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USCIRE DALLA "PREISTORIA". CURARE LA DEMOCRAZIA.
SULLA STRADA DELLA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO. Chiarimenti e materiali sul tema
“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani (...) bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico (...)
Napolitano: follia negare la cittadinanza ai figli di immigrati
di Umberto Rosso (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Occorre dare, fin dalla nascita, la cittadinanza ai figli degli immigrati stranieri nati in Italia. Non farlo «non so se definirla un’autentica follia, un’assurdità». È l’affondo del presidente della Repubblica Napolitano. Dura la replica della Lega: pronti alle barricate. Per il Pdl il governo è a rischio.
«Non so come definirla, un’autentica follia, un’assurdità. Questo è il non concedere la cittadinanza ai bambini figli di immigrati che sono nati in Italia ma che non diventano italiani». Per la seconda volta, nel giro di pochi giorni, Giorgio Napolitano torna a invocare la nuova legge sul diritto di cittadinanza. E al Quirinale, incontrando le chiese evangeliche, ha tirato fuori stavolta toni decisi e fuori ordinanza proprio per «inchiodare» i partiti alla necessità urgente di una riforma che introduca lo «ius soli», il diritto acquisito in base al luogo di nascita e non al paese di origine dei genitori.
Obiettivo centrato, perché la sollecitazione ha rimesso all’ordine del giorno la questione, ma con la neo maggioranza di governo che si spacca sul da farsi. Tanto che arrivano perfino minacce di rappresaglia sulle sorti del governo Monti da parte del centrodestra. Il Pd invece accoglie in pieno il richiamo di Napolitano, «un’esigenza di civiltà che noi siamo pronti ad approvare entro Natale» garantisce il capogruppo Franceschini. Già depositato dai democratici un disegno di legge firmato da 113 parlamentari. Così come totalmente d’accordo con il capo dello Stato si dicono Terzo Polo e Idv. «Lasciamo da parte le contingenze elettorali su questioni come queste», propone Casini. Sì dal ministro Riccardi: «I nuovi nati sono cittadini italiani».
Al contrario, reazioni rabbiose contro il capo dello Stato della Lega, pronta «alle barricate» per non far passare una legge che «stravolgerebbe la Costituzione», sostiene l’ex ministro Maroni. «Napolitano sta esagerando», accusa l’eurodeputato Salvini. E l’altro ex ministro del Carroccio, Calderoli, replica che vera follia sarebbe non applicare più lo «ius sanguinis», e legge perfino nelle parole di Napolitano un mero espediente per dare la caccia ai voti degli immigrati: «Non vorrei che questa idea altro non sia che il cavallo di Troia che, utilizzando l’immagine dei «poveri bambini», punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge».
Ma, al di là delle battutacce leghiste, resta il Pdl il nodo sensibile per la tenuta delle larghe intese. E qui echeggiano, pur fra differenti posizioni (l’ex ministro Carfagna per esempio è possibilista) e altolà perentori, e si agita il fantasma della crisi di governo se la riforma della cittadinanza non dovesse restare fuori dal programma. «Se qualcuno vuol fare cadere il governo e andare alle elezioni anticipate - minaccia La Russa, coordinatore del Pdl - ha trovato la strada giusta». E Gasparri, capogruppo al Senato: «Questa è una spallata. Il governo Monti è nato solo per occuparsi dell’emergenza economica, Lasci stare il resto».
La replica arriva dal presidente della Camera Fini («Mi pare un modo originale di porre la questione»), che chiede invece di affrontare l’argomento alle Camere: «Sono temi che stanno nell’agenda politica e del Parlamento, spero che il mutato clima che si sta vivendo renda possibile lavorare su questo». Ma con la richiesta del presidente Napolitano si schierano anche molte associazioni, dalla Caritas all’Anci, da Telefono azzurro alle Acli, e i sindacati. Concedere la cittadinanza ai nati nel nostro paese, ha spiegato il capo dello Stato, «dovrebbe corrispondere ad una visione della nostra nazione di acquisire nuove energie per una società invecchiata, se non sclerotizzata». E per Napolitano la nomina di Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, a ministro per la Cooperazione e l’Integrazione, segnala «la possibilità di riprendere le politiche di integrazione che hanno uno sviluppo ormai lontano». Ovvero, quella riforma del ‘98 che porta proprio, insieme a Livia Turco, la firma dell’attuale presidente della Repubblica.
