’accordo per tornare all’università da piazza della Repubblica. Ma è proprio all’uscita della piazza che, approfittando della risicata presenza di forze di polizia, il gruppo inizia a correre in direzione della stazione Termini. Corrono con il fiatone continuando a scandire lo slogan: «Noi la crisi non la vogliamo» e a battere le mani. Occupano prima il binario 5 (mollato poco dopo per l’arrivo dell’eurostar da Milano), poi i due contigui. Si guardano negli occhi quasi increduli d’averlo fatto sul serio. Poi tornano indietro con un nuovo slogan: «Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città! La città! La città! Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città!». Si avviano per via Marsala. Qualcuno, da sopra gli uffici delle ferrovie, applaude ricambiato (le due grandi ovazioni di giornata del corteo sono state proprio davanti alla sede delle Ferrovie dove un dipendente ha salutato con il pugno chiuso, e davanti al ministero dell’Economia, quando da una finestra un impiegato ha calato la bandiera rossa dei Cobas). Tornano alla Sapienza dove le assemblee sanciranno l’inizio delle occupazioni di Lettere e Fisica. La didattica sarà garantita ma il luogo servirà anche per preparare lo spezzone per il corteo dei sindacati di base che oggi sfilerà per Roma (il corteo degli studenti partirà dalla Sapienza).
In fermento da Nord a Sud le università del Paese. Mentre a Verona la facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali ha bloccato la didattica per l’intero mese di ottobre, a Milano si è provato ad operare un blocco stradale, a Napoli è stata organizzata una raccolta di firme da consegnare a Berlusconi quando tornerà a Napoli. Assemblee permanenti a Palermo, lezioni in strada a Firenze. Mentre Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd nella Commissione Cultura della Camera annota un nuovo taglio in finanziaria: «Il diritto allo studio subisce un taglio di ben 65 milioni di euro sui 152 previsti, di cui 40 sottratti al fondo per la concessione di prestiti d’onore e l’erogazione delle borse di studio e 12 per gli alloggi e le residenze universitarie».
l’Unità, 16.10.2008
Nel fortino della Sapienza: «Pronti al blocco, non vogliamo l’università in mano alle banche»
La lezione di Diritto pubblico sullo Statuto Albertino del professor Francesco D’Onofrio, esponente Udc già ministro della Pubblica Istruzione, è interrotta intorno alle undici e mezza dall’assemblea degli studenti arrivati in massa nell’aula A al secondo piano di Scienze Politiche della Sapienza. L’ex ministro dell’Istruzione si ferma ad ascoltare l’assemblea ed interviene solo per una breve nota: «Almeno qui si discute, al Senato non è stato possibile».
Già, perché l’obiettivo principale della protesta che qui come in altre parti d’Italia ha già acceso focolai nelle facoltà di Psicologia, Fisica e Lettere, è la legge 133 del 2008, ennesima conversione di un decreto legge (questa volta di finanza), passata a Palazzo Madama in pochi minuti nell’agosto trascorso.
Una legge che tiene dentro, per quanto riguarda l’università, tagli di 1,5 miliardi in 5 anni, la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato e un rallentamento del turn-over al 20% (ogni cinque professori pensionati se ne potrà assumere uno). Eppure non c’è solo questo nelle parole di Dario, Vanessa, Luca, Francesco e Carlo. Non c’è solo questo nello slogan della protesta che all’una del pomeriggio parte dall’aula di Scienze Politiche per arrivare in un corteo interno a Lettere e poi uscire per strada, su un percorso concordato che gira attorno all’università seguendo la direzione del traffico.
Lo slogan che afferma «Noi la crisi non la paghiamo» è il manifesto di questa generazione tenuta a mollo negli atenei italiani, convinta che in un diverso modello di sviluppo potrebbe essere considerata una risorsa per il Paese. E invece è messa dietro «la competizione dei tondini di ferro con la Cina». E alle beghe di cassa.
«Questa crisi non l’abbiamo determinata noi, ma gli speculatori. Le banche a cui questo decreto vorrebbe dare la possibilità di entrare all’università». Luca Cafagna ha 24 anni, studia a Scienze Politiche, e vede che nel suo futuro si sta facendo strada un modello «americano», con lo Stato che toglie soldi dal Welfare, da Sanità, Scuola e Istruzione per darlo in mano alle banche «e non coglie il segno storico di quello che sta succedendo». Con le banche che arrancano davanti alla crisi di prestiti e mutui «di quelle famiglie che devono pagare l’assicurazione per gli ospedali e mettere da parte i soldi per iscrivere i figli all’università». Un’idea condivisa da Francesco Raparelli, che di anni ne ha 30 e prende 800 euro al mese per fare un dottorato di ricerca in filosofia politica a Firenze: «340 euro se ne vanno per l’affitto, 250 per spostarsi ogni mese tra Roma e Firenze. E questo è solo il presente perché il futuro non c’è. Siamo passati dall’incertezza alla catastrofe». Certo, afferma, quando iniziò l’università aveva idea di concentrarsi sullo studio, di avviarsi sul percorso scivoloso della ricerca che in Italia non ha mai pagato in termini economici. Oggi, però, raggiunto quel primo obiettivo, davanti non vede niente. E non è colpa solo di questa legge 133 che toglie soldi all’università senza nemmeno disegnarne un assetto coerente. È che da anni il Paese ha scelto di concentrarsi su altro.
Vanessa, che di anni ne ha 24 e frequenta Scienze Politiche, è convinta di stare studiando a vuoto, che quelle lezioni che segue giorno per giorno alla fine non la porteranno nel posto che meriterebbe. Che gli stessi insegnamenti a volte siano «troppo specifici» per essere spendibili nel mondo del lavoro. Che loro, alla fine, saranno dei precari che non si spenderanno nelle cose che hanno studiato. Ma che si fa? Cosa chiedono questi ragazzi? Risponde sempre lei: «Chiediamo che lo Stato investa sull’università e sulla ricerca. Che investa su di noi e che non ci tratti come una questione finanziaria. Guarda, già ci hanno abituato con la messa in funzione dei “crediti” e dei “debiti” scolastici». Come dice Stefano, 25 anni, due esami alla tesi e un presente da studente-lavoratore (proiezionista e gestore di un banchetto che vende libri): «Non è possibile che a questa età dobbiamo ancora vivere con i genitori perché non riusciamo ad avere i soldi in tasca per andarcene di casa». È lui che nell’aula di Scienze Politiche ha lanciato intorno all’una l’idea del corteo interno, mentre nei plessi di fianco continuavano a tenersi assemblee pubbliche.
Dietro a queste proteste non ci sono partiti, come spiega Dario, ma reti e movimenti di studenti. Nell’immaginario collettivo c’è ancora la Francia. Non quella del maggio di quarant’anni fa, ma quella degli studenti che nel 2005 misero all’angolo il «contratto di primo impiego» (Cpe) del governo di Dominique De Villepin (Nicolas Sarkozy ministro dell’Interno). Quella delle occupazioni e dell’ultima lotta studentesca vinta.
Prima di tutto, però, la battaglia va combattuta contro il luogo comune che sta sommergendo, in nome di una bizzarra efficienza economica, una parte delle battaglie della sinistra nel nostro Paese. Quello che tiene tutto sullo stesso piano. Sintetizzato nello slogan di ribellione del personale non docente rivolto all’assemblea di Scienze Politiche: «Noi non siamo fannulloni, voi non siete bamboccioni». Eccolo il nodo del problema. Sottolineato anche dalle parole di Vanessa che spiegano quel «Noi la crisi non la paghiamo». Non è una ritirata dei ragazzi dalle proprie eventuali responsabilità: «È al contrario una presa di coscienza. Noi vogliamo impegnarci. Vogliamo fare la nostra parte. Vogliamo solo che qualcuno creda in noi».
La legge 133 è la prima battaglia di una lotta politica che appare lunga e che non tiene dentro, per ora, nemmeno tutto il corpo studentesco.
Dario spiega: «Vogliamo il blocco della didattica. È l’unico segnale possibile per dire che l’università reagisce a questo ennesimo taglio». Oggi il Pro-rettore Luigi Frati risponderà alla richiesta degli studenti. Non sembra ci si orienti su questa linea. Come spiega Fulco Lanchester, preside di Scienze Politiche: «Io verrò all’assemblea, ma devo anche garantire che chi voglia fare lezione possa farlo».
In istituti e università tutto pronto per l’iniziativa voluta da genitori e insegnanti
saranno occupate alcune facoltà. Fuori dalla Sapienza studenti bloccano il traffico
Scuola, notte bianca anti-Gelmini e negli atenei dilaga la protesta
ROMA - Tutto pronto per la notte bianca contro il dl gelmini. L’iniziativa, organizzata da genitori e insegnanti "perché la scuola pubblica non sia ridotta a un fantasma", coinvolgerà stasera diverse scuole di tutta Italia. Alla Sapienza di Roma mattinata di protesta. Nel pomeriggio, dopo un’assemblea gli studenti hanno sfilato in corteo uscendo dalla città universitaria bloccando il traffico.
A Bologna, capofila dell’operazione "Notte bianca", la kermesse anti-Gelmini comincerà già nel pomeriggio e saranno coinvolte decine di scuole. Annunciata anche l’occupazione della facoltà di Lettere da parte dell’assemblea dei ricercatori e precari. A Milano, secondo quanto riferisce il sito ’Rete scuole’, saranno coinvolti almeno una decina di istituti. Mezza dozzina di istituti aderirà a Venezia. Appuntamenti sono previsti anche a Roma, Genova, Torino, Perugia, Brescia, Parma, Viareggio. A Napoli una fiaccolata attraverserà le vie cittadine, da piazza del Gesù a piazza del Plebiscito.
All’appello lanciato dall"Assemblea genitori e insegnanti’ hanno risposto diverse decine di scuole, elementari e medie, circoli e istituti comprensivi. Tante le iniziative in programma: si va dai laboratori artistici con clown e trampolieri alle danze afro. Sono annunciate esibizioni di musicisti, cantanti e attori, con narrazioni e concerti, anche all’ aperto. In programma anche partite di basket e lezioni di aerobica. Poi letture di poesie e un concorso sul miglior slogan per la scuola pubblica. Ci saranno pure fiaccolate e mangiate di pizza e castagne. Diversi i cortei da un istituto all’ altro con accompagnamento di bande e percussioni. Anche la provincia si mobilita con assemblee in vari centri.
Università. Alla Sapienza di Roma, in mattinata, si sono svolte assemblee a Geologia, Psicologia, Economia e Scienze politiche. Cortei interni alle facoltà hanno interrotto le lezioni: da Scienze Politiche è partita poi una manifestazione, cui partecipano diverse centinaia di studenti, che si è diretta fuori della città universitaria con l’obiettivo di bloccare la circolazione del traffico sulle strade limitrofe.
A Bari, questa mattina, studenti e lavoratori si sono riuniti in due distinte assemblee, convocate rispettivamente a Scienze politiche e ad Agraria, per studiare nuove forme di mobilitazione. Saranno due le forme di protesta sulle quali i manifestatnti sono chiamati ad esprimersi: blocco della didattica e annullamento della cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico.
A Napoli gli studenti che hanno partecipato al corteo di protesta contro il decreto Gelmini e contro i tagli della finanziaria alla Ricerca hanno occupato la sede del rettorato dell’Università Federico II. I manifestanti - che dopo una assemblea permanente hanno raggiunto in corteo la sede del rettorato - chiedono un incontro con il rettore Guido Trombetti. Tra le varie proposte degli studenti il blocco della didattica qualora il decreto Gelmini non venisse ritirato.
Roma e Napoli, studenti in corteo
"No alla riforma Gelmini"
ROMA - Continua la mobilitazione degli studenti universitari. A ’La Sapienza’ dopo il corteo per i viali dell’ateneo romano di ieri, oggi nuove proteste. Un gruppo di circa duemila ragazzi ha manifestato all’interno della cittadella universitaria contro l’annunciata riforma dell’università da parte del ministro per l’istruzione Maria Stella Gelmini. Gli studenti stanno via via interrompendo le lezioni delle diverse facoltà, da lettere a scienze politiche per sollecitare i ’colleghi’ a unirsi alla protesta e, nelle loro intenzioni, usciranno dal polo universitario per manifestare in strada.
Anche a Napoli sono in corso proteste: l’assemblea ’Stop Gelmini’ ha interrotto il normale svolgimento del senato accademico dell’università Orientale portando in quella sede "le ragioni e le rivendicazioni" degli studenti e delle studentesse in mobilitazione da settimane. "Abbiamo consegnato a tutti i senatori una lettera aperta in cui chiediamo di passare finalmente dalle parole ai fatti, pronunciandosi ufficialmente e pubblicamente sulle nostre richieste. Il termine ultimo per tale presa di posizione - dicono - sarà l’assemblea di ateneo che abbiamo richiesto per il giorno 22 ottobre".
L’assemblea ’Stop Gelmini’ ha proclamato la continuazione dello stato di agitazione che avrà come prossimo passaggio la partecipazione all’assemblea pubblica indetta per il giorno 15 ottobre, alle 11, presso la facoltà di lettere e filosofia dell’università Federico II di Napoli.
* la Repubblica, 14 ottobre 2008
La mappa della protesta
Università, cortei e occupazioni
Scuola, migliaia di email al Quirinale: non firmi il decreto. Napolitano: decide l’Aula
MILANO - Alle 11, davanti all’università Statale di Milano, gli studenti «contestatori» sono un centinaio. Raggiungono i piani alti dell’ateneo. Per un’ora occupano l’ufficio del rettore, Enrico Decleva. Gli chiedono (senza riuscirci) di firmare contro «la scure della coppia Tremonti-Gelmini», pena lo stop alle lezioni. Anche Roma protesta: «Blocco dell’anno accademico», annunciano i collettivi della Sapienza occupando la presidenza di Scienze. E così fanno Torino, Napoli, Palermo. No ai tagli all’università. Ma anche il mondo della scuola torna (di nuovo) a farsi sentire. Con una valanga di email che da qualche giorno sta intasando il sito del presidente della Repubblica: «No al maestro unico». Una giornata per contestare il crollo dei finanziamenti destinati ad atenei e accademie, la riduzione delle borse di studio, la «precarizzazione» del corpo docente. No alla legge 133/2008. Lo gridano gli studenti, lo ripetono ricercatori, dottorandi, assegnisti, professori. Di tutta Italia.
Tanto da azzardare un paragone: il 2008 come il ’68? Presto per dirlo. Ma le premesse, giurano in molti, ci sono tutte. Le proteste: blocco della didattica a Firenze e Napoli, stop alle cerimonie di apertura dell’anno accademico a Torino, volantinaggi con conseguenti ingorghi del traffico a Parma, consigli straordinari a Pisa, lezioni all’aperto a Palermo, raccolte di firme a Roma. A Cagliari i docenti hanno consegnato le rinunce agli incarichi di presidenza, mentre negli atenei calabresi è stato proclamato lo stato di agitazione. I
l mondo dell’istruzione mobilitato: un tam-tam che passa per le aule, tocca le famiglie, scova professori, raggiunge riunioni di Senato Accademico (oggi a Milano è previsto l’«assalto» da parte dei ragazzi e dei ricercatori). E arriva fino al Quirinale. Via internet. Il ritmo è di una email ogni due-tre minuti (c’è quella inviata dalla scrittrice Dacia Maraini). Il testo: «Presidente Napolitano non firmare la legge Gelmini sul maestro unico». Un appello senza precedenti: migliaia di sms che da qualche giorno rimbalzano sui telefonini di tutto il Paese. Istruzioni: «Vai sul sito www.quirinale.it e scrivi al presidente della Repubblica di non firmare il decreto Gelmini».
Qualcuno altro si è spinto oltre: «Se raggiungeremo quota ventimila mail, il capo dello Stato dovrà tenere conto del nostro appello». Ipotesi remota. Anzi, Napolitano è stato costretto a ricordare, pubblicamente, i suoi compiti. «La riforma della scuola è ancora all’esame del Parlamento. Inoltre, secondo la Costituzione, è proprio del Parlamento la responsabilità delle scelte politiche». E dunque: «Il presidente ha, in ogni caso, l’obbligo di promulgare le leggi, qualora le stesse siano nuovamente approvate, anche nel medesimo testo».
Altra protesta virtuale, altrettanto veloce e numerosa: su Facebook sono più di undicimila gli italiani che hanno aderito all’iniziativa di sostegno all’istruzione pubblica contro la legge 133. Le motivazioni: «Questo governo vuole ridurre i fondi alle università di 500 milioni di euro nei prossimi tre anni, limitare il turnover al 20 per cento dei pensionamenti provocando un’inevitabile fuga di cervelli».
Elementari, medie, accademie. La rivolta cresce. Dagli Stati Generali degli atenei agli scioperi di venerdì 17 e di giovedì 30. Perfino Alessandro Mazzucco, rettore a Verona, osserva: «Se le cose continueranno a seguire questa direzione, nel 2010 tutte e 66 le università statali italiane saranno in emergenza».
Alessandra Arachi
Annachiara Sacchi
* Corriere della Sera, 14 ottobre 2008
Pasquino: all’estero non pubblichiamo. Flamigni: esclusi da tutto
Atenei, l’Italia fuori dai primi 100
Il «Times» apre il caso Bologna
L’università migliore del Paese è al posto numero 192, dopo Bombay e la Corea, Sapienza e Bocconi fuori dai primi 200 *
BOLOGNA - La Dotta o la Rotta? Mamma mia come invecchi male, Alma Mater. Sull’orlo della retrocessione, peggio dei rossoblù del pallone. Con quest’università che una volta pensare il mondo faceva e ora, dicono, fa pensare solo il peggio. Lontanissima da Harvard e da Oxford: si sapeva. Lontana dall’Europa della ricerca: da anni. Adesso, scivolata pure dopo Hong Kong, Mosca, Bombay, i cinesi... «Che cos’è successo all’università di Bologna?», titolava ieri il Times, editoriale di pagina 2, pubblicando l’annuale classifica delle 200 capitali del sapere, ignorando la Bocconi di Milano, depennando La Sapienza di Roma e annunciando con raccapriccio come il più antico ateneo del mondo, l’unico italiano rimasto in graduatoria, «un tempo rinomata sede di grandi umanisti e scienziati», stia ormai al posto 192 (al 78 in Europa) per qualità della ricerca, per tasso d’occupazione dei laureati e per profilo internazionale, insomma per tutto quel nutrimento che in mille anni la Grassa Mater ha sempre dato.
Mille e non più mille: che cos’è successo, bolognesi? «Che il Times parla a nuora perché suocera intenda - risponde il rettore, Pier Ugo Calzolari -. Il problema non siamo noi, che nel 2010 avremo problemi a fare perfino il bilancio ma nella classifica, comunque, ci stiamo. Il problema è l’Italia che non investe abbastanza in ricerca ed è destinata a venire scavalcata dal-l’Asia ». Il politologo Gianfranco Pasquino, che insegna a Bologna dal 1969, riconosce che «qualcosa sta succedendo a quest’università, a questa città e a questo Paese che invecchiano», ma non prende per oro colato un Times che da Londra boccia noi e intanto mette in classifica 29 inglesi: «Mi stupisce molto che fra i primi 200 non ci sia la Bocconi...». La decadenza è un fatto, però: «Molti docenti bolognesi sono autorevoli - dice Pasquino -, ma hanno una certa età, pubblicano poco all’estero, mentre in un mondo globalizzato vanno avanti i coreani o cinesi che studiano in America e poi tornano a casa, continuano a scambiare informazioni in comunità dove l’unica lingua è l’inglese».
Non è più aria di glossatori e pandettisti, basta campare sui busti di Copernico e Borromeo, Carducci e Pascoli: l’Alma Mater è in calo d’iscritti, ci sono facoltà (Veterinaria) che quest’anno perdono il 35% delle matricole. Nemmeno il celebre Dams di Umberto Eco attrae più. Dice Alessandro Bergonzoni, ex studente, oggi attore: «Le pagelle non contano. L’unica facoltà che m’interessa è quella mentale: prima che nelle istituzioni, la decadenza la vedo nelle persone. Bologna o Napoli, l’università o la monnezza, a mancare è l’anima, l’amore per il conoscere. Assenza d’immaginazione: a Bologna vivi bene, ma quest’assenza la vedi, e non solo in università». «Se ci consideriamo è un conto, se ci confrontiamo è un altro - dice il professor Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione in vitro -: Bologna è pur sempre eccellente, in Italia. Ma il punto è l’Italia. Quant’è stupido un Paese che non investe nella ricerca e si condanna a star fuori da tutto? Bologna, chiaro, soffre i mali nazionali. Prenda come seleziona i ricercatori: sarà anche bello che il figlio del primario voglia fare il primario, ma forse ci vorrebbe una regola che glielo vieti. E poi qual è il posto dove un ricercatore, prima di ricercare, deve chiedere il permesso al sacerdote o alla casa farmaceutica? E chi ha un Cnr come il nostro che fa la Il rettore politica degli accattoni, dà quattro soldi a chiunque per non scontentare nessuno, un clientelismo che non serve a niente?
All’Università di Bologna comandano due grandi famiglie: i massoni e l’Opus Dei. Senza di loro non hai soldi, collaboratori, nulla: sono qui dal 1960 e non sono mai stato inserito in una commissione di Medicina, dove gestiscono il potere vero e danno le borse di studio. I giovani hanno capito e infatti, se vanno all’estero, non tornano. Fanno bene. Là, ragionano coi migliori cervelli. Qui, trovano i laboratori coi topi. E non resta loro che adagiarsi ». Calma Mater, troppo calma. Racconta Pasquino d’avere due incarichi, sotto le Torri, e uno è al Bologna Center della John Hopkins University: «Fra i due istituti ci sono 200 metri. Due mondi. Gli americani, se non va il power point, in tre minuti mi mandano un tecnico a sistemare. Da noi, stamattina facevo lezione e non funzionava il microfono. Naturalmente non è venuto nessuno. Ho detto agli studenti: non tossite troppo, se no là in fondo non sentono niente...».
Francesco Battistini
10 ottobre 2008
Pisa, Firenze, Roma, Siena. E ora blocchi e iniziative si moltiplicano
Da giorni lezioni su Ponte Vecchio. Il rettore Settis: "Rischio tagli alla cieca"
Dalle lezioni in strada al web
studenti e prof protestano insieme
di VALENTINA CONTE *
E’ iniziata nei giorni scorsi ed è destinata ad aumentare. Nelle piazze la protesta degli atenei per difendere l’università, la ricerca e contro il lavoro precario. E continuerà fino all’inaugurazione dell’anno accademico che anche i docenti vogliono bloccare. E oltre.
A Pisa l’epicentro delle scosse. Da due notti il Polo Carmignani dell’università è occupato dagli studenti. Per poche ore lo è stato anche il rettorato. Dopo assemblee partecipatissime (dicono anche tremila ragazzi) che hanno costretto chi le organizzava a uscire fuori. Ieri una folla enorme (6-7 mila persone) ha atteso per ore il ministro Gelmini con slogan e striscioni "contro". Una presenza prevista e poi smentita alla Normale per la consegna dei diplomi. Durante la cerimonia il rettore Salvatore Settis è intervenuto sui tagli all’università: "Nessuna scure che si abbatta alla cieca ha mai generato nuove forme di virtù". Gli studenti ne parlano ai "tavoli sui saperi e il reddito" sotto l’occhio della webcam che rilancia alla rete. È l’occupazione ai tempi di Internet.
Poco lontano, a Firenze, è andato in scena il nuovo appuntamento sul Ponte Vecchio. A lezione in duecento con il prof, anzi col ricercatore precario (ma ci sono anche gli ordinari), "nell’unico luogo in cui si troverà l’università fra poco: in mezzo ad una strada". Lavagne e portatili tra le botteghe degli orefici a parlare di chimica delle sostanze naturali. In piazza Pitti a illustrare i sensori. A Palazzo Vecchio per un’introduzione ai nanosistemi. "Una lezione per tutti contro un’università per pochi", dicono. Una provocazione arrivata dopo l’occupazione nei giorni scorsi del Polo scientifico di Sesto fiorentino e della facoltà di Agraria alle Cascine. E dopo gli striscioni penzolanti dai ponti Santa Trinità e alla Carraia sull’Arno. Ogni giorno assemblee di fuoco in tutta la città per decidere blocchi, cortei, manifestazioni. Intanto il consiglio di facoltà di Scienze matematiche ieri in tarda serata ha approvato un documento di invito ai docenti a bloccare la didattica fino al 31 ottobre.
Alla Sapienza di Roma dopo l’assemblea di Fisica e Lettere (nei prossimi giorni Psicologia, Scienze Politiche, Giurisprudenza), gli universitari hanno "preso" simbolicamente il rettorato e si preparano ad occupare. Ieri nell’androne di Lettere Piero Bevilacqua, docente di Storia contemporanea e promotore dell’appello firmato già da duemila docenti sul sito di Repubblica, ha proposto di aprire le università ai genitori. Un’assemblea dei padri e dei figli "perché non è in gioco l’ideologia, ma il nostro futuro", dice un ragazzo. E perché "non siamo una corporazione, non è uno scontro tra professori e governo - ripete Bevilacqua - i problemi dell’università sono i problemi del Paese". Mobilitazione permanente. Anche a Siena dove gli studenti citano Pasolini (i figli che pagano le colpe dei padri) in una lettera aperta ai professori.
L’università è dunque in fermento. Non solo a Firenze, Pisa, Roma, Siena. Ma anche a Torino, Brescia, Genova, Bologna, Palermo, Napoli, Padova: studenti e precari, insieme, contro i provvedimenti del governo su atenei e ricerca. Nel mirino delle proteste la legge 133 approvata il 6 agosto scorso - ex decreto Brunetta - e le sue norme sull’università: possibilità di trasformare gli atenei in fondazioni di diritto privato, tagli al fondo di finanziamento ordinario (un miliardo e mezzo di euro in 5 anni) e blocco del turn-over al 20 per cento (modulo 5 a 1: per cinque docenti in pensione ne entra solo uno).
I ragazzi la chiamano "controriforma Gelmini". Ne discutono in riunioni "mai così affollate dai tempi della Pantera". Quando le sale sono troppo piccole scendono in piazza. Ciclostili e tazebao sempre più affiancati (quasi sostituiti) da blog e forum. Diari spuntati con la protesta, da un mese scarso, dei bebè della rete. Il passaparola corre dunque negli spazi liberi di Internet. E così il racconto, le foto, i filmati, le testimonianze. Quasi in tempo reale. Uniriot.org (la rete dei collettivi studenteschi nata ai tempi della Moratti) e Infoaut.org raccolgono e rilanciano le informazioni.
A Napoli, università Orientale, lunedì è stato occupato palazzo Giusso. Sempre lunedì a Torino alcuni ragazzi che presidiavano il rettorato sono stati ricevuti dal Senato accademico (sabato c’era stata "la marcia dei 40 mila" contro la riforma della scuola). Sullo sfondo lo sciopero generale della scuola del 30 ottobre che darà fiato al malcontento di tutti. E quello striscione al ritiro della nazionale di calcio a Coverciano: "Salviamo l’università".
* la Repubblica, 10 ottobre 2008
l’Unità 7.10.08
La protesta dei docenti Gli atenei verso l’occupazione
di Federica Fantozzi
Blocco delle inaugurazioni dell’anno accademico, forse l’università di Padova sarà la prima, e La Sapienza di Roma verso l’occupazione studentesca. Sale la protesta di docenti, sindacati e ragazzi contro il piano del governo sugli atenei. Il cahier de doléances è lungo. Ricerca e università in ginocchio. Docenti «dimezzati» dal blocco del turn over e dai licenziamenti. Decreto «ammazza-precari» che impedisce stabilizzazioni. Meno laboratori e biblioteche, addio sperimentazioni. Tagli del 10% al fondo di finanziamento nel 2010, scendendo dai 7,4 miliardi attuali a 6,4 entro il 2013. Azzeramento dei fondi per l’edilizia mirata. Limiti alla contrattazione integrativa. Atenei trasformati in «super-licei» di serie A (privati) e B (pubblici). E non più in grado di pagare gli stipendi nè di chiudere in pareggio i bilanci.
Una débacle, denunciano gli operatori. Un «Piano Marshall al contrario». Le forbici infieriranno per 10 miliardi nel prossimo quinquennio: cifra speculare agli aiuti americani che nel Dopoguerra consentirono all’Italia di risollevarsi.
Il mondo della formazione e della ricerca si è già mobilitato. Molte le iniziative in campo. L’appello di un gruppo di docenti ai rettori affinché rinuncino alle inaugurazioni dell’anno accademico ha superato in pochi giorni le 1300 adesioni. Tra i promotori ci sono Gianni Vattimo, Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua della Sapienza di Roma, il rettore di Padova Umberto Curi, Fulvio Tessitore dell’università di Napoli.
Proprio a Padova, a novembre, potrebbero iniziare le proteste. Ma crescono le voci di un’imminente occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza. In quell’aula simbolica i promotori dell’appello stanno organizzando un’assemblea per il 23 ottobre. In calendario anche una giornata in cui gli studenti porteranno in facoltà i genitori e i professori spiegheranno il «valore della formazione pubblica». I docenti hanno anche elaborato un documento che analizza nel dettaglio i guasti del decreto legge 112: quasi 1500 milioni di euro in meno in 5 anni «passando dall’ordine dell’1% del 2009 al 7,8% nel 2012-2013». Riduzione di servizi agli studenti e di infrastrutture. Prospettiva a medio termine: «Dimezzamento del numero dei docenti».
La conseguenza sarà la concentrazione dell’attività sulla didattica a scapito della ricerca, delle tesi sperimentali, dell’aggiornamento al mondo che cambia. Altrettanto devastante - denunciano - la trasformazione delle università in fondazioni: «Il sistema del diritto allo studio verrà cancellato, non sarà più assicurato per i meritevoli in condizioni disagiate». E sparirà la differenza con le private sulle tasse universitarie, più alte per tutti.
Come reagire? L’invito per il governo è a «una seria valutazione anziché tagli discriminati». La Crui, la conferenza dei rettori, ha consegnato un pacchetto di proposte al ministro Gelmini, condite da un avvertimento: o il governo rivede i contenuti della manovra, o gli atenei non riusciranno a pagare gli stipendi al personale e i conti finiranno in rosso. L’Unione Universitari è scesa in piazza contro «l’attacco del governo con tagli pesanti e la possibilità di privatizzare tutti gli atenei» inserito «in un progetto di screditamento e distruzione di tutti i servizi pubblici».
La Flc Ggil intanto fornisce i primi effetti sul settore, dove il precariato sfiora il 50%. Oggetto delle proteste l’emendamento «ammazza precari» di Brunetta: «Non si può negare il diritto a un lavoro stabile a tantissimi giovani ricercatori e universitari qualificati». Già in mobilitazione i 500 precari dell’Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), i 700 dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale), i 400 dell’Ingv (Istituto Nazionale di geofisica e vulcanologia). Secondo la Finanziaria in cantiere le università potranno assumere nel triennio 2009-2011 fino al 20% dei pensionamenti e fino al 50% nel 2012. Inoltre, dal primo gennaio 2009 gli scatti biennali dei docenti, con lo stesso importo, diventano triennali.
Infine l’entità dei tagli: 63,5 milioni di euro nel 2009, 190 milioni nel 2010, 316 nel 1011, 417 milioni nel 2012 e, infine, 455 milioni nel 2013. Totale: meno 1.441 milioni in aree cruciali per la crescita e la formazione dei giovani.
L’elezione del rettore della Sapienza a Roma e le facoltà del nepotismo
L’ateneo al voto tra i parenti
di Tito Boeri (la Repubblica, 3.10.2008)
Oggi i docenti de La Sapienza, il più grande ateneo d’Europa, voteranno per scegliere il loro nuovo Rettore. A meno di sorprese, verrà eletto Luigi Frati, attualmente preside della Facoltà di Medicina. Ha già ricevuto la maggioranza relativa dei voti nei primi scrutini. Sua moglie, in passato docente di lettere al liceo, è diventata professore ordinario nella sua facoltà. Anche suo figlio vi trova impiego come professore associato, chiamato mentre lui era preside. La figlia, pur essendo laureata in Giurisprudenza, ha un posto di professore ordinario all’altra facoltà di Medicina della Sapienza.
Secondo i giornalisti dell’Espresso Primo Di Nicola e Marco Lillo, Frati per il matrimonio di sua figlia ha organizzato un ricevimento con 200 invitati nell’Aula grande del suo istituto. Si può pensare che sia un caso isolato, estremo. Purtroppo non lo è in Italia. Lo documenta in modo inequivocabile un libro di Roberto Perotti, uno dei migliori economisti italiani, uscito in questi giorni per gli Struzzi dell’Einaudi (L’Università truccata). Vi dirò subito, a scanso di equivoci, che sono collega e amico di Roberto. Ho anche avuto la fortuna di scrivere un libro con lui imparando quanto sia meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli.
Quindi potete essere sicuri che i dati che sono contenuti nel volumetto sono stati attentamente verificati, uno per uno. E sono davvero impressionanti. Rimaniamo nell’ambito delle facoltà di Medicina. Essendo queste collegate a cliniche universitarie, l’entrata in ruolo ha un valore molto superiore alla sola retribuzione da professore universitario. A Messina quasi il 40 per cento dei docenti (sì, proprio 4 su dieci) ha un omonimo in qualche università della Regione. A Napoli (Federico II e Seconda Università) si viaggia attorno al 35% di omonimie, a Roma (Sapienza, Cattolica e Tor Vergata) non si scende sotto al 30 per cento. Certo, alcune di queste omonimie possono essere del tutto casuali e non sottendere a relazioni di parentela, oppure possono essere legate a sodalizi scientifici, cementati su di una solida produzione scientifica. Ma la dimensione del fenomeno è tale da far pensare ad altro, a un nepotismo addirittura sfacciato.
E’ una congettura corroborata dagli approfondimenti compiuti da Perotti su alcune sedi, come la Facoltà di Economia di Bari, dove 42 docenti su 179 hanno almeno un parente stretto nella stessa facoltà; a Statistica l’ex Magnifico Rettore Girone, per dare il buon esempio, ne ha addirittura 4 tra moglie, tre figli e genero, tutti docenti nella stessa facoltà. Perotti ha anche compiuto un lavoro certosino di censimento dei concorsi universitari in Economia dal 1999 al 2007, scoprendo che il fattore di gran lunga più importante nel successo in questi concorsi è l’appartenenza allo stesso ateneo che ha indetto il concorso. La produzione scientifica, misurata in termini di pubblicazioni su riviste internazionalmente riconosciute, non ha alcun peso.
Nepotismo e baronaggio sono sopravvissuti alle mille riforme di carta condotte in questi anni. Cambiavano tutto per non cambiare nulla. Servivano solo al ministro di turno, quale che fosse il suo colore politico, per mettere la propria bandierina senza intaccare i potere delle baronie universitarie. Anche questa legislatura si sta aprendo all’insegna di un futile protagonismo ministeriale. L’auspicio che andrebbe formulato all’inaugurazione dell’Anno Accademico è che il quinquennio si concluda senza che gli studenti universitari vengano obbligati ad indossare il grembiule.
Eppure per cambiare davvero le cose non ci vorrebbe molto, come spiega Perotti. Basterebbe che i Ministri si limitassero a far valutare la produzione scientifica delle diverse facoltà e usassero queste valutazioni nel distribuire i fondi alle diverse sedi. E’ una questione di sopravvivenza: se i soldi all’università arrivano solo a condizione di generare un congruo numero di prodotti di ricerca (brevetti, pubblicazioni scientifiche, etc.), gli stessi baroni di oggi saranno i primi a preoccuparsi domani di assumere i ricercatori migliori sulla piazza, anziché cercare di far passare chi ha fatto per anni il loro schiavo rinunciando a qualsiasi ambizione scientifica.
L’università ha un ruolo fondamentale nel promuovere l’innovazione e la crescita. Secondo alcuni studi, un incremento del 3 per cento del numero di persone con un Ph.D in un paese porta all’aumento del numero di patenti e della produttività dell’1 per cento all’anno. Si tratta di un effetto molto rilevante, quando cumulato nel corso del tempo. La qualità di un’Università è fatta dalle competenze di chi vi svolge ricerca e attività didattica. I docenti universitari italiani sono tra i più vecchi d’Europa. Presto andranno in pensione. Questo ci offre l’opportunità unica di rinnovare il nostro corpo docente, portandolo alla frontiera della ricerca, da cui siamo oggi lontani anni luce. C’è un mercato vastissimo di ricercatori stranieri, oggi una rarità nell’università italiana (solo l’1 per cento del corpo docente), cui attingere.
Ma il ministro Gelmini, seguendo a ruota il suo predecessore, ha deciso di tenere nel cassetto l’unica valutazione dell’università italiana, compiuta nel 2006 sulla base di criteri oggettivi, utilizzati a livello internazionale. Nè ci risulta che sia intenzionata ad avviare nuove valutazioni o ad usare quelle esistenti nell’allocare una quota significativa dei fondi pubblici alle università. Si limita a intervenire a convegni invitando tutti a fare meglio il proprio mestiere, richiamandosi alla moralità nel reclutamento di nuovi docenti. In un paese come il nostro questi richiami, per quanto animati dalle migliori intenzioni, sono destinati a cadere nel vuoto.
