Scrive lo psicoanalista americano Stephen Mitchell: "Se io ti do il mio amore, che cosa ti sto dando di preciso? Chi è l’Io che sta facendo questa offerta? E chi, per inciso, sei tu?"
Risponde Umberto Galimberti *
Se è vero, come dice Freud, che l’amore è l’unica condizione per poter vivere, non c’è alcun dubbio che amare l’altro è, di fondo, amare se stessi. Questo amore di sé non è da leggere nell’accezione egoistica del termine, non è la soddisfazione dei propri bisogni o dei propri desideri, non è l’autorealizzazione resa possibile dalla dedizione dell’altro. È semplicemente ciò che rende possibile quel dialogo (che molti evitano) tra la propria parte razionale e la propria parte folle, a cui la nostra natura ci invita per giungere a una compiuta espressione di sé.
Amore infatti non è una faccenda dell’Io, ossia della nostra parte razionale. E questo ognuno lo sa quando, interrogato, non sa fornire alcuna spiegazione a chi gli chiede ragione del suo amore. Ma ognuno lo sa anche quando, pur essendo consapevole che quell’amore è sbagliato, dichiara di non potersene comunque liberare. Per la stessa ragione nessuno crede fino in fondo all’altro quando dice "Io ti amo", perché amore non è una faccenda dell’Io, dal momento che, come ci ricorda Freud: "l’Io non è padrone in casa propria", perché non conosce le forze che determinano quelle che l’Io considera sue scelte.
Ma l’abisso folle che ci abita vuole espressioni che sappiano raggiungere le nostre regioni più lontane, più abissali, più indistinte nei loro indiscernibili confini, per assaporare come il piacere si intreccia col dolore, la maledizione con la benedizione, la luce del giorno con il buio della notte, perché da quel fondo tutte le cose appaiono incatenate, intrecciate, innamorate, senza quelle visibili distinzioni tanto care all’Io razionale, che per questo si difende dall’inoltrarsi negli abissi del cuore.
Finché un giorno incontriamo qualcuno che nel suo volto riflette questi abissi e, come uno specchio, ce li rinvia come domanda inquietante che turba la visione fino allora chiara e lucida che il nostro Io s’era fatto del mondo. A quel punto, quando il riflesso è reciproco, è amore, come inevitabile messa a nudo di sé tramite l’altro. La scoperta della nostra follia segreta ci attrae e ci inquieta, ma con le sole forze dell’Io non possiamo inoltrarci in quelle regioni che o sono inaccessibili o ci possono travolgere. E allora abbiamo bisogno dell’altro, come Dante di Virgilio per scendere all’Inferno.
Amiamo l’altro perché tramite lui scopriamo noi stessi, e l’altro tramite noi scopre se stesso. Per questo non amiamo chiunque, ma solo chi riflette fedelmente i nostri abissi. Qui è anche l’essenza del pudore che ci vieta di metterci a nudo con chiunque, ma solo con chi è fedele riflesso della parte sconosciuta di noi. Solo con lui o lei possiamo scendere nella nostra follia che ci affascina, sperando di poter riemergere e non restarne prigionieri. Apparentemente amiamo l’altro, in realtà, tramite l’altro, amiamo le nostre imperscrutate profondità.
Una volta scesi nella nostra follia, grazie alla mediazione dell’altro a cui riconosciamo "di averci fatto impazzire", "di averci fatto perdere la testa", non riemergiamo più quali eravamo, perché, dopo esserci concessi al cedimento dell’Io, l’altra parte di noi ci ha contaminato. E per effetto di questa contaminazione, qualunque sia l’esito della vicenda d’amore, noi non siamo più quel che eravamo.
Questa continua rinascita, sia nei segreti della fedeltà sia in quelli del tradimento, è ciò a cui la vita, che non può vivere se non nel continuo rinnovamento di sé, ci invita, con quello sguardo ora seducente ora inquietante che ciascuno incontra in ogni vicenda d’amore, dove però non è l’altro che incontriamo, ma l’abisso della nostra anima che l’altro riflette. Amore dell’altro, quindi, dettato dall’amore di sé.