Quei ragazzi nel limbo
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 23 novembre 2011)
Instancabilmente il presidente Giorgio Napolitano richiama la classe politica al dovere della responsabilità in tutti i settori cruciali per il futuro del Paese, quindi necessariamente anche per le condizioni in cui si trovano a crescere e operare le nuove generazioni, inclusi i bambini e adolescenti legalmente stranieri. Stranieri ma di fatto italianissimi per autoidentificazione ed esperienza quotidiana. A due riprese nel giro di pochi giorni, il Presidente ne ha denunciato con nettezza lo status di cittadini dimezzati, che li colloca in una sorta di limbo del diritto, di persone senza territorio e senza appartenenza.
I minori nati in Italia da genitori entrambi stranieri e residenti nel nostro Paese sono oltre mezzo milione. Il loro numero è raddoppiato dal 2000, quando erano 277 mila. Costituiscono ormai quasi il 14% dei bambini che nascono ogni anno in Italia. In un Paese che invecchia rapidamente a causa della bassissima fecondità, si tratta di numeri importanti e di una risorsa umana preziosa. Tuttavia il nostro ordinamento continua a considerarli con indifferenza, quando non ostilità. Insieme ai bambini e ragazzi che sono nati altrove, ma stanno vivendo tutta la loro infanzia e adolescenza nel nostro Paese, condividendo lingua e abitudini con i loro coetanei autoctoni, i minori "stranieri" nati in Italia, infatti, vivono in una sorta di condizione sospesa per quanto riguarda la cittadinanza e i diritti ad essa connessi. La legge italiana li costringe in uno statuto di apolidi di fatto, se non di principio, con tutte le restrizioni che questo comporta. Se per qualche motivo i loro genitori perdono il diritto di soggiorno, ne seguono il destino, anche se l’Italia è l’unico paese che conoscono e in cui sono cresciuti. Ed è meglio che non passino lunghi periodi fuori Italia, per uno stage formativo o per stare con parenti rimasti nel paese d’origine, se non vogliono rischiare di perdere il diritto a chiedere la cittadinanza. Mentre a un giovane nato e cresciuto all’estero da genitori italiani che magari non hanno mai vissuto in Italia bastano due anni di soggiorno ininterrotto in Italia per ottenere la cittadinanza, ne occorrono diciotto ad uno figlio di stranieri nato e vissuto nel nostro paese, di cui ha frequentato le scuole, conosce la lingua e acquisito lo stile di vita e le norme di convivenza sociale.
Sono i paradossi dello jus sanguinis, che concepisce la nazionalità come una sorta di gene che si trasmette per via ereditaria e non per partecipazione quotidiana ad una società. Sospesi tra due mondi, i bambini e adolescenti stranieri che nascono e crescono nel nostro Paese non appartengono a nessuno dei due: uno non lo conoscono, l’altro non li riconosce. L’esperienza di essere straniero nel loro caso è estrema; perché non c’è patria cui si possano sentire pienamente appartenenti. Si tratta di un’esperienza difficile anche per un adulto, ma che per una persona impegnata nella definizione della propria identità e nella individuazione del proprio posto nel mondo costituisce un handicap inutilmente gravoso. Può anche innescare processi di rifiuto, di estremizzazione difensiva della propria non appartenenza, con grave danno per tutti.
Sono ormai anni che si discute di una riforma della legge del 1992 sulla cittadinanza, in particolare, anche se non esclusivamente, per quanto riguarda chi è nato in Italia o comunque vi ha frequentato le scuole. Chissà se il Parlamento, liberato dalla necessità di discutere di provvedimenti di legge ad personam, troverà il tempo e il senso di responsabilità per approvare finalmente norme più civili e lungimiranti nei confronti dei ragazzi che crescono tra noi e con noi e che, con i nostri, sono il presente e il futuro del Paese. Solo se smettiamo di considerarli stranieri di passaggio, e anzi investiamo su di loro e sul loro desiderio di appartenenza, possiamo aspettarci da loro, come da tutti, che si impegnino lealmente per il nostro comune Paese. A differenza di quanto fanno i leghisti, per i quali l’appartenenza nazionale è solo un’arma da giocare contro gli immigrati, ma da rifiutare per tutto il resto.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione - con una nota
(...) Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia (...) Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare (...)