Non c’è purtroppo sanzione sociale per chi concepisce la cattedra come il trono di una dinastia. Ho scoperto proprio in questi giorni che esiste in questo nostro strano paese un centro studi che si chiama "Di padre in figlio". Offre agli imprenditori consulenza nell’affrontare "le problematiche relative alla complessa gestione delle problematiche relative (repetita iuvant?) a famiglia, azienda e patrimonio". È una creatura recente, meno di 10 anni alle spalle e un fulgido avvenire. L’unica cosa che non mi stupisce è che si avvalga del contributo di professori universitari. Sono, in effetti, i massimi esperti in materia.
Il professore senese ha preso più consensi di Alberto Zuliani e Fabrizio Vestroni
Università, Pierluigi Frati nuovo rettore della Sapienza di Roma
Eletto con 2.220 preferenze, vale a dire il 53% dei voti. Già preside della facoltà di Medicina dal 1990, succede a Renato Guarini alla guida dell’ateneo più grande d’Europa
Roma, 3 ott. (Adnkronos Salute/Ign) - Pier Luigi Frati, già preside di Medicina all’università Sapienza di Roma, è il nuovo rettore dell’ateneo più grande d’Europa. Succede a Renato Guarini. Interpellato dall’Adnkronos Salute, il nuovo rettore commenta soddisfatto: "È andata...".
"Nello specifico - rende noto l’ufficio stampa della Sapienza di Roma - Frati ha ottenuto 2.220 preferenze, pari al 53% dei voti. Alle sue spalle, con 1.133 consensi (27,15%), Alberto Zuliani, professore di statistica presso la facoltà di Economia. ’Medaglia di bronzo’ per Fabrizio Vestroni, preside di Ingegneria, che ha ottenuto 597 voti (14,3%). Le schede schede bianche sono state in totale 143, pari al 3,4% dei votanti.
Hanno votato complessivamente 6.171 elettori, pari al 61,8% degli aventi diritto. I risultati elettorali dovranno ora essere certificati dalla Commissione elettorale centrale.
Il nuovo rettore della Sapienza è nato a Siena il 10 aprile 1943. Agli inizi della sua carriera, Frati è stato assistente ordinario e professore incaricato alla facoltà di Medicina e scienze dell’università di Perugia, per poi passare alla facoltà di Farmacia e di Medicina e Chirurgia dell’università di Roma. Professore ordinario di Patologia generale-medicina molecolare dal 1980 alla Sapienza di Roma, ha diretto il dipartimento di Medicina sperimentale dal 1985 al 1992.
Preside della I facoltà di Medicina e Chirurgia dal 1990, il nuovo rettore, che guiderà il più grande ateneo d’Europa fino al 2012, ha ricoperto anche la carica di presidente della Conferenza dei presidi delle facoltà di Medicina e chirurgia, Biotecnologie mediche e Scienze motorie. Prorettore vicario della Sapienza dal 2005 e componente del Consiglio universitario nazionale dal 1979 al 1998. Dal 1993 al 1994 è stato vicepresidente della Commissione unica del farmaco, e dal 1994 al 1998 presidente del Consiglio superiore di sanità. Tra le cariche ricoperte, anche quella di direttore del programma di biologia molecolare dei tumori del Consiglio nazionale delle ricerche, dal 1982 al 1994.
Frati è anche autore di oltre 350 pubblicazioni su riviste internazionali, su argomenti di medicina molecolare e biotecnologie applicate al controllo del differenziamento e proliferazione cellulare, con particolare attenzione alle applicazioni cliniche in terapia antiblastica e alla medicina rigenerativa.
APPELLO
S.O.S ACQUA
di Alex Zanotelli
Cosenza ,15 agosto 2008
Nel cuore di questa estate torrida e di questa terra calabra ,lavorando con i giovani nelle cooperative del vescovo Brigantini ( Locride) e dell’Arca di Noè ( Cosenza ), mi giunge, come un fulmine a ciel sereno, la notizia che il governo Berlusconi sancisce la privatizzazione dell’acqua. Infatti il 5 agosto il Parlamento italiano ha votato l’articolo 23 bis del decreto legge numero 112 del ministro G. Tremonti che nel comma 1 afferma che la gestione dei servizi idrici deve essere sottomessa alle regole dell’economia capitalistica. Tutto questo con l’appoggio dell’opposizione , in particolare del Pd ,nella persona del suo corrispettivo ministro-ombra Lanzillotta. (Una decisione che mi indigna , ma non mi sorprende, vista la risposta dell’on Veltroni alla lettera sull’acqua che gli avevo inviata durante le elezioni!).
Così il governo Berlusconi , con l’assenso dell’opposizione, ha decretato che l’Italia è oggi tra i paesi per i quali l’acqua è una merce.
Dopo questi anni di lotta contro la privatizzazione dell’acqua con tanti amici,con comitati locali e regionali, con il Forum e il Contratto Mondiale dell’ acqua ......queste notizie sono per me un pugno allo stomaco, che mi fa male. Questo è un tradimento da parte di tutti i partiti ! Ancora più grave è il fatto , sottolineato dagli amici R.Lembo e R. Petrella, che il “Decreto modifica la natura stessa dello Stato e delle collettività territoriali. I Comuni, in particolare , non sono più dei soggetti pubblici territoriali responsabili dei beni comuni, ma diventano dei soggetti proprietari di beni competitivi in una logica di interessi privati, per cui il loro primo dovere è di garantire che i dividendi dell’impresa siano i più elevati nell’interesse delle finanze comunali .“ Ci stiamo facendo a pezzi anche la nostra Costituzione!
Concretamente cosa significa tutto questo? Ce lo rivelano le drammatiche notizie che ci pervengono da Aprilia (Latina) dimostrandoci quello che avviene quando l’acqua finisce in mano ai privati. Acqualatina , (Veolia , la più grande multinazionale dell’acqua ha il 46,5 % di azioni.) che gestisce l’acqua di Aprilia, ha deciso nel 2005 di aumentare le bollette del 300%! Oltre quattromila famiglie da quell’anno, si rifiutano di pagare le bollette ad Acqualatina , pagandole invece al Comune. Una lotta lunga e dura di resistenza quella degli amici di Aprilia contro Acqualatina! Ora nel cuore dell’estate, Acqualatina manda le sue squadre di vigilantes armati e carabinieri per staccare i contatori o ridurre il flusso dell’acqua. Tutto questo con l’avallo del Comune e della provincia di Latina ! L’obiettivo? Costringere chi contesta ad andare allo sportello di Acqualatina per pagare.
E’ una resistenza eroica e impari questa di Aprilia: la gente si sente abbandonata a se stessa. Non possiamo lasciarli soli!
L’ estate porta brutte notizie anche dalla mia Napoli e dalla regione Campania. L’assessore al Bilancio del Comune di Napoli, Cardillo lancia una proposta che diventerà operativa nel gennaio 2009. L’ Arin, la municipalizzata dell’acqua del Comune di Napoli, diventerà una multi-servizi che includerà Napoligas e una compagnia per le energie rinnovabili. Per far digerire la pillola, Cardillo promette una “Robintax” per i poveri ( tariffe più basse per le classi deboli). Con la privatizzazione dell’acqua si creano necessariamente cittadini di seria A ( i ricchi ) e di serie B ( i poveri), come sostiene l’economista M.Florio dell’università degli studi di Milano.
Sono brutte notizie queste per tutto il movimento napoletano che nel 2006 aveva costretto 136 comuni di ATO 2 a ritornare sui propri passi e a proclamare l’acqua come bene comune. Invece dell’acqua pubblica, l’assessore Cardillo sta forse preparando un bel bocconcino per A2A ( la multiservizi di Brescia e Milano ) o per Veolia, qualora prendessero in mano la gestione dei rifiuti campani? Sarebbe il grande trionfo a Napoli dei potentati economico-finanziari.
A questo bisogna aggiungere la grave notizia che a Castellamare di Stabia (un Comune di centomila abitanti della provincia di Napoli ), 67 mila persone hanno ricevuto, per la prima volta, le bollette dalla Gori , (una SPA di cui il 46% delle azioni è di proprietà dell’ Acea di Roma). Questo in barba alle decisioni del Consiglio Comunale e dei cittadini che da anni si battono contro la Gori, che ormai ha messo le mani sui 76 Comuni Vesuviani ( da Nola a Sorrento).
“Non pagate le bollette dell’acqua!”, è l’invito del Comitato locale alle famiglie di Castellamare. Sarà anche qui una lotta lunga e difficile, come quella di Aprilia. Mi sento profondamente ferito e tradito da queste notizie che mi giungono un po’ dappertutto.
Mi chiedo amareggiato: Ma dov’è finita quella grossa spinta contro la privatizzazione dell’acqua che ha portato alla raccolta di 400 mila firme di appoggio alla Legge di iniziativa popolare sull’acqua ?
Ma cosa succede in questo nostro paese? Perchè siamo così immobili? Perchè ci è così difficile fare causa comune con tutte le lotte locali, rinchiudendoci nei nostri territori? Perché il Forum dell’acqua non lancia una campagna su internet, per inviare migliaia di sollecitazioni alla Commissione Ambiente della Camera dove dorme la Legge di iniziativa popolare sull’acqua?
Non è giunto il momento di appellarsi ai parlamentari di tutti i partiti per far passare in Parlamento una legge-quadro sull’acqua?
Dobbiamo darci tutti una mossa per realizzare il sogno che ci accompagna e cioè che l’acqua è un diritto fondamentale umano, che deve essere gestita dalle comunità locali con totale capitale pubblico, al minor costo possibile per l’utente, senza essere S.P.A . “L’acqua appartiene a tutti e a nessuno può essere concesso di appropriarsene per trarne “illecito” profitto- ha scritto l’arcivescovo emerito di Messina G. Marra. Pertanto si chiede che venga gestita esclusivamente dai Comuni organizzati in società pubblica, che hanno da sempre il dovere di garantirne la distribuzione per tutti al costo più basso possibile .”
Quando ascolteremo parole del genere dalla Conferenza Episcopale Italiana ? Quand’è che prenderà posizione su un problema che vuole dire vita o morte per le nostre classi deboli ma soprattutto per gli impoveriti del mondo? (Avremo milioni di morti per sete!) E’ quanto ha affermato nel mezzo di questa estate, il 16 luglio, il Papa Benedetto XVI:” Riguardo al diritto all’acqua, si deve sottolineare anche che si tratta di un diritto che ha un proprio fondamento nella dignità umana. Da questa prospettiva bisogna esaminare attentamente gli atteggiamenti di coloro che considerano e trattano l’acqua unicamente come bene economico.”
Quand’è che i nostri vescovi ne trarranno le dovute conseguenze per il nostro paese e coinvolgeranno tutte le parrocchie in un grande movimento in difesa dell’acqua ? L’acqua è vita. “L’acqua è sacra, non solo perché è prezioso dono del Creatore- ha scritto recentemente il vescovo di Caserta, Nogaro - ma perché è sacra ogni persona , ogni uomo, ogni donna della terra fatta a immagine di Dio che dall’acqua trae esistenza, energia e vita.” Sull’acqua ci giochiamo tutto!
Partendo dal basso, dalle lotte in difesa dell’acqua a livello locale, dobbiamo ripartire in un grande movimento che obblighi il nostro Parlamento a proclamare che l’acqua non è una merce, ma un diritto di tutti. Diamoci da fare perché vinca la vita!
Alex Zanotelli
Università. Protestano i rettori: «Così peggiora la ricerca e si impedisce l’accesso in ruolo ai giovani»
«Il Paese deve sapere che con tale misura, se mantenuta e non modificata, si determinerà una condizione finanziaria del tutto incontrollabile e ingestibile, con effetti dirompenti per gli atenei». Queste il duro giudizio della Assemblea della Conferenza dei rettori (Crui) sulla manovra finanziaria predisposta dal Governo e appena votato dalla Camera dei Deputati. In una nota diffusa al termine della riunione, la Crui «ribadisce la valutazione fortemente negativà al provvedimento». «Il decreto 112 - si legge in una nota - renderà sempre più difficile l’ingresso nei ruoli di giovani di valore; peggiorerà il livello di funzionalità delle Università, anche come conseguenza dell’ulteriore mortificazione delle condizioni retributive del personale tecnico e amministrativo; diventerà sempre più difficile se non impossibile reggere alla concorrenza/collaborazione in atto a livello internazionale; si annullerà di fatto il fondamento stesso dell’autonomia universitaria, come definita negli anni ’90, basata sulla gestione responsabile dei budget». I rettori affrontano anche il tema della trasformazione degli Atenei in fondazioni: «D’altra parte evidente che, in un simile contesto, perde qualsiasi credibilità anche la proposta, che andrebbe in ogni caso ben altrimenti approfondita e verificata nelle sue implicazioni e nella sua effettiva attuabilità, di trasformare le università in fondazioni».
* l’Unità, 25.07.2008
Un colpo all’Università
di Fabio Mussi (l’Unità, 24.07.2008)
La sorte dell’università italiana è segnata, allo stato dei fatti. Segnata da un decreto «finanziario», il 112 del 25 giugno, presentato da Tremonti e approvato in nove minuti dal Consiglio dei ministri, che mina una parte essenziale delle conquiste sociali e culturali di età repubblicana. Tre o quatto norme, quasi distrattamente gettate qua e là nel testo, bastano a cambiare radicalmente, in una direzione che sembrerebbe - sembrerebbe... - priva di senso, l’università e la ricerca scientifica. Fatto questo, non c’è più bisogno di portare in Parlamento alcunché. La cosa di cui mi pare ci sia ancora poca consapevolezza, nel campo di quello che fu il centrosinistra, è che patto costituzionale e patto sociale stanno, sotto la potente e debolmente contrastata spinta della destra, rovinando insieme.
Il decreto prevede innanzitutto un costante definanziamento per i prossimi cinque anni. Cinque. Sono gli anni in cui l’Italia dovrebbe onorare gli impegni presi a Lisbona: costruire lo «spazio europeo dell’università e della ricerca», portare gli investimenti al 4.5% del pil. Parlo naturalmente non di spesa, ma di investimenti.
Anche a prescindere dal valore assoluto, fuori da una logica di merce, della conoscenza, è noto che il principale fattore di produttività economica si chiama istruzione, formazione superiore, ricerca. Ci sono stime internazionali: ogni dollaro, o euro, che metti nella ricerca, ne produce tre. Gli obiettivi di Lisbona, che altri Paesi europei hanno già raggiunto, o fortemente avvicinato, sono per il nostro irraggiungibili: ci vorrebbero nei prossimi anni incrementi fino a 40 miliardi di euro l’anno. Scendere, assomiglia al suicidio di una nazione. Formazione superiore e ricerca sono assolutamente sottofinanziati: 0.8% sul pil l’Università, 1.1% la ricerca scientifica (era 1.4%anni fa). Lisbona no, ma almeno le medie europee, almeno le medie di area OCSE! Si tratta per l’Italia di una cifra intorno ai 10 miliardi di euro aggiuntivi. Non dimenticando che negli ultimi venti anni c’è stata nel mondo una impressionante crescita degli investimenti, di cui sono stati protagonisti Stati Uniti, Cina e India, a seguire l’Europa, ma una moltitudine ancora di Paesi di tutti i continenti. Spesa pubblica e privata: in Italia lo Stato ci mette un po’ meno degli altri Stati della Ue, le imprese italiane, mediamente, clamorosamente meno delle loro sorelle europee.
Nei venti mesi del governo Prodi questa è stata una questione molto combattuta. Lo dico per personale esperienza. Quando si decise, con il primo provvedimento finanziario del 2006, con il mio dissenso di ministro, il taglio dei consumi intermedi -che poteva valere intorno ai 100 milioni di euro, norma in extremis poi revocata, si accese un torrido dibattito pubblico, paginate di giornali. Ora Tremonti- Gelmini prevedono un taglio di circa 1.5 miliardi euro nel quinquennio, e si sono letti qua e là degli articoli (per esempio sull’Unità), rari Nantes nel mare magno di una informazione sempre più conformistica e d’intrattenimento, ma nessuna discussione pubblica all’altezza del problema che si apre. Il governo di centrosinistra, nelle sue due finanziarie, aveva stabilizzato la spesa, anzi l’aveva un po’ incrementata, accompagnandola con misure di serietà. Insufficienti? Insufficienti. Con la destra si scende d’un colpo sotto il livello di sopravvivenza. Si apre semplicemente una lotta darwiniana tra istituzioni universitarie e centri di ricerca. Di dove cominceranno i tagli? Certamente riguarderanno tanto la didattica quanto la ricerca, e saranno colpiti i più giovani. Vedo che ci sono gà atenei che dichiarano di non poter rispettare la norma dell’aumento delle borse di dottorato, che era garantito dal Fondo di finanziamento 2008. Lo stesso passaggio dalla biennalità alla triennalità degli scatti di carriera (che non ha nulla a che fare con la premialità del merito e dell’impegno) colpirà soprattutto i docenti e i ricercatori più giovani, all’inizio della carriera. Una cosa è sicura: aumenteranno fortemente le tasse. E così, per un certo numero di nonni che potranno comprare qualche pacco di pasta al supermercato con la social card , ci saranno milioni di nipoti le cui famiglie dovranno versare molto molto di più. Però, com’è noto, la destra non mette le mani in tasca dei cittadini, mai e per definizione...
Ma la trappola mortale per giovani, nel decreto del governo Berlusconi, è la norma che limita il turn over al 20% delle uscite. Abbiamo il corpo docente universitario più vecchio del mondo, organizzato in una struttura di ordinari, associati e ricercatori, bizzarra e altrove sconosciuta. In pochi anni, almeno la metà dei docenti in attività andrà in pensione. Una occasione importante di riequilibrio e di rinnovamento. Se ne entra solo uno ogni cinque che escono, si brucerà una generazione intera di giovani di talento, quelli stessi che già oggi a migliaia emigrano, senza essere compensati da loro coetanei che arrivano da altri Paesi. Si ridurrà drasticamente il corpo docente, senza ridurne significativamente l’età media. Nella legge che proibisce ai giornali di pubblicare certe notizie giudiziarie in loro possesso, sarebbe opportuno allora fare un emendamento: "Di qui in avanti è proibito, per decenza, scrivere e stampare la frase: fuga dei cervelli".
È evidente che tutta questa roba non ha niente a che fare con una strategia della qualità e di innalzamento degli standard del sistema universitario. E che le nuove norme creeranno un groviglio inestricabile di problemi. Sono sicuro che lo sa bene Giulio Tremonti, visore globale e autore della geniale irresistibile gag nella quale appaiono quali responsabili del mercatismo liberista l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e il comunismo. Lo vede talmente bene che una soluzione l’ha trovata: le università possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato. A parte il fatto che il trasferimento diretto dallo Stato è in Italia due punti sotto la media europea (documentazione presentata al Meeting di Londra sul "Processo di Bologna" nel giugno 2007), e già molte università , oltre al gettito tutt’altro che trascurabile delle tasse degli studenti, già attingono a rilevanti risorse autoprocurate. A parte il fatto che in Italia non ci sono né i Rockfeller che mettono soldi nelle Foundations, né i Guggenheim che li mettono nell’arte, né mecenati che elargiscono con liberalità alla scienza e alla cultura (anche lì. negli Usa, non sempre disinteressatamente, magari per comprarsi l’accesso a prestigiose ed esclusive università per i figli bighelloni).
Si capisce l’idea del governo di destra: privatizzare. E magari si muoverà di certo qualche privato (e magari qualche privato che prende molti soldi dallo Stato, magari un qualche otto per mille).
Il punto è che, con tutti gli innegabili guai dei grandi sistemi pubblici, l’eccellenza è pubblica: nella sanità, nella scuola, nell’università, nella ricerca. Che qualità, merito ed efficienza siano una esclusiva del privato, non è un fatto, ma, come diceva Norman Mailer, un "fattoide", cioè una balla: Una balla di successo, ma una balla. Tutti i nostri sistemi sono misti, c’è il pubblico e c’è il privato. Quando relazioni sono pulite, questo è un valore. Ma se si smantella il pubblico -in quei territori che hanno a che fare per esempio con la salute, il patrimonio culturale e la conoscenza- non è il moderno che arriva, è il passato che torna. Come è tornato il passato remoto con il "Lodo Alfano", un pezzo di diritto medievale scagliato nel presente. Bisogna muoversi, ora.
L’assemblea straordinaria non approva il bilancio preventivo Docenti e ricercatori minacciano scioperi e manifestazioni
La Sapienza, anno a rischio
"Con i tagli impossibile lavorare"
Il rettore Guarini:"Sarà inevitabile aumentare le tasse universitarie"
ROMA - Il più grande ateneo italiano potrebbe non iniziare l’anno accademico 2008-2009. I tagli annunciati dal governo con il decreto legge del 25 giugno, che anticipa la manovra finanziaria, si scontrano con la ferma opposizione dei vertici dell’Università La Sapienza di Roma. Il rettore Renato Guarini ha convocato un’assemblea straordinaria aperta a tutti per discutere i provvedimenti da prendere sulla manovra del governo.
L’assemblea. Durante l’assemblea è stata approvata una mozione, preparata dal rettore vicario Luigi Frati, che boccia senza appello la manovra e stabilisce che "in queste condizioni non si può predisporre il bilancio preventivo del 2009". La mancata approvazione del bilancio viene motivata dal rettore secondo cui "il 90% del fondo di finanziamento ordinario statale è già destinato agli stipendi del personale accademico, se lo tagliano come dicono non ci saranno più i soldi neanche per quelli, figuriamoci per la ricerca e i progetti". Secondo i dati illustrati da Guarini, i tagli promossi dal governo, che nei piani dovrebbero permettere un risparmio di 1,4 miliardi di euro, colpiranno La Sapienza per un importo di circa 160 milioni, divisi tra i 116 milioni del taglio al fondo di funzionamento ordinario, i 7,5 mln in meno per la riduzione del fondo di trattamento accessorio e i 36 milioni che derivano dalla riduzione della progressione economica dei docenti.
"Dobbiamo ottenere la sospensione dell’applicazione del decreto 112 - ha tuonato Guarini - Avrà un impatto pericoloso, perchè prevede un taglio indiscriminato di fondi e costringerà gli atenei ad aumentare le tasse universitarie".
Gli studenti e i docenti. Una posizione quella del rettore, appoggiata anche da docenti e studenti che, dopo gli annunci degli scorsi giorni, si stanno già organizzando per manifestare contro il decreto legge. "Domani- spiega Marco Merafina, coordinatore nazionale dei ricercatori e senatore accademico della Sapienza- ci sarà in questo ateneo un’assemblea generale nazionale con rappresentanti da tutta italia in cui discuteremo anche della possibilità di non far partire il prossimo anno accademico.
Ricercatori e docenti hanno annunciato le loro modalità di protesta: i primi non accetteranno affidamenti, mentre i secondi si limiteranno al lavoro ordinario, togliendo la propria disponibilità ai carichi aggiuntivi. A rischio ci sarebbero il 30% delle lezioni.
La mozione della Sapienza arriverà giovedì alla riunione della Crui (conferenza dei rettori), da cui ci si attende una posizione unica sulla contestazione alla manovra.
* la Repubblica, 21 luglio 2008.
Si moltiplicano le critiche alle misure inserite nel dl che anticipa la Finanziaria
Chieste modifiche immediate, mentre c’è chi minaccia drastiche contestazioni
Università, la protesta dilaga
"Via i tagli o stop alle lezioni"
di ANDREA BETTINI *
ROMA - Contestazioni, minacce di bloccare lezioni, esami e sessioni di laurea, allusioni nemmeno troppo velate allo stop del prossimo anno accademico. Chi si attendeva un’estate di transizione ed un eventuale autunno di proteste, a quanto pare, era troppo ottimista. In molte università italiane è già iniziata la mobilitazione contro i tagli decisi dal governo il 25 giugno con il decreto che anticipa la manovra Finanziaria. Una protesta che sta dilagando e che, con toni e modalità diverse, coinvolge rettori, docenti, ricercatori e personale amministrativo.
Le spiegazioni e le rassicurazioni del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che di fronte alle prime polemiche ha parlato di "scelte dolorose ma indispensabili" e di "tagli sulla base di indicatori di merito", sembrano non essere riuscite a fermare le critiche. Mentre si moltiplicano le assemblee e gli allarmi per il futuro dell’università, la richiesta dei contestatori è sostanzialmente unanime: stralciare dal decreto alcune delle principali novità oppure modificarle durante l’iter parlamentare per la conversione in legge. Una posizione che sarà probabilmente ribadita il 22 luglio a Roma, quando alla Sapienza si svolgerà un’assemblea nazionale dei rappresentanti di tutte le componenti universitarie.
I punti contestati. A preoccupare il mondo accademico sono diversi provvedimenti. Il più criticato è la graduale riduzione, collegata ad una forte stretta sulle assunzioni, del Fondo di finanziamento ordinario, con risparmi di circa 1,5 miliardi di euro fino al 2013. Contestate anche le misure sugli stipendi, con scatti di anzianità dei docenti che da biennali diventeranno triennali ed una riduzione del Fondo di contrattazione integrativa del personale amministrativo. Molta perplessità, infine, anche sulla possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni di diritto privato.
"Interventi inaccettabili". Dopo la bocciatura unanime da parte della Conferenza dei rettori, secondo la quale i tagli porteranno inevitabilmente il sistema al dissesto, dai vertici delle università continuano a piovere critiche nei confronti del decreto legge. Una mozione approvata ieri dai Senati accademici degli atenei toscani definisce interventi gravi e "inaccettabili" la riduzione dei trasferimenti statali e la limitazione "improvvisa, indiscriminata e pesante" del turnover dei dipendenti e chiede lo stralcio dal decreto delle norme che si riferiscono all’università. Venerdì scorso, invece, i quattro rettori delle università dell’Emilia-Romagna hanno denunciato che la "riduzione drastica delle risorse finanziarie e umane, oltre a mortificare l’intero insieme di professionalità e competenze all’università, mette a serio rischio la funzione didattica e nel contempo la sostenibilità delle attività di ricerca" e hanno convocato per il 21 luglio una riunione straordinaria congiunta dei quattro Senati accademici e dei consigli di amministrazione.
La mobilitazione. In molte università si stanno già mettendo a punto forme concrete di lotta. Ieri un’assemblea generale dei lavoratori e degli studenti degli atenei napoletani, indetta da Flc Cgil, Cisl Università e Uil Pa-Ur, ha deciso, tra l’altro, l’astensione "a tempo indeterminato dei docenti e ricercatori dalla partecipazione a organi collegiali" ed il ritiro della "disponibilità a ricoprire incarichi didattici per il prossimo anno accademico". Il 9 luglio, invece, l’assemblea del personale delle università "Cà Foscari" e Iuav di Venezia ha ipotizzato "il rifiuto di svolgere carichi didattici superiori alle richieste di legge, il blocco degli esami, delle sessioni di laurea e delle lezioni". Lo stesso giorno, all’università di Sassari, l’assemblea dei docenti ha invece dichiarato lo stato di agitazione dell’ateneo e non ha escluso "per quanto con doverose riserve ed a fronte di un ulteriore irrigidimento della controparte, il ricorso ad azioni più eclatanti quali la possibilità del blocco degli esami di profitto e di laurea".
"A rischio il prossimo anno accademico". Una delle prese di posizione più nette nei confronti delle decisioni del governo è quella del Senato accademico dell’università "La Sapienza" di Roma. Martedì 8 luglio, prospettando un "danno grave per l’avvenire dei giovani e per lo sviluppo del Paese", ha chiesto lo stralcio della parte del decreto relativa all’università e ha indetto una giornata nazionale di protesta dicendosi consapevole "che in queste condizioni non sarà possibile dare inizio al prossimo anno accademico".
La petizione online. Il Coordinamento Giovani Accademici, intanto, ha pubblicato sul proprio sito internet una petizione in cui denuncia tra l’altro che la stretta sugli stipendi ridurrebbe i compensi annui lordi a fine carriera di 16mila euro per i professori ordinari, di 11mila euro per gli associati e di 7mila per i ricercatori. Il documento, che chiede un nuovo approccio nei confronti dell’università italiana, è già stato sottoscritto da più di 3.100 tra docenti, ricercatori e studenti preoccupati per il proprio futuro e per quello degli atenei.
* la Repubblica, 15 luglio 2008.
I rettori denunciano. Tagli ai fondi e un tentativo di privatizzazione
Tremonti e il decreto «affossa università»
di Pietro Greco (l’Unità, 14.07.2008)
Tagli al Fondo di finanziamento ordinario delle università di 1 miliardo e 443 milioni da qui al 2013. Sostanziale blocco del turn-over: per ogni 10 docenti in uscita solo 2 potranno essere sostituiti. Possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Per la CRUI, la Conferenza dei rettori delle università italiane, non c’è dubbio: «La prospettiva che emerge chiaramente dalla manovra è quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale».
La manovra che si accinge a realizzare la più radicale riforma dell’università mai effettuata nel nostro Paese e a rivoltare come un calzino il sistema italiano dell’alta educazione è il decreto-legge n. 112 elaborato dal Ministro dell’economia Giulio Tremonti e approvato il 25 giugno 2008 nel famoso Consiglio dei Ministri durato 9 minuti.
Il decreto di Tremonti potrebbe essere ribattezzato «affossa università pubblica» per almeno tre diverse considerazioni. La prima riguarda, appunto, il taglio al Fondo di finanziamento ordinario con cui lo Stato trasferisce i soldi alle università. Questo Fondo ammonta a circa 7 miliardi di euro. Esso serve, per oltre l’88%, a coprire le spese di personale. Il decreto prevede tagli progressivi a questo Fondo di: 63,582 milioni nel 2009; 190,727 nel 2010; 316,622 nel 2011; 417,077 nel 2012; 455,240 nel 2013. Per un totale di 1,443 miliardi in cinque anni.
Il combinato disposto dei tagli e degli aumenti automatici delle spese per gli stipendi del personale (scatti di anzianità previsti dalla legge) farà sì che già nel 2009 oltre il 90% del Fondo di finanziamento ordinario sarà assorbito dalle spese per il personale e che, nel 2013, si andrà oltre il 100%. In altri termini le università non avranno garantiti i soldi per pagare la bolletta della luce e del riscaldamento o per comprare la carta delle fotocopie. Sarà il collasso. Evitabile in un’unica maniera: acquisire fondi privati. O, in maniera improbabile, dalle imprese: che come si sa non hanno in Italia alcuna vocazione alla ricerca e alla formazione. O, come è più probabile, aumentando la retta di iscrizione degli studenti e accelerando l’espulsione dalle università dei giovani appartenenti a famiglie più povere.
Il secondo elemento è il sostanziale blocco del turn-over. Per ogni 10 docenti che andranno in pensione da qui al 2011 (e saranno tanti, vista la loro età media molto elevata), solo 2 potranno essere sostituiti. A partire dal 2012, le sostituzioni possibili saliranno al 50%: uno su due. La piccola università di Udine ha fatto una simulazione. Da qui al 2013, andranno in pensione in quell’ateneo 57 unità di personale. Potranno essere sostituite solo da 13 persone. Meno docenti con minori dotazioni: la qualità dell’offerta didattica nelle università pubbliche italiane è destinata, dunque, a peggiorare. Non è una bella notizia. Anche perché gli investimenti che il nostro paese riserva all’alta educazione già oggi non superano lo 0,88% del Pil: e sono, dunque, un terzo in meno rispetto alla media europea, due terzi in meno rispetto al sistema universitario americano. In questo momento anche la Germania e la Francia stanno rivedendo la loro politica universitaria. Le riforme sono diverse. Ma entrambi aumentano i fondi.
Ma il decreto di Tremonti contiene un ulteriore passaggio. Si dice che le università italiane - se vogliono - potranno trasformarsi in fondazioni di diritto privato. L’idea è chiara. Lo Stato si ritira progressivamente dal settore dell’alta educazione e lascia le università italiane libere di attingere sul mercato i fondi di cui hanno bisogno. Insomma, come rileva il rettore di Udine, il decreto-legge è un frettoloso tentativo di privatizzare il sistema universitario italiano. Il completo ribaltamento di un modello - quello dell’università pubblica - che da almeno un paio di secoli caratterizza l’alta educazione in Italia e in Europa. Sorprendono tre cose, in questa frettolosa operazione.
Primo: che la riforma universitaria avvenga per volontà del Ministro dell’Economia e senza una parola da parte del Ministro dell’Istruzione.
Secondo: che avvenga in maniera nascosta, senza un’ampia e approfondita discussione in Parlamento.
Terzo: che l’opinione pubblica non se ne curi affatto. Solo i rettori si sono mobilitati. E solo il Presidente Giorgio Napolitano nei giorni scorsi ha espresso il suo «vivo interesse per le questioni e per le idee» che gli sono state illustrate da una delegazione di scienziati dell’Osservatorio della Ricerca. Il resto d’Italia è ignaro o si comporta come se lo fosse. Segno che il nostro paese non ha ancora acquisito piena consapevolezza né del proprio declino né, tanto meno, della cause che lo hanno scatenato.
1938, fuga dei cervelli, dono del Duce agli Usa
di Pietro Greco (l’Unità 14.07.2008)
Dalle leggi razziali al Cern. Due anniversari ci ricordano la dissoluzione della comunità scientifica europea e la fine della sua egemonia. Ma un terzo ne rievoca la rinascita nel dopoguerra, grazie all’impegno di Edoardo Amaldi
Il 14 luglio 1938, settant’anni fa, il Ministro degli Esteri del governo Mussolini, Galeazzo Ciano, annota sul suo diario: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».
L’indomani il Giornale d’Italia sotto il titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», pubblica la prima versione del «Manifesto della Razza» firmato da dieci scienziati italiani - tra cui primeggiano l’onorevole Sabato Visco, fisiologo, e il senatore Nicola Pende, endocrinologo - il cui incipit è destinato a diventare tristemente famoso: «Le razze umane esistono». Il manifesto sostiene - senza alcuna base scientifica - che l’umanità, appunto, si divide in razze; che queste razze sono diverse per capacità intellettuali dei propri membri; che esiste anche una «razza italiana» che, naturalmente, è più capace di altre e che bisogna tutelarla da pericolose contaminazioni genetiche. In particolare va tutelata dalle contaminazioni di sangue con una razza palesemente inferiore, quella degli ebrei.
L’ignominia intellettuale del manifesto - che il Duce si vanta di aver contribuito a redigere in prima persona - si traduce ben presto in pratica discriminazione. Già nel mese di settembre il governo di Benito Mussolini vara una serie di leggi che portano all’espulsione degli ebrei dalle scuole e dagli incarichi pubblici. Fu una scelta sciagurata, che ebbe conseguenze tragiche per gli ebrei (e i rom), per l’intero paese e, anche, per la scienza italiana. In poche settimane, per esempio, viene dissolta la fisica di punta. Lasciano l’Italia, infatti, Bruno Rossi ed Enrico Fermi: due giovani che hanno portata rispettivamente la fisica dei raggi cosmici e la fisica nucleare a punte di assoluto valore mondiale. Le loro brillanti scuole, a Padova e a Roma, si dissolvono.
Non è difficile calcolare gli effetti negativi sulla scienza e sulla società italiane di quella successione di eventi. Ci aiutano, fra l’altro, altri due anniversari che ricordiamo questo medesimo anno. Il settantacinquesimo anniversario delle leggi razziali di Hitler, che avevano già prodotto conseguenze nefaste in Germania, e il centesimo anniversario della nascita di Edoardo Amaldi, che si assumerà gran parte dell’onere di ricostruire la scienza italiana ed europea dopo la guerra che devasterà l’Europa di lì a pochi mesi.
Cosa era successo, dunque, in Germania esattamente cinque anni prima? La successione è nota. Il 30 gennaio Hitler viene nominato cancelliere del Reich. Il 27 febbraio fa incendiare il Parlamento (Reichstag). Il 28 gennaio vara il «decreto dell’incendio del Reichstag» e, in nome della sicurezza nazionale, abolisce molti diritti civili. Il 7 aprile con il «paragrafo ariano» della «legge sul ripristino dell’impiego nel pubblico servizio» obbliga tutti coloro che non sono di razza ariana a lasciare ogni incarico pubblico. In breve l’obbligo viene esteso anche agli avvocati e ai medici «non ariani», che non possono più lavorare nei tribunali e negli ospedali. L’idea nazista è che la società tedesca deve essere divisa in due categorie: quella dei Volksgenossen (camerati della nazione), che appartengono alla comunità popolare, e quella dei Gemeinschaftsfremde (stranieri della comunità) che, invece, non appartengono alla storia e alla cultura della Germania. Agli stranieri della comunità appartengono: ebrei, zingari, portatori di handicap, asociali.
Il 14 luglio 1933, 75 anni fa, Hitler vara due nuove norme: una riguarda la revoca della naturalizzazione degli ebrei dell’Europa orientale che hanno avuto la cittadinanza tedesca dopo il 9 novembre 1918. L’altra è la sterilizzazione - «anche contro la volontà del soggetto» - dei portatori di presunte malattie ereditarie.