Di questo era ben consapevole Platone là dove scrive: "Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio".
* La Repubblica/D, 20.03.2009, n. 638.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale
di Laura Vasselli (InLibertà, 10 Giugno 2020)
Chi non ha avuto modo di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati?
Il gossip che si scatenato su di lei per questo autentico guazzabuglio di notizie, sulla cui veridicità si sono scatenati dibattiti televisivi di ogni livello, ha lasciato spazio ad una specie di “giallo informativo”, nel quale si sono aggrovigliati elementi di falso recitativo misti ad esternazioni di reale innamoramento con scenari rosei di vita futura con esclamazioni pubbliche di gioia del tipo “...sarò moglie e mamma!...e altre simili esternazioni.
Ma è meglio procedere con ordine.
Nei fatti reali, diversi mesi fa, Pamela Prati annunciò il suo matrimonio con questo tale Mark Caltagirone che, dal racconto della “promessa sposa”, era un imprenditore italiano che l’aveva portata con sé in molti viaggi di lavoro in giro per il mondo; la showgirl parlava di lui offrendo dati concreti e dichiarando che si trattasse di un personaggio noto nel suo ambiente ed apprezzato come professionista.
Tuttavia, nessun rilievo venne attribuito all’indizio della totale assenza di fotografie di lui, che giustificava con esigenze di riserbo sulla propria vita privata, anche in ragione della presenza dei suoi due bambini che sarebbero stati adottati dalla fidanzata, una volta che sarebbe diventata sua moglie.
Ma la data dell’8 maggio 2019 che era stata annunciata per le nozze, venne rinviata e - a seguito di verifiche, riscontri incrociati e indagini di vario tipo - si accertò che Mark Caltagirone non è mai esistito e che è stato un personaggio completamente inventato.
Dal racconto felice al disagio totale, Pamela Prati - che come ospite aveva raccontato in varie trasmissioni televisive la sua storia d’amore miseramente fallita - è stata costretta suo malgrado ad ammettere di essere stata plagiata, con tanto di conseguenze sul piano giudiziario in danno a chi l’aveva tratta in inganno, salvi poi ulteriori retroscena che non riguardano questo argomento.
Insomma, questo episodio di cronaca rosa ha reso conoscibile l’esistenza di preoccupante fenomeno in diffusione che è proprio quello definito “truffa amorosa” realizzata attraverso un sistema di manipolazione mentale costruita attraverso raffinate tattiche persuasive, elogi esagerati, false prospettive di “vita insieme per sempre” per far seguito a vissuti problematici più o meno verosimili per tutti i truffatori sentimentali in danno a persone desiderose di poter finalmente realizzare qualcosa che - a quanto pare - non passerà mai di moda: il “sogno d’amore”.
Queste vere e proprie condotte criminali penalmente perseguibili, attuate con gli inganni, gli artifizi e i raggiri che connotano il reato di truffa come disciplinata dall’art. 640 del codice penale, risultano essere incrementate nell’ultimo periodo perché favorite dall’isolamento imposto dalla protezione pandemica che ha reso più fragili le persone che vivono in solitudine, così esponendole in maniera così subdola al rischio di essere vittime di questo terribile reato, lesivo della buona fede e della dignità di chi auspica un’esistenza migliore attraverso la ricerca della felicità in coppia.
Attraverso l’uso della rete e dei social networks, i malcapitati destinatari di questo reato vengono portati a legarsi sentimentalmente con il truffatore che agisce fino ad ottenere vantaggi economici e di altra natura con trappole particolarmente sofisticate
Col sistema tipico della tela del ragno, l’autore della truffa comincia col reperire lentamente ogni utile informazione sulla vita privata della sua futura vittima, magari studiando i suoi interessi e le sue abitudini fino all’approccio diretto azionato con la creazione di un falso profilo dotato di apposito nickname.