LE PAROLE DELLA POLITICA E LA FILOSOFIA ITALIANA. Dopo quasi venti anni di berlusconismo e dopo altrettanti anni di una quasi generale connivenza sonnambolica ....
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
La dittatura nasce nelle parole di tutti i giorni
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 1 luglio 2011)
Sulla Germania hitleriana disponiamo ormai di una documentazione imponente, praticamente definitiva, in tutti suoi aspetti. Che cosa può dirci ancora la rilettura di uno dei libri classici sulla società tedesca nel cuore della dittatura totale? Il libro ci ricorda ancora una volta il ruolo decisivo del linguaggio politico e pubblico nella costruzione e nel mantenimento sino all’ultimo della identità e della struttura politica del regime nazista. Mi riferisco a LTI. La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer ripubblicato ora dall’editore Giuntina (pp. 418, euro 20) in una importante edizione riveduta e scrupolosamente annotata.
Si tratta di una straordinaria testimonianza e documentazione di come nel corso del dodicennio nazista la società tedesca sia stata ridotta a strumento passivo e consenziente - addirittura fanatico - della dittatura. Lo strumento,o forse sarebbe meglio dire l’oggetto primario di questa operazione è stato il linguaggio pubblico e privato. La sua manipolazione, la sua decostruzione e ricostruzione. L’acronimo LTI significa infatti Lingua Tertii Imperi: la lingua del Terzo Reich.
L’autore Victor Klemperer era un sofisticato studioso della letteratura francese, docente all’università di Dresda, licenziato in tronco dopo la presa del potere di Hitler per le sue origini ebree e sottoposto quindi a infinite angherie. È sopravvissuto grazie al fatto di avere una moglie «ariana», sottraendosi alla fine fortunosamente ad una morte certa all’indomani del bombardamento di Dresda. Negli anni della sua emarginazione e persecuzione ha registrato scrupolosamente tutto quello che vedeva attorno a sé - soprattutto nella comunicazione pubblica e politica. Ne esce un documento che è ad un tempo una profonda testimonianza umana e morale e una forte intuizione scientifica e politica: la funzione centrale della lingua nella costruzione dei sistemi politici totalitari.
La lingua è performativa: crea cioè comportamenti. Nel caso nazista si tratta di comportamenti inequivocabilmente malvagi: ma prima dell’orrore genocida culminante nella «soluzione finale», c’è la lenta, inesorabile distruzione quotidiana della lingua tedesca. E quindi della sua anima. Il male si annida nella «normalità» del quotidiano e nella metamorfosi delle parole: nei discorsi politici, assimilati nel lessico personale e familiare, nel nuovo modo di salutare, di vestire, di divertirsi, nella pubblicità commerciale e naturalmente nella stampa di regime e fiancheggiatrice.
La LTI è una lingua povera, monotona, fissata, ripetitiva - scrive Klemperer. «Il motivo di questa povertà sembra evidente: con un sistema tirannico estremamente pervasivo, si bada a che la dottrina del nazionalsocialismo rimanga inalterata in ogni sua parte, e così anche la sua lingua». Parlare di omologazione è un eufemismo: «Ogni lingua, se può muoversi liberamente, si presta a tutte le esigenze umane, alla ragione come al sentimento, è comunicazione e dialogo, soliloquio e preghiera, implorazione, comando ed esecrazione. La LTI si presta solo a quest’ultima. Che il tema riguardi un ambito pubblico o privato - ma no, sto sbagliando, la LTI non distingue un ambito privato da quello pubblico - tutto è allocuzione, tutto è pubblico. “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto”, proclama uno dei suoi striscioni. Cioè: non sarai mai solo con te stesso, con i tuoi, starai sempre al cospetto del tuo popolo».