Negli anni successivi, fino al 1938, c’è uno stillicidio di leggi che accentuano sempre più le discriminazioni razziali. Ma già nel 1933 gli effetti di queste leggi sono evidenti. In primo luogo per la cultura tedesca, fino ad allora leader in Europa. Nei giorni successivi al provvedimento di aprile, infatti, ben 1.200 professori universitari (il 14% dell’intero corpo docente) deve lasciare l’insegnamento. La gran parte emigra all’estero, riparando soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
A soffrirne è in primo luogo la scienza. Da Einstein (già andato via) a Max Born, da James Franck a Fritz Haber lascia infatti la Germania, perché di origine ebrea, una moltitudine di cervelli, quantificata nel 20% degli scienziati e nel 25% dei Nobel scientifici. Non è solo una diaspora, è un vero e proprio ribaltamento polare. L’asse della scienza mondiale - da tre secoli saldamente centrato sull’Europa - si sposta per la prima volta nel Nord America. Giustamente gli storici americani Jean Medawar e David Pyke hanno parlato di «Hitler’s gift», del regalo di Hitler agli Stati Uniti.
Nel 1938, quando l’Italia di Mussolini si accinge a copiare la Germania di Hitler, tutto questo è già sostanzialmente evidente. La cultura di una parte decisiva dell’Europa è già stata distrutta. Mussolini vuole dare il suo ulteriore contributo a quel disastro. E, infatti, in poche settimane - come abbiamo detto - dissolve le due scuole scientifiche più brillanti del paese, quella di Enrico Fermi a Roma e quella di Bruno Rossi a Padova.
Ma dicevamo di un terzo anniversario che ricorre quest’anno. Che è legato ai primi due e che è di segno opposto. Di segno positivo. Nel 2008 ricorre infatti la nascita di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi di via Panisperna», che ha lavorato con Fermi. L’unico che resta in Italia. E che, sopravvissuto alla guerra, inizierà - a partire già dal 1943 - l’opera della ricostruzione. In Italia e in Europa.
Dalle macerie, che non sono solo metaforiche, Amaldi si muoverà con lucido impegno lungo una serie di linee molto articolate, riconducibili a due grandi obiettivi: fare di necessità virtù e con poche risorse finanziare riportare l’Italia all’avanguardia della fisica mondiale; fare della scienza una leva per la pace in Europa e per la riconquista della leadership scientifica al nostro continente, nell’ambito di una sana competizione solidale col resto del mondo. Due obiettivi che, pur nel mutare delle situazioni, restano più che mai attuali.
Amaldi adotta una lucida strategia per il rilancio italiano. Il paese deve puntare tutte le sue risorse (che sono soprattutto umane) su pochi obiettivi di assoluto prestigio. Ma in cui acquisire una forte indipendenza. Gli obiettivi che Amaldi fissa sono: la fisica dei raggi cosmici nel campo della fisica di base; l’acquisizione di un know how di tutta la filiera del nucleare civile - dalla scienza di base alle applicazioni tecnologiche più spinte - nel campo della fisica applicata per conferire al paese una totale indipendenza in uno dei settori strategici dell’energia; fare più in generale della scienza la leva per portare l’Italia nel novero delle economie più sviluppate. A oltre sessant’anni dall’elaborazione di questa strategia, possiamo dire che Amaldi raggiunge solo il primo degli obiettivi che si prefigge: la fisica italiana ritorna presto tra le migliori al mondo. Gli altri due obiettivi: l’indipendenza energetica fondata su un know how autonomo e un’economia fondata sulla conoscenza, non verranno centrati. E non certo per colpa di Amaldi.
Il quale, invece, ha grande successo lungo l’altro percorso individuato: il ruolo della scienza in Europa. Egli infatti si fa promotore di un grande centro europeo di ricerca, che da un lato possa competere alla pari con Stati Uniti e Unione Sovietica. E dall’altro favorisca finalmente la pace tra i popoli di un continente devastato dai conflitti. In questo riesce, vincendo le resistenze di suoi illustri colleghi, del calibro per intenderci dell’americano Isidor Rabi e del danese Niels Bohr.
Quando, negli anni ‘50 dello scorso secolo, nasce a Ginevra, il Cern, il Centro di ricerca in fisica nucleare voluto da Amaldi, è la prima istituzione comune realizzata dai paesi europei usciti dalla guerra - il primo nucleo di condensazione dell’Unione europea - e il fisico italiano è il suo primo direttore generale.
Oggi il Cern di Ginevra è il più grande laboratorio di fisica al mondo e svolge le ricerche più avanzate nel suo settore. Un piccolo, grande monumento alla nuova Europa che ha saputo superare con progetti di pace e di integrazione culturale la sua pagina più buia: quella della discriminazione razziale.
La fine dello stupore e la fine dell’Università
di Michele Ciliberto (l’Unità, 12.07.2008)
Se un filosofo dovesse dire quale è uno dei segni più tipici della crisi che sta attraversando il nostro paese potrebbe dire, a mio giudizio, che è la fine dello stupore, della capacità di sorprendersi, che come è noto è la prima sorgente della filosofia. In Italia, oggi tutto è ricondotto nei parametri dell’ordinario, del quotidiano, del feriale: anche le cose più inconcepibili, fino a poco tempo fa, sono digerite, assorbite, metabolizzate senza alcuna difficoltà. Si è persa l’abitudine a dire di no, ad alzarsi in piedi: e di questo è una paradossale conferma il fatto che quando si protesta si usano toni esagitati, addirittura volgari, proprio perché protestare - dire no - è diventata un’eccezione, non più la norma di un comune vivere civile. Questo accade anche quando si tratta delle regole che devono strutturare la vita istituzionale politica e sociale del paese. È un altro segno della crisi profonda che attraversa l’Italia: le regole appaiono una sorta di optional che il potere può trasformare come meglio gli conviene, a seconda della situazione e perfino dei propri interessi privati. Si tratta di un tratto tipico del dispotismo, quale è già delineato in pagine straordinarie di Tocqueville nella Democrazia in America: il dispotismo si esprime attraverso una prevaricazione dell’esecutivo sugli altri poteri e con un ruolo sempre più ampio assunto dall’amministrazione, che diventa il principale motore dell’intera vita di un popolo. Le strutture dispotiche, infatti sono incontrollabili: una volta messe in movimento invadono progressivamente tutte le sfere della vita sociale ed intellettuale, compresa ovviamente l’alta cultura e le istituzioni attraverso cui essa si organizza.
È precisamente quello che è accaduto in queste ultime settimane con il decreto del 25 giugno del 2008: «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria». In esso è compresa una serie di disposizioni che muta profondamente l’assetto della Università pubblica italiana accelerandone la crisi e la definitiva decadenza. Si tratta, dunque, di disposizioni che avrebbero dovuto sollevare, se non uno scandalo, una discussione assai vivace; mentre invece, a conferma di quanto sopra dicevo, con poche eccezioni, il mondo dell’Università è rimasto silenzioso e seduto. Solo in questi ultimi giorni stanno cominciando ad affiorare prese di posizione più nette come quella del rettore dell’Università di Ferrara o del Preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Pisa, il quale ha rotto il muro del silenzio scrivendo una lettera aperta dal titolo: «L’università non è in svendita». Qualche protesta, in verità c’era stata già prima, ma aveva riguardato il fatto che il decreto interviene sugli scatti di carriera di tutti i docenti trasformandoli da biennali in triennali. Il problema è però ben più vasto e riguarda direttamente la costituzione interiore della Università italiana ponendo anche delicati problemi di ordine costituzionale. Mi limito a segnalare quelli che a mio giudizio sono i punti più importanti.
Le Università possono costituirsi, su base volontaria, come fondazioni di diritto privato, si dice nel Decreto, venendo incontro sul piano legislativo a un’istanza proveniente già da molto tempo soprattutto da settori industriali. Su Il Sole 24 Ore il provvedimento è stato infatti presentato da Giovanni Toniolo come «un’ottima notizia, la migliore che abbia sentito in quarant’anni di vita accademica». Personalmente, non ho dubbi che sul tema delle fondazioni si debba discutere ed aprire un forte dibattito, ma sapendo che - se non ben governata - questa è la via dell’integrale privatizzazione dell’Università italiana, con il rischio effettivo sia di ledere il principio della libertà dell’insegnamento sia di ritrovarsi in una situazione come quella americana nella quale accanto alle top ten esistono migliaia di università di livello inferiore ai nostri licei.
Ma che l’Università pubblica sia al centro di un vero e proprio attacco in queste disposizioni è dimostrato anche da altri elementi. È bloccato il turn over: si prevedono infatti assunzioni nei limiti del 20% per il triennio 2009-2011 e del 50% a partire dal 2012. Né è difficile anche in questo caso immaginare gli effetti di questa disposizione sull’Università in generale, specie su quelle medio - piccole e anche su quelle scuole di eccellenza che si giovano di un corpo di docenti limitato. Privatizzazione, da un lato; ricostituzione di una forte dimensione centralistica ,dall’altro: all’Università infatti resterà in cassa soltanto il 20% delle «quote» dei docenti andati in pensione, tutto il resto andrà all’amministrazione centrale la quale ha già tagliato il finanziamento di Euro 500.000.000 in tre anni.
Privatizzazione, centralizzazione (nonostante tutta la retorica sul federalismo) e, infine, colpi durissimi al personale docente per il quale si prevede una sorta di vera e propria rottamazione. La questione dello stato giuridico dei professori universitari è annosa; il Ministro Mussi era intervenuto su questa delicata questione riducendo, e di fatto avviando alla fine, il fuori ruolo, - decisione che si può anche comprendere se si tiene conto che si tratta di una vecchia disposizione, risalente a tutt’altra situazione, la quale consentiva ai professori di continuare a godere del proprio stipendio, pure essendo fuori dai ruoli dell’insegnamento.
Ma queste disposizioni si muovono su ben altro piano colpendo sia la possibilità che i professori universitari, come ogni altro dipendente dello Stato, hanno di poter continuare a lavorare- cioè insegnare - due anni dopo l’età pensionabile (a insegnare, sottolineo); sia la stessa possibilità che possano continuare a restare nei ruoli qualora abbiano compiuto quaranta anni di insegnamento, qualunque sia la loro età (compresi dunque quelli che sono andati presto in cattedra). Ad essere sintetici: prima il biennio era una scelta del docente; ora diventa una concessione dell’amministrazione da cui dipende. Allo stesso modo è l’amministrazione che decide se rottamare un professore, oppure tenerlo in servizio fino al raggiungimento dell’età della pensione stabilita della legge, che il decreto tende invece ,surrettiziamente,ad anticipare anche di parecchi anni con una chiara lesione dei diritti costituzionali dei docenti. In entrambi i casi c’è una totale prevaricazione sulla figura dei professori da parte dell’amministrazione locale e soprattutto di quella centrale che diventa il vero arbitro della situazione. Infatti, se anche l’amministrazione universitaria locale fosse orientata a concedere il biennio o a rinviare la rottamazione, l’amministrazione centrale potrebbe costringerla a procedere in questa direzione con ulteriori, drastiche riduzioni del fondo di finanziamento ordinario.
Non si tratta di questioni sindacali, o di interesse puramente corporativo: in ballo c’è ben altro. Se queste disposizioni vanno avanti ne discenderà un controllo dispotico, e col tempo totale, dell’amministrazione centrale sulle carriere dei professori universitari e di conseguenza sull’Università italiana. Quella che dovrebbe essere il centro della libertà intellettuale e di ricerca del paese, costituzionalmente garantita, corre dunque il rischio di essere controllata e irreggimentata a tutto vantaggio delle università private che potranno darsi gli statuti più adeguati al loro sviluppo, attraendo tutti i professori che non vogliono essere sottoposti a forme di controllo centralistico destinate ad assumere - non è difficile prevederlo - connotati ideologici e politici assai precisi. Mentre nelle Università pubbliche diventerà fortissima, temo, una spinta in direzione del conformismo, della passività, dell’autocensura dei professori universitari con un colpo assai grave per quella autonomia e libertà dell’insegnamento che è esplicitamente prevista dall’art. 33 della Costituzione.
In ultima istanza,questo - la libertà di insegnamento e le forme in cui essa può e deve esplicarsi - è dunque il vero problema che il Decreto del 25 giugno 2008 pone all’Università italiana: che di fronte a tutto questo -e alla stessa forma del decreto,così impropria per decisioni di tale rilievo-non si sia ancora accesa una discussione critica e che siano pochissimi quelli che hanno deciso di alzarsi in piedi può certamente sorprendere; ma sorprende meno se si tiene conto di quello che dicevo all’inizio: il nostro paese è pronto a tutto, anche ad inghiottire in silenzio la fine dell’Università pubblica e della libertà di insegnamento.
L’adesione alla manifestazione
contro le "Leggi canaglia"
È urgente che esista la pietra dello scandalo.
È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie è vasta e progredisce.
Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l’impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l’esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall’infanzia perché appartenente a altre etnie o razze.
Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza.
Frati: presidio antifascista con gli studenti
Il prorettore a una affollata assemblea a Lettere
insieme a Sasà Bentivegna e a tanti professori
Portelli: mea culpa, non abbiamo insegnato adeguatamente i valori della Costituzione
di Alessandro Ferrucci (l’Unità, Roma 29.05.2008)
IL VECCHIO partigiano ha portato la sua solidarietà contro l’aggressione di via De Lollis. La facoltà non è stata occupata ma questa mattina è previsto «un presidio democratico»
Si alza in piedi, si avvicina alla cattedra e scatta l’applauso; poi prende il microfono per precisare il motivo della sua presenza («Sono qui per portare la solidarietà dell’Anpi a questi giovani antifascisti che si battono per il ripristino della legalità democratica»), ed è un boato. Questo per il compagno Sasà, 86 anni, al secolo Rosario Bentivegna, ex partigiano tra i protagonisti della resistenza romana al nazismo; ieri «uno» dei circa 300 presenti all’assemblea alla facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza, indetta per fare il punto sull’aggressione di martedì da parte di quattro di Forza Nuova contro alcuni dei collettivi di sinistra.
Un’assemblea infuocata, tesa, partecipata con i ragazzi appoggiati e seguiti anche da parte dei docenti e dei ricercatori sia della stessa Lettere che di altre facoltà. Tutti insieme, quindi, per guardarsi in faccia, valutare la situazione, manifestare tutta la solidarietà a Emanuele, il loro amico ai domiciliari, e capire come muoversi nelle prossime ore. «Dovete sospendere l’occupazione - interviene il pro-rettore vicario, Luigi Frati - e ritrovarvi qui domani mattina (oggi, ndr), per “presidiare” la facoltà dalla probabile presenza di quelli...». «Quelli» sono i rappresentanti di Forza Nuova che oggi avrebbero dovuto tenere il convegno sulle Foibe, poi annullato dallo stesso Frati. Lui, il pro-rettore, evita di nominarli ma fa capire in maniera esplicita come la pensa («mio padre era un partigiano), poi incalza la platea parlando del sindaco: «Lo stesso Alemanno, che ha una storia non proprio vicina alla nostra, ha condannato apertamente la xenofobia di queste persone». Partono le urla, i fischi e gli insulti dei ragazzi, fino a quando Frati riprende la parola, alza il tono della voce, e aggiunge: «Potrebbe essere anche strumentale nella sua condanna o quello che vi pare, ma questo rafforza ancora di più le nostre riflessioni». E qui scattano le polemiche di alcuni esponenti del Pdl che vogliono alcune precisazioni da parte del pro-rettore. Che, intanto, precisa solo l’intenzione di voler costituire la Sapienza come parte civile del processo...
Comunque, rasserenati gli animi dell’assemblea, parte una sorta di riflessione a voci alta, e trasversale. Con i docenti, in particolare, che ci tengono a prendere la parola per esplicitare un mea culpa: «Dobbiamo predicare l’antifascismo nelle nostre relazioni quotidiane - interviene Sandro Portelli, della cattedra di Letteratura Americana -; un lavoro colpevolmente abbandonato da tutti noi: è ora che ci assumiamo le nostre responsabilità come docenti».
D’accordo anche il professor La Rocca, storico di Roma antica: «Tra di noi c’è un vuoto; un “vuoto” di persone che non hanno dimostrato reattività di fronte a una vicenda vergognosa. Per fortuna, però, ci siete stati voi a mettere i paletti (parla dei ragazzi, ndr). Ora la battaglia è stata vinta ma resta l’esigenza di colmare questo vuoto, quindi lo spazio dove si inseriscono i fascisti». E ancora applausi. Poi tutti decidono di dare retta al pro-rettore e di sospendere l’occupazione per riprenderla questa mattina, con la preoccupazione che non sarà una giornata come le altre. Tanto che sono state allertate le forze di polizia e sono state date istruzioni alla vigilanza interna di non fare entrare nessuno che non faccia parte dell’Università.
Assemblea a Lettere, corteo interno. Un gruppo di docenti contro Forza Nuova. E le accuse all’organizzatore del convegno: no a germi di intolleranza
E all’Università ora è alta tensione. I professori: l’antifascismo è nella Costituzione
Gli studenti: fermeremo noi il finto buonismo di questi anni che ha equiparato tutto
di Alessandro Ferrucci (l’Unità, 28.05.2008)
SECONDO PIANO della facoltà di Lettere, in fondo a sinistra c’è il dipartimento di Guido Pescosolido, professore di Storia Moderna e preside della facoltà. Al secondo mandato. Mentre a pian terreno c’è la baraonda, con studenti che parlano, discutono, confrontano le varie versioni e precisano con i mezzi d’informazione cosa è accaduto, qui tutto tace. Con i ragazzi, pochi, intenti a studiare, i docenti a interrogare per la sessione estiva e i bidelli a organizzare la vita pratica. Del resto non v’è traccia. Poi, basta nominare il professor Pescosolido e salgono le spalle, parte una smorfia e la frase: da lui c’era da aspettarselo. L’accusa più comune che gli viene rivolta è quella di non essere un uomo di sinistra; altri ritengono si sia distratto e che non abbia valutato l’assemblea sulle Foibe, fino in fondo. A quest’ultimo partito è «iscritto» il Pro-Rettore vicario, Luigi Frati, colui il quale ha revocato l’autorizzazione per lo svolgimento dell’incontro con i ragazzi di Forza Nuova «per la concomitanza dei gravi episodi d’intolleranza, avvenuti in questi giorni nel territorio metropolitano: proprio questa situazione induce a ritenere possibile che l’evento possa essere caratterizzato, anziché da un libero dibattito, da posizioni e contrasti tali da sfociare in altrettanto deprecabili episodi d’intolleranza». Un giro di parole per dire: non vogliamo i fascisti o i nazisti dentro l’Università. Ma i termini specifici non li usa mai, ha paura delle querele, dice.
Al contrario di un gruppo di docenti della facoltà di Lettere: «L’università è un’istituzione dello Stato e come tale si fonda sul rispetto, sulla attuazione e sulla trasmissione dei valori costituzionali, tra i quali l’antifascismo - scrivono in una lettera -. Ed esprimiamo il nostro dissenso nei confronti dell’autorizzazione all’iniziativa di Forza Nuova». Poi ci sono i ragazzi, e sono tanti. Tra l’androne e le scale si radunano in più di 300 cento, alcuni di loro sono i protagonisti diretti della vicenda, coloro i quali hanno preso le mazzate dai quattro aggressori. Hanno l’adrenalina che li fa parlare e che gli cancella il dolore; corrono da una parte all’altra del lungo corridoio per tenere uniti amici e concetti. La preoccupazione è che qualcuno possa parlare di rissa: «No, è stata un’aggressione premeditata e vigliacca. Fascista, quindi». E non è la prima: «Da tempo subiamo minacce telefoniche e violenze fisiche. Solo che nessuno ne parla» raccontano. Sta di fatto che vogliono spiegare i fatti, a patto di non essere né ripresi e né fotografati. «L’aria è troppo brutta e non ve ne rendete conto.
Eppure i casi del Pigneto o del ragazzo gay picchiato sono chiari. Per non parlare dell’aggressione di Villa Ada dell’anno scorso, quando alcuni di Forza Nuova hanno assalito dei nostri compagni, con i coltelli all’uscita da un concerto» denuncia uno dei leader. Che subito dopo richiama tutti a raccolta: parte il corteo. Oramai la voce si è sparsa dentro e fuori la Sapienza e a manifestare sono circa 500 persone, alcune delle quali adulte, che intonano cori come «Fuori i fascisti»; o «Fascisti carogne, tornate nelle fogne»; e ancora «Vergogna, vergogna». Ma, soprattutto «dimettiti!», rivolto a Pescosolido. Attraversano tutti i viali della città universitaria, per poi concentrarsi su Giurisprudenza, i perenni «rivali» perché considerati di destra: qui entrano e amplificano le loro rivendicazioni, compresa quella di chiedere ai colleghi studenti di interrompere le lezioni e di aggiungersi a loro. Inutilmente. Poi escono, continuano, ogni tanto si fermano come per contarsi. Il numero li rassicura «vuol dire che saremo noi a interrompere il finto buonismo di questi anni, il politically correct che ha equiparato tutto. Saremo noi a impedire ai fascisti di invadere qualunque luogo». A partire da ieri.
Ansa» 2008-05-27 15:17
ROMA, STUDENTI DENUNCIANO AGGRESSIONE DI DESTRA
ROMA - Un gruppo di studenti antifascisti dell’Università ’La Sapienza’ di Roma ha denunciato un’aggressione con "diversi feriti" da parte di "un gruppo di fascisti armati di mazze, tirapugni, bastoni".
Sono tre i feriti, si trovano presso il Pronto Soccorso del Policlinico Umbero I e hanno riportato ferite e lesioni "non gravi" valutati dai medici del nosocomio romano come codici gialli. Uno ha una spalla rotta, mentre gli altri due presentano ferite alla testa.
La denuncia è stata fatta verso le 13:45 da un’organizzazione di "Studenti e studentesse antifascisti della Sapienza" precisando che "pochi minuti" prima l’aggressione era stata subita da "alcuni studenti della Sapienza impegnati in un attacchinaggio su via De Lollis".
"Tra gli studenti - viene aggiunto nel comunicato che annuncia una conferenza stampa davanti alla Facoltà di Lettere - ci sono stati diversi feriti, alcuni molto gravi. L’aggressione, durata oltre dieci minuti, è avvenuta in pieno giorno, davanti a centinaia di persone, a testimonianza del clima di impunità assoluta di cui i neofascisti godono in questa città". La nota rilancia il volantino che, col titolo "Sapienza libera dai nuovi fascismi!", veniva diffuso al momento dell’aggressione.
Un papa incompatibile con la ‘Sapienza’
di Elio Rindone *
L’università, se è luogo di libera ricerca e di confronto rispettoso non solo delle persone ma anche delle tesi sostenute dai vari interlocutori, è incompatibile con maestri che presumono di possedere essi soli la verità. E simili maestri, oltretutto, pare che non siano apprezzati neanche da Gesù di Nazaret che, stando a Matteo 23, 6-10, criticava gli scribi e i farisei che “amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbì’ dalla gente".
La lettera dei 67 professori della ‘Sapienza’, che esprimevano al Rettore dell’Università la propria indignazione per l’invito rivolto al papa a intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico, e le proteste annunciate per l’occasione da qualche centinaio di studenti sono state sufficienti al Vaticano per declinare l’invito, presentandosi come vittima di un’inaccettabile censura. I toni ossequiosi usati abitualmente da quasi tutti i politici e i giornalisti nei confronti della gerarchia ecclesiastica hanno evidentemente indotto Benedetto XVI a considerare intollerabile persino la contestazione di una sparuta minoranza critica. Eppure i motivi per giudicare decisamente poco opportuna l’iniziativa del Rettore non mancavano affatto.
Quell’invito, infatti, non pare giustificato dal prestigio dello studioso Joseph Ratzinger, uno dei tanti professori di teologia, forse neanche tra i più brillanti: se non fosse diventato papa, pochi si sarebbero accorti di lui al di fuori degli ambienti ecclesiastici. È la carica che riveste, dunque, che conferisce un peso rilevante alle sue parole, che del resto riecheggiano quotidianamente su tutti o quasi i mezzi d’informazione .......
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Il papa, infine, afferma di poter parlare anche ai non credenti ponendosi sul piano dell’argomentazione razionale: ‘come rappresentante di una ragione etica’, egli intende offrire ‘un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità’. Se il dialogo si svolge sul piano della ragione, perché gli studiosi, credenti o meno, dovrebbero rifiutarlo? Per un motivo semplicissimo: perché un vero confronto può realizzarsi solo tra soggetti che si riconoscono come ugualmente impegnati nella ricerca della verità e tutti disposti a mettere in discussione le proprie certezze. Non c’è invece alcuna possibilità di dialogo con chi ritiene che le proprie tesi siano incontestabilmente vere e che chi non le condivide attenta con ciò stesso alla dignità dell’uomo, essendo con tutta evidenza indotto in errore da una ragione non sufficientemente pura.
Purtroppo è proprio questa la posizione di Benedetto XVI. Egli infatti ha ribadito più volte quanto sosteneva nel 2002 come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e cioè che ci sono valori indiscutibili che non sono confessionali in quanto per essere riconosciuti non presuppongono la professione di fede cristiana, che la chiesa cattolica tuttavia ha il merito di confermare e tutelare sempre e dovunque. Ne consegue che le concezioni morali diverse da quella cattolica sono espressione di un pluralismo etico che testimonia la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge naturale (cfr. Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, nn 5 e 2).
Quindi l’intangibilità della vita umana dal concepimento al termine naturale, per esempio, per il papa non è una tesi opinabile ma una verità fondata sulla legge naturale. Ma come si fa a stabilire che si tratta di una verità e non di una semplice opinione, dal momento che, se è vero che alcuni pensatori portano argomenti a favore di questa tesi, è altrettanto vero che altri pensatori ne portano in senso contrario?
È a questo punto che Benedetto XVI getta sul piatto della bilancia il peso della sua autorità: vera è la tesi che appartiene a una lunga tradizione di saggezza morale, di cui il papa è in qualche modo il ‘rappresentante’. Questa mossa, però, sposta il livello del dibattito: non siamo più su un piano puramente razionale, in cui una tesi vale quanto valgono gli argomenti che la supportano. Siamo su un altro piano: infatti, per vedere proprio nel vescovo di Roma il custode di ‘un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche’ è necessario un atto di fede, e non una fede qualunque ma specificamente cattolica, e per giunta di tipo tradizionale.
Né sembra sufficiente a giustificare la fiducia nel papa quale garante della verità etica l’argomento per cui protagonisti del dibattito pubblico sono prevalentemente i partiti politici che, mirando a conseguire la maggioranza in parlamento, tendono a preoccuparsi più di interessi particolari da soddisfare che del bene oggettivo da salvaguardare, sicché “La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi”. Per riconoscere che i partiti sono mossi spesso dalla leva dell’interesse basta infatti l’uso della ragione, ma per credere che il Vaticano sia sempre mosso dalla sensibilità per la verità occorre una fede addirittura cieca!
In effetti, sebbene Benedetto XVI voglia far mostra di parlare in nome della ragione, la sua impostazione implica indubbiamente delle premesse che esulano dal piano razionale. Essa, infatti, presuppone una tesi che il papa dà per scontata ma che scontata non è: la fede cristiana, è ‘una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa’. Dietro quest’affermazione c’è evidentemente la dottrina del peccato originale, che avrebbe ferito la natura umana, sicché oggi l’uomo, facile preda dell’errore, può trovare soccorso, anche per quanto riguarda le verità naturali, nella rivelazione divina custodita dalla chiesa.
Ora, che la ragione umana sia fallibile è assolutamente certo: la tesi, invece, che la fede risani i guasti di un’umanità segnata dal peccato originale - la cui storicità si basa del resto su una discutibilissima interpretazione della Bibbia - è tutta da dimostrare, e non pare che la storia della chiesa possa confermarla. Basti pensare a grandi teologi cattolici, come Tommaso d’Aquino, per i quali l’inferiorità della donna e la schiavitù sono realtà iscritte nella natura, o a papi come Innocenzo IV, che autorizzano nei tribunali dell’Inquisizione l’uso della tortura. Tali idee non sono certo sostenute oggi dal magistero ma non possono essere giustificate ricordando che i loro autori, la cui ragione era certamente purificata dalla fede, subivano i condizionamenti del loro tempo: bisognerebbe altrimenti riconoscere che simili condizionamenti potrebbero esserci anche oggi, con conseguenze devastanti per chi pretende di purificare la ragione altrui.
È evidente, in ogni caso, che l’idea che una ragione non animata dalla fede cattolica sia particolarmente esposta all’errore rende impossibile un confronto paritetico, e non solo con il pensiero laico, irrimediabilmente inficiato dal suo relativismo, ma anche con le altre religioni e persino con le altre confessioni cristiane. Del resto, la Dichiarazione Dominus Jesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, firmata nel 2000 dal card. Ratzinger come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, afferma ciò esplicitamente. La parità vale per le persone ma non per le convinzioni, che non stanno affatto sullo stesso piano: “La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali”(n 22).
Alla luce di queste considerazioni, pare del tutto comprensibile l’inopportunità di offrire, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, una nuova tribuna per affermare le sue posizioni dogmatiche a un’autorità che ancora oggi, come scriveva Gilson riferendosi al medioevo, mira a instaurare ‘una vera teocrazia intellettuale’ e che, con sovrano sprezzo del ridicolo, nel corso dell’Angelus del 20 gennaio a piazza S. Pietro, ha avuto il coraggio di invitare i «cari universitari ad essere sempre rispettosi delle opinioni altrui e a ricercare [...] la verità e il bene».
L’università, se è luogo di libera ricerca e di confronto rispettoso non solo delle persone ma anche delle tesi sostenute dai vari interlocutori, è incompatibile con maestri che presumono di possedere essi soli la verità. E simili maestri, oltretutto, pare che non siano apprezzati neanche da Gesù di Nazaret che, stando a Matteo 23, 6-10, criticava gli scribi e i farisei che “amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘rabbì’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘maestri’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo”.
www.italialaica.it (15-5-2008)
* Per leggere l’intero articolo, cliccare qui-> sul rosso, Il Dialogo, Giovedì, 22 maggio 2008
Politica
Veltrorutelli, associazione a delinquere
di Paolo Farinella, prete
Genova 05 maggio 2008. - Domenica 4 maggio ho visto sul rete3 Report della Gabanelli sul sacco a mani basse di Roma e dintorni in nome e per conto della giunta Rutelli/Veltroni. Non ho capito, però, come mai Rutelli alle ultime elezioni abbia perso così “dolcemente” e non sia stato linciato sul posto dai Romani anche in conto capitale per Veltroni. Un senso di angoscia prevale sull’animo e mi domando se siamo ancora in questa valle di lacrime o se non siamo già sprofondati nell’inferno e non ce ne siamo accorti. Costoro si chiedono ancora il “perché” della sconfitta e non si rendono conto che hanno consegnato Roma armi e bagagli ai fascisti che ora completeranno l’opera.
Ancora non si è spento l’eco delle parola di Veltroni che vendeva “il modello Roma” come la svolta millenaria che avrebbe segnato le epoche future. Il piano regolatore usato per farsi i gargarismi in tutte le salse e poi vai a scoprire quello che si è visto e ascoltato e cioè che per 15 anni «i novatori» di sinistra sono stati in combutta con la feccia nera dei peggiori fascisti palazzinari da cui hanno preso anche soldi per la loro recente campagna elettorale. Qualcuno mi sa dire la differenza «etica» anche minima tra Rutelli/Veltroni e Berlusconi/Alemanno? Sì, c’è del marcio in Danimarca!
Forse una differenza c’è: Berlusconi non ha mai avuto il senso del pudore e dice bugie apertamente sfidando anche la logica e l’imbecillità di quelli che lo ascoltano che egli manovra a suo piacimento. Veltrorutelli invece parlano come agnellini innocenti e pudichi fino al punto di non nominare l’avversario per dare una svolta al linguaggio politico pacificatore, ma poi dentro sono lupi che mangiano agro romano, fregano i loro popoli e fanno affari con la feccia più nera dei predatori del più grande patrimonio nazionale storico artistico, che gestiscono come fosse un loro ripostiglio personale.
Il più pulito ha la rogna! Purtroppo non vi è antidoto perché l’etica è come il coraggio di don Abbondio: o uno ce l’ha o uno non ce l’ha. Veltrorutelli non mi sono mai piaciuti, ma ieri sera è caduta la maschera e se il Pd avrà le loro facce... “O bella, ciao, bella ciao, bella ciao,ciao,ciao”! Credo che solo un cataclisma naturale ci potrà ormai salvare dallo scempio che ha stuprato e continua a stuprare il territorio, il bene comune e le coscienze di chi ha creduto e crede che lo Stato è ancora, nonostante tutto, la «casa comune», riparo e protezione specialmente per i piccoli, i deboli, gli indifesi.
Sogno una legge che imponga la responsabilità penale e civile dell’amministratore/politico le cui scelte, se danneggiano gli interessi della comunità, possano essere perseguite economicamente rifacendosi su patrimoni e stipendi personali: il politico/amministratore deve rispondere «di suo» se le sue scelte recano danno agli amministrati.
Prendiamo atto della realtà che supera sempre ogni fantasia e pensiamo che non si può stare a guardare e accettare sempre ad occhi chiusi la minestra che passa il convento. Se il reportage di Report è vero, c’è una sola conclusione provvisoria: Veltroni, Rutelli e tutti quelli coinvolti nel piano regolatore o nel «modello Roma» devono andarsene a casa, previo sequestro degli stipendi/pensioni e previa richiesta di risarcimento danni alla città di Roma, togliendo loro i diritti civili fino a tre giorni dopo la morte. I loro complici palazzinari/speculatori devono essere denunciati per «delitto contro l’umanità».
Mi auguro che di fronte a questa «notitia criminis», qualche procuratore della Repubblica apra un fascicolo «in solido» contro le giunte Veltrorutelli e loro compagni a delinquere.
A tutti un amaro abbraccio
Paolo Farinella, prete Genova
I conquistadores dell’intelletto generale
di Ugo Mattei ( il manifesto, 26 marzo 2008)
I brevetti legittimano le «enclosures» del sapere operate dalle multinazionali. Allo stesso tempo favoriscono la biopirateria delle virtù nutrizionali e terapeutiche di alcune piante L’appropriazione della conoscenza è giustificata attraverso le opere di John Locke, laddove il filosofo britannico parla del beneficio generale derivato dall’occupazione della «terra nullius». Oggi come allora il privato è sinonimo di innovazione e creatività, mentre il pubblico è il regno della pigrizia
Una delle idee più radicate nella cultura occidentale è quella per cui la proprietà privata sia un «diritto naturale», qualcosa di tanto spontaneo da motivare perfino un bambino: «Questo gioco è mio!». Se da molto tempo ormai abbiamo smesso di interrogarci sulle ragioni per cui certi individui «hanno» mentre altri «non hanno», ciò è dovuto principalmente al fatto che abbiamo interiorizzato l’ideologia sui caratteri «naturali» e virtuosi del diritto di proprietà private indipente dalla sua distribuzione. In questo siamo oggi tutti un po’ lockiani, perchè abbiamo «risolto» il problema di una società divisa fra possidenti e non possidenti voltandoci all’indietro, con una semplice teoria fondata sulle origini remote della proprietà privata e sulla catena dei trasferimenti fondata su una nozione di «giusto titolo» originario, che prescinde quindi dall’analisi della distribuzione odierna.
Come noto, il filosofo britannico John Locke fondava la propria giustificazione della proprietà privata individuale sulla naturale attività di occupazione di risorse comuni non ancora privatizzate e legittimava il fatto che il governo civile tutelasse (con risorse di tutti, quali la polizia o le corti di giustizia) tale occupazione individuale per due ordini di ragioni: da un lato, sostenendo che l’occupante immette il proprio lavoro, e quindi in parte se stesso, nella cosa bruta, rendendola così fruttifera e quindi benefica per tutti. D’altra parte, il filosofo considerava la naturale occupazione individuale legittima soltanto nella misura in cui rimanessero comuni (e quindi libere per l’occupazione altrui) altre risorse di simile natura e qualità. Con il tempo e l’affollarsi della società, questa seconda specificazione è stata dimenticata e fa oggi quasi sorridere se applicata agli immobili. Essa tuttavia mantieneun immutato potere legittimante criptico. Certo, non esiste (quasi) più terra nullius da occupare, almeno in Occidente, e gli esempi di scuola sull’acquisto della proprietà privata per occupazione sono ormai limitati alle conchiglie sul lido del mare.
Economia dell’innovazione
Nondimeno, gran parte dell’«economia dell’innovazione» ci ha quasi ipnotizzati convincendoci che grazie al progresso tecnologico, la «crescita» possa continuare in eterno sicchè le dimensioni della torta (Pil, il prodotto interno lordo) siano la sola cosa di cui valga la pena di preoccuparsi: «Finirà il petrolio? Inventeremo la fusione fredda!». La presente generazione continui felice a bruciarlo alla guida dei suoi Suv perchè continuando a crescere l’economia, le prossime generazioni inventeranno nuove «risorse comuni» da privatizzare. Della distribuzione non vale la pena di preoccuparsi. Il benessere di tutti seguirà, automatico, alla diffusione geografica dello sviluppo e della tecnologia occidentale.