Spesso la vittima resta malamente intrappolata nella rete perché viene prima sedotta e poi illusa attraverso sapienti approcci con forte carica psicologica persuasiva; questi autentici delinquenti sono infatti sempre pronti a intervenire sulle fragilità e sui i punti deboli della vittima che sono riusciti a scovare mediante questa tattica di attento e incalzante corteggiamento.
Scattano quindi i meccanismi di intimità, fiducia e comprensione tipici dell’innamoramento virtuale con questo partner apparentemente ideale che portano a credere in uno scambio sentimentale vero e proprio e che si realizza mediante attenzioni e pensieri quotidiani a sostegno dell’interesse dell’uno verso la vita dell’altro (compresi i diffusissimi messaggini del buongiorno e della buonanotte a cui viene ancora attribuita una valenza affettiva esageratamente elevata).
Una volta catturata la vittima, colui o colei che pone in essere la truffa, parte con l’azione vera e propria: inizia la filza delle lamentele su problematiche debitorie (tipo: devo restituire denaro a un caro amico che mi ha aiutato nel momento del bisogno!), su danni alla salute (tipo: devo subire un urgente intervento chirurgico!), su emergenze economiche (tipo: ho perso il bancomat!), su progetti in comune (tipo: dobbiamo arredare la nostra futura casa!), ma anche su depressioni causative di disagio che richiedono fondi a vario titolo economico e simili, fino alla diretta richiesta di danaro, di utilità e vantaggi di qualsiasi natura che induce all’offerta di aiuto economico spontaneo vero e proprio da parte della vittima che non riesce a vincere il senso di colpa in caso di diniego a pagare.
Nei casi più gravi, la vittima arriva anche ad indebitarsi e addirittura ad esaurire i risparmi per non deludere la falsa persona amata; non di rado si trova anche isolata per aver il truffatore escogitato anche il piano di allontanamento dagli affetti per rafforzare il suo potere facendogli perdere la lucidità e il senso di realtà.
Ma quel che stupisce maggiormente è che per la “coppia” non c’è, non ci sarà mai neanche alcun incontro personale; normalmente lontani per ragioni lavorative, truffatore e vittima fissano appuntamenti che vengono puntualmente disdettati con scuse o contrattempi di vario genere.
Raramente, infatti, si registrano casi di incontri a scopo sessuale perché il truffatore dovrebbe utilizzare all’esterno la sua falsa identità che costituisce un ulteriore tipo di reato a sé stante.
La suggestione della vittima è quindi talmente forzata da far credere che la finzione si confonda con la realtà; ecco perché occorre sempre - in ogni caso - verificare l’identità degli interlocutori virtuali e segnalare le anomalìe per la tutela di tutti.
Fingere dunque di provare sentimenti verso una persona al solo fine di trarre un ingiusto profitto è reato pieno; chi avesse voglia di approfondire il tema, può leggere la motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa
“non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“
Nota:
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”. *
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà", 10.06.2020), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
Narcisismo e democrazia
di Sergio Benvenuto (Doppiozero, 06 giugno 2018)
Il libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio) si inserisce in un filone di studi che chiamerei, parafrasando Gibbon: Declino e (possibile) Caduta della Democrazia. Insomma, Orsina tematizza uno dei maggiori problemi della nostra epoca: la crisi della democrazia pluralista e liberale.
Una crisi che non a tutti appare evidente. Perché è vero che 25 paesi negli ultimi 18 anni sono retrocessi, per dir così, dalla democrazia al dispotismo - compresi Russia, Turchia e Venezuela - ma in Occidente la democrazia può sembrare ben salda. In effetti, le tre grandi catastrofi degli ultimi due anni - Brexit, elezione di Trump, vincita dei partiti anti-politica in Italia - si sono prodotte rispettando in tutto i meccanismi democratici. Non è un caso, però, che molti commentatori, anche in Italia, abbiano deprecato la decisione di Cameron di indire un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Europa: “non è materia su cui ha da decidere il popolo”, hanno detto. -Insomma, molti democratici cominciano ad aver seriamente paura della democrazia. E ne hanno le ragioni, perché sappiamo che talvolta le democrazie uccidono democraticamente se stesse: fu questo il caso del fascismo italiano nel 1923, del nazismo in Germania nel 1933, delle elezioni algerine del 1991, e più di recente delle elezioni russe (Putin), turche (Erdogan) e venezuelane (Maduro). Il presupposto di onniscienza politica della democrazia è smentito storicamente. Un popolo può liberamente decidere di rovinarsi, come accade a certi individui, che decidono liberamente di rovinarsi; ne conosciamo tanti.