L’incredibile è che tutto questo ha funzionato. All’inizio, nei primi mesi del 1933 sembrano rimanere ancora spiragli di insofferenza se non di resistenza, che si esprimono magari in battute sarcastiche: a proposito di un collega costretto a portare la fascia con la croce uncinata, si dice: «Che ci vuoi fare? è come la fascia assorbente per le donne» (con un gioco di parole difficile da rendere in italiano).Ma il fanatismo, cui il libro dedica uno dei capitoli più importanti, è terribilmente serio e non tollera battute. Il fanatismo non è un semplice prodotto della manipolazione, ma è una corrispondenza di sentimenti latenti che finalmente esplodono.
Non a caso nel vocabolario della LTI dopo «fanatico» l’aggettivo preferito è «spontaneo». In questa sede possiamo trascurare il dibattito tra gli esperti sulla consapevolezza o meno di Klemperer circa la natura del suo lavoro - tra «filologia e diario» politico personale. Non ci interessano neppure le ragioni della differente fortuna del suo libro, subito altamente apprezzato nella Ddr dove l’autore ha passato il resto della sua vita sino alla morte nel 1960. Nella Germania federale invece è stato inizialmente guardato con qualche distacco (qualcuno si è rammaricato che Klemperer non avesse «visto» alcune imbarazzanti analogie con il passato totalitario nel linguaggio politico del regime comunista); poi negli Anni Novanta è arrivato il pieno riconoscimento dopo la pubblicazione dei suoi Diari. È seguita la riscoperta di Klemperer anticipatore della nuova linguistica sociale e culturale.
Ma io vorrei invitare ad una lettura «ingenua», per così dire, del libro, ricordando quanto scrive l’autore: «Il diario è stato continuamente per me il bilanciere per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione, nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle angustie personali, nei momenti dell’estrema ignominia, quando il cuore si rifiutava di funzionare - sempre mi ha aiutato questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse, domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose si manifestano e operano. E ben presto poi questo appello a collocarmi al di sopra della situazione conservando la mia libertà interiore si condensò in una formula misteriosa e sempre efficace:LTI!LTI!».
La distruzione del parlare
Victor Klemperer, scampato alla Shoah, analizzò il lessico del regime negli anni di Hitler
Il linguaggio venne prostituito per trasformare i tedeschi in ingranaggi di un organismo criminale
La lingua del potere: così i nazisti asservirono i cittadini
«Lti» sta per «lingua tertii imperii», ed è il titolo del taccuino (edito da Giuntina) in cui l’ebreo Kemperer annotò il processo di formazione di una nuova lingua del potere durante i 12 anni di nazismo.
di Tobia Zevi (l’Unità, 09.06.2011)
Esce oggi in libreria l’edizione aggiornata di Lti La lingua del terzo Reich di Victor Klemperer (Giuntina), arricchita di nuove note. Un libro straordinario e relativamente sconosciuto. L’autore fu uno studioso ebreo di letteratura francese, professore al Politecnico di Dresda, sopravvissuto alla Shoah grazie alla moglie «ariana» e alle bombe anglo-americane che distrussero la città, consentendo ai pochissimi ebrei ancora vivi di confondersi nella moltitudine di sfollati. Il volume raccoglie annotazioni sulla lingua del regime compilate nei dodici anni di nazismo: l’acronimo, criptico per la Gestapo, sta per lingua tertii imperii; la scelta di dedicarsi a questo studio mentre agli ebrei era vietato persino possedere dei libri si rivelò un sostegno psicologico per Klemperer, perseguitato per la sua religione e costretto a risiedere in varie «case per ebrei».
La lingua tedesca, secondo il filologo, fu prostituita strumentalmente dai nazisti per trasformare i cittadini in ingranaggi di un organismo potente e criminale. L’obiettivo di questa operazione era ridurre lo spazio del pensiero e della coscienza e rendere i tedesci seguaci entusiasti e inconsapevoli del Führer. Così si spiega l’abuso, la maledizione del superlativo: ogni gesto compiuto dalla Germania è «storico», «unico», «totale». Le cifre fornite dai bollettini di guerra sono incommensurabili e false contrariamente all’esattezza tipica della comunicazione militare e impediscono il formarsi di un’ opinione personale. Termini del lessico meccanico vengono impiantati massicciamente nel tessuto linguistico per favorire l’identificazione di ognuno nel popolo, nel partito, nel Reich; da una parte c’è la razza nordica, dall’altra il nemico, generalmente l’Ebreo, significativamente al singolare. Joseph Goebbels arriva ad affermare: «In un tempo non troppo lontano funzioneremo nuovamente a pieno regime in tutta una serie di settori».