La teoria «naturalistica» dell’occupazione che lega la proprietà private al lavoro, all’ innovazione e alla stessa identità dell’individuo, non giustifica quindi oggi soltanto attività bucoliche e economicamente marginali quali la raccolta delle conchiglie, dei funghi, o magari la caccia e la pesca. Essa continua a offrire una potente legittimazione ideologica a favore del privato rispetto al pubblico, descrivendo soltanto il primo come luogo virtuoso in cui l’individuo mette in gioco se stesso, lavora, rischia, investe, crea, innova. In questa luce, il pubblico è il luogo della pigrizia, della scarsa o nulla produzione di valore aggiunto, delle risorse abbandonate a se stesse e non «messe in valore» perchè nessun individuo, se la privatizzazione non è consentita, vi introduce lavoro ed investimento identitario. L’imagine è suggestiva e profondamente legata all’idea forte, protoilluminista, per cui sia un bene che l’uomo domi la natura, in particolare la terra. La virtù della terra privatizzata è simboleggiata dalle campagne inglesi, successive alle enclosures ben arate e con confini perfettamente tracciati. La terra non domata dalla proprietà private sarà invece selvatica, boscosa, piena di sterpaglia, «inutile».
Tale ideologia, oltre ad essere primitiva ed etnocentrica, risulta infantile nel suo individualismo di fondo, perchè si basa su irreealistiche premesse filosofiche, quale quelle del Robinson Crosue discusso dal teorico libertario Robert Nozick (la verità è invece che un uomo solo, in natura, lungi dall’occupare, muore perchè soltanto la cooperazione di specie ha consentito la sopravvivenza originaria e quindi la proprietàin origine non poteva che essere del gruppo).
Lo spettacolo della ricchezza
L’ideologia della proprietà privata si basa su una concezione riduttiva e semplificata del rapporto fra individuo proprietario (il soggetto) e l’oggetto del suo possesso. Essa, già poco adatta a cogliere la complessità del rapporto fra un individuo ed un bene materiale e tangibile (la terra, un libro, un piatto di spaghetti) mostra i suoi limiti teorici di fondo, ma al contempo la sua potenza suggestive ed ideologica nel momento in cui viene utilizzata per descrivere e gestire rapporti sociali del mondo che stiamo vivendo. Oggi infatti la forma della ricchezza appropriabile è sempre meno quella di beni tangibili e sempre più quella delle immagini, dell’informazione, degli strumenti finanziari complessi, delle idee innovative, in una parola della «ricchezza spettacolo» piuttosto che di quella tangibile. Ma la retorica e gli strumenti intellettuali che ne giustificano il controllo esclusivo in capo ad alcuni privati piuttosto che il loro godimento in commune non sono mutati affatto.
A chi appartiene la mitica foto scattata il 16 ottobre del 1968 a Città del Messico e ritraente Tommie Smith e John Carlos con il pugno guantato delle black panthers dopo il trionfo nei 200 piani? al fotografo? agli atleti? al nostro immaginario collettivo? Chi ha «inventato» l’uso igienico della pianta di neem considerate da generazioni di indiani la «farmacia del villaggio»? I ricchi proventi che le multinazionali del dentifricio derivano dal suo brevetto in Florida a chi dovrebbero appartenere? Alla comunità che utilizzava la pianta per igiene orale e che oggi non può più permettersela perchè i prezzi sono saliti alle stelle? O ai ricercatori che hanno «scoperto» questo antico uso? E che dire della pianta di Maca, da secoli utilizzata delle popolazioni andine e che oggi contende (appositamente brevettato) una fetta del ricco mercato dei prodotti erettili maschili vantando la propria naturalezza? Chi ha inventato la tradizione di ricerca matematica di base, indispensabile radice di tanti miracoli dell’informatica moderna che, brevettati, riempiono le tasche di Bill Gates? E che dire delle nuove frontiere di Internet, quei domain names che si possono «naturalmente» occupare pagando «appena» venti dollari (lo stipendio mensile di qualche miliardo di persone) e connettendosi in rete (un privilegio di un’infima minoranza degli umani)?
Aborigeni e Wto
Sono, queste, domande ormai assai semplici per il mainstream giuridico economico e politico del mondo globale che, grazie alla vecchia ideologia individualistica, fondata su una nozione apparentemente naturale, minima e virtuosa di proprietà privata, come fonte della creatività e laboriosità individuale, trova nelle regole della «proprietà intellettuale» codificate negli accordi Trips («Trade Related Aspects of Intellectual Property») collegati all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) la risposta ad ogni dubbio su chi sia o debba essere il «proprietario» dotato del potere di escludere tutti gli altri. Colpisce l’uso della medesima retorica del progresso, che legittimò giuridicamente il saccheggio delle terre nullius, che gli Amerindiani sfruttavano collettivamente ed in modo ecologicamente compatibile, non conoscendo l’idea che la terra possa appartenere all’uomo. Gli Amerindiani, infatti, credevano infatti che, insieme a tutte le altre specie animali e vegetali, appartenevano alla terra, così come ad essa ancor oggi appartengono i vari lignaggi africani in cui i viventi ricevono dagli avi il mandato a mantenere la terra nell’interesse delle generazioni future. Il rapporto fra soggetto ed oggetto può presentarsi capovolto e non è affatto detto che capovolto non debba essere anche il rapporto fra privato e publico, se soltanto si sposasse una logica un po’ più attenta al lungo periodo e non una dettata dalle scadenze elettorali o dal rendiconto trimestrale con cui le corporations comunicano con gli azionisti.
Proprio come allora i conquistadores consideravano prova della natura selvaggia delle popolazioni aborigine il non conoscere la proprietà privata, oggi la comunità internazionale esercita pressioni poderose a favore dell’appropriabilità privata della terra in Africa e delle idee in Cina. La retorica utilizzata dagli apparati politici ed ideologici dell’Occidente dominante è anche oggi, come allora, quella dell’innovazione, del progresso e dello sviluppo. Molti africani tradizionali resistono o cercano di resistere alla vendita dei loro campi alla Monsanto, che corrompe il sistema per acquistarli e sperimentare l’innovazione «creativa» degli Ogm, che le consentirà di escludere pratiche collettive antichissime quali la selezione e lo scambio delle sementi. Similmente, molti cinesi sembrano ancora credere nella massima confuciana per cui «rubare un libro è una violazione elegante», non concependo l’idea che la cultura, prodotta da tutti, possa essere racchiusa in uno strumento accessibile soltanto a chi possa pagare per possederlo.
Saccheggio oligopolistico
Tali concezioni culturali, diverse dal «naturale» e virtuoso appetito acquisitivo lockiano che fonda l’intera scienza economica dominante, (inclusa la sua teoria della proprietà intellettuale come «monopolio virtuoso») secondo cui nessun individuo creerebbe se non incentivato dalla speranza di una compensazione materiale per il proprio sforzo di creatività, sono ben documente dalla letteratura antropologica. Etnie recessive ma assai sagge quali i Kayapo dell’Amazzonia, non credono che la conoscenza sia il prodotto dell’uomo ma della natura. Inoltre, secondo loro, la conoscenza è sempre intergenerazionale non potendo mai appartenere soltanto alla generazione presente. Essa è sempre ricevuta liberamente e va liberamente tramandata di generazione in generazione. Certo non può esser proprietà privata di un individuo che, anche qualora intelligentissimo ed intuitivo, deve al gruppo la sua intelligenza e a beneficio di questo devono ricaderne i frutti che del resto non sarebbe esistiti se qualcuno non gli avesse insegnato le basi.
Ma il rozzo semplicismo delle teoriche dominanti sulla proprietà intellettuale viene smascherato anche dalle frontiere della conoscenza tecnologica, dove prodotti come l’enciclopedia Wikipedia o il software Linux confutano senza appello le basi motivazionali della teoria lockiana della proprietà.
Una domanda sorge spontanea: se è stato così facile trasferire la retorica della proprietà privata dal mondo materiale a quello delle idee, non dovrebbe essere altrettanto facile tornare indietro, facendo tesoro delle contraddizioni teoriche che l’individualismo proprietario mostra quando esteso al mondo delle idee al fine di travolgerne la funzione di legittimazione della proprietà privata mal distribuita in tutte le sue forme?
Forse allora si capirebbe che la privatizzazione, lungi dal garantire creatività, virtù ed ordine giuridico altro non è che una forma, assai poco sofisticata di saccheggio oligopolistico degli spazi pubblici, per la semplice ragione che un mercato competitivo fra pari non esiste, nè potrà mai esistere, se non nella retorica incolta di qualche promessa elettorale.
La Montalcini a Bagnasco: d’accordo con i professori
Ma quale «sfilacciato», il nostro è un paese «ricco di capitale umano». E se «lo buttiamo via, obblighiamo i giovani ad andare all’estero». Il premio Nobel Rita Levi Montalcini non manda giù le parole pronunciate dal presidente della Cei Angelo Bagnasco che lunedì ha duramente attaccato il governo, accusandolo di essere il responsabile della rinuncia del Papa a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico a La Sapienza. E ha descritto un paese distrutto, «dopo che si sono bloccati lo slancio e la crescita anche economica», dove ci sono in giro «paura del futuro e un senso di fatalistico declino». Non ci sta la Montalcini e aggiunge pure che avrebbe firmato l’appello dei 67 professori al Rettore Guarini, un documento che «approvavo completamente».
Dopo la senatrice Lidia Menapace, è un’altra donna a rispondere agli attacchi del Vaticano. La Menapace aveva giudicato «singolare» l’affermazione di Bagnasco: «I casi sono due - diceva lunedì la senatrice - o Bagnasco mente e non sta bene da parte di un cardinale, o c’era un accordo tra chiesa e governo e rivelarlo in parte è altrettanto maleducato. Se è vero - concludeva la senatrice - che il governo ha suggerito al Papa di non andare, secondo me ha fatto benissimo».
Un’altra donna contrattacca alle “invasioni di campo” vaticane. Sarà perché le ha pungolate quell’attacco alla legge 194 ha pungolato al femminista Menapace, sarà perché quell’intrusione nel mondo accademico ha innervosito la scienziata Montalcini. Fatto sta che entrambe con fermezza hanno ribattuto all’ennesima puntata di quel "caso nazionale", che è diventato la rinuncia di Ratzinger alla visita all’Università.
Questa volta anche il governo è dovuto intervenire con determinazione, a respingere le esplicite insinuazioni del cardinal Bagnasco. «Il governo italiano - ha puntualizzato Palazzo Chigi in una nota - non ha mai suggerito alle autorità vaticane di cancellare la visita di papa Benedetto XVI all’università La Sapienza di giovedì 17 gennaio scorso».
* l’Unità, Pubblicato il: 22.01.08, Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.40
ANALISI
L’America mi vuole l’Italia mi butta
di GIACOMO RIZZOLATTI, UNIVERSITA’ DI PARMA *
L’8 dicembre ho ricevuto una lettera da uno scienziato americano di prestigio che lavora al National Institute of Mental Health. Diceva che l’NIMH cerca uno studioso affermato come «lab chief». La lettera finiva con «please consider this seriously for yourself». Il 16 dicembre è stata pubblicata la notizia che il governo in un emendamento della Finanziaria decideva che io, come altri professori universitari, non servivo più e in un paio di anni, nel caso mio, dovevo andarmene a casa.
Da una parte la comunità scientifica più avanzata del mondo cerca di averti, dall’altra una comunità scientifica, purtroppo non eccezionale, mi considerava inutile. Come è possibile? Molto semplice. Da anni negli Usa si considera che discriminare una persona in base all’età non è diverso dal discriminarlo in base alla razza o al sesso. Quindi mandare a casa un professore attivo solo perché ha superato una certa età è illegittimo.
Un esempio calcistico spiega il perché di questa posizione legislativa. Immaginate una squadra formata da giovani ed anziani. Cosa succederebbe se l’allenatore decidesse che la formazione deve essere fatta in base all’età e non al merito? Cacciare via i Trezeguet o i Del Piero? Certo che no. Si direbbe che l’allenatore è un imbecille. Per l’università non è lo stesso? Anzi, se la Juventus perde dispiace ai tifosi, ma se la ricerca va male il Paese va in rovina.
La cosa è ancora più allucinante in quanto in Italia esiste, o meglio, esisteva una legge molto avanzata in questo campo, se non rispetto agli Usa ed al Canada, almeno rispetto a molti altri Stati europei. Secondo la vecchia legge, i professori vanno in pensione a 72 o a 75 anni, secondo l’anno in cui erano entrati un ruolo. Un punto debole della legge è che, negli ultimi anni di servizio, il professore è esentato dall’insegnamento, restando inalterati gli altri obblighi. Questo vecchio privilegio è effettivamente un lusso cui l’università, cronicamente cenerentola nei finanziamenti, oggi ha difficoltà a mantenere. Il problema, però, poteva essere risolto facilmente. Bastava rendere obbligatorio l’insegnamento fino alla pensione e chiedere il pensionamento anticipato di chi si rifiutava.
La gravità del provvedimento governativo non solo sta nelle sue conseguenze, ma anche nell’incapacità di chi l’ha proposto di comprendere chi è e cosa fa un professore universitario. Se i professori facessero solo dell’insegnamento agli studenti, il provvedimento sarebbe stupido, ma non disastroso. La parte però più impegnativa del lavoro del docente non consiste nel raccontare dati acquisiti a giovani studenti, ma nell’insegnare a persone che hanno uno specifico background culturale come si fa la ricerca giorno per giorno, ora per ora: consiste nella capacità di creare una massa critica di persone che sfruttino la sua esperienza, fattore essenziale almeno in campo biologico e medico, e consiste nell’inserire i collaboratori nei circuiti internazionali da cui arrivano quei fondi che il ministero non dà o dà in quantità risibile. Distruggere tutto ciò, che è fondamentale per fare andare avanti i centri di ricerca avanzata decapitando l’università, è un atto distruttivo di cui si pagheranno per anni le conseguenze.
Quali sono le speranze perché ciò non accada? Un ripensamento di questo governo (governo?) o del prossimo, o un intervento della magistratura. Un provvedimento fortemente lesivo dei contratti individuali di una categoria di persone dovrebbe avere buone probabilità di essere cassata dalla magistratura, come spesso avviene negli arditi provvedimenti che ogni tanto questo governo emana. Infine un aspetto personale. Uno è convinto di essere un individuo che ha aspettative, speranze, progetti e non di essere una cosa. Per il ministro no. I professori universitari sono merce che può essere scambiata o buttata via, se il ministro pensa che questo possa migliorare il bilancio del suo ministero e possa nascondere l’incapacità di gestirlo. Si diceva che i grandi rivoluzionari amassero molto l’Umanità, ma poco i singoli. Le caricatura moderna del rivoluzionario mantiene intatta tale caratteristica.
* La Stampa, 9/1/2008
Sono 38mila, solo in 20mila prendono meno di 800 euro, spesso sono essenziali
Migliaia di firme, l’incontro con Mussi, ma gli aumenti promessi tardano ancora
"Se potessi avere mille euro al mese"
La rivolta di dottorandi e ricercatori
di TULLIA FABIANI *
Se potessero avere mille euro al mese, dicono che sarebbe una vittoria per l’università e la ricerca italiana. Poi certo avrebbero qualche soldo in più per pagare un affitto; comprare libri; vestire e mangiare. "Pretesa minima" la giudicano: richiesta che ha dell’essenziale se confrontata con altre realtà europee, eppure finora per i dottorandi italiani "è stata solo un sogno". Finora. Perché qualche spiraglio di cambiamento c’è ed è il risultato di una campagna partita circa sei mesi fa su Internet e arrivata in Parlamento.
La petizione. Due le questioni: l’aumento del limite minimo della borsa di dottorato, fino ad arrivare a mille euro mensili (contro gli 820 euro attuali, dai quali decurtare alcune voci) e la retribuzione di tutti i posti di dottorato di ricerca. A oggi infatti sono 38 mila i dottorandi in tutta Italia, ma di questi solo 20 mila hanno una borsa di studio. Gli altri studiano e lavorano all’università gratis per circa tre anni. E pagano anche le tasse di iscrizione. Una situazione che ha finito per esasperare gli animi di dottorandi e ricercatori e portarli alla protesta: "Abbiano raccolto più di 11 mila firme sul sito dell’Adi, l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani - racconta Giovanni Ricco, dottorando in Fisica all’Università di Pisa e segretario dell’associazione -. La petizione indirizzata al Presidente del Consiglio Romano Prodi, al ministro dell’Università e della Ricerca Fabio Mussi e al Parlamento è nata sul web, può essere firmata da chiunque e continueremo a promuoverla finché non avremo ottenuto quello che chiediamo". L’obiettivo è ottenere la copertura finanziaria per tutti i dottorati di ricerca attraverso fondi di università, enti, fondazioni, pubbliche amministrazioni, o attraverso il coinvolgimento di imprese, "con collaborazioni che sono diffuse all’estero, ma che da noi non si diffonderanno mai - notano i ragazzi - finché gli atenei avranno la possibilità di sfruttare gratuitamente i giovani ricercatori in formazione".
I provvedimenti. Su questi argomenti i dottorandi si sono confrontati direttamente con il ministro Mussi. "Lo abbiamo incontrato il 20 novembre e gli abbiamo consegnato le firme e le cartoline inviate - spiega Ricco - e siamo soddisfatti di come è andato il confronto. Ci sono interesse e apertura sui temi sollevati, si è parlato del valore strategico del dottorato di ricerca come terzo livello della formazione superiore, della necessità di favorire l’ingresso dei dottori di ricerca nel mondo del lavoro e si è discusso anche dei contenuti della riforma del dottorato proposta dal ministro".
Oltre allo stanziamento di 20 milioni di euro per l’aumento finanziario delle borse di studio dal prossimo anno - annunciato da Mussi proprio a Repubblica tv - il ministro ha lavorato infatti su un testo di riforma che prevede, tra le altre cose, l’eliminazione del dottorato senza borsa di studio. "Per chi è non è retribuito abbiamo chiesto, quanto prima, la possibilità di non pagare le tasse d’iscrizione" aggiunge il segretario dell’Adi "per il resto aspettiamo il dibattito alla Camera".
Già, perché i venti milioni di euro non bastano ad aumentare il compenso mensile dei dottorandi. E l’emendamento Valditara, approvato al Senato, che prevede uno stanziamento di 40 milioni di euro è ancora sprovvisto di copertura. "Il ministro ha ribadito il suo impegno affinché il governo trovi i fondi mancanti - precisa Francesco Mauriello, dottorando in chimica industriale all’Università di Bologna - e noi ci contiamo. La discussione alla Camera è cominciata e dovrebbe chiudersi nei prossimi giorni. Se non venissero rispettate le nostre attese ci sarebbe una presa di posizione forte da parte nostra. E nuove proteste". Per Mauriello è l’ultimo anno di dottorato, a dicembre prenderà l’assegno che chiude il suo ciclo di studi: "Personalmente non trarrò benefici da questa campagna - dice - ma spero che il lavoro fatto serva ai colleghi presenti e futuri. Per tutti l’aumento a mille euro sarebbe un bel regalo di Natale".
* la Repubblica, 26 novembre 2007.
Per primi scioperano gli insegnanti, lunedì stop in atenei e enti di ricerca
I sindacati: "Mancano fondi, nessun piano strategico per la scuola"
Istruzione, inizio d’autunno caldo
si bloccano scuole e università
di SALVO INTRAVAIA *
Docenti e ricercatori sul piede di guerra. I primi a scendere in piazza, sabato 27 ottobre, saranno gli insegnanti della scuola. Lunedì 29 sarà la volta del personale delle università, degli enti pubblici di ricerca, delle Accademie e dei Conservatori. Tutti scontenti del governo Prodi e tutti in piazza. Le due giornate di mobilitazione sono state organizzate da Flc Cgil, Cisl e Uil e, per la scuola, dalla Gilda degli insegnanti. Due gli slogan coniati per la mobilitazione dei prof dai Confederali: "per una scuola pubblica di qualità" e "riconoscere e valorizzare il lavoro".
I sindacati chiedono al Governo una "Finanziaria equa e giusta". Secondo la Cgil mancano all’appello le "risorse economiche per il rinnovo del biennio contrattuale 2008/2009". Ma non solo. Nella Finanziaria messa a punto dall’Esecutivo mancherebbero anche adeguati "interventi fiscali a favore del lavoro dipendente". La protesta mette anche il dito nella piaga dell’annosa questione- organici. Migliaia di insegnanti in corteo chiederanno "una netta inversione di tendenza a favore di organici del personale docente e Ata funzionali al diritto allo studio degli studenti e alla qualità dell’offerta formativa della scuola pubblica statale. Scelte coerenti con gli impegni sottoscritti nell’Intesa sulla Conoscenza".
L’obiettivo della manifestazione, secondo la Cisl, è quello di "far comprendere - al Governo, al Parlamento, alla politica tutta ed all’intero paese - che la centralità della scuola costituisce una vera emergenza politica, sociale e culturale". Duro il giudizio dei rappresentanti dei lavoratori sui provvedimenti finanziari per la scuola approvati dal Consiglio dei ministri. "Non vi è traccia di un piano strategico di investimenti al fine di sviluppare obiettivi di efficacia e di efficienza della scuola" e "gli interventi previsti per gli organici comportano ulteriori pesanti tagli del personale che sacrificano la scuola pubblica statale in contraddizione con gli stessi impegni assunti dal Governo". Il corteo partirà da piazza Bocca della verità e approderà a piazza Navona.
La Gilda sarà di scena a Venezia. "La scuola italiana - dichiara Rino Di Meglio - è in alto mare e rischia di affondare. E così da Venezia, città che da sempre convive con "l’acqua alla gola", la Gilda degli Insegnanti lancia il proprio grido di protesta e un accorato appello per salvare il sistema dell’istruzione italiano".
La protesta, lunedì 29, vedrà in piazza il personale dell’università, degli enti di ricerca e dell’Afam: l’Alta formazione artistica e musicale (Accademie di Belle arti e Conservatori). Anche per loro la questione maggiormente pressante è il rinnovo del contratto di lavoro. Ma la protesta passa anche per la stabilizzazione dei precari, a livelli record nel settore della Ricerca, e la richiesta di maggiori fondi per il funzionamento degli atenei, dei centri di ricerca di conservatori di musica e accademie di Belle arti.
* la Repubblica, 26 ottobre 2007.
Tra ’Casta’ e ’V-Day’ politici sempre più nel mirino
Politica, Italia sotto elettroshock
Roma, 7 ott. (Adnkronos) - La ’casta’ deve imparare a dare le risposte alle domande che provengono dalla società civile. La politica deve fare a meno dei privilegi e degli sprechi, rigenerando se stessa. Ma la società civile deve comprendere che la politica è il sale della democrazia. Senza politica si rischiano degenerazioni e derive avventuristiche. Queste le indicazioni che emergono da una serie di interviste ad alcuni noti intellettuali italiani condotte dall’ADNKRONOS. Le domande poste a scrittori, storici, filosofi e sociologi partono dalla constatazione che in questi ultimi mesi il corpo politico sta subendo un vero e proprio elettroshock. Chi potrebbero essere domani i nuovi protagonisti della vita politica italiana? Chi può avere interesse a infliggere una cura così drastica? E quale potrebbe esserne lo sbocco?
"Lo sbocco temuto in una tale situazione potrebbe essere quello di una svolta autoritaria, ma io non vedo questo pericolo", assicura il professor Lucio Villari, ordinario di Storia moderna e contemporanea all’università di Roma. "O la classe politica è capace di rigenerarsi, recuperando ideali e ruolo programmatico, oppure la ’casta’ - secondo Villari - rischierà di degradarsi sempre di più. Il rischio, a mio parere, è quello che la politica si riduca semplicemente a spettacolo, a pettegolezzo e critiche personali".
"Le classi politiche - afferma il professor Villari - devono sempre ricordare che sono controllate dagli elettori e accettare le critiche al loro operato. Ma le critiche non devono mai arrivare a un punto in cui si può fare a meno della politica, che è un elemento fondamentale per la vita democratica". Villari non vede protagonisti nuovi all’orizzonte immediato: ’’I politici maturano nel corso degli anni, non ci si improvvisa statisti. Per quanto riguarda il fenomeno Grillo, mi sembra che siamo di fronte ad un cittadino dotato soltanto di una buona forza espositiva".
Il professor Francesco Perfetti, ordinario di storia contemporanea alla Luiss di Roma e direttore della rivista ’Nuova storia contemporanea’, ricorda come il fenomeno dell’antipolitica non è nuovo in Italia, anzi, affonda le sue radici nella fase post-unitaria, arrivando fino ai primi decenni del XX secolo con Giuseppe Prezzolini e poi fino al qualunquismo di Guglielmo Giannini. "Quindi c’è una lunga tradizione di antipolitica - sottolinea Perfetti - che nell’attuale momento ha finito per esplodere in modo automatico. E questo perchè il sistema politico è in una fase di crisi sostanziale: la frattura tra il Paese reale e il Paese legale, cioè tra classe politica e società civile, è andata sempre più rafforzandosi".
La classe politica, di destra e di sinistra che sia, spiega Perfetti, "viene percepita oggi come una ’casta’, per usare un’espressione di moda. Non c’è quindi da meravigliarsi che nascano fenomeni come quello di Beppe Grillo". Il problema, ricorda il direttore del periodico ’Nuova storia contemporanea’, è di come riuscire a canalizzare l’antipolitica verso soluzioni di tipo politico. "Uno dei possibili esiti della fase attuale - azzarda Perfetti - potrebbe essere la grande astensione elettorale. La situazione oggi è tale che il partito dell’astensione potrebbe avere una visibilità piena". Ma Perfetti non esclude la possibilità che i politici facciano tesoro della protesta di questi mesi e "cerchino di nuovo e davvero un contatto con la società civile, accogliendone istanze e richieste".
Quanto ai nuovi leader, per lo storico "paradossalmente si staglia all’orizzonte solo Silvio Berlusconi, il quale è sceso in campo all’insegna dall’antipolitica proprio per dare vita ad una forma nuova di politica".
Per il professor Franco Ferrarotti, docente emerito di sociologia all’Università di Roma ’La Sapienza’, non deve stupire il rigurgito attuale di antipolitica: "Siamo in una fase di transizione nella quale, necessariamente e naturalmente, emergono i disagi e le aspettative. Quello che non si deve apprezzare è il turpiloquio e l’insulto, che niente hanno a che fare con la politica e nemmeno con la piu’ elementare convivenza civile". Uno sbocco a questa situazione, osserva il noto sociologo, ’’ovviamente ci sarà, perché storicamente nessun problema resta mai in sospeso per lungo tempo. Lo sbocco ci sarà con le elezioni, non so se anticipate o regolari. Le elezioni saranno una catarsi, un rinnovamento, una purificazione delle scorie e dei disagi". Riguardo ai nuovi protagonisti, Franco Ferrarotti ammette di non vederne. Sul fronte del centrodestra "certamente continuerà ad avere un ruolo Berlusconi", mentre nello schieramento di centrosinistra "emergerà il Partito democratico probabilmente con la guida di Walter Veltroni". E proprio nella nascita del Partito democratico, Ferrarotti vede una nota positiva, perché "di fatto contribuirà alla riduzione della segmentazione della vita politica italiana".
Più pessimistico lo sguardo del filosofo Tullio Gregory, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della filosofia per i licei e direttore dell’Istituto per il lessico Intelletturale Europeo. "La verifica è essenziale in una democrazia. Eppure oggi in Italia - avverte Gregory - si assiste non tanto al trionfo dell’antipolitica quanto alla carenza nei partiti di idee politiche e programmi, salvo rarissime eccezioni. La sensazione è che il Paese non sia governato, che l’Italia non abbia una prospettiva. Per accorgersene - afferma il filosofo - basta vedere il disastro delle nostre università e dei nostri istituti di ricerca. Di fronte a questa situazione emergono reazioni qualunquistiche che non sono però uno sbocco positivo. E se il dibattito politico è solo quello che si registra negli studi televisivi, allora si capiscono anche certe reazioni dell’opinione pubblica".
Dall’osservatorio del professor Tullio Gregory il panorama è disarmante: "La politica è sempre più intesa come un piccolo cabotaggio, dove si vive giorno per giorno e senza grandi prospettive. Un vuoto quindi che giustifica la nascita di movimenti di protesta. Ciò che mi preoccupa non è l’apparizione di personaggi come Grillo, ma la mancanza di idee dei nostri politici".
Appalti d’oro e parentopoli
Fiamme Gialle alla Sapienza
L’inchiesta della Procura di Roma sull’ateneo più grande d’Europa. I pm vogliono fare luce sulle commistioni tra incarichi d’oro e docenze. Esaminati per ore atti e documenti sul progetto del mega parcheggio. Accertamenti anche sul rettore dell’ateneo di Marino Bisso e Carlo Picozza
L’università di Roma La SapienzaROMA - Appalti di edilizia universitaria e spa controllate da docenti dell’ateneo, concorsi pilotati per parenti e amici e ora la "Parentopoli" investe lo stesso rettore della Sapienza. È l’inchiesta della Procura di Roma sull’ateneo più grande d’Europa. L’aggiunto Maria Cordova e il pm Angelantonio Racanelli vogliono far luce sulle commistioni tra incarichi d’oro e docenze. E ieri la Finanza, un maggiore e sei sottufficiali hanno invaso gli uffici Affari Generali, Personale e Patrimonio. Per otto ore hanno spulciato atti e acquisito la documentazione del parcheggio interrato che dovrà liberare dalle auto la città degli studi. L’opera, avviata a marzo, costa 8,8 milioni. Commissionata dalla Sapienza, è stata appaltata dal provveditorato per i Lavori pubblici e poi affidata alla Cpc, Compagnia progettazione e costruzioni il cui presidente è l’architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo. Suo figlio Marco, amministratore delegato della spa, già presidente dei giovani costruttori Ance, alla Sapienza è professore a contratto ad Architettura.
Con le carte sul bando e appalto del parking, i finanzieri della Tutela spesa pubblica, del colonnello Fabio Pisani, si sono fatti consegnare gli atti sul concorso da ricercatore per l’aerea di Estimo vinto da Maria Rosaria Guarini, figlia maggiore dell’attuale rettore. Così tra le carte al vaglio dei magistrati entra un nuovo capitolo della "Parentopoli" alla Sapienza dopo i precedenti consumati dal prorettore vicario Luigi Frati i cui voti nel 2005 sono stati decisivi per l’elezione di Renato Guarini. Il numero "due" della Sapienza, potente preside di Medicina, è riuscito a rendere più "familiare" l’ambiente di lavoro. Così, tra cattedre ad amici e colleghi fidati, Frati vanta tre professori in casa: la moglie e i due figli.
Anche il rettore Guarini ha famiglia: due figlie sono nella sua università. Per gli esami da ricercatrice, Maria Rosaria sceglie la materia insegnata da Di Paola che, con altri due docenti, tiene la prima seduta di commissione nel suo studio privato, in un palazzo di pregio dove ha sede anche la sua spa. La stessa che sta realizzando il parking sotterraneo. Le altre riunioni della commissione si tengono ad Architettura. Dai verbali è l’architetto Maria Rosaria Guarini, fino allora impiegata della Sapienza con mansioni tecnico-amministrative, a uscire incontrastata. Dalla sua, ci sono anni di dottorato e insegnamento. Gli altri due candidati non hanno speranze. Armando R., laureato in Agraria, non allega al curriculum pubblicazioni. Mario M., architetto, «dichiara tre pubblicazioni che non esibisce». Alle prove, scritte e orali, si presenta solo lei, Maria Rosaria Guarini. E dopo sei riunioni, nel giro di un mese (dal 9 gennaio al 9 febbraio 2006) la commissione la sceglie come ricercatrice. Cinque giorni dopo, l’atto è controfirmato da suo padre, il rettore Guarini. L’altra figlia, Paola, dall’ottobre 2006, insegna Architettura degli interni. Ancora prima dell’investitura avrebbe svolto attività didattica nonostante il contratto da impiegata. Anche il suo compagno, geologo, presta servizio alla Sapienza.
Oltre il 40% degli allievi delle superiori deve recuperare
E fra questi quasi la metà ha grossi problemi con la matematica
Fioroni: "Troppi studenti con i debiti
Torniamo agli esami di riparazione" *
ROMA - Gli studenti italiani accumulano quelli che si chiamano debiti formativi, ma non c’è alcuna certezza che le lacune vengano colmate. Ecco perché il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, propone di tornare al passato, ripristinando gli esami di riparazione.
Il titolare del dicastero di viale Trastevere ha commentato i dati sugli scrutini delle classi intermedie delle scuole secondarie. Si tratta di dati preoccupanti, se si pensa che il 41% degli studenti accumula un debito di formazione. La percentuale maggiore, 44%, riguarda lo studio della matematica, seguito dalle lingue straniere. La questione è che questi arretrati, accumulati soprattutto al secondo e al quarto anno, raramente vengono recuperati. Solo il 60% dei ragazzi in questa situazione, infatti, frequenta i corsi di recupero, e, fra questi, appena il 40% lo fa con successo. Ragione per cui soltanto uno studente su quattro colma la lacuna.
Il debito pubblico è sì un problema grave, ma quello scolastico "ci dovrebbe preoccupare di più", dice il ministro che non vuol sentir parlare di "smantellamento" degli arretrati. Al contrario, "bisogna avere una certificazione certa del loro superamento, per evitare che tre studenti su quattro si presentino alla maturità con questo fardello di lacune". Se l’obiettivo è colmare il debito di formazione, i corsi di recupero, che pure "vanno potenziati", non bastano. Serve "una seria riflessione sul ripristino degli esami di riparazione". Bisogna tornare a rimandare gli studenti a settembre, insomma. I tempi per il ritorno alle vecchie abitudini non sono ancora certi. Fioroni si è limitato a dire che avvierà un monitoraggio nelle scuole per vagliare il consenso alla sua proposta. Poi si vedrà.
Intanto sono giunte le prime, discordanti, reazioni. Un secco no arriva dalla senatrice di Rifondazione Comunista, Giovanna Capelli, per la quale "il recupero va fatto nel corso dell’anno, con un insegnamento pomeridiano, anche individuale", mentre l’esame di riparazione "scaricherebbe tutto sulle spalle della famiglia, che nel corso dell’estate dovrebbe pagare ripetizioni per i figli". Sulla stessa lunghezza d’onda Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-Scuola, per cui "bisogna evitare il lezionificio, quel sistema di lezioni a pagamento che non tutti si possono permettere".
Docenti e presidi stanno invece col ministro. Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti, parla di "ipotesi ragionevole, sensata". Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, parla di un sistema di recupero-debiti "farraginoso", per cui il ritorno degli esami di riparazione è benvenuto, sempre che "serva come verifica, e non come alibi per spostare la fase del recupero dall’interno all’esterno della scuola".
Fioroni si è soffermato in particolare sull’emergenza-matematica. "Non sarà il mio mestiere", cantava a questo proposito Antonello Venditti. E a giudicare dai dati del ministero, ad avere problemi con la matematica sono in tanti, ben il 44% degli studenti delle secondarie. Una bestia nera che accomuna Nord e Sud, Centro e Isole, allievi del liceo scientifico e degli istituti professionali. Il ministro arriva a parlare di emergenza formativa, "legata non ai programmi e ai loro contenuti, ma alla capacità di far appassionare i ragazzi allo studio della materia". Fioroni intende insediare presso il Ministero un comitato di matematici, docenti di scuole medie superiori e università. Perché c’è bisogno di proposte per superare l’emergenza, "perché bisogna far capire che la matematica non è un club esclusivo per pochi, ma un esercizio che ha attinenze con la realtà".
* la Repubblica, 31 luglio 2007
Editoriale *
Ci stanno rubando ogni ben di Dio
di Sebastiano B. Caix
L’aria a Milano, le spiagge sulle coste, la terra e l’acqua nel Sud. Tutto per una parola: liberalizzazione. Non sembra vero: ora la usano anche gli ex comunisti
I problemi gravi e vistosi di guerre e di politica sono tanti e tutti ne discutono, parlerò di alcuni piccoli ma che, messi insieme, hanno un loro senso. La terra, l’acqua, l’aria, la vita sono di tutti: tutti abbiamo diritto di lavorare la terra, di bere l’acqua, di respirare l’aria. Tutto quello che era prima dell’uomo appartiene a Dio, che l’ha donato a tutti gli uomini ovvero a tutta l’umanità. Nessuno - ricorda don Primo Mazzolari in un suo scritto - può dire questo è mio e non di altri. Se Mazzolari era un cristiano, questa è un’affermazione cristiana. Le leggi regolano questi diritti.
Le cose però non stanno così. La voce della saggezza e del diritto è stata nei secoli schiacciata dalla forza che, ai vincoli della ragione, ha sostituito quelli della violenza e della prevaricazione. Il più forte dice: «Questo è mio» e toglie ai deboli un loro diritto. Così oggi ci troviamo di fronte a un intrico di leggi sempre più fitto e confuso che, alla fine, difende sempre più la forza dei forti che i diritti dei deboli. Respiriamo aria inquinata, beviamo acqua inquinata, mangiamo cibi inquinati. Perché? Non sembra vero: per dare più armi di violenza a quelli che ci tolgono i nostri diritti con la violenza.