Ma per Orsina come per altri (incluso il sottoscritto) il sintomo della crisi della democrazia in Occidente è l’avanzare dei cosiddetti partiti populisti, ovvero “anti-politici”. Partiti o movimenti ossimorici, perché attaccano il potere politico proponendo se stessi come potere politico. Ma il merito di Orsina è di situare questo retreat della liberal-democrazia non come evento nuovo, congiunturale, ma come il manifestarsi di una contraddizione fondamentale nel genoma stesso della democrazia. Così, Orsina si appella all’analisi, così ambivalente, di Tocqueville della democrazia americana nell’800.
Potremmo dire che questo filone di studi cerca di fare nei confronti della democrazia quel che Karl Marx fece nei confronti del capitalismo. Per Marx il capitalismo non sarebbe caduto per la rivolta indignata delle classi oppresse, ma per un’implosione interna, per il venire al pettine dei nodi di una contraddizione fondamentale del capitalismo stesso. Analogamente, la democrazia comporta una contraddizione fondamentale che sta per venire al pettine. Siccome la profezia marxiana del crollo del capitalismo non si è (finora) verificata, c’è solo da augurarsi che, analogamente, il crollo della democrazia non si verifichi. Ce lo auguriamo perché dopo tutto pensiamo come Churchill, che la democrazia è il peggiore dei sistemi politici, a esclusione di tutti gli altri.
Va detto che Orsina, professore di Storia contemporanea alla LUISS, non si rifà tanto a sociologi e politologi accademici, quanto piuttosto a testi e ad autori del mondo filosofico e poetico: a La rivolta delle masse di José Ortega y Gasset, a Nelle ombre del domani di Johan Huizinga, a Massa e potere di Elias Canetti, a Montale, a Marcel Gauchet. È tra quelli che pensano che non bastino fatti e statistiche per capire il mondo in cui viviamo: occorrono anche le intuizioni, le folgorazioni intellettuali, di scrittori e filosofi.
Del resto, sin dal titolo - che riecheggia il bestseller anni 70 La cultura del narcisismo di Christopher Lasch - Orsina usa un concetto non ‘sociologico’, quello di narcisismo. Concetto freudiano più che mai, anche se l’autore non cita Freud ma i sociologi e i pensatori che, oltre Lasch, hanno sdoganato il concetto di narcisismo nella cittadella sociologica (Tom Wolfe, Richard Sennett, Gilles Lipovetski).
Ora, per narcisismo Orsina non intende egoismo e nemmeno individualismo. Quest’ultimo, diceva Tocqueville, “è un sentimento ponderato e tranquillo”, è il valutare oculatamente i costi e benefici, e difatti tutte le teorie liberali si basano sull’individuo come homo rationalis, come buon calcolatore dei propri personali vantaggi. Il narcisista invece è una personalità fondamentalmente irrazionale (ho cercato di descrivere il narcisismo secondo Freud qui). Non è tranquillo, anzi, tende all’ira e alla protesta perenne, divorato da una frustrazione che lo assilla. In modo stringato, possiamo dire che il narcisista è chi si crede. Chi crede solo nella propria opinione, e che crede soprattutto nei propri desideri. Ma siccome nella vita sociale ci sarà sempre qualcuno al di sopra di lui, sentirà conficcate nella sua pelle “le spine del comando” (dice Orsina citando Canetti) ogni volta che ubbidirà a qualche ordine, e tutte queste spine costituiranno “un duro cristallo di rancore”. Perciò le democrazie sono caratterizzate da un cumulo di rabbia contro chi “comanda”, come ha visto il filosofo Peter Sloterdijk in Ira e tempo, dove parla di partiti e movimenti politici come “banche dell’ira”.