Il terreno è stato arato accuratamente. Il sistema educativo, che ha nella retorica di Adolf Hitler il suo culmine, viene messo a punto da Goebbels, il «dottore», e da Alfred Rosenberg, l’«ideologo»: l’addestramento sportivo e militare sono preferiti a quello intellettuale, ritenuto disprezzabile. La «filosofia» è negletta come il vocabolo «sistema», che descrive una concatenazione logica del pensiero; amatissime sono invece l’«organizzazione» (persino quella dei felini tedeschi, da cui i gatti ebrei verranno regolarmente espulsi!) e la Weltanschauung, testimonianza di un’ambizione alla conoscenza impressionistica basata sul Blut und Boden. Decisivo a questo proposito è l’impiego frequentissimo di «fanatismo» e «fanatico» come concetti positivi. L’amore per il Führer è fanatico, altrettanto la fede nel Reich, persino l’esercito combatte fanaticamente. Il valore risiede ormai nell’assenza del pensiero e nella fedeltà assoluta (Gefolgshaft) al nazismo e ad Adolf Hitler. Di quest’ultimo si parla saccheggiando il lessico divino, familiare al popolo, per deificarlo compiutamente: «Tutti noi siamo di Adolf Hitler ed esistiamo grazie a lui», «...tanti non ti hanno mai incontrato eppure sei per loro il Salvatore».
Ma come ha potuto imporsi una simile corruzione, in ogni classe sociale, fino alla distruzione completa della Germania? Goebbels fu abile nell’immaginare un idioma poverissimo, veicolato da una macchina propagandistica formidabile, in grado di miscelare elementi aulici con passaggi triviali: l’ascoltatore, perennemente straniato, finisce per perdere la sua facoltà di giudizio. Klemperer ripercorre immagini, simboli e parole-chiave del Romanticismo tedesco, individuando in quest’epoca le radici culturali profonde dell’ideologia della razza, del sangue, del sentimento. Una stagione così gloriosa della tradizione germanica fu dunque capace di iniettare i germi del veleno; l’esaltazione dell’assenza di ogni limite (entgrenzung) e della passione sfrenata deflagrò nel mostro nazista e nell’ideologia nazionalista.
Leggere oggi questo volume fa un certo effetto. Nella sua autobiografia Joachim Fest, giornalista e intellettuale tedesco di tendenza liberale, descrive la resistenza tenace di suo padre alle pressioni e alle lusinghe del regime. Una resistenza borghese, culturale, religiosa che in parte si rispecchia nell’incredulità disperata dell’ebreo Klemperer: non si può credere, non si può accettare che i tedeschi si siano trasformati in barbari e gli intellettuali in traditori. Eppure proprio questo accadde nel cuore della civiltà europea. Il libro è in definitiva un inno mite e puntuale a vigilare sulla lingua, un ammonimento che dovremmo tener presente anche oggi. Come affermò Franz Rosenzweig, citato nell’epigrafe a Lti, «la lingua è più del sangue».
Un rebus tutto di sinistra: ritrovare i legami perduti
Le ideologie moderate e conservatrici hanno portato gli individui in una condizione di solitudine: una moderna forza democratica dovrebbe riconoscere e costruire i nuovi legami politici e sociali
Cultura politica. Nell’800 e nel’900 si parlava di masse e di classi. E oggi?
Quali sono i legami democratici che uniscono gli individui del 2000: l’Europa, l’ambiente, i nuovi lavori?
di Michele Ciliberto (l’Unità, 08.06.2011)
C’è molta euforia oggi nel campo del centro sinistra, ed è comprensibile e positivo dopo tante dure sconfitte. A patto però di saperla gestire perché il passaggio al quale è arrivato il nostro Paese è estremamente delicato: l’intero sistema politico è entrato in profonda fibrillazione, né è facile capire quali sviluppi avrà questa crisi e quali ne potranno essere gli esiti. Quello che mi pare necessario, soprattutto oggi, è avere uno sguardo lungo sia sul piano politico che sul piano della cultura politica. E a questo proposito considero utile soffermarsi su un punto che a me pare centrale e che per chiarezza chiamerò “il problema dei legami”.