L’Italia è l’esempio che abbiamo sotto gli occhi: ma come avere il coraggio di ripetere ciò che viene detto, e inascoltato, ogni giorno? Milano è inquinata dalle autovetture? Basta pagare un biglietto «antinquinamento» ed ecco che i cittadini elettori, invece di cambiare regime, si tranquillizzano. Si autoinquinano pagando una tassa di più. Vivaci proteste popolari? No, qualche borbottio, poi su tutto (e sugli immani guadagni dei politici e dei loro accoliti) cala il silenzio perfino dei partiti all’opposizione. Sulle spiagge non si può prendere liberamente il sole o fare il bagno, perché i litorali sono stati venduti ai privati? Qualche polemica sui mass media, poi tutto si soffoca, si attutisce: i fiumi di denaro e le connivenze mettono a tacere gli amministratori e le opposizioni.
Montagne di rifiuti fumanti in numerose città del sud? I turisti stranieri invitati ad andarsene dalle loro stesse rappresentanze diplomatiche? Grida mediatiche, scambi di responsabilità (responsabilità!), montagne di denaro alle varie mafie e camorre, a esponenti di amministrazioni pubbliche e private, a personaggi d’ogni risma e partito che allignano perfino nelle istituzioni incaricate di proteggere i diritti contro i soprusi, ed ecco che tutto si sopisce, si ferma, l’ingiustizia scompare. Non che tornino ordine, pulizia, onestà: no, le bocche sono cucite dai soldi e dalla paura, il silenzio è d’oro.
La stampa dà notizia di una pericolosa discarica abusiva su un’area di 12 chilometri sulla tangenziale di Bari, e dice «scoperta» dall’autorità tutoria. Quest’area è da mesi scavata, preparata e tenuta in attività con camion e ruspe alle porte di un capoluogo di regione. Cosa vuol dire: scoperta? Scoprire una discarica illegale di 12 chilometri quadrati è come a Pisa «scoprire» la torre di Pisa. In alcuni capoluoghi di provincia, come a Taranto, manca l’acqua: è stata liberalizzata. Questa la grande trovata truffaldina: la «liberalizzazione» di elementi vitali che appartengono a tutti. Qui dovrebbe esserci un sommovimento mondiale, invece no. Perfino gli ex comunisti parlano di liberalizzazione, liberalizzano. Ma che cosa si liberalizza, quello che «deve» essere libero? Quello che è già per natura un dono di Dio a tutti?
La forza del denaro rende ciechi e muti coloro che dovrebbero parlare in difesa di chi denaro non ne ha. Con la liberalizzazione dell’acqua (la cui distribuzione dovrebbe essere organizzata e difesa dalla comunità) i cittadini hanno perduto il diritto di bere, di lavarsi, di tenere puliti se stessi e le loro città: pagano di più e sono peggio organizzati. Aprono i rubinetti ed esce la corruzione. Dal Nord al Sud, il ladrocinio non cambia. Perfino i preti più coraggiosi se ne devono andare e i cattolici più fedeli si sentono abbandonati in questo deserto.
Sebastiano B. Caix
* Il Dialogo, Giovedì, 12 luglio 2007
Nei 40 centesimi di una bottiglia al supermercato, l’acqua pesa solo per un quarto di centesimo
I due terzi dei costi se ne vanno per le bottiglie, un altro dodici per cento serve a coprire marketing e pubblicità
Gratis alla fonte, cara al bar
Minerale, ecco l’oro azzurro
I produttori: "I profitti lordi sono bassi, in media intorno al quattro per cento del fatturato"
di MAURIZIO RICCI *
ROMA - Sicura al 100 per cento, giurano i produttori: mai un’infezione da una nostra bottiglia. Saporita, fa capire il 98 per cento di italiani che la preferisce sempre di più all’acqua potabile. Salutare: per chi ha problemi di pressione e ha bisogno di un’acqua leggera o, al contrario, per gli sportivi alla ricerca di un’acqua ricca di sali minerali. Ma cara. L’acqua al rubinetto la paghiamo 60-80 centesimi a metro cubo, che equivale a mille litri. L’acqua minerale 40 centesimi per una bottiglia di 1,5 litri (al supermercato, si intende, perché al bar l’unico limite è la faccia tosta del gestore). Cioè 25 centesimi al litro: 250 euro a metro cubo.
Il problema è che non è l’acqua che paghiamo tanto. Quella costa pochissimo, quasi niente. A volte, visto che le fonti d’acqua minerale sono di proprietà pubblica, noi - la collettività - gliela diamo in concessione anche praticamente gratis. Quando va male (all’azienda), Nestlè e concorrenti pagano a noi, oggi, come collettività, l’acqua che finirà sugli scaffali del supermercato o dei bar gli stessi 60-70 centesimi a metro cubo che noi, singolarmente, paghiamo per l’acqua del rubinetto. A fare i conti, si finisce sommersi da virgole e zeri: nei 40 centesimi della bottiglia del supermercato, la materia prima, l’acqua, vale oggi, al massimo, 25 centesimi di centesimo. Praticamente invisibile. Compriamo acqua, ma in realtà paghiamo la plastica della bottiglia, il gasolio per trasportarla, gli spot per pubblicizzarla.
Ed è già un bel salto rispetto alla situazione di qualche anno fa. "Liscia, gassata, gratis" titolava un vecchio documento di denuncia del Wwf. La storia delle acque minerali è, in linea di principio, la stessa dei bagnini che sfruttano le spiagge del demanio in concessione. Solo che nella realtà è molto peggio, perché nessun bagnino è un gigante multinazionale come la Nestlè e i soldi in questione sono molti di più. Fino a pochi anni fa, la materia era regolata da una legge del 1927, quando l’acqua minerale era il bicchiere che si andava a riempire alle terme. La concessione, dunque, si pagava in base agli ettari di terreno occupati per gli impianti. Spiccioli, anzi meno: da 5 a 60 euro per ettaro. Questo spiega come la Nestlè potesse pagare poco più dell’equivalente di 2.500 euro per imbottigliare la San Pellegrino (uno dei marchi più famosi al mondo) o 15 mila euro per la Levissima. In totale, la Nestlè spendeva probabilmente meno di 50 mila euro l’anno, in tutta Italia, per avere l’acqua, su cui realizzava un fatturato di 500 milioni di euro. Il Veneto, dove si imbottiglia un quinto dell’acqua minerale italiana, per un fatturato di 600 milioni di euro, ne incassa tuttora, dalla concessione per ettaro, solo 300 mila.
La situazione è cambiata nel 2001, quando la riforma federalista ha dato alle Regioni la competenza sulle acque minerali. Le Regioni hanno cominciato ad intervenire, spinte anche da pronunce della magistratura, come la Corte dei conti piemontese che, nel 2002, mise sotto accusa l’allora giunta di centrodestra proprio per le concessioni sulle acque minerali. Se alcune regioni sono ancora ferme alla vecchia normativa (nelle Marche è di 5 euro per ettaro, in Abruzzo un forfait di 2.500 euro l’anno, tutto compreso) altre, soprattutto quelle dove maggiore è la produzione di acqua minerale, hanno introdotto il principio di commisurare il canone di concessione ai metri cubi di acqua utilizzata, invece che solo agli ettari occupati. In Piemonte, ad esempio, 0,70 euro a metro cubo, in Lombardia 0,51. Gli effetti sono sui bilanci. Il Piemonte prevede un aumento del canone da praticamente zero a un milione di euro l’anno. Il Veneto da 300 mila a 2,7 milioni di euro. Finora sono nove le regioni che hanno introdotto questo parametro, per una quota, stima Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua, l’organizzazione confindustriale dei produttori, pari al 65-70 per cento della produzione nazionale. Qualcuna l’ha introdotta con entusiasmo. La giunta veneta aveva recentemente deciso di portare il canone a 3 euro a metro cubo. Suscitando la protesta di Fortuna. "Qui - dice - non è in discussione l’entità del canone. E’ un problema di concorrenza. Non è possibile che io paghi in Veneto 3 euro a metro cubo e, nella regione a fianco, il Friuli, praticamente niente. La concorrenza è falsata".
L’argomento ha fatto breccia nella giunta veneta che ha deciso di adeguarsi alle linee guida che le regioni stabiliranno a livello nazionale. Per evitare una legislazione a macchia di leopardo, la Conferenza delle Regioni dovrebbe infatti varare una forchetta minimo-massimo dei canoni, per spingere le regioni che ancora non l’hanno fatto ad intervenire ed evitare disparità di concorrenza fra le diverse fonti. La forchetta suggerita alle giunte è fra 1 e 2,50 euro ogni mille litri (o metro cubo) imbottigliati. Se la media fosse di 2 euro a metro cubo, gli incassi dalle concessioni passerebbero dal quasi zero attuale a circa 22 milioni di euro in totale. Meglio di prima, naturalmente, nel capitolo "pagare l’acqua per quello che vale", ma quanto meglio? "Non provi a commisurare i canoni di concessione al fatturato di 3 miliardi di euro del settore" mette le mani avanti Fortuna. "Quello è il fatturato al consumo, che comprende anche la bottiglia a 5 euro al bar del Colosseo o al ristorante di Capri. Per noi conta la grande distribuzione".
Attraverso i supermercati passano circa i due terzi delle bottiglie di acqua minerale, per un giro d’affari di circa 2 miliardi di euro. Se tutte le regioni applicassero un canone di 2 euro a metro cubo e incassassero 22 milioni di euro, le concessioni peserebbero sul giro d’affari nella grande distribuzione al massimo per l’1 per cento. Vale poco l’acqua minerale, anche dopo aver decuplicato il vecchio canone di concessione. E allora, cosa paghiamo alla cassa? Soprattutto, la bottiglia: "I due terzi dei costi sono per la plastica delle bottiglie" dice Fortuna. "E un altro 12 per cento è marketing e pubblicità". E i profitti? Bassi, assicura: "I profitti lordi sono, in media, intorno al 4 per cento del fatturato". In molti settori industriali si guadagna di più. Considerando che la materia prima non costa quasi nulla, è un risultato sorprendente. Oppure un paradigma della società dei consumi, in cui la vera merce sono l’involucro (la bottiglia) e l’immagine (la pubblicità).
* la Repubblica, 19 luglio 2007
Carovane per l’acqua: «È un bene pubblico»
di Pasquale Colizzi *
Partiranno dai quattro angoli d’Italia domenica 24 giugno per congiungersi a Roma il 1° luglio per un happening a Trastevere le "Carovane per l’acqua" organizzate dal comitato "Acqua pubblica, ci metto una firma". Una rete di soggetti che coinvolge 80 realtà nazionali (dai sindacati alle diocesi fino alle organizzazioni ambientaliste, altermondiste e del terzo settore), 1000 più piccole legate al territorio e più di 150 comuni ed enti locali che hanno già deliberato a favore della proposta di legge di iniziativa popolare elaborata in questi sei mesi di mobilitazione. Il 10 luglio il comitato consegnerà al presidente della Camera Fausto Bertinotti le 300mila firme raccolte e il testo che si spera avrà in Parlamento una corsia preferenziale per una rapida approvazione, entro ottobre o novembre.
Nella proposta sono contenuti tutti i cavalli di battaglia della mobilitazione. Innanzitutto si vuole ottenere il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale, cioè come bene senza rilevanza economica, sottratto alle logiche di mercato. I 50 litri al giorno, quantità minima vitale, devono essere assicurati dalla fiscalità generale. Proprietà e gestione di questa risorsa collettiva devono restare affidati ad enti totalmente pubblici, superando il concetto di società per azioni private (o anche partecipate dagli enti locali). Infine una ripianificazione dei distretti idrici più organica, che incorpori il concetto non più rinunciabile di governo partecipato e dal basso del bene comune. Una battaglia contro il tempo, prima che le società multiutility di regioni e grandi città - che spesso gestiscono l’acqua insieme a energia, rifiuti, ecc. - si aggreghino proponendo soluzioni "pericolose" di compartecipazione e cessione della gestione. La società più grosso, nata dall’ aggregazione dei giganti AEM di Milano e ASM di Brescia potrebbe imboccare questa strada. Nel nordest è già attiva Iride, Pubbliacque in Toscana ha una struttura ormai molto grande mentre si ventilano fusioni tra Acea di Roma e l’ Era che opera in Emilia.
Intanto il comitato tiene d’occhio la situazione parlamentare, in vista del passaggio al Senato del disegno di legge Bersani sulle liberalizzazioni, già approvato alla Camera il 13 giugno. Al suo interno infatti era stato inserito un emendamento che stabilisce una moratoria degli affidamenti a soggetti privati della proprietà e gestione dell’acqua. Uno stop temporaneo (se viene approvato nella stessa forma anche a palazzo Madama) che servirà a prendere tempo per la definizione di una nuova legge. Quella precedente, la legge Galli del ’94, aveva sì razionalizzato la gestione, aprendo la strada tuttavia alle prime privatizzazioni dei servizi. Gli esempi sono molteplici, anche incredibili. L’ultimo risale al 17 giugno, quando il presidente della provincia di Palermo, Musetto, ha deliberato per l’affidamento dell’Ato 1 (della zona di Palermo) ad un’azienda privata. Ma questo è l’ultimo atto di una tradizione non soltanto siciliana, che attraverso la gestione clientelare dei servizi pubblici e diffusi (l’acqua, ma anche la sanità, i rifiuti e quant’ altro) crea un sistema di ricatto sociale.
Ciascuna delle 4 carovane servirà a riannodare i fili della mobilitazione. Quella che partirà da Palermo toccherà anche la Calabria e la Campania, altra regione in cui è aperta una grave vertenza sull’acqua. Una seconda invece partirà da Potenza, il capoluogo lucano dove da poco la Coca Cola ha concluso l’acquisto di una sorgente. Il serpentone si snoderà in Abruzzo e Molise senza dimenticare la Puglia delle polemiche sull’Acquedotto pugliese e il riassetto misto proposto dalla giunta Vendola. La carovana del nord-est partirà da Trento incrociando i comitati No dal Molin a Vicenza mentre quella del nord-ovest muoverà i suoi passi da Aosta.
La discussione si dispiegherà a tutto campo: dibattiti pubblici, consigli comunali aperti, campagne informative. I promotori ringraziano Beppe Grillo e i centinaia di artisti che hanno messo a disposizione i loro spettacoli e le loro conoscenze per animare una discussione che deve portare ad una nuova consapevolezza. Per esempio bisogna rifiutare le stime future che parlano di un incremento dei consumi di acqua del 20% nei prossimi 10 anni. Dietro c’è la diffusione di una visione consumistica (con un aumento delle tariffe) e prettamente occidentale del suo utilizzo. Non considerando che nei prossimi 20 anni ci potrebbero essere ondate da 200 milioni di profughi che fuggono dalla sete o dalle guerre per il controllo delle risorse idriche. Nella serata di Trastevere poi saranno proiettati il doc "L’acqua invisibile" di Palladino e Lima e poi il film "Il Rabdomante" di Francesco Cattani, che racconta una storia di intreccio tra affari della malavita e commercio dell’acqua tra Puglia e Basilicata.
pasquale.colizzi@fastwebnet. it
* l’Unità, Pubblicato il: 22.06.07, Modificato il: 25.06.07 alle ore 15.09
INTERVISTA
Il massmediologo francese mette in guardia: «Necessario è il verbo, mettiamo un freno al dilagare dell’immagine, altrimenti il domani sarà segnato da paure, da nuovi totalitarismi. E anche l’arte e l’estetica moriranno» Virilio: ritornare alla parola
di Antonio Giorgi (Avvenire, 23.05.2007)
«Torniamo al verbo, alla parola. Mettiamo un freno al dilagare e al predominio asfissiante dell’immagine, altrimenti il domani sarà segnato da paure incontrollabili, dal rischio di nuovi totalitarismi, dalla prospettiva di sanguinose guerre civili». Conversare con Paul Virilio è sempre uno stimolante esercizio di approfondimento e verifica della realtà che circonda l’uomo metropolitano di oggi. Filosofo, politologo, urbanista e mass-mediologo lo studioso francese è oggi uno dei più raffinati interpreti della cultura transalpina moderna; nel suo buen retiro della Rochelle, ai bordi dell’Atlantico, dove si è appartato al termine di una intesa carriera parigina, si è dato l’impegno di vivere da cittadino del mondo indifferente alle lusinghe anche sotterranee del nazionalismo, consapevole che la globalizzazione «va vissuta con i suoi rischi ma anche con le sue speranze». Scrive molto, Virilio. Il suo ultimo saggio L’Art à perte de vue (pubblicato in Italia da Raffaello Cortina con il titolo L’arte dell’accecamento, pagine 104, euro 8,50) è una articolata denuncia dei mali indotti dalla ricorrente sovraesposizione mass-mediatica, dove il sensibile è diventato il fotosensibile, l’obiettività una teleobiettività. «È accaduto - lamenta l’autore del pamphlet - ciò che era inevitabile, abbiamo disappreso l’arte di vedere».
Affermazione paradossale, la sua. Non è questa la stagione dell’immagine? Non viviamo sommersi dalla realtà fotografica e da quella catodica?
«Appunto. Anneghiamo nelle immagini della tv, ma la parallela restrizione del campo ottico al solo teleschermo induce una perdita della lateralità. È come se avessimo il glaucoma, ci manca la percezione della sconfinata realtà che sta a lato del televisore, o anche del telescopio, o del telefonino, o del computer. Lo schermo rimpiazza l’orizzonte, e per contro il nostro orizzonte è limitato allo schermo. Ci illudiamo di vedere tutto, invece l’occhio non scorge quasi nulla».
Con quali conseguenze, dirette e indirette?
«Si parla sempre di obiettività, nel campo dell’informazione la si invoca a proposito e a sproposito, ma ormai stiamo transitando dall’obiettività alla teleobiettività, nel senso che la visione lontana nasconde quella vicina con imponenti ricadute sulla intersoggettività. La prospettiva del tempo reale presentata dallo schermo tv domina e vela la prospettiva dello spazio reale della vita, che ha fondato l’arte contemporanea. Intendiamoci, questa dominanza non coinvolge solo la rappresentazione artistica, non è unicamente un fatto estetico. Ne viene coinvolta la natura. Ne è toccata perfino la politica. Non ci rendiamo conto che la politica di questi anni è sempre più interconnessa al fattore paura?»
Nel senso che il potere nelle sue articolazioni sfrutta paure private e collettive per liberarsi dai lacci del controllo democratico e agire con mano libera?
«Anche. Infatti siamo passati dall’epoca della dissuasione militare - che si reggeva sull’equilibrio del terrore degli ultimi decenni del secolo scorso - alla stagione della dissuasione civile che trae alimento da infinite paure, non solo quella terroristica dopo l’11 settembre. Pensiamo alla paura di perdere il lavoro in epoca di globalizzazione, alla paura dell’emigrazione (io sono figlio di emigrati italiani, tengo a dirlo) e a tutti gli altri timori e incubi che agitano i nostri sonni. La paura è diventata il cuore del politico, cioè di tutto quanto è politico. Non è più un fatto individuale, perché allora puoi reagire con il coraggio. La paura si è fatta collettiva, e puoi solo subirla come la subivo io quando ero ragazzo durante la guerra. Ha svariati nomi: globalizzazione, delocalizzazione produttiva, disoccupazione, perdita della casa, inflazione, arrivo massiccio degli stranieri... Tutte le paure però convergono, sicché agli incubi della guerra fredda sono subentrate le angosce di una condizione generalizzata che definisco di panico freddo».
In questo orizzonte fosco riesce a cogliere elementi capaci di alimentare la speranza di un futuro migliore? Oppure l’avvenire dell’umanità è segnato?
«Alla disperazione non bisogna mai cedere. Trovo molto bella quell’affermazione di Churchill che dipingeva l’ottimista come un uomo che sa vedere una opportunità in ogni calamità. Io sono cristiano praticante, fervente, convertito da adulto; si figuri se posso vivere senza speranza. La stessa globalizzazione ne racchiude vari alcuni germi, non neghiamolo».
Quale vuol essere allora il messaggio autentico che proporre il suo saggio sull’accecamento massmediatico della società contemporanea?
«Mentre l’arte di vedere è diventata una vittima della modernità non posso non sottolineare che vedere e sapere erano i principi attorno ai quali si articolava la ricerca scientifica e la speculazione culturale dopo il secolo dei lumi. Vedere e potere assumono identica valenza nel XXI secolo, ora che siamo passati dal telescopio di Galileo e di Newton alla tele-percezione politica. Non dimentichiamo che se le società totalitarie hanno tentato di imporre politiche pan-ottiche, di per sé massificanti, anche la società globale che si annuncia possiede i mezzi audio e televisivi che possono indurla a ripetere errori costati cari all’umanità. Dunque il problema non è la gestione più o meno centralizzata della visione planetaria in chiave di Weltanschaung, ma l’affermazione di una nuova filosofia della tele-visione del mondo capace - grazie alla corretta interpretazione della realtà vicina e lontana - di far sopravvivere la democrazia e ricostruire un clima generale di pace civile. Dietro la più parte delle paure c’è la minaccia della guerra. Civile, non tradizionale. Civile, e pertanto più tragica».
La scuola, l’università, la cultura che apporto possono offrire al superamento della cecità provocata dal dilagare dell’immagine?
«Questi tre soggetti devono battersi per il ritorno al verbo, alla parola. La politica, "il politico" è fondato sulla parola, sul verbo, sulla scrittura. È sempre stato così, dalla polis greca al mondo contemporaneo. Quando, come rischia di accadere oggi, l’immagine istantanea trionfa sul verbo, è la tirannide. Tirannide del tempo reale, tirannide mediatica, dell’ubiquità, dell’immediatezza cronologica. La democrazia soffoca e si impone la babele, confusione di lingue e di immagini. Mentre l’immagine domina e la fa da padrona assoluta, la parola cade in una condizione di sudditanza e nascono i guai. Tocca a noi far vincere il verbo».
Vaticano
Il papa con il copyright *
Il vaticano sta lavorando a un provvedimento con il quale si intende tutelare con il diritto d’autore testi, fotografie, immagini e registrazioni della voce dei papi, e gli atti della Santa sede. La notizia è apparsa ieri sul «Sole 24 Ore». Il quotidiano scrive che nel testo, pronto tra un paio di mesi e scritto rifacendosi alla legge dello stato italiano, sarà previsto che per utilizzare libri, immagini e registrazioni audio, salvo eccezioni stabilite nel regolamento, servirà un’autorizzazione e sarà possibile esigere il pagamento delle royalties. Della stesura del provevdimento si sta occupando la Libreria editrice vaticana.
* il manifesto, 11.02.2007.
Secondo un rapporto promosso dalla Cgil, gli ex co.co.co. guadagnano poco, lavorano tanto e nell’82% dei casi non hanno figli
Stipendi da fame per i ricercatori la media è di 800 euro al mese *
ROMA - Lavorano fino a 45 ore a settimana e non raggiungono i 1000 euro di stipendio. E sono molto stressati. Si tratta di più della metà dei ricercatori scientifici, assunti con contratti di collaborazione e quindi precari. La media dei salari si attesta tra gli 800 e i 1.200 euro al mese. E possono anche ritenersi fortunati: un ex "co.co.co." su tre, infatti, guadagna meno di 800 euro netti al mese. E’ quanto emerge da un rapporto promosso da Nidil Cgil e realizzato dal Cer. Non solo però il guadagno è basso (il 65% degli interpellati si lamenta della propria condizione economica), ma anche la qualità della vita lascia a desiderare. Il lavoro infatti impegna il tempo della gran parte della giornata. Va considerato infatti che il 50%, e quindi un ex co.co.co. su due, lavora più di 38 ore alla settimana, con punte anche di 45 ore.
Anche il 20% dei ricercatori che guadagna più della media (più di 1.200 euro al mese) lavora più di 38 ore alla settimana. Ed è lo stesso orario che fa anche il 56% di chi guadagna tra 800 e 1.000 euro al mese e quasi il 60% tra i 1.000 e i 1.200 euro. Diverso è il caso degli orari di lavoro più bassi che permettono a stento di arrivare a 800 euro al mese. Tra chi ha un reddito inferiore a 800 euro al mese, poco meno del 40% lavora meno di 30 ore. Tra questi, più del 50% in realtà lavora meno di 20 euro per una retribuzione netta inferiore ai 400 euro.
Ad ogni modo, il 31% degli intervistati guadagna meno di 800 euro netti al mese. Se si somma anche il 26% di coloro che hanno una retribuzione mensile tra gli 800 e i 1.000 euro, il risultato è che un collaboratore su due guadagna meno di 1.000 euro al mese. E tra chi svolge le professioni più qualificate in ambito scientifico, il 52% guadagna tra gli 800 e i 1.200 euro al mese. Poco più del 20% ha stipendi un po’ più elevati, superiori comunque ai 1.200 euro. Tra quelli che eseguono professioni più esecutive, più del 65% guadagna meno di 800 euro al mese.
Analizzando gli orari di lavoro, emerge inoltre che il 72% dei tirocinanti lavora più di 38 ore alla settimana. Chi svolge lavori più esecutivi ha invece un orario tra le 30 e le 38 ore a settimana. Tra questi tuttavia, ben il 26% lavora con orario part-time (sono prevalentemente dei lavoratori e delle lavoratrici dei call center). Va ricordato infatti che il part-time è di fatto quasi un dato strutturale nei call center, perchè adattandosi alla natura del lavoro, viene incontro ai bisogni dei datori di lavoro, permettendo di mantenere sempre alto il livello di attenzione degli operatori e consentendo di gestire i turni con un alto grado di flessibilità.
E il futuro? Non tutti vedono ’rosa’ anche perché si è precari sempre più in là con gli anni: uno su 4 ha più di 35 anni (26% del campione) e di questi circa la metà ha più di 40 anni. Le ripercussioni sulla famiglia sono immediate: l’82% degli interpellati non ha figli. Ma non basta perché dalla ricerca emerge anche che la loro condizione di precari genera ansia e anche se la loro produttività non risente di quest’incertezza, sicuramente la vita privata si’. La loro condizione di vita infatti destabilizza notevolmente i giovani "cervelli", con effetti negativi in particolare sul rapporto di coppia, sul bilancio familiare e sulle scelte per la casa. Nell’indagine risulta che il 97,4% degli intervistati ha uno stress emotivo soprattutto quando si avvicina la scadenza del contratto.
Ma la situazione di incertezza è causa generale, per il 96,6% degli interpellati, e quindi praticamente per tutti, di effetti indubbiamente negativi sulla vita privata. Ad esempio, il 71,6% ritiene che sia la causa di problemi di coppia, l’89,7% la ragione di incomprensioni con i propri genitori, l’89,3% sulla scelta dell’abitazione, il 91,7% sul bilancio familiare, l’87,2% sulla capacità di affrontare gli imprevisti della vita quotidiana.
* la Repubblica, 6 gennaio 2007
VERGOGNA INFINITA !!! ----- DOPO IL MARCHIO SULLA "SAPIENZA", IL MARCHIO SULLA "STAZIONE" DI ROMA !!! (fls, 31.12.2007).
Veltroni e la stazione, come cedere un pezzo di territorio pubblico
di Roberta Anguillesi
SUl cambiamento del nome della stazione Termini di Roma
Cari Amici di democrazialegalita.it
facciamo nostro l’appello di ItaliaLaica.it e vi inoltriamo i loro comunicati. In essi troverete anche indicazioni per far sentire , se la condividete, la vostra protesta.
Noi in genere evitiamo gli appelli e le chiamate alle armi agli eserciti delle mail perchè abbiamo visto fiumi di appelli alimentati da fiumi di firme e di mail finire nel grande mare dell’oblio quasi subito, o perlopiu’ utilizzate per ’contare’ gli oppositori durante il governo berlusconi e farne gregge o moneta spendibile nella solita politica.
Questa volta invece ci sembra opportuno sottoscrivere e diffondere perchè potremmo così testimoniare che tutto questo incenso profuso non a tutti è gradito e che forse, molti di noi vorrebbero vedere rispettati il proprio diritto di vivere in un paese laico e aconfessionale anche nella toponomastica moderna, rivendicando le proprie radici nel libero pensiero, nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della donna, nella grande rivoluzione che con lacrime e sangue ha lentamente trasformato gli uomini e le donne da sudditi e fedeli, in liberi cittadini. ma non solo , intitolare la stazione ferroviaria della capitale d’Italia ci sembra una simbolica ,e neppur tanto, cessione di sovranità sul territorio pubblico italiano a uno stato, teocratico, limitrofo; quasi una incondizionata apertura alla permeazione ,anche fisica, della chiesa romana nelle pubbliche cose della stato, democratico, italiano; quasi un nulla osta totale all’influenza e alle competenze del papa sulla res publica del nostro paese.Allora, per questo secondo noi è importante farsi sentire, per non cedere ancora più sovranità all’oltretevere, per chiedere che siano stabiliti dei limiti e che cio’ che è pubblico resti di tutti anche per il nome che porta.
Buon 2007 comunque,
Roberta Anguillesi democrazialegalita.it Firenze tel.333 2328596 info@democrazialegalita.it
colgo l’occasione per invitarvi a visitare www.democrazialegalita.it chhe propone alcuni importanti aggiornamenti.
COMUNICATO STAMPA n.1
La pretesa di intitolare al papa Giovanni Paolo II la stazione centrale "Termini" della capitale della Repubblica italiana non è che il culmine del confessionalismo istituzionale. La decisione è stata assunta con un colpo di mano antidemocratico, non trasparente, in periodo di silenzio-stampa, nonostante fosse stata già precedentemente contestata da migliaia di cittadini e da centinaia di associazioni italiane ed estere. Il sindaco Veltroni ha così negato il carattere laico delle istituzioni e il profondo pluralismo culturale, politico e religioso della società in cui viviamo. Ha perduto il rispetto per ogni convinzione che non sia quella cattolica. Riteniamo che, quanto meno, decisioni destinate a segnare a tempo indeterminato il volto di Roma dovrebbero essere prese senza demagogia e senza opportunismo. Il 23 dicembre sarà ricordata a Roma come una data infausta per la laicità e la democrazia delle istituzioni.
L’Assemblea delle associazioni laiche romane tenuta a Roma il 27-12-2006 in via delle Carrozze, 19
invita tutti i cittadini a far sentire la propria protesta sui giornali, sul sito del Comune di Roma
http://www.comune.roma.it/
e al call center 06.0606.
richiede la convocazione di una riunione straordinaria del Consiglio comunale per dibattere pubblicamente questa improvvida decisione.
invita i comuni italiani a protestare contro lo stravolgimento del nome storico della Stazione della capitale italiana e contro la prassi inedita del Comune di Roma con cui si è appropriato di un simbolo della comunità nazionale.
invita tutti i cittadini a sottoscrivere questo documento di protesta presso info@italialaica.it , in vista di una prossima assemblea cittadina.
L’Assemblea delle associazioni laiche romane
COMUNICATO STAMPA n.2
La decisione presa da Walter Veltroni di intitolare a Giovanni Paolo II la Stazione “Termini” della capitale della Repubblica Italiana rappresenta l’ennesimo attacco al carattere laico delle istituzioni e la negazione del pluralismo culturale, politico e religioso della società contemporanea italiana. Il Sindaco di Roma ha perso ogni rispetto per i cittadini che dissentono dalle opinioni e dalle convinzioni della gerarchia ecclesiastica cattolica, venendo meno al più elementare concetto di democrazia. La Consulta per la LIBERTA’ DI PENSIERO E
LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI, istituita dal Comune di Roma, non è stata nemmeno consultata in materia; anzi, non ha avuto nemmeno una risposta quando ha richiesto al Sindaco, oltre un anno e mezzo fa, una chiarificazione in merito. La formalizzazione del nuovo nome della Stazione Termini di Roma è avvenuta il 23 dicembre scorso, all’insaputa del grande pubblico, mentre era in corso uno sciopero dei mezzi di informazione. Ritenendo inaccettabile tale comportamento da parte del Sindaco Veltroni e considerando assolutamente inutile la nostra posizione di membri in una Consulta che si è rivelata una struttura di imbonimento della laicità stessa, piuttosto che della sua promozione, dichiariamo attraverso il presente comunicato la nostra uscita irrevocabile dalla Consulta stessa.
Le Associazioni firmatarie:
Associazione Italialaica.it
Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno"
Associazione Società laica e plurale
C.R.I.D.E.S.
EKEDEA
Fondazione Critica liberale
(Uscita con comunicato proprio l’Associazione Dem. Giuditta Tavani Arquati)
I nominativi di coloro che aderiranno alla protesta e ulteriori notizie sull’argomento saranno pubblicate su:
www.italialaica.it
da: www.ildialogo.org, Domenica, 31 dicembre 2006
Reazioni durissime di Verdi, Prc e Pdci dopo le rivelazioni di "Repubblica". Nel maxi-emendamento due commi "nascosti" stanziano fondi non programmati
Manovra, cento milioni agli atenei privati scontro nella maggioranza: "Bloccateli" *
ROMA - Una vera bufera politica si sta scatenando nella maggioranza dopo la scoperta di un altro "emendamento nascosto" nella Finanziaria appena approdata alla Camera. Questa volta la battaglia si scatena sul mondo universitario. E i fondi di si discute non sonoi pochi: cento milioni destinati alle università private, nascosti in due commi del maxi emendamento - il 603 e 604 - sfuggiti ai più.
La notizia anticipata sulle pagine di "Repubblica" ha scatenato le reazioni di alcuni partiti di governo, che arrivano a chiedere una nuova riunione di maggioranza per sbrogliare il caso.
Particolarmente duro il commento di Oliviero Diliberto: "Il finanziamento di istituti universitari privati con fondi pubblici è del tutto inaccettabile - dice il segretario del Pdci-. Di un simile provvedimento non si è mai discusso e deve essere eliminato al più presto". Rincarano la dose la senatrice Manuela Palermi, capogruppo Verdi-Pdci a Palazzo Madama: "E’ inaccettabile che le linee politiche della Finanziaria vengano decise da colpi di mano o attraverso vergognosi sotterfugi. E’ obbligatoria ed urgente una riunione della maggioranza e del governo" e l’onorevole Sgobio, capogruppo dei Comunisti Italiani a Montecitorio: "Non ci sono soldi per la Ricerca e poi si finanzia l’università privata, è un’altro buco nero di questa Finanziaria".
Reazioni che testimoniano la sorpresa di una parte della maggioranza di fronte alla notizia anticipata da Repubblica. I firmatari dei commi che portano cento milioni alle università private sono due noti senatori della Margherita: Luigi Lusi, segretario amministrativo del partito e vicinissimo a Rutelli, e Luigi Bobba noto come esponente della linea "teodem" all’interno del suo partito (che però scarica le responsabilità sul collega di partito: L’ho solo firmato, chi l’ha pensato e poi costruito è stato lui").
I fondi sono destinati a tutti i collegi universitari che abbiano la finalità di ospitare studenti e che "siano iscritti ai registri delle prefetture", criteri poco selettivi per ricevere complessivamente 32 millioni l’anno nei prossimi tre anni.E’ scontato che la maggioranza dei collegi ai quali andranno i fondi sono di natura religiosa.
* la Repubblica, 20 dicembre 2006
Raccolti in un libro i risultati di un’indagine su questo segmento del mercato del lavoro. Tra insoddisfazioni e paura del futuro. E intanto si alza l’età media dei ricercatori
La maledizione del precario scientifico "Una vita piena di stress e tensioni" *
Il mercato del lavoro nel settore scientifico sempre più all’insegna della precarietà: il 10,2% dei ricercatori ha avuto infatti un contratto a tempo determinato e il 9,7% un assegno di ricerca; i "Co.co.co." e le altre forme di collaborazione sono il 35,8%, mentre i borsisti di vario genere sono 37,4%. Un’incertezza che provoca stress e tensioni anche nella vita privata. Ai ricercatori precari è dedicata l’indagine svolta dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Consiglio nazionale delle ricerche, pubblicata nel volume "Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro scientifico" di Maria Carolina Brandi dell’Irpps-Cnr.
Un altro dato che desta preoccupazione è poi l’elevata età media dei ricercatori, dovuta anche al blocco delle assunzioni a tempo indeterminato negli enti pubblici di ricerca. All’indagine hanno risposto, attraverso un questionario informatico, 798 ricercatori con contratto a termine di alcune Università e dei maggiori Enti pubblici di ricerca italiani. "Dall’esame dell’età si rileva innanzitutto che il 5,2% ha più di quarant’anni, il 20,6% è tra i 35 e i 39 anni, mentre il 43,4% è tra i 30 ed i 34 e solo il 30,7% ha 29 anni o meno", spiega Carolina Brandi. Un effetto, questo, dei tempi di attesa: "Anche 5 anni prima che un ricercatore possa vedere stabilizzata la propria collaborazione. Al momento dell’intervista, infatti, il 60% dei casi aveva rapporti di lavoro in atto di durata intermedia, il 32,3% usufruiva di contratti brevi (di un anno o meno), mentre pochissimi (7,7%) avevano contratti di durata superiore ai tre anni".
Ma come incide nella vita privata il perdurare di questa instabilità? "Per il 97,4% è causa di stress emotivo, che il 59,3% dichiara ’forte’". La produttività scientifica, invece, sembra non risentire dell’incertezza: "L’output scientifico del campione è elevato e nella media - aggiunge l’autrice - a conferma che esso dipende dalle capacità e dalla validità del gruppo e non dalla stabilità del rapporto di lavoro". Inoltre, nonostante le difficoltà, emerge che la ricerca è una scelta di vita per gli intervistati, una vocazione che di fatto scoraggia il passaggio ad altre professioni nelle quali, pure, l’85,9% ritiene di avere possibilità di inserimento e il 68,5% anche con un salario più alto.