In effetti la democrazia non è solo un sistema per scegliere chi deve governare, essa si basa su una Promessa fondamentale, implicita o esplicita che sia: l’auto-determinazione di ciascun uomo e di ciascuna donna. Ovvero, non c’è alcun criterio che trascenda la volontà di ciascuno, sia esso la religione, la patria, il re, la classe sociale... “Il popolo è sovrano”, quindi ciascuno si sente sovrano nel pensare e nell’odiare. Ormai contano le opinioni dei singoli, ovvero la loro somma, non l’autorevolezza delle opinioni: se un’opinione è diffusa, diventa ipso facto autorevole. Se un libro si vende bene, allora è un capolavoro. Se un leader cialtrone prende una barca di voti, diventa ipso facto un grande uomo politico. Da qui l’esplosione dei sondaggi d’opinione: essi servono non solo a sapere quel che la gente pensa, ma a stabilire, appunto, che cosa vale e che cosa no. Ora, ciascuno è convinto che la propria opinione sia quella giusta, anche se in realtà non sa nulla di ciò di cui ha un’opinione. In democrazia, dicevano gli antichi greci, prevale la doxa, l’opinione, non l’epistheme (il sapere). Dico qui a parole mie quel che mi sembra il succo del libro di Orsina.
Decenni fa le persone semplici, non colte, mi chiedevano spesso “Professore, ma per chi devo votare?” Non rispondevo, ligio all’ideale democratico per cui il “professore” non deve esercitare un’autorità intimidente sull’elettore. Oggi invece le persone senza cultura non sanno che farsene non solo delle mie idee politiche, ma di quelle di tutti i professori. Del resto, per ogni opinione, per quanto becera, si riesce a trovare sempre qualche “esperto” che la puntelli o la legittimi. Si scoprono “specialisti” i quali dicono che vaccinare i bambini fa male, per esempio, quando si spande il rumor secondo cui vaccinare fa male. Il narcisismo è insomma l’arroganza dei propri desideri e delle proprie opinioni; non conta più il percorso - di studio, riflessione, informazione, confronto con esperti - che porta ad avere un’opinione che pesi.
Così, scrive Michel Crozier (citato da Orsina):
Insomma, il principio di autodeterminazione di ciascuno porta a un indebolimento progressivo della politica. Da qui il crescente discredito dei politici: essi fanno da capro espiatorio di questa contraddizione fondamentale. Vengono applauditi solo i politici che si dichiarano anti-politici... Il narcisista moderno esige dalla politica che risolva i propri problemi, ma siccome la politica deve cercare di risolvere anche i problemi degli altri, qualunque cosa un politico farà sarà sempre insoddisfacente. Ogni misura politica pesta sempre i piedi a qualcuno. Ogniqualvolta un politico agirà politicamente, tenendo conto quindi dei vari interessi tra loro spesso contrapposti, sarà sempre considerato fallimentare, anzi un corrotto.
Si prenda il caso esemplare della lotta all’evasione fiscale: questa dovrebbe essere popolare perché permette allo stato di avere più fondi per i servizi pubblici, per il sistema sanitario..., ma essa comporta una decurtazione del reddito di chi prima evadeva. Solo questa decurtazione viene vista, e biasimata.
Il paradosso è che la credibilità dei politici si abbassa sempre più man mano che essi si convertono alla demagogia, diventando “cantastorie” come dice Orsina, ovvero aizzano richieste specifiche anche se irrealistiche al fine di guadagnare voti e potere. Sempre più abdicano a una funzione che i politici di vecchio stampo esercitavano: quella di presentare agli elettori anche gli oneri che un sistema politico-economico esige, i vincoli che vengono dall’economia, dal sistema internazionale delle alleanze. Oggi i politici promettono sempre di più a tutti, non mettono mai gli elettori di fronte alla complessità e alla durezza dei problemi sociali. Ma la demagogia dà un vantaggio effimero: prima o poi, l’elettore capisce che le promesse non vengono mantenute. E si volgerà a un altro demagogo...