Se infatti il carattere proprio della “democrazia dispotica” è quello di rompere i “legami” fra gli individui precipitandoli in una condizione di reciproca solitudine, compito di una cultura democratica è quello di ricostituirli ad ogni livello. Dei “legami” e di ciò che essi significano insisto su questo punto occorre dunque fare il pilastro di una democrazia moderna, contrastando frontalmente le ideologie moderate e conservatrici. Ma i legami che bisogna costituire oggi devono essere diversi da quelli del passato.
Occorre anzitutto partire dagli individui; e su questa base costruire legami che siano capaci di mantenere vive ed operanti le differenze individuali e se necessario anche il conflitto. I legami, infatti, possono essere declinati sia in chiave democratica che in termini autoritari e anche dispotici. Un esempio: l’idea di nazione può essere declinata in termini di “piccole patrie”, chiuse in se stesse come monadi (e qui basta pensare alle politiche della Lega), oppure e questo è il compito proprio di una nuova cultura democratica interpretando in modi nuovi il rapporto fra nazione e territorio, ponendo al centro un nuovo concetto di cittadinanza, in grado di aprire la nazione a nuovi popoli, nella prospettiva di un nuovo concetto anche dell’Europa.
Bisogna saperlo: la democrazia vive di differenze e anche di conflitto. Senza conflitto non ci sono né libertà né democrazia, se è vero come è vero, che la crisi della democrazia la sua patologia consiste proprio nel quietismo, nella indifferenza, nella staticità. I “legami” di cui si avverte oggi l’esigenza, e che occorre costituire, non sono quelli otto-novecenteschi, tipici anche del movimento operaio: la “massa”, la “classe”, insomma le vecchie identità sociali e collettive.
Il conflitto fra capitale e lavoro ha cambiato forma, globalizzandosi; si è esaurita la vecchia ideologia del “progresso” che era stata una bandiera della classe operaia; si sono consumate le tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale; sono cambiati anche i rapporti con il mondo, con la vita: gli “individui” non sono più disposti a sciogliersi nella “massa”, nella “classe”, come nel XX secolo. Essi sono estranei oggi a queste vecchie forme di legami: come dice in una bella pagina Adam Zagajewski, «le epoche muoiono più delle persone, e non ne resta nulla».
Quelli che bisogna dunque costruire sono legami in grado di coinvolgere la dimensione della generalità, ma in termini nuovi. Sono i legami che possono sorgere dalla comune consapevolezza dei limiti delle risorse naturali; dalla comune assunzione della centralità del rapporto, oggi, fra nativi e immigrati, per il futuro dell’Europa e tendenzialmente del mondo; dalla comune coscienza della necessità di nuove forme di esperienza sociale e di lavoro; dalla comune persuasione dell’esaurimento delle vecchie forme di rappresentanza politica e soprattutto sindacale; da un comune impegno intorno al destino dell’Europa, mentre sono venuti meno i vecchi modelli identitari e antropologici ed è diventato indispensabile, specie per una forza riformatrice, individuare nuove rotte ideali, culturali, politiche lungo le quali incamminarsi. Sono legami che devono coinvolgere anche i problemi del genere (della Gattung avrebbe detto il giovane Marx); del rapporto individuale con la vita e con la morte; delle nuove frontiere e metamorfosi del corpo dischiuse dalle moderne tecnologie; della relazione con la natura.
È su questo terreno che è possibile stabilire campi di confronto anche con le religioni, tutte le religioni, imperniati sul reciproco riconoscimento dell’ “altro” e dei suoi valori, anche di quelli della cultura laica. È sbagliato infatti identificare “storico” e “relativo”: dalla storia salgono e si affermano legami che tendono anch’essi alla universalità, e che come tali sono stati vissuti, e continuano ad essere vissuti, da coloro che si battono per essi e vi si riconoscono. In una parola, quello cui bisogna lavorare sono nuovi “legami democratici”. Un punto però deve essere chiaro: pensare di costruire nuovi legami ignorando il piano dei rapporti materiali sarebbe insensato: come sapevano già i classici (a cominciare da Hegel) è il lavoro la struttura costituiva dell’uomo, la condizione originaria sia della sua libertà che in generale della democrazia. Oggi come ieri, il lavoro è il centro archimedeo di ogni legame democratico.