*(la Repubblica, 12 dicembre 2006)
scienza in azione
Quel valore d’uso della diversità nell’atelier del riduzionismo
Un percorso di ricerca che tocca i nodi fondamentali della riflessione teorica del nostro tempo, quali l’evoluzione dei sistemi viventi, l’organizzazione della società. E le forme di resistenza al potere «Il supermarket di Prometeo» di Marcello Cini per Codice edizioni. Un impegnato saggio sul ruolo e lo statuto filosofico della scienza nell’economia della conoscenza
di Gianni Giannoli (il manifesto, 06.12.2006)
Sotterranea, dietro la crisi dei nostri riferimenti teorici, corre spesso a sinistra una vecchia domanda: quali pezzi della cultura vigente possano essere messi al lavoro, per disegnare scenari, formulare programmi. Guardandosi dietro alle spalle, una risposta provvisoria viene subito in mente: negli anni ’80 del secolo scorso, in ambiti apparentemente lontani, si sono andati consolidando nuovi punti di vista, coerenti nel mettere in dubbio quell’idea di «progresso» che la tradizione precedente ci aveva consegnato. In quegli anni, ha cominciato ad affermarsi l’idea che le trasformazioni dei sistemi complessi non sono mai lineari e pre-determinate, ma piuttosto caotiche, discontinue, largamente imprevedibili. Dunque, è forse la nostra idea di «programma» che dovrebbe essere scossa dal dubbio.
È guidato da questo punto di vista l’ultimo libro di Marcello Cini, Il supermarket di Prometeo. La scienza nell’età dell’economia della conoscenza (Codice edizione, pp. 486, euro 29). Spaziando su un terreno molto ampio della cultura scientifica e filosofica contemporanea, in oltre 450 pagine di analisi Cini espone la sua tesi principale, che in estrema sintesi è questa: i sistemi complessi - e, più in particolare, le specie viventi, gli esseri in grado di apprendere, i prodotti della cultura e le strutture sociali - non evolvono in un modo determinato e determinabile, ma piuttosto per livelli gerarchici di organizzazione, caratterizzati da proprietà che appaiono in genere irriducibili a quelle dei livelli più bassi. In questo quadro, la diversità degli esseri viventi e delle strutture sociali è una condizione necessaria della loro sopravvivenza e del loro sviluppo; l’elemento più critico del rapporto capitalistico (al di là delle disuguaglianze intollerabili che esso comporta e dei limiti che l’ecosistema terrestre attualmente pone) risiede proprio nella distruzione della diversità che il capitalismo produce, per la sistematica tendenza a unificare ogni aspetto del reale sotto la categoria della merce e sotto la misura del profitto. Un battaglia per l’eguaglianza, all’altezza del XXI secolo, dovrebbe caratterizzarsi come un contrasto radicale alla distruzione delle diversità.
La rivoluzione di Thomas Khun
La prospettiva da cui muove Cini tocca alcuni nodi fondamentali della riflessione teorica del nostro tempo: il ruolo e lo statuto della scienza, i risultati dell’epistemologia del ’900, l’evoluzione di medio e lungo termine dei sistemi viventi, le forme di organizzazione delle società e la questione dell’evoluzione della cultura. Si tratta di temi estremamente problematici e controversi; ed è proprio qui, dagli assunti generali che rendono così caratteristica la posizione di Cini, che potrebbero avere origine gli aspetti più dubbi delle sue proposte conclusive, quanto alle possibilità reali di resistere alla mercificazione progressiva dell’esistenza e al degrado progressivo del pianeta. Cini stesso fa trasparire una certa insoddisfazione per gli esiti politici del libro; infatti, non è senza ragione se nel capitolo finale la «speranza» di momenti migliori è espressa appunto nella forma di un auspicio; ciò basta a rivelare un’incertezza, la consapevolezza di non poter disporre ancora degli elementi concreti di un progetto, a livello che sarebbe richiesto dagli eventi. Si tratta - ben inteso - di una precarietà che ci riguarda tutti, figli del XX secolo; ma che potrebbe essere forse accentuata, nel caso di Cini, da un approccio coerentemente pluralista, nel senso che diremo, quanto agli assunti teorici di fondo.
Un riferimento decisivo per Cini, fin dalla metà degli anni Settanta, è stato il punto di vista esposto nel 1963 da Thomas Kuhn, a proposito di «rivoluzioni» scientifiche; si tratta di un’acquisizione fondamentale del pensiero contemporaneo, che nessuno studioso potrebbe seriamente revocare in dubbio. Ma l’applicazione della nozione kuhniana di paradigma ha dato spesso origine a diatribe. Se Kuhn pensava ai mutamenti di paradigma come a eventi alquanto rari nella cultura degli uomini, nella pratica corrente il termine viene spesso utilizzato come sinonimo di insieme di ipotesi, o addirittura come sinonimo di protocollo sperimentale specifico; cioè, in definitiva, come qualcosa che può mutare di frequente.
Per altri versi, il concetto di «rottura paradigmatica» è entrato nel repertorio della pubblicità scientifica, diventando una sorta di slogan, utilizzato per finalità promozionali. Per questo, si può dubitare del fatto che lo studio dei sistemi complessi, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, abbia effettivamente avuto i caratteri della svolta paradigmatica, nel senso di Kuhn. Nelle scienze cognitive, per esempio, si tende a contestare che esista una differenza incolmabile tra l’approccio classico, funzionalista, e l’approccio basato sui modelli tipici dei sistemi complessi.
C’è poi un risvolto della impostazione kuhniana che è particolarmente sgradevole: è quello «anarchico», che insiste sull’incommensurabilità dei paradigmi, sull’intraducibilità dei concetti, sul relativismo estremo dei punti di vista. A Cini, che è stato un professionista della fisica, le pretese riduzioniste di molti suoi colleghi avranno generato nel corso degli anni un senso di rigetto; per questo, ogni eccessiva pretesa di unità della scienza potrebbe risultargli un po’ sospetta. Per altri, impegnati nell’antropologia scientifica, nella psicologia evolutiva, nella neuropsicologia, nella filosofia della mente e del linguaggio, la crisi di rigetto riguarda spesso l’uso puramente retorico del lessico kuhniano, per giustificare posizioni programmaticamente antiscientifiche, derive ermeneutiche, esiti postmoderni.
Le gerarchie dell’evoluzione
Del resto, anche sul carattere «emergente» delle strutture complesse occorre intendersi. Nella concezione originaria di Charlie Broad, del 1925, le proprietà emergenti erano passibili addirittura di deduzione, grazie a leggi di tipo «trans-ordinale». Anche il padre della «teoria generale dei sistemi», Ludwig von Bertalanffy, nel definire gli organismi come «complessi di elementi interagenti», si affrettava a chiarire che il comportamento olistico di queste totalità è qualcosa che scaturisce dall’interdipendenza delle variazioni degli elementi costitutivi, non certo dal fatto che il comportamento collettivo sia indipendente da quello dei costituenti. Certamente, oltre una certa soglia di complessità, può risultare impossibile calcolare il comportamento complessivo di un sistema del genere, sulla base delle relazioni che i suoi componenti intrattengono. Ma, anche in questo caso, possono essere date altre definizioni formali, atte a garantire la coerenza dei modelli adottati ai differenti livelli e a limitare (se non evitare) l’eclettismo e l’anarchismo esplicativo.
Negli ultimi cinque o sei anni, proprio a partire da un bilancio dei risultati ottenuti dalle teorie evoluzionistiche, dalle teorie della mente, dalle teorie sociali e da quelle che riguardano i sistemi complessi, numerosi filosofi e storici della scienza hanno pensato di poter ricondurre tutti i vari modelli di spiegazione al modello proposto dai padri della cibernetica, da Norbert Wiener in particolare. Questo modello di spiegazione - correntemente indicato nella letteratura come «modello meccanicistico» - avrebbe la possibilità di riassorbire l’approccio nomologico (cioè quel metodo delle scienze sperimentali, prima di tutte la fisica, che punta all’individuazione delle regolarità tra i fenomeni), l’impostazione funzionalista e il punto di vista adottato dagli studiosi dei sistemi dinamici. Un’impostazione del genere non è necessariamente in contrasto con quella difesa da Cini. Infatti, in questo approccio l’accento viene posto sull’organizzazione dei sistemi in blocchi funzionali specifici, correlati gerarchicamente tra loro; si tratta di qualcosa di molto vicino al «modello gerarchico di evoluzione», che Cini riprende da Stephen Jay Gould. Ma si tratta anche di una posizione che, con tutta evidenza, tende a sdrammatizzare il problema del riduzionismo e a negare che esista una differenza incolmabile tra i metodi sviluppati negli ultimi decenni e quelli tipici della tradizione precedente.
Guardando le cose da un altro punto di vista, si può concordare in prima istanza con il giudizio positivo che Cini riserva alle posizioni di Steven Rose, Richard Lewontin e Samuel Kamin, cioè a coloro che attaccarono fin dai primi anni ’80 la sociobiologia di Edward Wilson e il determinismo biologico; quella era infatti una reazione sacrosanta a un uso ideologico del darwinismo, che andava combattuto. Però, si deve anche riconoscere che la discussione in seno al darwinismo ha visto riaffiorare negli ultimi venti anni qualche altra accentuazione ideologica. Per esempio, tali possono essere oggi giudicati alcuni aspetti dello scontro intercorso tra Gould e Dawkins, a proposito del ruolo del genoma.
Come Telmo Pievani ha opportunamente notato, il carattere contingente del percorso evolutivo - che Gould privilegiava, rispetto al carattere maggiormente vincolato, propugnato da Dawkins - «dipende dalla scala alla quale lo osserviamo: ciò che a una grana fine di dettagli ci appare contingente, può invece appartenere a un pattern più ampio di regolarità». Estremizzando la posizione di Gould, se qualsiasi evento occasionale fosse in grado di deviare il percorso evolutivo su binari diversi, «la "teoria" dell’evoluzione coinciderebbe con la descrizione infinitamente dettagliata dell’evoluzione stessa, perché non potrebbe selezionare, come ogni teoria inevitabilmente fa, i dettagli pertinenti da quelli ininfluenti». Ecco, se si dovesse sollevare un dubbio sulla posizione di Gould, sottoscritta da Cini, questo potrebbe consistere nel fatto che l’indebolimento eccessivo di ogni pretesa (in senso lato) nomologica lascia ogni teoria disarmata.
Tutto questo ha inevitabili riflessi sulla parte finale del libro, quella che ha come riferimento la seguente domanda: quale sinistra per il XXI secolo? Un interrogativo del genere si staglia su una scena costituita da tre presupposti, coordinati tra loro: il carattere planetario del capitalismo, le trasformazioni indotte dalla «economia della conoscenza», la crisi dell’ecosistema terrestre. Abbozzando un tentativo di risposta, Cini difende in primo luogo la tesi secondo la quale un buon programma della sinistra dovrebbe tendere a «demercificare ogni cosa»; su questa linea, un obbiettivo contingente e strategico potrebbe essere quello della «difesa della diversità»; si tratta infatti di un assunto che già vive nelle coscienze del movimento di resistenza al capitalismo globale. Però, è anche vero che la resistenza all’oppressione (e la difesa di prerogative specifiche) è qualcosa di connaturato al conflitto, qualcosa che avviene in modo spontaneo, al di là di qualsiasi teoria. Cosa dovrebbe fare, di più, la sinistra? Sul punto, Cini propone di recuperare il tema dei valori, facendo in parte propria una autorevole tradizione di antropologia positiva: per questa via, lo spirito di resistenza dei popoli potrebbe individuare criteri d’azione e obbiettivi, coerenti agli ideali di giustizia.
Malgrado non si possa negare che il tema dell’etica è tornato ad imporsi, anche nella riflessione di studiosi materialisti, non si può nemmeno nascondere che - su questa strada - i risultati della ricerca potrebbero alla fine coincidere con quelli tipici della filantropia pre-marxista; da ciò discende quella sensazione di inadeguatezza che lo stesso Cini lascia trasparire, alla fine del libro. Infatti, come è ben risaputo, almeno a partire dal 1848 il ruolo e l’ambizione della sinistra non è stato soltanto quello di organizzare la resistenza sociale, ma piuttosto quello di prefigurare una diversa modalità di esercizio del potere, cioè un diverso assetto dello Stato. Al di là degli esiti nefasti che hanno avuto le grandi rivoluzioni del ’900, il problema dell’organizzazione politica della società e dell’esercizio effettivo del potere è un nodo che sembra difficile trascurare, anche nel quadro di un mero esercizio del diritto di resistenza. Tanto più questo problema sembra arduo, quanto più i centri della decisione politica si allontanano dagli individui concreti e travalicano i confini delle loro nazioni.
L’economia dell’immateriale
Al di là delle inadeguatezze soggettive, che tutti dobbiamo lasciare forzatamente sullo sfondo, resta poi qualcosa di impellente: la sensazione che le trasformazioni indotte dal capitalismo globale e dallo stato di crisi dell’ecosistema terrestre siano andate ormai troppo avanti, perché possano essere condizionate da imperativi di carattere etico e dalla salvaguardia delle differenze. È tipico dei materialisti pensare che le grandi trasformazioni avvengano (quasi) sempre in un contesto di crisi e (quasi) mai per correttivi parziali. Quando un sistema complesso entra in crisi, i suoi livelli di organizzazione conoscono in genere un drastico riordinamento; in un quadro del genere, «difendere la diversità» potrebbe risultare privo di senso. Di più: è possibile che la crisi planetaria dell’ecosistema, indotta dal capitalismo globale, produca un’implosione della economia fittizia che si è sviluppata grazie alla produzione, alla distribuzione e al consumo di beni immateriali.
In un quadro del genere, la qualità dei valori d’uso - in particolare quella dei beni necessari per la sopravvivenza - ritornerebbe ad essere probabilmente un criterio di scelta. Di fronte a un rapido collasso delle condizioni di vita, è plausibile che la gestione della crisi tenda a essere trasferita a un certo punto nelle mani dell’autorità militare. Sarebbe allora paradossale che la sinistra, piuttosto che consegnarsi ai signori della guerra, si trovi ad auspicare i lumi di qualche neo-bonapartismo. Si tratta di scenari che non possiamo immaginare, ma che non potrebbero essere nel caso affrontati, se la riflessione teorica non ricomincia da subito a cercare quella che, un tempo, tutti noi chiamavamo banalmente «la contraddizione principale».
In breve: l’epistemologia del ’900, al di là degli ambiti disciplinari ai quali si è applicata la scienza, ha sempre concepito l’atteggiamento normativo come un tratto specifico dell’intelligenza umana; ogni deroga da questo atteggiamento, lungi dall’essere liberatoria, espone inevitabilmente all’arbitrio, alla sopraffazione, alla deriva impersonale, alle «leggi» durissime, prive di senso e di obbiettivi finali, che sono tipiche di questo nostro mondo. Allora, almeno nelle nostre menti, dovremmo forse continuare a immaginare criteri differenti, leggi per governare i potenti, modelli per i quali la complessità si semplifichi, per assi principali. Continueremo forse a sbagliare, cercando di riordinare le cose, ma abbiamo solo questo.
Precari ricercatori, il governo dà i numeri
di Giorgio Parisi * (il manifesto, 30.11.2006)
Licenziare i precari per ridurre il precariato non sembra essere una proposta di sinistra, sfortunatamente è contenuta in una disposizione della finanziaria, confermata nel maxiemendamento. Infatti una disposizione impone che negli enti pubblici, e in particolare negli enti di ricerca, la spesa per contratti a tempo determinato e co.co.co. non superi per il 2007 il 40% di quella in essere nel 2003. Gli effetti di ogni norma devono essere giudicati dal contesto in cui si applica. Anche se sono convinto che sia insensata in generale, mi limiterò a discuterla per gli enti di ricerca, dove la situazione mi è molto chiara per diretta esperienza personale. Qui l’effetto principale sarà di ridurre a zero il numero di contratti rinnovati e di nuovi contratti a tempo determinato, in quanto la sola spesa per il personale precario non in scadenza supera di gran lunga il 40% del 2003 e non ci sono più margini di manovra.
Infatti una norma del genere potrebbe anche essere utile per combattere il precariato se gli enti di ricerca fossero liberi di procedere a assunzioni a tempo indeterminato; tuttavia questo non è: un altro articolo della finanziaria pone dei limiti molto stretti sulle nuove assunzioni che, a parte interventi straordinari, sono proporzionali ai pensionamenti e possibili solo a partire dal 2008.
Limitare contemporaneamente sia i contratti a tempo indeterminato sia quelli a tempo determinato e co.co.co., implica necessariamente dover licenziare gli sfortunati precari il cui contratto scade nel 2007 (in alcuni enti di ricerca - per esempio nel Cnr - molti precari il cui contratto scadeva nel 2006 sono stati più fortunati in quanto hanno avuto il loro contratto prorogato, il 30 dicembre del 2005, per altri cinque anni, senza nessuna valutazione di merito, per evitare gli effetti di un’analoga norma contenuta nella finanziaria 2006, che riduceva la percentuale al 60% del 2003).
Non rinnovare i contratti in scadenza è particolarmente grave negli enti di ricerca, dove esistono molti contratti fatti per due anni rinnovabili per altri due e il rinnovo è sempre stato, a meno di inconvenienti gravi, un fatto del tutto formale. Non parliamo poi dei ricercatori più giovani, cui questa norma sbatte la porta in faccia per diversi anni in quanto le poche assunzioni a tempo indeterminato sarebbero monopolizzate dai colleghi più anziani.
Si tratta dunque di una norma folle, che non comporta nessun risparmio in quanto non incide sul bilancio totale a disposizione degli enti ma ne vincola in maniera irragionevole l’utilizzo; questa disposizione deve essere semplicemente eliminata: è una delle tante eredità funeste del governo Berlusconi che l’attuale governo esita a cancellare e che a volte peggiora. In un qualunque paese ragionevole, prima di proporre una norma del genere sarebbe stato eseguito uno studio dettagliato degli effetti, dei vantaggi e degli svantaggi di un tale provvedimento per decidere se la percentuale più opportuna sia il 40% o per esempio il 75%. Questo studio non è stato fatto, la percentuale è stata scelta in maniera del tutto arbitraria dall’ignoto estensore della norma, ignorando i problemi reali.
È triste dover osservare che molti provvedimenti di questo governo si basano su percentuali scelte in maniera cervellotica, indipendenti dal dominio concreto di applicazione, come per esempio il taglio del 20% dei consumi intermedi, il taglio del 12,7 % delle spese ministeriali, disposizioni da applicare in maniera uniforme a tutti i settori della spesa pubblica senza distinzioni di comparto e senza entrare nel merito. Il governo si limita a dare i numeri. Un vecchio slogan del ’68 diceva «l’immaginazione al potere». Sembra che ora questo sogno si stia realizzando, ma sotto forma di incubo.
* Docente di fisica teorica Università di Roma La Sapienza
Chi affonda l’Università
di Fulvio Esposito* Enrico Alleva**
La questione del finanziamento della ricerca italiana ha raggiunto una temperatura da altoforno: quasi esplosiva, con le recenti dimissioni di Walter Tocci, responsabile Ds Università e Ricerca. Bisbigliano che in queste ultime notti tra Camera e Senato il finanziamento del Cnr non copra più nemmeno gli stipendi (saranno i precari a farne le spese?). Il taglio alle spese delle università le mette in ginocchio, obbligate a chiudere biblioteche e laboratori. Mentre Francesco Giavazzi (sul Corriere della Sera) da sfogo a esternazioni talora davvero poco utili, l’economista Marcello De Cecco (su Repubblica) scrive cose molto sensate ed emerge come leader programmatico indiscusso di un movimento di docenti di standard internazionale, ciononostante attento alle sensibilità e alle esigenze dei giovani precari della ricerca.
I centri di eccellenza che sono tali solo per decreto ministeriale vanno abbattuti: bisogna investire seriamente su Università ed Enti di ricerca che funzionano dai tempi di Mussolini, dalla presa di Porta Pia, se non dall’epoca di Galileo Galilei. Erogare fondi su radici scientifiche robuste fertilizza giovani germogli cerebrali che altrimenti fuggiranno all’estero, quel brain drain di cui tutti si lamentano che però rischia paradossalmente di aumentare con il prossimo anno.
Il ministro Mussi ha promesso 10-20.000 ricercatori per il prossimo decennio. Il noto fisico Giorgio Parisi, Presidente della Commissione lincea per la ricerca, invoca questo ossigeno minimo, un’assunzione eccezionale per numeri di giovani ricercatori però scelti per merito, non su logiche di locale clientelismo anche nepotista. Qualcuno vorrebbe distinguere categorie di Università teaching (principalmente finalizzate alla didattica) e research universities (dove avanzamento del sapere e insegnamento invece coincidano). Questo in non pochi casi contrasta con la nostra secolare storia di insegnamento universitario e con la valutazione del Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca, che dimostra come non vi siano centri di «eccellenza totale», ma punte di prestigio già ben distribuite sul territorio.
Anche l’idea che porzioni di Enti pubblici di ricerca di punta e porzioni esclusivamente strumentali, che eroghino pareri o consulenze on demand è quantomai limacciosa. Comunque, la committenza dovrebbe essere preferibilmente pubblica ed europea, senza indulgere nel coinvolgere ditte e dittarelle localmente «paesane», magari statunitensi o asiatiche.
Certamente non siamo più ai tempi degli studenti cinquecenteschi di Galileo Galilei, quando attorno all’unico cannocchiale si alternavano pochi eletti allievi, mentre il Maestro scopriva nuovi pianeti nel firmamento sopra l’università. Ci spiegano storici della scienza e fisici fiorentini che Galileo utilizzava uno strumento ottico provvisto di una lente di non buona qualità, adoperabile solo da occhi allenatissimi e intensamente curiosi. Né viviamo ai tempi dei primi anatomisti patavini Andrea Vesalio e Gabriele Falloppio, quando il cadavere, magari sottratto illegalmente al dovuto sepolcro, veniva dissezionato con un nugolo di studenti attorno a un piccolo tavolo operatorio.
Oggi le moltitudini di studenti di medicina, biotecnologia o altre materie simili non potrebbero comunque avere così tanti pezzi anatomici per la loro esercitazioni. Anche per ragioni etiche si ricorre infatti a sezioni di tessuto umano comodamente disponibili su internet, ma occorre un professore non troppo «telematico» che le sappia spiegare. Non è perciò oggi possibile che strumentazioni tanto complesse quanto costose di biologia molecolare possano essere utilizzate per una didattica di massa «insegnamento che coincida con la verace scoperta», come una volta nella assai elitaria Università dei tempi di Galileo.
L’Italia ha bisogno di laureati, numerosi e formati in modo da non sfigurare con laureati tedeschi e francesi, cinesi o indiani; e che siano istruiti come giapponesi, coreani, irlandesi, se non come le ultracompetitive sedi inglese di Cambridge o statunitense di Harvard. Tutto questo se vogliamo che un’Italia saldamente in Europa rimanga o ritorni a essere un paese capace di competere. Se non vogliamo che figli e nipoti ripercorrano le orme e le rotte dei nonni e bisnonni, stavolta non per scendere in miniera, ma per laurearsi a Londra o a Berlino, o prendere un Dottorato a Shangai o a Bangalore. Walter Tocci lo ha capito e ci ha detto come fare. Diamo voce e seguito alla sua lezione, cominciamo a governare il sistema. Davvero.
*Rettore Università di Camerino
**Socio corr. Acc. Naz. Lincei
www.unita.it, Pubblicato il: 25.11.06 Modificato il: 26.11.06 alle ore 15.48
Incontrarsi e discutere nei luoghi di insediamento della conoscenza
Nuove potenzialità e nuove soggettività nel mondo della «knowledge society». Dall’Unione degli studenti una proposta e una richiesta di confronto sulla libertà di arricchire la propria formazione in ogni fase della vita
di Giuseppe Di Molfetta (*) (il manifesto, 23.11.2996)
Quanto nella società del nuovo millennio il ruolo della conoscenza e dei saperi sia cruciale risulta evidente alla luce di come i governi e le grandi multinazionali dibattono su come precluderne l’accesso sia a singoli che addirittura a interi popoli. Tra l’altro le analisi attualmente in voga ci convincono facilmente di come la quantità di sapere di cui uno dispone e l’uso che gli è consentito farne sono il discriminante nella definizione dei ruoli sociali e sembra che l’attuale sfruttamento capitalistico, all’inverso di quello moderno, non crei differenze culturali e sociali ma si fondi su di esse: ergo, liberare le conoscenze e i saperi e dare ad un soggetto la possibilità, anche economica, di farne quello che crede a prescindere dalle fluttuazioni del mercato, è un rischio mortale per il capitalismo stesso.
All’interno della «knowledge society» il sapere assume la dimensione di fattore produttivo centrale, e se consideriamo il sapere come quel insieme di capacità eterogenee derivante dall’apprendimento esperienziale di un individuo all’interno di una comunità emerge un nuovo macro aggregato sociale in cui tutti finiscono per essere produttori di conoscenza. Tra di essi vi sono i lavoratori della conoscenza e soprattutto i soggetti in formazione che non assimilano solo conoscenza ma la rielaborano e la socializzano, come gli studenti o i dottorandi.
Spesso i soggetti in formazione non hanno la possibilità di utilizzare le proprie conoscenze nel modo che desiderano o almeno farne l’uso più coerente ad esse: questa impossibilità nella maggior parte dei casi è una derivata del reddito dell’individuo e del rapporto di esso al costo della vita. Non a caso assieme al dibattito sulla recinzione dei saperi e sui beni comuni, ne ha preso piede uno sul reddito di cittadinanza. Quest’ultimo infatti è lo strumento tramite il quale non solo ognuno può accedere ai diritti di cittadinanza più elementari, come poter istruirsi o banalmente andare a teatro, ma anche permettere al singolo individuo di ritrovare una propria dimensione autonoma dal mercato e costruirsi un progetto di vita più che una vita a progetto.
L’Unione degli studenti a partecipa alla promozione di soluzioni concrete come il reddito in chiave formativa che garantisca a tutti la possibilità di accedere ai saperi per tutto l’arco della vita, assicurando il diritto di ogni individuo a formarsi in modo autonomo e a disporre di pezzi della propria vita senza dover essere schiavo della precarietà. La stessa data del 17 novembre come giornata internazionale degli studenti, rappresenta il bisogno di ribellarsi e costruire la società del futuro su paradigmi diversi. Le realtà sociali e politiche del nostro paese hanno affrontato con superficialità questi temi spesso tramite timidi provvedimenti legislativi. Non si è riusciti ad ottenere il cambiamento perché si è letto il presente tramite le categorie tradizionali del lavoro, imponendo un’analisi fordista là dove era ed è necessario un approccio radicalmente innovativo. Eppure esiste una alternativa a questo grave scollamento tra la cultura sindacale e le nuove povertà, le nuove emarginazioni sociali e i nuovi bisogni collettivi: una forma di rappresentanza sociale che ha come luoghi di insediamento le scuole, le università. Non solo tuttavia i luoghi canonici del sapere, ma tutti quelli in cui vigono altri codici, altri linguaggi e altri saperi non formalizzati e non riconosciuti; quei luoghi quali le metropoli in cui l’individuo soffre la solitudine e il conflitto perenne con l’altro in termini di competizione di spazi e risorse di vita.
Noi dell’Unione degli Studenti vogliamo lanciare un appello affinché si convochi nel mese di dicembre una tavola rotonda di confronto-studio per un nuovo sistema di tutele sociali nella società della conoscenza, a cui vogliamo che prendano parte le esperienze sindacali del lavoro della conoscenza, i mediattivisti, i dottorandi e gli studenti delle scuole e delle università.
E in quel contesto dobbiamo declinare in modo concreto le nostre leggi regionali e la legge quadro nazionale sul diritto allo studio, quanto chiedere l’abrogazione della legge Urbani, la rivisitazione della normativa per il diritto d’autore, la promozione di software libero e open source e il libero accesso alle reti informazionali e globali. Dobbiamo avere il coraggio di stare insieme per chiedere una legge che garantisca l’apprendimento per tutta la vita, un nuovo status per le conoscenze, una battaglia per la libertà del sapere, perché non sia mercificato.
Crediamo che sia necessario cominciare quel lungo cammino in salita verso una società fondata su un nuovo sistema di tutele e diritti, convinti che sia il sapere una delle discriminanti fondamentali che determina le opportunità degli individui così come possiamo dirci che il diritto all’apprendimento e l’accesso alla conoscenza deve diventare una battaglia di cittadinanza come fu il diritto al lavoro nel ’900.
* Unione degli Studenti
GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ..... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ... CATTOLICO-ROMANO"!!! (fls)_________________________________________________________________________________________________________
INTERVISTA
Per Giandomenico Boffi, ordinario di Algebra, la scienza dei numeri apre più di uno spiraglio alla plausibilità di un Ente trascendente
Matematica e mistero
«Da questa attività creativa dell’uomo emerge quasi un potere predittivo nei confronti della realtà, che rimane sconcertante»
di Antonio Giorgi (Avvenire, 22.11.2006)
Trovare l’equazione fondamentale della vita, oppure quella che esprime l’essenza dell’universo? Dare una risposta numerica - magari formulata in codice binario - agli interrogativi esistenziali dell’uomo del XXI secolo? Individuare la formula della felicità, del benessere, della salute, della coesistenza tra i popoli? «Via, non diciamo sciocchezze. La matematica non può spiegare ogni cosa e perfino nel dominio del razionale è ancora da dimostrare la possibilità di matematizzare tutto. Però la matematica è una scienza che va coltivata, strumento prezioso al servizio dell’uomo». Pronunciate da un matematico. Il professor Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara, queste parole possono essere interpretare come un modo di tirare l’acqua al proprio mulino, di svolgere una sorta di attività promozionale per una branca dello scibile che vede diminuire - in Italia e non solo - il numero dei cultori. E si capisce perché: «Studiarla - sottolinea Boffi - è attività faticosa che richiede un impegno razionale molto serio non disgiunto da una buona dose di fantasia, creatività, perfino senso estetico. Oggi i giovani preferiscono altro, purtroppo».
Eppure adesso la matematica può vantare di avere dalla sua nientemeno che il Papa. Intervenendo al recente Convegno ecclesiale di Verona Benedetto XVI l’ha esaltata come sublime creazione dell’intelligenza umana e chiave di lettura di un universo strutturato in maniera intelligente in modo che esista corrispondenza tra la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura, espressioni entrambe di un’unica intelligenza originaria «comune fonte dell’una e dell’altra». «Che la matematica sia pura creazione della mente umana è un fatto largamente condiviso», dice Boffi. «Desta perciò meraviglia l’eccezionale efficacia che questa scienza ha dimostrato nel consentire da un lato l’interpretazione della realtà e dall’altro l’intervento concreto, anche tecnologico, su di essa. La matema tica è una delle poche cose universali che noi sperimentiamo, e già questo è sorprendente. Lo è ancora di più il fatto che l’universo risponde in qualche modo alle nostre sollecitazioni basate sugli strumenti matematici. Da questa attività creativa dell’uomo emerge quasi un potere predittivo nei confronti della realtà, il che è alquanto sconcertante». Il professore ricorda James Maxwell e i suoi studi sull’elettromagnetismo, l’intuizione dello scienziato di inserire nelle equazioni un termine in più non per ragioni ispirate da esperienza fisica ma per simmetria. Un audace azzardo, «ma successivamente è stato accertato che quel termine in più corrispondeva alle onde radio». Fu come se il reale, per qualche arcano motivo, si fosse adattato alla speculazione teorica del ricercatore scozzese.
«È naturale che io apprezzi le argomentazioni portate dal Papa al Convegno di Verona», continua Giandomenico Boffi. «Nella misura in cui non si è ancora riusciti a giustificare l’indubbia consonanza verificabile tra una creazione della nostra mente, la matematica, e una realtà data a prescindere da noi, diventa legittimo ipotizzare l’esistenza di un Ente superiore intelligente che si pone alla radice tanto della realtà che ci circonda, quanto della nostra stessa mente. Arriviamo anche noi a chiederci con il Santo Padre se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, in quanto ammetterne l’esistenza spiega questa consonanza. Galileo diceva - il Papa lo ha ricordato - che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico, quindi conoscendo la matematica possiamo leggerlo. In effetti l’idea che abbiamo oggi è un po’ più cauta: la scienza elabora modelli matematicamente strutturati che hanno sicura attinenza con la realtà (altrimenti le auto non funzionerebbero, le astronavi non potrebbero volare), però da qui a dedurre che il mondo è fatto esattamente come il modello ce ne corre. Ai fini del nostro discorso tuttavia non cambia nulla: il dato fondamentale è che esiste i n qualche modo una sintonia tra la mente e la realtà esterna alla mente, sintonia che si spiega bene con l’esistenza di Qualcosa che sta sopra e che unifica».
Siamo davanti ad una consonanza che già il fisico Wigner descriveva con i termini calzanti di sorpresa e mistero, espressioni che Boffi fa proprie ragionando a sua volta del rapporto tra la mente umana, i frutti della mente e la realtà che ci sta attorno. Che conclusione trarre, se non quella, obbligata, che «tutto ciò apre uno spiraglio alla plausibilità dell’idea di Dio?». Diventa di conseguenza arbitrario sostenere «che la nostra fede nel Creatore è un atto completamente irrazionale». La riflessione si concentra sulla relazione tra fede e scienza, fede e intelligenza. «La fede cristiana attribuisce grande importanza all’intelligenza. È una fede che ha bisogno dell’intelligenza e Dio, in ultima analisi, è un’intelligenza amante, una ragione capace di amare. Dentro la matematica troviamo tutte le prospettive per un ampliamento della razionalità».
E anche qualcosa di più, a ben guardare. Oltre ad esprimere la plausibilità dell’idea di Dio, la scienza che Boffi professa fornisce probabilmente anche un elemento a favore dell’esistenza dell’anima. «L’uomo è l’unico essere capace di fare matematica. L’esistenza di attività umane precluse al mondo animale corrobora la plausibilità di una differenza qualitativa tra l’uomo e le altre specie. Riconoscerla, significa dare plausibilità all’idea di un elemento di trascendenza».
Benedetto XVI: Logos e natura
Proprio alla matematica Papa Ratzinger ha dedicato un passaggio nel suo discorso ai partecipanti del Convegno di Verona, lo scorso 19 ottobre. «La matematica», sottolineava il Pontefice, «come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo - che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico - suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore». Un approdo, questo, che per Benedetto XVI può riaprire una razionalità atrofizzatasi nel tempo: «Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante...».
VANDANA SHIVA: LE PAGINE CONCLUSIVE DE "IL BENE COMUNE DELLA TERRA" *
David Pearce, un economista della Banca mondiale che considera la mercificazione del nostro patrimonio naturale ormai precario come un rimedio per garantirne la conservazione, ha ammesso in un recente dibattito che la crisi ecologica che stiamo attraversando e’ profonda, e che continua ad aggravarsi. Eppure, Pearce continua a difendere la privatizzazione dell’acqua, la mercificazione della vita e la globalizzazione dell’agricoltura. "I problemi di ampio raggio," ha dichiarato, "si risolvono con soluzioni altrettanto globali" (1). Al contrario, come ci insegna l’esempio di Gandhi e come conferma la nostra esperienza all’interno del movimento democratico emergente, i regimi totalitari e dittatoriali si combattono a partire dalle realta’ locali, perche’ i processi e le istituzioni su larga scala sono controllati dal potere dominante. I piccoli successi sono invece alla portata di milioni di individui, che insieme possono dare vita a nuovi spazi di democrazia e liberta’. Su larga scala, le alternative che ci vengono concesse sono ben poche. Per converso, la realta’ quotidiana ci offre mille occasioni per mettere a buon frutto le nostre energie.
Gandhi non sconfisse l’Impero britannico con un esercito delle stesse dimensioni, bensi’ con una presa di sale e un arcolaio. Quando gli inglesi decisero di tassare il sale, il popolo indiano marcio’ su Dandi, raccolse il sale e disse: "E’ un dono della natura, una risorsa necessaria per la nostra sopravvivenza. Continueremo a produrre il nostro sale. Disobbediremo alla legge britannica". E quando gli inglesi smantellarono l’industria tessile indiana, Gandhi non cerco’ di convincerli a ritornare sui loro passi. Mostrando un arcolaio, egli si rivolse al popolo indiano e disse: "Ogni azione diventa potente se a compierla sono milioni di persone". L’arcolaio e’ diventato un simbolo di questo potere della collettivita’.
I semi, i fiumi, il cibo quotidiano costituiscono un punto di partenza imprescindibile per riconquistare le nostre liberta’ politiche, economiche e culturali, perche’ e’ proprio impadronendosi di questi ambiti che le grandi imprese esercitano il loro monopolio sulla vita. Siamo pienamente consapevoli del fatto che lo sviluppo di economie alternative autogestite e forme di organizzazione democratica, che rivendicano un’autonomia decisionale, e’ una scelta che richiede impegno e coraggio, perche’ si tratta di resistere e disobbedire alle leggi inique che vietano ogni forma di governo, approvvigionamento e sostentamento autonomo. Proibire la conservazione dei semi significa assoggettare i contadini al giogo delle multinazionali. Con i contratti di privatizzazione, anche l’acqua dei poveri si trasforma in merce. Infine, le leggi che distruggono la produzione alimentare locale impongono una dittatura del cibo che opprime l’umanita’ intera. Accettare questi vincoli, queste normative e procedure illegali, significa rinunciare ai nostri diritti democratici, alle nostre culture di vita e alla nostra liberta’. Come ci insegna Gandhi, la liberta’ si riconquista rifiutando di sottoporsi a leggi ingiuste e immorali. La lotta per la verita’, perseguita attraverso i principi della disobbedienza civile, della nonviolenza e della noncooperazione, e’ al tempo stesso un diritto che ci appartiene in quanto liberi cittadini di societa’ libere, e un nostro fondamentale dovere come abitanti della Terra.