Premessa sul tema. Note:
Il paradosso dell’identità
Manifesto per vivere in una società aperta
Ecco le tesi che il filosofo Bodei presenta domani al ciclo "Le Parole della Politica" sul tema del rapporto tra noi e gli altri La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo di quelle comunità che sono determinate ad essere se stesse Più il mondo si allarga più si tende a reagire con la paura e l’egoismo con la paradossale rinascita di piccole patrie
di Remo Bodei (la Repubblica, 22.06.2011)
Da termine filosofico e matematico per designare l’eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l’"eredità di sangue" o l’autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell’acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare - come hanno notoriamente mostrato eminenti storici - che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (...) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili.
Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli "altri". La formazione del "noi" esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l’espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.
Sebbene si manifesti attraverso un’ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l’identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell’alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l’alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità.
La prima si esprime in una specie di formula matematica "A=A": l’italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l’alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l’identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l’Italia ancora da unire: "Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la "lingua", anche per motivi pratici, e, possibilmente, il "cor", l’Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l’intera persona come soltanto "mussulmano" o "cristiano".
Il secondo modello si basa sulla santificazione dell’esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta.
Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un’identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l’identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell’inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell’integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale.
Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l’idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l’esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall’egoismo, con la rinascita di piccole patrie.
Immigrati, Napolitano: "Cittadinanza ai bambini"
La Lega: "Così si stravolge la Costituzione"
Il capo dello Stato interviene con decisione sul problema dei figli di stranieri nati in Italia e auspica un intervento del Parlamento. La Russa: "Così si fa cadere governo". Maroni e Calderoli: "Pronti alle barricate". Cicchitto: "Così si mette a rischio la vita del governo". Ampio il fronte del sì, dall’Udc a Sel. Il Pd: "Serve legge urgente". Fini :"Quando ne parlai io mi diedero del compagno" *
ROMA - A pochi giorni dalla nascita del governo Monti, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, affronta con decisione uno dei temi che, risollevato da Bersani durante la dichiarazione di fiducia al nuovo esecutivo, aveva suscitato dure polemiche da parte di Lega e Pdl: la cittadinanza ai figli degli immigrati 1 nati in Italia. "Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità. I bambini hanno questa aspirazione", ha detto Napolitano durante l’incontro al Quirinale con la Federazione delle chiese evangeliche.
Maggiori possibilità di confronto politico. Per quanto, poi, riguarda il clima politico, nel Paese, il presidente della Repubblica ha tenuto a sottolineare che ora ci sono maggiori possibilità di confronto anche se "non credo che in pochi giorni il mare in tempesta sia diventato una tavola. È un po’ incrinato, un po’ mosso, ma credo ci siano maggiori possibilità di confronto fra gli schieramenti", ha concluso.
Bersani e gli immigrati VIDEO 2 - "Cari leghisti, abbiamo centinaia di migliaia di figli di immigrati che pagano le tasse, vanno a scuola e parlano italiano e che non sono né immigrati né italiani, non sanno chi sono. È una una vergogna", aveva detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, alla Camera durante la dichiarazione del voto di fiducia a Monti. L’intervento, contestato dai banchi della Lega anche in Aula, aveva scatenato le reazioni polemiche anche dei vertici del Pdl.
Il no di Lega e Pdl - "La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ’ius soli’ e non sullo ’ius sanguinis’, come prevede invece oggi la legge - dice oggi l’ex ministro Roberto Calderoli, coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord - . La Lega su questa materia è pronta a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze. E non vorrei che questa idea altro non sia che il ’cavallo di Troia’ che, utilizzando l’immagine dei ’poveri bambini’, punti invece ad arrivare a dare il voto agli immigrati prima del tempo previsto dalla legge...". Ancora più dure le parole di Roberto Maroni. Secondo l’ex ministro dell’Interno, un intervento per dare la cittadinanza ai figli di stranieri sulla base del principio dello ’ius soli’ "sarebbe uno stravolgimento dei principi contenuti nella Costituzione". E la Lega, aggiunge, "è fermamente contraria".