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La globalizzazione economica e il militarismo procedono di pari passo, propagandati da una retorica che occulta la verita’ e li trasforma in fautori di benessere e sicurezza sociale. Per poter vendere le sue sementi geneticamente modificate, che sono inutili e dannose, Monsanto non puo’ fare altro che ricorrere alla menzogna. E con altre menzogne Coca-Cola si appropria della nostra acqua, il governo americano ci depriva dei nostri diritti civili in nome della "sicurezza della madre patria" e la Banca mondiale continua a incrementare il debito dei paesi e dei cittadini piu’ poveri. Si tratta di una vera e propria guerra condotta ai danni della verita’. La nomina di Paul Wolfowitz a presidente della Banca mondiale non fa che rendere piu’ evidente il nesso tra interessi economici e militari.
In un’epoca in cui la schiavitu’ ci viene imposta attraverso varie forme di propaganda mistificatoria, il nostro satyagraha, la lotta per la verita’, dovra’ estendersi anche a queste strategie di colonizzazione della mente. Una visione democratica della globalita’ ci offre nuove opportunita’ di agire liberamente, ma anche di coltivare la nostra liberta’ di pensiero.
Possiamo dunque ridefinire il concetto di sicurezza nazionale in funzione della nostra vera patria, che e’ l’intero pianeta, e della nostra sicurezza reale, ovvero di una sicurezza ecologica che soltanto il pianeta puo’ offrire e di una sicurezza sociale che soltanto la comunita’, le pubbliche istituzioni e la tutela dei beni comuni possono assicurare.
L’esperienza del movimento democratico emergente insegna a guardare oltre la logica del mercato e delle guerre, delle monoculture e del riduzionismo meccanicista, per concepire il mondo come un insieme di forme di vita diverse e correlate che si concreano e che coevolvono pacificamente.
La mercificazione della vita - imposta da un’economia che al tempo stesso genera poverta’ - e la strategia del terrore - frutto di una politica che fa leva sulle insicurezze e sulle divisioni - sono strategie di potere complementari. Per contrastarne l’effetto, la diffusione di una poverta’ indotta e di paure frutto di manipolazioni e menzogne, dobbiamo dunque evidenziare le connivenze tra politica ed economia: le responsabilita’ dei governi al servizio delle multinazionali e le connessioni tra interessi economici e militari, tra i profitti delle grandi imprese e la poverta’ dei popoli, tra la globalizzazione economica e il fondamentalismo religioso. Per converso, analizzando queste connivenze scopriamo anche il legame profondo che ci unisce gli uni agli altri e che ci correla alla Terra. Denunciando le responsabilita’ dei gruppi di potere dominanti riusciamo anche a sviluppare la nostra coscienza democratica e a rinvigorire le nostre deboli democrazie. La nostra capacita’ di correlare gli ambiti dell’ecologico e del sociale ci permette di intraprendere dei progetti economici e culturali che salvaguardano il pianeta e i suoi abitanti, e al tempo stesso di formare una rete di solidarieta’ che puo’ sconfiggere le alleanze del potere globale. Se ci sentiamo poveri, insicuri e impotenti e’ soltanto perche’ ancora non siamo riusciti a rifiutare una logica di potere che ci divide, che ci intrappola in una realta’ atomizzata e ci rende ciechi di fronte alle infinite potenzialita’ che abbiamo in quanto cittadini del mondo. In realta’, ognuno di noi puo’ contribuire creativamente a costruire delle alternative a un sistema che mira soltanto al controllo totale e a profitti senza limiti.
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Il progetto democratico che ci unisce ci aiuta dunque a liberarci dei nostri paraocchi, a immaginare delle alternative possibili e a concretizzarle nella realta’. Per converso, la globalizzazione perpetrata dalle multinazionali annienta i nostri diritti fondamentali e minaccia di compromettere la sopravvivenza stessa di buona parte degli esseri umani e delle specie che popolano il pianeta. In un’epoca segnata dai genocidi, liberarsi significa innanzitutto rivendicare la liberta’ di rimanere in vita. E’ un conflitto di dimensioni epiche, in cui le varie forze schierate in difesa della vita combattono contro i fautori di morte. Il movimento democratico globale prende forma da una rete di realta’ variegate e attive in molti ambiti, dalla sfera del politico e del sociale a quella ecologista. Ma ogni contributo e’ importante, nella sua specificita’, e fa parte di un’unica battaglia per conseguire giustizia, sul piano economico e sociale, sostenibilita’ ecologica, pace, democrazia e liberta’ d’espressione per le diverse culture. Nella nostra epoca la dittatura tende a globalizzarsi, a controllare ogni aspetto della vita economica, politica e culturale di ogni nazione o societa’. Conseguentemente, anche la liberta’ deve essere perseguita e difesa su scala globale. Impegnarsi per realizzare i propri specifici obiettivi all’interno di un progetto democratico globale permette di unire le forze per rivendicare i propri specifici diritti, insieme a quelli dell’intera comunita’ terrena. L’imperialismo si esprime da sempre attraverso un’ottica globale. Il movimento democratico emergente e’ ancora agli inizi, comincia appena a prendere coscienza delle proprie potenzialita’ liberatorie e trasformatrici, ma ha gia’ raggiunto una portata e una rete di collegamenti di importanza mondiale. Non siamo giunti alla fine della storia, bensi’ agli albori di una nuova era.
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Note
1. David Pearce, The Future of the Earth, European Academy of Otzenhausen, Germania, marzo 2005.
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[Da "Information guerrilla" (www.informationguerrilla.org), che la pubblica per gentile concessione della casa editrice, riprendiamo la Conclusione (pp. 202-205) dell’ultimo libro di Vandana Shiva, Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell’ambiente e delle culture native, e’ oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Le nuove guerre della globalizzazione, Utet, Torino 2005; Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006]
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA. Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino", Numero 100 del 19 novembre 2006
Numerose le manifestazioni di protesta indette in tutte le città dalle associazioni studentesche e dai sindacati confederali e Cobas
Scuola, universitari in corteo in tutta Italia. Mussi: "Protesta giusta, si doveva fare di più"
Epifani: "Bisognava salvaguardare gli investimenti diretti all’università". Secondo l’Unione degli studenti in piazza almeno 250.000 giovani *
ROMA - Sono 250.000, secondo i dati forniti dall’Unione degli studenti, gli universitari che hanno partecipato oggi in tutta Italia alla manifestazione studentesca mondiale "17 novembre, International student’s day of action". Secondo la stessa fonte, a Roma hanno sfilato in corte in 15.000, in 30.000 a Napoli, 20.000 a Milano e 15.000 a Firenze. A indire una giornata di protesta contro i tagli della Finanziaria subiti dalle università e dagli istituti di ricerca sono stati inoltre i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil. E inoltre uno sciopero generale è stata indetto dai Cobas per contestare i tagli della Finanziaria.
"Oggi c’è stata un’importante manifestazione con studenti, insegnanti universitari, personale e ricercatori - ha commentato al termine della mattinata il ministro per l’Università e la Ricerca Scientifica Fabio Mussi - in cui si è voluta richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla centralità della formazione superiore e della ricerca scientifica. Centralità per l’avvenire del Paese. Io voglio assicurarli che il governo condivide questo richiamo e conosce bene importanza del tema che hanno sollevato".
Mussi ha aggiunto: "Abbiamo alla fine trovato 230 milioni, molti di più di quanti preventivati nella manovra, ma se abbiamo fatto il possibile non abbiamo fatto quanto necessario: con questi fondi si torna in pareggio rispetto all’anno precedente".
A Roma si sono tenuti tre cortei, uno indetto dall’Unione degli studenti, uno dai confederali e l’altro dai Cobas. "Bisognava salvaguardare gli investimenti su università e ricerca e fare sacrifici in tutti gli altri settori", ha detto, nell’intervento conclusivo del corteo in piazza Navona, il segretario della Cgil Guglielmo Epifani.
Il segretario della Cgil ha ricordato, parlando alla piazza, che "il programma di governo faceva di questi settori il cuore del cambiamento". "Dopo i disastri del precedente governo, tutto ci saremmo aspettati- ha lamentato con forza il segretario - tranne che il governo non assumesse, con la forza e la coerenza necessari, la centralità di questi settori e di questa sfida".
"Stiamo riempiendo più di cento piazze in Italia per dire non solo che questa Finanziaria non ci soddisfa perchè ci sono tanti tagli, ma anche per gridare che vorremmo una discontinuità con il centrodestra", ha detto al termine del corteo di Roma Roberto, dell’esecutivo nazionale dell’Uds (Unione degli studenti), tra gli organizzatori dell’"Internazionale student of action".
Chiare le richieste dell’Uds: "Una maggiore partecipazione degli studenti alla vita scolastica e un maggiore investimento per la scuola. A partire proprio dl diritto allo studio. Gridiamo il nostro no a chi dà i soldi alle scuole private anche perchè non è giusto che ci sia una scuola classista, ma una scuola di tutti e per tutti".
Grande anche il seguito dello sciopero generale contro la Finanziaria indetto dai sindacati di base, dai Cobas e dalle Rdb. Secondo gli organizzatori avrebbero aderito un milione e mezzo di lavoratori, in particolare i precari, nei settori pubblico e privato. Nella capitale (ed è stato questo il terzo corteo nella stessa mattinata) hanno manifestato in 25.000.
(17 novembre 2006)
Ricerca, il giallo dei soldi spariti Mussi: «Nessun fondo aggiuntivo» *
Ci sono oppure no i soldi per l’università? A sentire il ministro dell’università e della ricerca, pare proprio di no. «Non ci sono soldi aggiuntivi per l’Università e la Ricerca, dal momento che la somma di 177 milioni di euro era già prevista» dichiara Fabio Mussi riferendosi all’annuncio, venuto nel pomeriggio di domenica, che il Governo aveva trovato dei fondi aggiuntivi per l’assunzione di ricercatori nelle università e negli enti scientifici. Un emendamento che avrebbe dovuto placare l’ira degli ambienti scientifici e universitari italiani che nei giorni scorsi avevano denunciato il taglio delle risorse a loro destinate. Secondo Mussi questi soldi erano già parte della manovra prevista dal Governo. E resterebbe dunque «aperta la questione del taglio del 20% dei consumi intermedi dell’università e degli enti di ricerca e degli effetti sugli enti di ricerca degli accantonamenti previsti dall’articolo 53, pari a 207 milioni».
La doccia fredda delle dichiarazioni di Mussi è certamente destinata a provocare molti malumori e un po’ di scompiglio nel mondo della ricerca. Dopo l’annuncio dell’emendamento, infatti, molte erano state le prese di posizione positive, a cominciare da quella di Rita Levi Montalcini, premio Nobel e senatrice a vita. «Se le cose stanno così, allora voterò questa finanziaria» ha detto la scienziata riferendosi alla minaccia di negare il proprio voto alla manovra se i tagli alla ricerca previsti dalla manovra non fossero stati rivisti.
Bisognerà vedere adesso quale sarà il prossimo capitolo di questa vicenda paradossale.
* www.unita.it, Pubblicato il: 12.11.06 Modificato il: 12.11.06 alle ore 20.54
Quasi duecento milioni destinati da un emendamento dell’esecutivo ad assunzioni nei centri e negli atenei. La Montalcini: "Se è così voto la manovra"
Manovra, il governo risponde agli scienziati: piano straordinario per università e ricerca *
ROMA - Erano arrivate prima le proteste dei rettori delle università, poi sono insorti gli scienziati in una riunione con il Nobel Rubbia e, alla testa, l’altro Nobel Rita Levi Montalcini con la sua "minaccia" di non votare la Finanziaria senza la correzione del capitolo sulla ricerca scientifica. Hanno risposto il presidente del Consiglio, il ministro dell’economia con l’impegno a rivedere quel capitolo della manovra. E, oggi, la prima risposta pratica: un piano straodinario per l’assunzione di ricercatori nelle università e negli enti di ricerca con uno stanziamento contro la "fuga dei cervelli".
Università ed Enti di ricerca. Nelle Università e negli Enti di Ricerca si dà il via a un piano straordinario di assunzioni e saranno anche fissati criteri per le valutazioni che terranno conto dei titoli conseguiti e delle attività svolte. E’ quanto prevede un emendamento alla Legge Finanziaria presentato dal Governo che stanzia, nel prossimo triennio, complessivamente 177,5 milioni: 140 milioni per le assunzione nelle università e 37,5 milioni per quelle di ricercatori in enti di ricerca. L’ emendamento cambia anche le norme relative al turn over nelle università: per il 2007 c’è un paletto al 90% e le ulteriori assunzioni (pari al 10%) che potranno essere autorizzate dal governo.
In attesa della riforma dello stato giuridico dei ricercatori - è scritto nell’ emendamento - il ministro dell’ Università, sentite le rappresentanze degli atenei, avvia un reclutamento straordinario di ricercatori, con "criteri di valutazione dei titoli didattici e dell’ attività di ricerca, garantendo celerità, trasparenza e allineamento agli standard internazionali". Anche per i ricercatori degli enti di ricerca pubblici ci sarà un bando di concorso straordinario che valuterà "i pregressi rapporti di lavoro, i titoli scientifici e l’ attività di ricerca svolta". E’ inoltre prevista una deroga alle assunzioni a tempo: se il ricercatore ha già un contratto temporaneo, ma ha già vinto un concorso per l’ assunzione dal 2008, potrà vedersi rinnovare nel 2007 il contratto a tempo.
Fuga dei cervelli. Il governo stanzia 20 milioni di euro nel 2007 e 30 nel 2008 per la "stabilizzazione di ricercatori, tecnologi e personale impiegato in attività di ricerca" nonchè all’ assunzione di coloro che hanno già vinto un concorso. E’ un emendamento del governo a prevedere la costituzione di un apposito fondo contro la "fuga dei cervelli" ma anche dei precari che lavorano negli enti di ricerca.
* la Repubblica, 12 novembre 2006
CARO-PREZZO (= "CARITAS") E FUTURO !!!
Pubblica incoscienza
di Marcello Cini *
«Nella vecchia economia la gente comprava e vendeva risorse congelate, cioè un mucchio di materiale tenuto insieme da un pochino di sapere. Nella nuova economia, compriamo e vendiamo sapere congelato, cioè un sacco di contenuto intellettuale in un involucro fisico». Così Brian Arthur, uno dei fondatori del celebre Istituto di ricerca di Santa Fé sulla complessità che caratterizza la svolta dell’economia dal XX al XXI secolo. E l’editor della rivista economica americana Fortune, Thomas Stewart spiega: «In questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l’intrattenimento, i servizi - sono diventati le materie prime dell’economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quello che compriamo e vendiamo".
Chi mi conosce sa che non mi piace che la conoscenza in generale e la scienza in particolare siano diventate merci che si comprano e si vendono, e che la loro produzione sia sempre più subordinata al vincolo della produzione del maggiore e più immediato profitto possibile del capitale investito. Penso che la conoscenza e la scienza - in quanto beni che, al contrario degli ogetti materiali, non si "consumano" ma si moltiplicano tanto più quanto maggiore è il numero di coloro che possono fruirne - dovrebbero ritornare di nuovo beni comuni e disponibili a tutti.
Ma anche se questo obiettivo può sembrare utopistico - ma forse non lo è pensando alle catastrofi che si annunciano se il meercato continua a essere l’unico riferimento - la necessità di una forte ricerca pubblica, che persegua finalità collettive dovrebbe essere un’assoluta priorità per un governo che pensa al futuro dei suoi cittadini.
Dovrebbe essere ovvio che se la conoscenza e la scienza non vengono prodotte, o se bisogna comprare a caro prezzo sul mercato quelle prodotte dalle multinazionali, il nostro paese non entra nel XXI secolo, ma retrocede al XX se non al XIX. Non è una battuta.
[...]
Tagliare 300 milioni su un totale di 1.600 - questo sembra essere l’ammontare della riduzione del finanziamento pubblico per la ricerca scientifica e tecnologica prevista dalla finanziaria - non è un sacrificio paragonabile a quello che anche altri settori della spesa pubblica devono sopportare per mettere in ordine i conti pubblici. E’ soltanto incoscienza.
* DA: IL MANIFESTO, 11.11.2006
Nella relazione annuale sullo stato dell’Università critiche ai tagli in Finanziaria e, più in generale, alla miopia della politica
Rettori, l’allarme di Trombetti: "Si rischia il blocco degli atenei"
"Non investire nella ricerca vuol dire negare il futuro al Paese" E Mussi ammette: "I tagli di Bersani un errore madornale"
di CLOTILDE VELTRI *
ROMA - "Si è varcata la linea d’ombra. Ma dopo non c’è il mare calmo di Conrad, c’è il baratro". Hanno deciso di di rompere definitivamente gli indugi i rettori delle università italiane, che per bocca del loro presidente - Guido Trombetti - bocciano le scelte in materia finanziaria del governo e l’anciano l’allarme: così le università finiranno per chiudere. Trombetti non usa mezzi termini: "La parte normativa che il governo sta costruendo per universtà e ricerca ci piace, e siamo pronti a fare la nostra parte e accettare la sfida. Quella che non ci piace è la parte finanziaria: quest’anno gli atenei rischiano di non poter pagare fitti, le aule, gli strumenti didattici, persino l’acqua. Manca il denaro per il quotidiano. Altroi che stringere la cinghia fino al 2008 - continua Trombetti -. E’ ovvio che a tutti viene chiesto di fare la propria parte nel risanamento fino al 2008. Ma non so se ci arriviamo, al 2008". In sostanza le università accusano i provvedimenti previsti in Finanziaria di non riuscire nemmeno a coprire l’intero stanziamento già atteso e, soprattutto, la legge Bersani di essere "una taglia" che riporta al Tesoro i fondi degli atenei, impedendogli in alcuni casi di chiudere i bilanci.
Lo stato degli atenei. Uno scenario a tinte fosche Guido Trombetti articola nella relazione annuale sullo stato degli atenei. Trombetti torna prepotentemente a ricordare alla politica che così si rischia di affossare un sistema - quello della ricerca - già debole rispetto agli standard europei.
Il rettore snocciola cifre dolorose: l’Italia spende per ogni studente 7.241 euro contro i 9.135 della Francia e i 9.895 della Germania. Tradotto: impossibile assicurare agli studenti servizi di alta qualità in grado di competere con gli atenei degli altri paesi. Se questo è il punto di partenza, domani potrebbe andare peggio visto che il governo non offre segnali rincuoranti.
"Il Fondo di finanziamento ordinario - ricorda Trombetti - che dovrebbe assicurare all’Università la possibilità di svolgere nel quotidiano la funzione di istituzione pubblica (sottolineo pubblica) per l’alta formazione è quasi interamente assorbito dagli stipendi del personale".
In sostanza, se si volesse tornare ai livelli del 2001 bisognerebbe reperire un miliardo. E se è vero che la finanziaria 2007 aumenta gli stanziamenti per la ricerca scientifica, è anche vero che lo sforzo resta esiguo perché solo l’1,1% del Pil viene destinato a questo settore contro l’obiettivo del 3% indicato dall’Agenda di Lisbona.
La condanna dei tagli. Trombetti, è assolutamente consapevole, del momento difficile attraversato dall’Italia: "Nessuno può tirarsi fuori dai sacrifici". Però, quello che chiede il rettore, è un cambio di cultura e mentalità. E’ una maggiore consapevolezza che, disinvestire in ambito universitario, vuol dire fare un danno all’intero sistema paese. Parole dure Trombetti rivolge alla politica economica del governo Prodi. Definisce "misure di assoluta cecità" il tagliaspese conseguente al decreto Bersani, l’ammontare del Ffo, la penuria di investimenti in edilizia. Per non parlare del taglio degli stipendi dei ricercatori "provvedimento ingiustificato e punitivo".
Luci e ombre della riforma. Il rettore fa poi il punto sugli effetti della riforma introdotta nel 2001-2002. Non tutto da buttare, dice Trombetti. Anche se spesso i risultati sono stati inferiori alle aspettative. Se, per esempio, è aumentato il numero delle matricole - segno questo assolutamente incoraggiante - è anche vero che il 95% di chi consegue una laurea triennale prosegue gli studi. Dato questo che va imputato, secondo Trombetti, al difficile accesso al mondo del lavoro. Colpa dei ritardi del legislatore nell’adeguare "le regole di ingresso in funzione dei nuovi titoli di studio".
Resta poi alto il tasso di abbandono degli studenti tra il primo e il secondo anno. E se è vero che il numero dei laureati è aumentato - passando da 161 mila nel 2000 a 301.300 mila nel 2005 -, è anche vero che è aumentata pure la offerta formativa. Troppo. Prima della riforma i corsi offerti dagli atenei erano 2.444. Dopo sono diventati 5.434 (122,3% in più). Una proliferazione spesso dannosa e inutile che ha, tra gli effetti negativi, la frammanetazione degli nsegnamenti e il conseguente ricorso - per la didattica - a esperti esterni che spesso sono svincolati dalla ricerca. Il rischio è che l’Università si "liceizzi".
La ricerca: eccellenza a rischio. Il capitolo della relazione dedicato alla ricerca tratteggia un comparto che, nonostante le scarse risorse, nonostante gli annosi problemi descritti da Trombetti, resta d’accellenza. Lo dicono le indagini che valutano in modo molto positivo l’istituzione italiana e il suo personale. "Negli ultimi anni, spiega Trombetti, il 47% delle aree scientifiche italiane ha raggiunto un impatto superiore alla media mondiale".
Inoltre, aggiunge, la valutazione del Civr (comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca, ndr) ha evidenziato che praticamente in ogni ateneo vi sono aree di accellenza. Tutto questo, però, rischia di essere vanificato se la politica non investe sui giovani. Si legge: "Troppo lento l’inserimento nel mondo della ricerca. Troppo basse - verrebbe da dire ridicole - le retribuzioni. I giovani non hanno incentivi a rimanere nel mondo della ricerca. E se i giovani si scoraggiano, il danno per il mondo scientifico è irreversibile. Direi premonitore del declino dell’intero Paese. Bene ha fatto, pertanto, il Governo a produrre uno sforzo di investimento lanciando un piano di reclutamento straordinario di ricercatori. Un simile progetto, andrebbe certamente sostenuto con risorse più cospicue di quelle oggi iscritte in Finanziaria. Il rischio reale è che la situazione finanziaria degli Atenei, sempre più rovinosa, costringa gli Atenei stessi a ridurre gli investimenti in posti di ricercatore. Trasformando così il lodevole sforzo del Governo da aggiuntivo in sostitutivo".
Internazionalizzazione e governance. Poi c’è la questione culturale, che va di pari passo con le risorse destinate agli atenei. L’Università ha bisogno di coltivare la propria vocazione internazionale, il proprio essere parte di un sistema globale. "Nel campo della ricerca, sul piano internazionale, scontiamo almeno un decennio di sottofinanziamento", avverte Trombetti.
Infine la governance: il rettore chiede un cambio di mentalità che deve essere accompagnato da nuove regole, da un nuovo patto tra atenei e Stato. Ai primi deve essere lasciato campo libero nelle decisioni gestionali e progettuali. Una volta destinate, le risorse devono essere amministrate con libertà. Al secondo va demandata invece la fase importantissima dei controlli sui risultati ottenuti. Controlli rigidi e puntuali. Oggi avviene il contrario, con conseguenti imbavagliamenti burocratici che non sono più accettabili, che rendono vecchio un settore che, al contrario, deve essere all’avanguardia. (9 novembre 2006)
Il Governatore della Banca d’Italia parla all’università di Roma "Servono riforme per lo sviluppo e contro il precariato"
Scuola, il monito di Draghi: "L’istruzione frena la crescita"*
ROMA - Partire dalle fondamenta per arrivare in alto. Migliorare l’istruzione che è alla "radice" della crescita economica del Paese. Il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in una "lectio magistralis" all’università di Roma, individua in un "preoccupante" deficit di istruzione e in una revisione del sistema "uno dei capitoli fondamentali delle riforme strutturali da realizzare per il rilancio". Secondo Draghi, "l’istruzione è uno dei più importanti capitoli di un’azione di riforma". E’ "motore della crescita" particolarmente rilevante nelle fasi caratterizzate da un rapido progresso tecnico. Per questo Draghi definisce "non lungimirante" la distribuzione delle risorse pubbliche all’istruzione che sfavorisce l’università a vantaggio dell’istruzione primaria e secondaria.
Serve, continua il Governatore, un alto livello di istruzione, arma efficace contro la precarietà nel mondo del lavoro, "oggi più elevata che in passato a causa del crescente ricorso a rapporti di lavoro a tempo determinato".
E’ ampio l’exursus di Draghi che esamina la situazione dell’istruzione secondaria ed universitaria nel paese, che presenta aspetti di notevole arretratezza rispetto agli altri paesi Ocse. Risultati "insoddisfacenti", a cui si aggiungono "ampi divari territoriali" a svantaggio degli studenti delle regioni meridionali e una elevata variabilità fra istituti scolastici. Un dato per tutti: la dispersione dei risultati dell’apprendimento dei 15enni è tra le più elevate dei paesi Ocse.
Infine Draghi lancia un preciso avvertimento. Nessuno pensi che la ripresa è dietro l’angolo e si faccia abbagliare da timidi segnali di miglioramento: "Nessuno dovrebbe ormai avere dubbi in Italia sull’urgenza di rimettere in moto la crescita economica. Il vivace punto di ripresa congiunturale a cui stiamo assistendo non è certo sufficiente ad avviare una rapida soluzione dei difetti strutturali del sistema produttivo italiano".
(9 novembre 2006) la Repubblica
Stralcio dell’intervento di Marcel Hénaff, uno fra i filosofi più apprezzati dal pensatore francese scomparso lo scorso anno, al quale è dedicato il convegno “Antropologia del dono e riconoscimento”. A Napoli fino a dopodomani
Io riconosco te, la politica oltre l’identità nel segno di Ricoeur
di Marcel Hénaff (Liberazione, 07.11.2006)
Ci si può domandare perché, da circa due decenni, il problema del riconoscimento sia divenuto l’oggetto di un’indagine teorica così intensa.
La spiegazione che è stata spesso avanzata è che, al di là dei conflitti sociali e delle disuguaglianze economiche - e quindi al di là della domanda di giustizia sociale - si impone un’altra domanda, fondata in primo luogo sulle diverse forme d’identità legate alla diversità delle appartenenze sociali e professionali, quindi sugli statuti culturali o etnici di diversi gruppi, sulle nette opposizioni circa le forme di sessualità o ancora, più generalmente, fondata sugli statuti legati alla differenza uomo/donna (al “genere”), all’età, a degli handicap fisici. In breve, non si esige più soltanto un’uguaglianza di reddito (sia pur proporzionale a delle competenze o a dei meriti incontestati), ma anche un’uguaglianza di stima in rapporto ad alcune particolarità che potrebbero essere occasione di pubblico disprezzo o almeno di devalorizzazione sociale.
Questa spiegazione è nota ed ha dato luogo a tutto il dibattito redistribuzione e/o riconoscimento. Può stupire allora il fatto che queste diverse domande di stima, pur non essendo state ignorate, non hanno saputo neanche imporsi veramente fin dall’epoca di Marx o di Louise Michel. Eppure esistono numerosi testi che già testimoniano queste esigenze. Dunque devono esserci altre ragioni per cui la presa di coscienza è così forte soltanto ai nostri giorni. Quali? Potremmo avanzare questa come una delle più importanti: la crescente omogeneizzazione delle referenze culturali, la valorizzazione delle scelte individuali, l’affermazione dei modi di vita (sessuali o altri) pongono sempre più gli agenti davanti alla necessità di inventare i loro rapporti agli altri senza poter contare su riti antichi, punti di riferimento conosciuti, abitudini comuni che normalmente costituiscono delle forme precostituite di accettazione, di fiducia o di stima reciproca.
Una sorta di strato protettivo è scomparso. Noi tutti, moderni individui delle grandi metropoli, siamo sempre più esposti gli uni agli altri in una sorta di nudità sociale che non ha precedenti nella storia delle civiltà. Laddove mancano dei codici di civiltà condivisi ed i modi di vita sono molteplici e talvolta in conflitto, allora per ciascuno il proprio vicino è, o rischia di sembrare, uno straniero. Ognuno si trova nella situazione di essere un individuo in generale di fronte a degli individui in generale. » per questo che diviene urgente reinventare la fiducia nell’altro e costruire le relazioni dei diversi gruppi su nuove basi, da costituire o da ricostituire. Questo ridisegna praticamente la figura de l’homo Ïconomicus.
Ed è così che si moltiplicano le domande di riconoscimento, proprio in relazione alla mancanza di riconoscimento ed in funzione della nuova fragilità delle appartenenze.
Si domanda, dunque, paradossalmente, di riconoscere delle differenze come uguali. Si tratta di una situazione di ricomposizione generale dei rapporti sociali, di una redistribuzione delle carte. » interessante constatare che in un tale contesto sia precisamente la questione della stima accordata o rifiutata ad essere importante e che siano i tratti di rispetto ad essere sorvegliati; ma soprattutto che al di là di queste espressioni sociali del riconoscimento, è l’affermazione della dignità stessa della nostra umanità ad essere in questione.
E’ quest’esigenza che deve essere interrogata. Ed è a questo che può contribuire un approccio antropologico, intendendo qui l’antropologia come la disciplina che ricava i suoi dati da inchieste etnografiche e riflette sul loro significato. Non si tratta, attraverso il ricorso a tali dati, di arrivare ad una sorta di fondazione genealogica del problema, quasi come se il “primitivo” avesse la capacità di riesumare una verità inscritta nelle origini. Si tratta, al contrario, di prendere questi dati come testimonianze di pratiche sociali il cui senso può apparirci meglio grazie al differenziale delle distanze interculturali e delle variazioni tra le epoche, permettendoci di comprendere ciò che nella nostra epoca è stato cancellato o spostato, trasformato o ancora inventato come un problema interamente nuovo [... ].
Apparentemente solo gli esseri umani adottano la procedura che consiste nell’impegnarsi dando qualcosa di proprio come pegno e sostituto di sé. Possiamo chiamare Sé un agente che risponde di sé stesso nella durata davanti ad altri agenti. Che lo faccia attraverso la mediazione di una cosa venuta da sé, come parte di sé, è degno di nota. In ciò si ritrova l’antica procedura greca e romana del patto realizzato attraverso un sym-bolon (da ballein: mettere e syn: insieme), questo pezzo di terracotta spezzato in due di cui ogni parte conservava una metà adattabile all’altra come prova per il futuro dell’accordo concluso. Il dono reciproco, secondo questo modello, non è nient’altro che il gesto d’inizio del riconoscimento reciproco tra esseri umani, gesto specifico tra gli esseri viventi per la sua caratteristica di essere mediato da una terza cosa, una cosa che viene dal sé, che vale per il Sè e ne attesta l’impegno preso. Allearsi vuol dire mettere insieme il proprio del Sé e l’estraneità dell’altro attraverso un terzo elemento che proviene da sé ed è desiderato dall’altro.
Questo elemento congiunge i due bordi: non c’è alleanza senza arca dell’alleanza. Questo riconoscimento reciproco che passa attraverso lo scambio di qualcosa appartenente al gruppo (o al suo rappresentante) e offerto all’altro gruppo è al cuore del rapporto esogamico (la sposa ceduta è “il dono per eccellenza” dice Lévi-Strauss) e chiarifica il divieto dell’incesto che ne è la chiave, divieto che è in primo luogo un positivo imperativo di reciprocità: si è umani nella misura in cui si esce dal gruppo naturale dei consanguinei, nella misura in cui si effettua un riconoscimento e un’alleanza con l’altro da sé. Necessità di riconoscere ciò che non si è per essere ciò che si è. Questa lettura antropologica del dono cerimoniale ci interessa solo se, al di là dei molteplici dati osservati e scartandone ogni esotismo, ci permette di porre altrimenti delle fondamentali questioni teoriche in grado di far luce sul dibattito attuale. Quella della relazione politica, il conflitto, la reciprocità e, infine, quella dello spazio pubblico e delle istituzioni.
Università della California, San Diego
Italia, un Paese sempre più corrotto
di Paola Zanca *
L’Italia ha la febbre alta. Il termometro che misura il livello di corruzione percepita nel nostro paese rileva tutti i sintomi di un paese malato. E che non accenna a guarire. Rispetto al 2005, siamo scesi di altre cinque posizioni nella classifica della corruttibilità, passando dal 40° posto al 45°, dopo il Botswana, la Giordania, la Corea del Sud. A fotografare l’amara situazione, il Rapporto 2006 di Transparency International (Ti), l’organizzazione non governativa che è impegnata nella lotta alla corruzione e che ogni anno stila una classifica che registra la percezione della corruzione in 163 paesi del mondo. Nella scala di voti, da 1 a 10, l’Italia non sfiora nemmeno la sufficienza, fermandosi al 4.9. Al primo posto, con un 9.6, la Finlandia, seguita dagli altri paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) ma anche da Nuova Zelanda, Singapore e Australia. Il resto dei paesi europei ci distacca di molto: il Regno Unito si posiziona all’11° posto, la Germania al 16°, la Francia due postazioni più in basso. I cittadini statunitensi percepiscono un grado di corruzione che fa classificare gli Usa al 20° posto, ancora lontanissimo dall’aria corrotta che si respira in Italia. Chiudono la lista, Sudan, Iraq, Myanmar e Haiti.
Ma la fiducia nelle istituzioni politiche, economiche, pubbliche e private, è scesa un po’ dappertutto: quasi tre quarti dei paesi che appaiono nella classifica hanno ottenuto un voto inferiore a cinque e settantuno paesi hanno avuto una valutazione inferiore a tre. Dicono da Transparency International: «I voti si sono appiattiti verso il basso. Questi risultati sono deprimenti e denunciano la resa delle forze migliori, che non riescono a prevalere in una società opaca e malsana, per cui è assolutamente improrogabile che istituzioni e società civile si alleino per migliorare questa situazione, che mette a repentaglio l’avvenire delle nuove generazioni: la corruzione, come la criminalità, allontana gli investimenti, induce la spirale della criminalità, del sottosviluppo e pregiudica i diritti umani. Solo una società onesta permette uno sviluppo sostenibile nel tempo». È infatti il nesso tra corruzione e scarso sviluppo economico il dato che emerge in maniera più evidente dal rapporto elaborato da Ti: «La corruzione lascia milioni di persone nella povertà» ha dichiarato la presidente di Transparency International, Huguette Labelle.
Per questo, Transparency International, non si limita a sondare il rapporto della cittadinanza con le istituzioni, ma analizza la legislazione internazionale anti-corruzione per valutarne l’efficacia, si occupa di promuovere l’educazione alla legalità, cura vari temi per ricordarci che la corruzione ci riguarda: dalla politica - dove le aree a rischio sono quelle dei finanziamenti ai partiti, dei conflitti di interesse, del voto di scambio, dei brogli elettorali - alla salute, un diritto universale spesso violato dagli interessi delle case farmaceutiche, all’economia e alla sua responsabilità sociale. Infine, su www.transparency.org, c’è anche una sezione dedicata alle Daily corruption news, notizie sulla corruzione, purtroppo quotidianamente aggiornate.
* www.unita.it, Pubblicato il: 07.11.06 Modificato il: 07.11.06 alle ore 16.31
Nei dormitori dei sensi e della mente
L’università italiana è alla catastrofe. Negli atenei gli studenti vivono una condizione di afasia e i giovani ricercatori sono triturati dalla macchina burocratica, mentre i docenti aspettano la pensione. Ma il parlamento, il governo e i media distolgono lo sguardo da questa inquietante realtà. Un intervento
di Alberto Abruzzese (il manifesto, 03.11.2006)
Sono passate molte settimane dalla mia lettera aperta al ministro dell’università Fabio Mussi (la Finanziaria, strozzando la già morente nostra università, ha reso ancora più ridicola la mia presunzione di dialogare sul presente e futuro della ricerca scientifica e della formazione professionale). Altre ne ho scritte, altrove altri articoli: tra carta stampata e on line. Qualche segnale di interesse? Pochissimi e da chi - anche non sollecitato - ha da sempre mostrato di avere a cuore il dramma dell’università italiana. Invece, la risposta più forte - certo non rivolta a me ma ai grandi media - è venuta proprio dal ministro Mussi: nell’accostare, qualche settimana fa, la situazione universitaria a un bordello, ha pronunciato uno slogan coraggioso (evidentemente inutile per chi di coraggio non ne vuole avere in Parlamento e al Governo). Si trattava di quegli slogan che dovrebbero annunciare una «rivoluzione»: un rigurgito di dignità e senso di responsabilità da parte di chi è stato apostrofato alla pari di un luogo tradizionalmente così malfamato, convenzionalmente così carnevalesco. Comunque poco serio, marginale, reietto. Una uscita passionale, quella di Mussi, ma a quanto pare davvero sprecata per un pubblico frigido o sordo o altrove impegnato. Una dichiarazione anche scherzosa, fatta per iniziare una conversazione, per svegliare le coscienze. E invece presa sottogamba da tutti, anche dalla opinione pubblica.
Tuttavia, a ripensarlo, questo slogan suona enigmatico. Usandolo, il ministro Mussi - se intende restare dentro i parametri di (apparente) buon senso che va perseguendo - finisce di andare anche contro se stesso e non solo contro i suoi sottosegretari, consulenti, organi accademici, atenei, presidi, docenti, precari e studenti. È d’obbligo un inciso: rispetto a queste aree di potere (strutture centralizzate, verticali e burocratiche di forte cultura statalista e strutture di netta marca feudale), che fine hanno fatto i sindacati storici? Può avere una qualche ragione chi li ritiene tra i maggiori artefici della rovina accademica (e non perché si sono occupati troppo di questioni accademiche, corporative o meno, ma perché se ne sono occupati poco e soprattutto male)? Ma c’è anche da domandarsi: che fine ha fatto, se mai c’è stata in termini di contenuto reale, una capacità di pensiero della base studentesca?
Gli studenti invisibili
Nel ’68 essa produsse dei leader (o meglio questi si produssero in essa), ma, entrati nella politica e nella professione giornalistica o altra che sia, hanno smesso di occuparsi di università. Ora, la base studentesca, modificatasi a dismisura in quantità e qualità, non offre leader: è un grande passo avanti per chi ritiene che il tempo delle avanguardie politiche e della loro dinamica movimentista sia finito o debba finire. Ma il problema è che questo passo avanti, se tale è, costa comunque due o tre passi indietro, poiché i frammenti di base studentesca attivi in termini critici nei confronti degli apparati universitari e dei governi che li amministrano vivono ovviamente nelle stesse condizioni di asfissia in cui versa il luogo in cui abitano e cercano di agire (la questione degli spazi universitari è qualcosa di ben più importante di come viene solitamente enunciato). Finito lo studente storico, inscritto in una coerente filiera di ceto, è difficile che possa rinascere uno studente con la mentalità e le capacità di un militante politico.
Ma torniamo al cuore del discorso. A questo «bordello» di università. Nel grottesco coacervo di situazioni, comportamenti e appetiti tanto a lungo abbandonati a se stessi da essere ormai ingovernabili, con quella battuta ministeriale e, ora, con il vergognoso silenzio dei facitori di finanziarie, il difficile quanto disperato compito di mettere ordine e disciplina nel sistema universitario si è trasformato in una via senza uscita. Da una intuizione così profonda - che in sostanza dice: la sfera umana che occupa le leve di regolamentazione dell’università è fatta di puttane e magnaccia - ci si dovrebbe aspettare una chiara e esplicita interdizione dai pubblici uffici di quanti, pur avendo perfetta conoscenza della reale condizione universitaria, sembrano determinati a insistere sui contenuti, sui modi, sulle procedure che hanno portato al disastro. Al contrario, ogni volta che le grandi testate del giornalismo italiano ospitano l’intervento ufficiale di chi ha un peso e una funzione nell’università, nei suoi apparati e nelle sue decisioni, dentro o fuori del ministero e dei ministeri, accade di leggere, anche in quelli più ragionevoli e benintenzionati, una sorta di suggerimenti marziani. Come si può sperare, ad esempio, di creare meccanismi di controllo sulle docenze universitarie senza che sia venuto in mente a nessuno di porsi il problema di come e dove farlo, con quali parametri di giudizio e con quali irrinunciabili risorse e preliminari processi di reclutamento e formazione di ricercatori e formatori?
Ordinamenti senza senso
Mi domando spesso del perché l’università non sia oggetto di una specifica e costante attenzione critica persino in un giornale come il manifesto, certamente più di altri attento al sociale, alla cultura, ai diritti della persona e del lavoro, all’innovazione come nuove visioni e pratiche del mondo, ai soggetti che lo abitano e che si scontrano tra chi appartiene a ceti più responsabili della sua ingiustizia o comunque del suo catastrofico assetto civile e chi, invece, si schiera in vari modi e livelli contro le forme di dominio che hanno caratterizzato la civiltà occidentale e ora caratterizzano i processi della sua più radicale globalizzazione. Perché, sapendo quanto intere masse di studenti risultino disprezzati per il semplice fatto di venire gettati in ordinamenti didattici sempre più vuoti di senso? Lasciamo un momento sullo sfondo le situazioni più degradate, le università tanto intasate e mal governate da farsi «dormitori della mente e dei sensi». Guardiamo in quelle che reggono l’impatto, guardiamo ai contenuti di cui si fanno portatori i docenti che, dentro il primo tipo di università come nel secondo, buttano il sangue nel tentativo di fare tutto al posto di tutto: di certo qui la cultura di cui dovrebbero disporre studenti e discipline è molto distante dalle «pagine belle» che il manifesto riesce, peraltro fortunatamente, a fornire ogni giorno. Ogni giorno, nelle aule universitarie si è invece alla ricerca disperata di un punto di contatto tra i linguaggi di chi pensa di sapere e i linguaggi di chi sente e vive qualcosa di mille miglia distante dal sapere, dunque pretendendo - più che giustamente - di sentirsi vivere nel proprio linguaggio e non in una terra straniera.
Ed ancora: come è possibile che quotidiani interessati alle tristi sorti dei diritti dell’essere umano o, con guizzi più sofisticati, dediti a trattare di «nuda vita» e magari di «post-umano» o «moltitudine», trovino insignificante la condizione di umiliante vassallaggio in cui i professori di ruolo tengono sotto schiaffo - con sadico piacere e opportunismo o con rassegnata sofferenza - proprio i giovani che dovrebbero risultare una promessa per il rinnovamento dei contenuti e dei linguaggi della formazione? Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine su questo. Nulla. Ci sarebbero da fare mille interviste e reportage (mentre i giornalisti che vengono assoldati dall’università per fare i professori universitari, quando anche facciano, e spesso accade, un buon lavoro, sembrano ciechi e muti di fronte a ciò che vedono accadere intorno a loro). C’è anche il modello di docenti di corsi di laurea o di cattedre che - preoccupati di salvare il salvabile, di fermarsi sull’orlo del baratro, oppure preoccupati di essere sommersi da problemi e drammi incommensurabili e irrisolvibili, causa essi stessi di nuova perpetuazione di soprusi - chiudono i cancelli delle loro aule, si rifiutano di formare allievi. Attendendo la pensione, pensano, nei casi migliori, ai propri studi, alla qualità della propria lezione, ad un voto finale di laurea, a qualche master. Poi, dopo di loro, il diluvio. Per non fare soffrire e soffrire essi stessi, evitano accuratamente di dare speranze. Questa è una «onestà» parimenti catastrofica. Una totale rinuncia a formare ceti intellettuali, quadri responsabili, giovani che sentano in sé la missione universitaria non è qualcosa di molto meglio rispetto a chi massacra giovani che sperano di diventare ricercatori, li illude che possano farcela anche quando essi non ne abbiano i requisiti. E mai potranno acquisirli: da molti anni ormai si è fatto in modo di fare diventare l’università un luogo di ripiego piuttosto che di promozione della propria intelligenza, sia essa quella di un giovane laureato o, e qui da molto più tempo ancora, di un docente.
Il sipario da strappare
Non so se questa volta il manifesto si senta colpito da questo mio intervento. Lo spero. Sono sicuro, tuttavia, che molti, al di là dei suoi lettori abituali (anche questo spero: che non siano loro) penseranno - magari evitando di scriverlo ufficialmente - che il mio quadro della situazione è eccessivo, tendenziosamente catastrofico, cieco su tutto ciò che si allontana dalla mia interpretazione radicale, estrema e estremista. A quanti mi elencheranno situazioni in tutto diverse da quelle che ho descritto, anticipo una sola argomentazione. E, per me, è un vecchio discorso che ho sempre usato nel parlare di Napoli (dalla prima volta che lo feci a un giovane Bassolino, appena entrato in carriera politica): Napoli è una metropoli in catastrofe (oggi in un suo particolare rigurgito di ingovernabilità e complessità), ma non si riuscirà mai a parlare dei suoi drammi se prima non la si considererà il retroscena di ogni altra città italiana (e di ogni metafora di città e territorio): basta strappare il sipario e Napoli appare come il vero orizzonte in cui guardare, la scena in cui essere convocati.
Napolitano e la finanziaria: «L’università va sostenuta»*
L’Unione europea impone all’Italia stretti vincoli di bilancio, che vanno rispettati. È il primo modo per aiutare il rilancio dell’economia. Ma attenzione a non sostenere in maniera adeguata l’università. L’appello arriva dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. È dal mondo accademico, infatti, che viene quella progettazione dell’economia e della società senza la quale l’Italia non può reggere la competizione con gli altri Paesi.
Intervento quasi fuori programma quello del capo dello Stato. Giorgio Napolitano sale sul palco degli oratori dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Bocconi di Milano solo dopo che lo ha invitato ufficialmente Mario Monti. La sua è una relazione sui contatti internazionali avuti in questi mesi, tutti dedicati al rilancio del processo di integrazione europea: viaggi a Berlino, Budapest, Parigi e Londra. Capitali dell’Europa del post-allargamento, o del nucleo storico all’interno del quale circolano forti dubbi ed incertezze. Ma prima di elencare gli uni e gli altri, Napolitano si sofferma sull’Italia.
«Sostenere il percorso della comunità e dell’Unione europea ha significato e significa per l’Italia valorizzarne le opportunità, non sottovalutarne le sfide, non trascurare di adempierne gli obblighi», spiega. «Ciò ha via via prodotto frutti tanto più cospicui quanto più le sfide e le opportunità siano state raccolte con il necessario dinamismo», sia dal pubblico che dal privato. E quanto più «gli obblighi o i vincoli siano stati recepiti come stimoli alla modernizzazione delle nostre strutture e ad una gestione rigorosa del bilancio dello Stato».
Qualora ci fosse qualche dubbio, Napolitano mette le cose in chiaro: «Si tratta di insegnamenti validi anche per l’oggi». In tempi di finanziaria «una prova non minore del nostro europeismo dobbiamo darla assumendo le difficili decisioni richieste dal rispetto della disciplina comunitaria in materia di conti pubblici e dall’attivazione delle riforme sollecitate dalle direttive europee». Come già nei giorni scorsi, il capo dello Stato precisa di non voler entrare nel merito del dibattito, perché «spetta al governo e al Parlamento adottare simili decisioni». Sia però chiaro che al Quirinale «non sfugge la stringente necessità per rendere più credibile l’impegno che anche personalmente sto spendendo per sollecitare il rilancio del processo di integrazione europea». Uno sforzo a cui tutti devono aderire, «al di là degli schieramenti politici».
Bisogna quindi agire uniti per rilanciare il modello europeo anche in economia. E di qui discende «l’importanza del ruolo delle nostre università come centri avanzati di formazione e di ricerca». In Europa si registrano in questi anni «condizioni nuove di libertà di studio e di scambio per milioni di giovani». Le università «si sono aperte a una intensa e reciproca conoscenza delle diverse culture e civiltà». Le università, infine, gettano «le basi per una visione più ricca del comune patrimonio europeo». E allora sarebbe «paradossale» non tener conto di questo dato di fatto. «Paradossale»: Napolitano lo ripete due volte. Insomma, paradossale che «a discorsi generalmente condivisi sull’esigenza di una seria concentrazione di forze» facesse «riscontro una sottovalutazione di fatto del ruolo delle nostre università, delle loro esigenze di continuità e di consolidamento».
* www.unita.it, Pubblicato il: 30.10.06 Modificato il: 30.10.06 alle ore 16.23
Università, Mussi contestato
Studenti e precari chiedono al ministro di dimettersi. E il convegno Ds diventa un’assemblea
di Eleonora Martini (il manifesto, 28.10.2006)
Roma. Quando al grido di «Mussi libero» i ricercatori precari e gli studenti universitari della Sapienza srotolano il loro striscione su cui hanno scritto «O col governo o con l’università», lui li accoglie divertito. Tre ore dopo, quando il convegno «Ricerca e università: come migliorare la finanziaria», organizzato ieri dai Ds a Roma, si è ormai trasformato in una animatissima assemblea, il ministro del dicastero più penalizzato dalla prima manovra del centrosinistra si appassiona al microfono e difende «con le unghie e con i denti il governo Prodi».
«Ti devi dimettere non per quello che può succedere, ma per ciò che è già successo, perché non ti danno nessuno spazio di manovra per invertire lo storico disinteresse e disinvestimento dei governi italiani nella formazione e nella ricerca». Gli studenti e i precari si rivolgono così, informalmente, al ministro che è stato loro compagno di tante battaglie per il sapere e contro la precarietà. «Noi siamo qui per liberarti, perché tu sai di essere ostaggio dei tuoi sottosegretari e del corpo baronale», insistono. La sala si surriscalda, «Nostalgici!» grida qualcuno contro i manifestanti, ma è lo stesso Mussi a placare gli animi: «Far vedere anche i punti di conflitto è una delle funzioni della democrazia». Ma non sono i soli a protestare, ci sono anche gli «Studenti in movimento di Tor Vergata» e gli esasperati precari del Cnr e degli enti di ricerca che attaccano la riforma Bersani che riduce anche per gli atenei le spese del 20%.
«Vorrei stare nel Governo per l’università», è la risposta allo striscione di Fabio Mussi che lascia al contestato sottosegretario Luciano Modica la difesa dei punti più criticati della finanziaria. Punti sui quali anche Rifondazione comunista ha lavorato per redigere gli emendamenti presentati ieri mattina alla stampa e che saranno portati in commissione bilancio la prossima settimana. Innanzitutto troppo pochi i 140 milioni di euro stanziati nell’arco di tre anni per le nuove assunzioni, limitate ulteriormente da un secondo vincolo numerico, legato al turn over, che di fatto penalizza gli atenei più giovani. Siamo ben lontani dai 20 mila promessi nel programma dell’Unione, ma Mussi parla invece di migliaia di posti: «Nel 2008 ci saranno i concorsi - dice, ma gli contestano la mancata riforma - nel 2007 non siamo in grado di assumere 37.000 persone». Altro punto: il dimezzamento degli scatti di anzianità che riduce gli stipendi delle figure non contrattualizzate. L’articolo relativo, il 64, potrebbe essere cassato dalla manovra, annuncia Mussi ma, aggiunge, «dopo andrà aperta una seria discussione sulle progressioni di carriera e il premio di merito perché non tutti i docenti lavorano allo stesso modo». Il ministro poi rivendica l’istituzione dell’Agenzia per la valutazione, «organo terzo e imparziale sugli atenei», contestata invece perché affidata a privati. E ancora: il taglio ai fondi per il funzionamento ordinario delle università, che è «ancora in discussione», assicura Modica, e alla ricerca. Ma Mussi su questo non ci sta: «Ci sono 1,5 miliardi di euro stanziati per la ricerca dal 2007 al 2009, non era mai successo prima. E’ una bestemmia paragonarci alla Moratti».
GIU’ LE MANI DAL COPYLEFT
Dallo scorso 3 ottobre in internet non si può più riportare il testo di un qualsiasi articolo tratto da un qualsiasi sito o giornale, pur citando la fonte.
Lo dice l’art. 32 del decreto legge n. 262.
Per poterlo fare occorre pagare un compenso all’editore. E se non lo si fa le sanzioni sono salatissime.
Fino al giorno prima del decreto il copyleft era ammesso sul web con la sola restrizione di citare rigorosamente la fonte editoriale e l’autore del pezzo.
Così vengono imbavagliati migliaia di siti, di blog e di forum.
La libertà non si può fermare. L’informazione su internet deve rimanere libera.
Chiediamo al Governo che ritiri questo decreto legge. Chiediamo al Parlamento che lo cancelli.
Il diritto all’informazione non si tocca!
Aderisci alla campagna
*No ad una nuova "tassa sul macinato" per le rassegne stampa*.
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Peacelink - 9 ottobre 2006
Un gruppo missionario che raccoglie sul web articoli sulla guerra in Darfur. Un comitato di quartiere che vuole documentare uno scempio ambientale archiviando articoli della stampa locale. Un’associazione di persone colpite da una malattia rara che vuole mettere a disposizione di tutti una rassegna stampa sui progressi scientifici del settore. Un’associazione pacifista che vuole denunciare, con prove giornalistiche alla mano, crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.
A partire da domani tutti questi soggetti potrebbero essere costretti a pagare una "tassa sul macinato" alle associazioni degli editori per continuare a svolgere le loro attivita’. La sorpresa arriva proprio dalla finanziaria dipinta come uno strumento di tutela dei "soggetti deboli", e che in realta’ e’ servita anche a tutelare le lobby dell’editoria modificando per l’ennesima volta le norme diritto d’autore in senso peggiorativo, limitando il diritto dei cittadini alla realizzazione di rassegne stampa, e penalizzando le forme di uso libero e gratuito dell’informazione giornalistica a fini culturali.
Il centrosinistra sembra avere particolarmente a cuore questa normativa, dal momento che gia’ nel 2000 la legge 248 ha ritoccato il diritto d’autore e stabilito la galera per chi copia software ottenendo un generico "profitto", quindi anche per chi fa una copia personale risparmiando per il mancato acquisto. Fino ad allora le manette scattavano solamente per un conclamato fine di lucro, se la copia era fatta per guadagnare soldi a danno degli aventi diritto.
Non e’ facile trovare la disposizione che introduce il pizzo degli editori sulle rassegne stampa: per scovarla non basta leggere l’intero testo della finanziaria, ma va esaminato l’articolo 32 del capo IX del decreto legge 262 del 3 ottobre 2006, collegato alla finanziaria ed entrato gia’ in vigore il 3 ottobre scorso. Chi riesce ad arrivare alla fine di questo labirinto giuridico scopre che il decreto modifica la legge sul diritto d’autore all’articolo 65, stabilendo che "i soggetti che realizzano, con qualsiasi mezzo, la riproduzione totale o parziale di articoli di riviste o giornali, devono corrispondere un compenso agli editori per le opere da cui i suddetti articoli sono tratti. La misura di tale compenso e le modalità di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i soggetti di cui al periodo precedente e le associazioni di categoria interessate. Sono escluse dalla cooresponsione del compenso le amministrazioni pubbliche".
In sintesi: se vuoi fare una rassegna stampa online o cartacea, devi pagare. Anche se la tua attivita’ e’ senza fini di lucro, umanitaria o caratterizzata da una valenza culturale o sociale, devi versare comunque dei soldi. Soldi che per giunta verranno intascati dagli editori, e di certo non dai giornalisti che hanno scritto quegli articoli, pagati una tantum per la cessione dei loro diritti d’autore alle testate per cui lavorano.
Per capire la violenza di questo giro di vite in tutta la sua portata basta leggere la precedente formulazione dell’articolo 65, che condizionava le rassegne stampa alla sola citazione della fonte: "gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato".
Questa vecchia formulazione secondo alcuni dava troppa liberta’ ai cittadini senza dare un centesimo alle aziende editoriali che vogliono lucrare perfino sulle attivita’ non-profit. Ma i tre grandi colossi editoriali italiani che applaudono alla nuova legge (Rcs, Mondadori/Fininvest e il gruppo Caracciolo/L’Espresso) ignorano che la citazione di un articolo su un blog o un sito web e’ in realta’ una pubblicita’ gratuita per chi lo ha stampato, e che i cittadini sostengono gia’ di tasca propria le imprese editoriali con i finanziamenti a pioggia della legge sull’editoria che premiano gli editori e gli stampatori di riviste associati a improbabili partiti e movimenti creati ad arte per scucire quattrini, come ha documentato un’ottima inchiesta di "Report" .
Da piu’ di dieci anni l’attività del sito www.peacelink.it ruota attorno alla possibilità di pubblicare articoli (oggi quasi 18mila), alcuni originali, altri tradotti da volontari, molti ripresi da varie fonti autorevoli, sempre e comunque menzionate e riportate per esteso. Testi che, sul nostro sito, hanno acquistato un valore aggiunto proprio perche’ organizzati, tematizzati, catalogati e collegati tra loro grazie al lavoro di un gruppo costituito totalmente da volontari, dal presidente in giu’. Molto di questo materiale e’ scomparso dai siti web delle testate che lo hanno pubblicato, e questo aggiunge al nostro lavoro di bibliotecari anche un importante ruolo di memoria storica delle lotte italiane e internazionali per la pace e il rispetto dei diritti umani.
Che cosa accadra’ al nostro lavoro gratuito e volontario moltiplicando le nostre migliaia di articoli per il pizzo che gli editori si apprestano a riscuotere senza alcun beneficio per i giornalisti? Quali saranno i costi da sostenere per un sito come il nostro? Quale sara’ in futuro il clima e il tenore democratico di un paese in cui le realta’ di informazione alternativa saranno costrette a convivere con la spada di damocle di una possibile denuncia se vorranno esercitare il diritto di citare, analizzare, catalogare o contestare articoli di fonti esterne senza dover pagare una tassa ingiusta?
Quale sara’ il destino di tutte le iniziative che cercano di affrontare la complessita’ e la ridondanza dell’informazione attraverso un paziente lavoro di tematizzazione, catalogazione e raccolta del meglio che l’informazione tradizionale e’ in grado di produrre? In che modo una tassa sull’esposizione di materiale pubblico incidera’ sul diritto a "cercare, ricevere e diffondere informazioni, attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere" stabilito a chiare lettere dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?
Le risposte a tutte queste domande dovranno arrivare da un governo che si dichiara pubblicamente "amico dei deboli" e di nascosto produce cavilli giuridici a favore degli editori, il governo amico del volontariato che vuole estorcere soldi perfino alle associazioni non-profit, il governo amico della cultura che mette freni alla libera circolazione dei saperi, il governo vicino ai cittadini che in realta’ vuol premiare aziende gia’ ben foraggiate e avvinghiate a due mani alle generose mammelle dello stato.
Di fronte a tutto questo, al di la’ di ogni schieramento politico e ideologico, diciamo che il buon senso, la civilta’ e l’amore per la cultura e la diffusione dei saperi che dovrebbero muovere ogni essere umano, a cominciare dai politici, ci impediscono di tacere e ci obbligano ad una netta presa di posizione.
Per questa ragione un gruppo di volontari dell’associazione PeaceLink ha realizzato un appello (pubblicato all’indirizzo: http://www.peacelink.it/rassegnestampa) per dare alle persone di buona volonta’ la possibilita’ di conoscere quanto sta accadendo e prendere posizione in merito decidendo se schierarsi a difesa di un ingiusto profitto o dalla parte del diritto alla libera circolazione delle informazioni.
In questo appello si chiede al governo di fare un passo indietro rispetto a questo frettoloso decreto legge. Ripristinare il diritto alla rassegna stampa tax-free, e’ solo il primo, doveroso passaggio per ridiscutere in seguito tutte le questioni che attengono la revisione della legge sul copyright, e le tematiche connesse, durante il prossimo Forum sulla Internet Governance .
La cultura e’ una cosa seria, non lasciamola in mano ai contabili dei gruppi editoriali.
Dalla finanziaria nuove minacce alla libera informazione
di Giulietto Chiesa
In un articolo di poche righe un colpo violento alla democrazia *
Leggo, con stupore e sbalordimento, il decreto legge 262 del 3 ottobre 2006, aggregato alla finanziaria, che in un articolo di sole dieci righe ("Riproduzione di articoli di riviste o giornali"), travolge alla chetichella la legge del 1941 sul diritto d’autore.
La nuova norma, in vigore appunto dal 3 ottobre, stabilisce che ogni riproduzione, anche parziale, di articoli di riviste o giornali, venga pagata agli editori.
La formulazione precedente prevedeva, come unico obbligo per chi riproduceva l’articolo, la citazione della fonte e dell’autore. Cosa significa? Che tutto quello che accade in Rete, dove milioni di persone, da anni, riproducono, catalogano, diffondono - senza altro fine che quello di comunicare, studiare, condividere conoscenza e informazione - migliaia di articoli e dati, non potrà più esistere. Perchè queste attività, che hanno cambiato la fisionomia della comunicazione pubblica e privata, dovranno essere pagate. E, per giunta, non agli autori degli articoli, ma agli editori. Si tratta dunque di una modifica sostanziale e gravissima.
Addio a milioni di siti indipendenti, di blog, di forme di comunicazione della società civile. Un colpo violentissimo e irrimediabile alla democrazia della comunicazione, in rete e fuori dalla rete. Un colpo alla democrazia. Fuori da ogni regola europea e in spregio dei diritti umani.
E’ possibile che la norma servisse, nelle intenzioni, a proteggere il diritto d’autore da forme di copiatura a scopo di lucro. Ma il risultato è un attentato alla libertà di espressione e di comunicazione. Se si tratta di un errore bisogna correggerlo immediatamente. Se non è un errore dichiaro che mi batterò con tutte le forze per sconfiggere una decisione grave. La prima cosa da fare è ritirare il provvedimento e tornare alla formulazione precedente.
Giulietto Chiesa Europarlamentare
___ * www.ildialogo.org, Mercoledì, 18 ottobre 2006
Intervista a Fabio Mussi
LA BELLEZZA DEL SAPERE
Mussi a tutto campo sull’università. Gli effetti collaterali da correggere della riforma Berlinguer: limiti del «tre più due», proliferazione dei corsi, frammentazione degli insegnamenti, algebra dei crediti, sistemi di valutazione, concorsi, precari. La latitanza degli investimenti privati in un sistema che deve restare pubblico. Servono più soldi e più governance, o «la società della conoscenza» resterà in Italia solo uno slogan mentre la terza rivoluzione tecnologica avanza in tutto
di Ida Dominijanni (il manifesto, 07.10.2006)
Il convegno di Orvieto sul partito democratico sta per cominciare mentre con Fabio Mussi, alla Camera, facciamo il punto sulla politica dell’università dopo i non troppo incoraggianti investimenti della finanziaria in questo settore cruciale del rilancio del «sistema paese». Rimpianti per essere qua e non là? «Nessuno, sono sereno, non volevo fare la parte di quello che dice ’o presepe nun me piace’. Non credo che Orvieto riserverà grandi sorprese, e la mia posizione è nota: sono favorevole alla costruzione di una solida alleanza democratica, e alla costruzione di una forte sinistra che abbia l’ambizione di rappresentare interessi e promuovere idee. L’incontro di Orvieto è il primo passo della costruzione di un partito che nasce dalla fusione tra Ds e Margherita, su cui non sono d’accordo».
Una domanda personal-politica al ministro dell’università ex studente della Normale: quanto ha contato nella tua vita aver fatto dei buoni studi?
Molto. La Normale era la mia sola possibilità: vengo da una famiglia poverissima, entrarci era l’unico modo di garantirmi vitto, alloggio e una piccola argent de poche. Avevo preso la maturità con la terza pagella d’Italia - non ho mai saputo chi fossero quei due che avevano osato essere più bravi di me! - e il massimo dei voti nelle materie scientifiche: avrei voluto iscrivermi a fisica o chimica, ma venendo dal liceo classico non ce l’avrei fatta a superare il concorso della Normale in quelle materie. Così scelsi filosofia, ma ho mantenuto una forte curiosità per la cultura scientifica, leggo le riviste più importanti e non tollero di non capire di che trattano. Gli anni di Pisa, fra Università, ’68 e Pci sono stati cruciali, anche ai fini del mio lavoro di oggi. Mi è rimasta la convinzione che l’università di massa, aperta a tutti, è una sfida fondamentale, se però tiene alto il livello della qualità.
Saltiamo a trent’anni dopo. Lisbona 2000: in una fase di relativo ottimismo sulla costruzione europea, fu lanciata la parola d’ordine della «società della conoscenza». In Italia c’era il governo D’Alema, ricordo commenti entusiasti. Cos’è rimasto di quella prospettiva nel secondo governo Prodi? Poco, a giudicare dalla finanziaria...
La prospettiva è sempre quella, è fortemente ribadita nel programma dell’Unione ed era ben presente nelle dichiarazioni programmatiche di Prodi alle Camere. Va detto però che in Europa, sei anni dopo, si avverte una certa stanchezza, «la società della conoscenza» rischia di diventare poco più che uno slogan. Mentre a livello planetario si dispiega la terza grande rivoluzione tecnologica della storia: gli investimenti nella formazione e nella ricerca passeranno in pochi anni da 330 a 850 miliardi di dollari - una cifra ancora di molto inferiore alla spesa per armamenti, il che dimostra che la rivoluzione suddetta non si converte in saggezza -, e il grosso ce lo metteranno l’India, la Cina, la Malesia, la Corea, il Giappone, la Tailandia e gli Stati uniti, i quali hanno appena lanciato un piano decennale per raddoppiare gli investimenti nella ricerca pubblica. Il Brasile, l’Argentina e il Messico stanno entrando in questa stessa scia. L’Europa segna il passo: i paesi del Nord sono gli unici ad aver raggiunto l’obiettivo di Lisbona, con un investimento in formazione e ricerca superiore al 3% del Pil.
Ma l’Italia investe meno dell’1%.
Lo 0,88 nell’università, contro l’1,2 della media dell’area Ocse e il 2,6, fra pubblico e privato, degli Stati uniti. Nella ricerca investiamo l’1,1%.
In una classifica ideale delle ragioni del «declino italiano», in quale posto collocheresti questi dati?
Abbastanza in alto, ma la risposta non è univoca: siamo di fronte a uno dei tanti paradossi italiani. E’ ovvio che un paese che investe tanto poco su formazione e ricerca si mangia il futuro a morsi. Ma questo non toglie che in Italia ci siano ancora risorse di qualità e zone di eccellenza. Nella fisica della materia, nella fisica nucleare e nelle biotecnologie, per esempio, continuiamo ad avere posizioni di prestigio. Sforniamo laureati di ottimo livello che vengono rastrellati sul mercato del lavoro intellettuale internazionale. D’altro canto è vero che abbiamo un numero basso di studenti universitari e di laureati, e che nella classifica delle prime cento università del mondo non compaiono nei primissimi posti atenei italiani - anche se la Sissa di Trieste sta al quinto posto in Europa e la Normale di Pisa al settimo. Ti segnalo però che nella classifica Tongji di Shangai sulle prime 500 università del mondo 270 sono europee, parecchie delle quali italiane, e solo 180 sono americane, mentre quelle cinesi e indiane avanzano: nella terza rivoluzione tecnologica l’Europa procede a passo lento, ma ha ancora un capitale enorme da far valere.
Però - fonte Alma Laurea - gli studenti europei Erasmus dicono che le università italiane sono le peggiori fra quelle che hanno frequentato. In Italia c’è una gran retorica contro la «fuga dei cervelli», ma a me pare che dovremmo essere felici che tanti italiani vadano all’estero e preoccuparci di più di attrarre studenti stranieri qui da noi.
Esattamente. Ormai la comunità scientifica è internazionale, ognuno deve andare dove vuole, possibilmente non spinto dalla disperazione. Il problema è come rendere attraenti le università italiane, migliorandone qualità e governance. Nel recente viaggio in Cina di Prodi è stato siglato un accordo interuniversitario per accogliere studenti cinesi in Italia.
Ministro, diciamoci la verità: per il centrosinistra l’università è materia non solo di progetto ma anche di bilancio. Più che di Letizia Moratti, l’università che abbiamo è figlia di Luigi Berlinguer. Sette anni dopo, qual è il bilancio della parola chiave della riforma Berlinguer, «autonomia»?
E’ vero, la vera riforma è stata quella del ’99, Letizia Moratti si è limitata a degli interventi peggiorativi. L’autonomia, intesa come capacità di autogoverno e responsabilità, è un processo inesorabile e giusto. Che però ha prodotto alcuni effetti collaterali da correggere. In primo luogo c’è stata una spinta alla proliferazione scriteriata di sedi, ordinamenti, insegnamenti. In secondo luogo, lo schema «tre più due», laurea triennale più laurea specialistica - che a ben vedere è uno schema tre più due più x, triennale più specialistica più master - è rimasto incompiuto. Il tre più due prevede che uno studente esca dalla triennale con un profilo professionale definito, ma in realtà non è così: la triennale è una sorta di vicolo cieco, o una tappa per la specialistica. Una specie di liceone: non va bene, bisogna correggere.
Come?
La riforma Berlinguer si inseriva in una più ampia politica europea lanciata a Bologna nel ’99, che prevedeva una prima verifica nel 2007 a Londra e una seconda nel 2010, per andare a regime nel 2012. Andremo a Londra dopo una discussione di massa con studenti e docenti, con un’indagine molecolare degli effetti della riforma e qualche proposta. E’ in vista di questo che convocherò gli «stati generali» dell’università.
Qualche correzione intanto è già partita.
Sì. Con alcune norme della finanziaria viene bloccato il numero delle università telematiche - ce ne sono dodici, appena insediato ne avevo bloccate altre cinque, in Spagna sono in tutto due -, che sono università a tutti gli effetti e devono avere requisiti di qualità ineccepibili. Viene bloccata la proliferazione di corsi e facoltà fuori dalle sedi naturali: i corsi di studio sono passati in pochi anni da 2.300 a 5.500, d’ora in poi per aprirne uno sarà necessario avere almeno la metà di docenti strutturati. E vengono bloccate le cosiddette «lauree facili»: la riforma Berlinguer prevedeva che si potesse «laureare l’esperienza» concedendo quasi tutti i crediti necessari sulla base di un percorso di studio e di lavoro; sotto il governo Berlusconi, allargando le maglie di questa norma, sono state regalate lauree a intere categorie di dipendenti dei ministeri e delle regioni, di iscritti all’ordine dei giornalisti e via dicendo; d’ora in poi verranno concessi al massimo 60 crediti, ai singoli e non alle categorie. C’è inoltre un mio decreto al parere della Conferenza dei rettori, che prevede d’ora in poi un massimo di 20 esami per il triennio e di 12 per la laurea specialistica.
Quasi una rivoluzione, data la frammentazione attuale di moduli, esami e crediti. Che avrà effetti a cascata sulla didattica...
Bisognerà accorpare i moduli, o coordinarli, e sempre sulla base di un organico fatto almeno per metà da docenti strutturati, dunque solo una metà può essere fatta di docenti a contratto.
L’autonomia ha anche un lato economico cruciale: è la porta aperta all’ingresso dei privati nell’università. Anche qui, qual è il bilancio di questi otto anni, e come si dovrebbe configurare per il futuro il rapporto pubblico-privato?
Il sistema dev’essere pubblico, dopodiché ben venga se ci investono i privati: magari! Ma ci investono pochissimo, fra sponsorizzazioni e contratti. Nel campo della ricerca, per ogni euro dello stato ce n’è mezzo, non due, di privati.
Insomma: Tronchetti Provera, per dirne uno, poteva bene investire nella ricerca universitaria sulle telecomunicazioni, ma non l’ha fatto...
No, non l’ha fatto. Sul valore aggiunto, il capitalismo italiano investe in ricerca pubblica e privata il 2,2%, contro la media europea del 5,8. In Germania il dato è del 7,5%, in Giappone del 9,6, negli Usa dell’8,7.
La finanziaria prevede qualche incentivo, o sbaglio?
In finanziaria c’è il fondo della legge Bersani per un piano di sostegno a ricerca e innovazione «top down». E un incremento di 960 milioni di euro in tre anni del fondo ordinario per la ricerca, che vanno ad aggiungersi alle risorse correnti (600 milioni di euro per l’anno prossimo), per la ricerca «bottom up» e «curiosity drive», quella cioè non immediatamente finalizzata - che è cruciale, perché non si può fare ricerca solo su quello che si sa che è utile. Poi c’è un ulteriore fondo di 300 milioni di euro come credito d’imposta per il 10% di investimenti in proprio dei privati e il 15% di committenze alle università e agli enti pubblici.
Non si può fare ricrerca solo su quello che è utile, dici giustamente. Però fra crediti, valutazioni, risorse, economicità, funzionalità al mercato del lavoro, non ti pare che l’università parli ormai solo la lingua dell’utile? Questa perdita del senso della gratuità del sapere, a me sembra l’effetto collaterale più pericoloso della riforma Berlinguer.
Effettivamente anch’io uso questo linguaggio con un certo disagio...Bisogna distinguere. Un conto è il sistema della valutazione, che è fondamentale e va casomai reso più efficace. Sul piano culturale però sono d’accordo, va rilanciata la dimensione estetica del sapere. Non è un caso che oggi si parli di eleganza delle formule in matematica, o che certi premi alla ricerca tecnologica siano destinati in base alla bellezza delle scoperte. L’estetica invade anche le scienze esatte, e il linguaggio del bello è diverso da quello dell’utile.
Valutazione: come funziona e come va corretto il sistema?
Abbiamo l’esperienza dei due comitati di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che a giorni presenteranno i loro rispettivi rapporti. Bisogna partire da qui per costruire l’Agenzia della valutazione. Che sarà un’istituzione terza sia rispetto ai suoi oggetti sia rispetto al potere politico - insomma non sarà una dependance del ministero - e dovrà spostare l’asse della valutazione dalle procedure ai risultati, sia nella ricerca sia nella didattica, sulla base di parametri internazionali. La valutazione sarà decisiva ai fini della ripartizione di una quota crescente del fondo ordinario - che ovviamente deve complessivamente crescere -, in modo che venga premiato chi mig