Nessun margine di trattativa neanche dall’area dei "falchi" del Pdl: "Non si possono affrontare le leggi sulla cittadinanza a spallate e con semplificazioni che francamente rischiano di complicare e non di semplificare la vicenda - dice il capo dei senatori, Maurizio Gasparri - . Non è una follia che in Italia viga il principio dello ius sanguinis e non quello dello ius soli. E’ così in tante parti del mondo. Ci si può confrontare, si può discutere ma siamo in tanti a ritenere assolutamente inopportuno passare al regime di ius soli, riconoscendo la cittadinanza a chiunque nasca in Italia. Questa sì che sarebbe una scelta assurda, che il Parlamento non farà". Simile il parere di Ignazio La Russa: "Se c’è qualcuno che fa finta di sostenere appassionatamente Monti, ma in realtà vuole già creare le condizioni perché cada subito ha trovato la strada giusta: quella di proporre che questo governo affronti il tema della legge sulla cittadinanza". Lapidario Fabrizio Cicchitto: "Il tema della cittadinanza è fuori dall’agenda del governo e ci auguriamo che non ci siano forzature perchè altrimenti anche noi proporremo altri temi come la giustizia e le intercettazioni che sono fuori dall’agenda economica del governo". Del resto, ricorda Cicchitto, "il tema è già stato sollevato dal Pd in Parlamento e c’è stato dissenso. Porre ora un argomento sul quale c’è il dissenso del Pdl significa ostacolare la vita del governo", conclude.
Il fronte del sì - "Le parole del presidente della Repubblica ci spingono a legiferare con urgenza", ha detto Dario Franceschini, presidente dei deputati Pd. "Il tema è talmente un’esigenza di civiltà che vorremmo non diventasse un tema di scontro politico, ma invece un elemento unificante; anche per questo - aggiunge - sin da marzo il Pd ha presentato una proposta di legge per stralciare dalle norme complessive sulla cittadinanza soltanto i diritti dei bambini nati in Italia. Ripeto, la nostra volontà è costruire un’intesa tra le forze che sostengono il governo Monti e non quella di inserire su un tema così delicato un elemento di divisione".
’’Condivido pienamente’’ l’appello del presidente, ha detto il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, per il quale ’’è un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani. Non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale’’.
"Il governo assecondi le proposte di legge presentate in Parlamento che vanno nella direzione indicata dal presidente Napolitano - dice il capogruppo dell’Italia dei valori in Senato, Felice Belisario - . Il riconoscimento della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia è una questione prioritaria, che deve essere affrontata entro questa legislatura".
Condivisione piena su quanto affermato da Napolitano arriva da Fli: "Fli condivide in pieno le considerazioni fatte dal presidente in merito al diritto di cittadinanza dei figli di immigrati nati sul suolo italiano - dice l’eurodeputato Potito Salatto, membro dell’ufficio di presidenza nazionale di Fli - . Perciò, d’intesa con i parlamentari di Futuro e libertà nazionali ed europei, stiamo organizzando una raccolta di firme per dare vita a una petizione popolare che spinga verso il riconoscimento di tale diritto". Gianfranco Fini ricorda che gli venne affibbiato l’epiteto di ’compagno’ quando, appartenendo ancora al Pdl, iniziò a parlare del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati. "Ora possiamo discuterne. Questi sono temi che devono stare nell’agenda del Parlamento", dice.
Sottolinea "l’’assoluta saggezza e la straordinaria modernità" delle parole del capo dello Stato anche Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà: "I bambini e le bambine dei migranti non sono figli di un Dio minore". L’intervento del presidente della Repubblica, mai così deciso nella forma malgrado i frequenti richiami di Giorgio Napolitano alla questione, potrebbe ora far diventare il tema dello Jus soli oggetto di confronto fra il nuovo governo e le forze che lo sostengono in Parlamento. Dopo l’intervento di Napolitano, il senatore del Pd Ignazio Marino, ha depositato un disegno legge firmato da 113 senatori (tutto il Pd, Idv e alcuni del Terzo Polo) che modifica la legge del 1992 e assegna la cittadinanza ad ogni nato in Italia indipendentemente da quella dei genitori.
* la Repubblica, 22 novembre 2011