Si è denunciato il fatto che il nuovo governo della Lega e del M5S in Italia si basi su due progetti praticamente contraddittori: da una parte la flat tax, che di fatto regala soldi ai più ricchi; dall’altra il reddito di cittadinanza, che dovrebbe andare ai più poveri. Ma se lo stato rinuncia a una parte cospicua delle tasse, gli sarà impossibile dare un reddito a chi non lavora.
Il fatto che questi due progetti abbiano trovato una sorta di affinità elettiva è un’allegoria della contraddizione della democrazia narcisista: dallo stato, ovvero dalla politica, si chiede che da una parte esso dia sempre più, ma dall’altra gli si vuole dare sempre meno. Esigo che lo stato spenda sempre più per me, ma mi rifiuto sempre più di dargli questi soldi da spendere. Il segreto dell’esplosione del debito pubblico in Italia, che ha raggiunto il 130% del PIL nazionale, è tutto qui (esso è il frutto di decenni di politiche che hanno comprato consenso di massa indebitando però i nostri figli fino al collo).
Da qui il paradosso: lo stato italiano è fortemente indebitato, mentre i patrimoni e i risparmi personali sono altissimi. In Italia abbiamo uno stato quasi alla bancarotta, e una ricchezza privata cospicua.
Come nota Orsina, i pericoli della democrazia del narcisismo hanno portato gli stati, nel corso degli ultimi decenni, a sottrarre spazi al controllo democratico (cosa che viene denunciata dai populisti). Le banche centrali si sono autonomizzate sempre più dal potere politico, difendono la moneta del paese senza subire le pressioni dei governi, i quali esprimono le esigenze confuse di chi li ha eletti. Orsina legge il distacco crescente della magistratura dal potere politico come un altro segno di questa secessione di parti dello stato dal controllo democratico (sempre più, in quasi tutti i paesi, i magistrati fanno la loro politica; come abbiamo visto in Brasile oggi con Lula, la magistratura può opporsi fermamente alla volontà popolare). Egli nota, ad esempio, che tra il 1969 e il 1976 la quota di budget federale americano sul quale la politica conservava un controllo discrezionale si è dimezzato, scendendo dal 50 al 24%. Le istituzioni europee, di fatto, tolgono spazi all’autodeterminazione dei singoli paesi, imponendo a ciascuno parametri entro cui operare. Va detto che questo controllo della tecnocrazia europea sui destini nazionali non ha funzionato sempre. Non ha impedito il crack della Grecia nel 2016 né l’esplosione del debito pubblico italiano e portoghese fino a oggi.
Molti denunciano questo crescente potere tecnocratico e rivendicano più democrazia, ma non si rendono conto del fatto che la secessione di molte funzioni dalla “politica” - banche centrali, magistratura, FMI, WTO, ecc. - è proprio un ammortizzatore della democrazia frutto della democrazia stessa: rispetto all’autodeterminazione di tutti contro tutti, le istituzioni non elette, “tecniche”, pongono dei paletti fondamentali che impediscano le derive. Così, le costrizioni esterne imposte dai trattati internazionali, che il narcisista delle democrazie rigetta rivendicando la propria autodeterminazione nazionale (o regionale), rientrano.
“Il basso continuo” (è l’espressione di Orsina) dei populismi, rivendicando la propria sovranità nazionale di contro ai vincoli che pone a una nazione il tessuto europeo (o, per gli Stati Uniti, il NAFTA e altri trattati internazionali), titilla il desiderio di autodeterminazione di ciascuno. Si dice “Se noi italiani potessimo decidere tutto quello che vogliamo, senza tener conto dell’Europa, saremmo più liberi...” Si tratta ovviamente di un’illusione, perché rinunciare ai vincoli volontari non evita affatto i vincoli involontari, quelli imposti dai mercati internazionali, ad esempio. Rinunciare ai vincoli con altri stati ci mette in balia di forze economiche e politiche internazionali per noi ancor più incontrollabili.
Vent’anni fa ci fu una forte reazione alla globalizzazione “da sinistra”. Ma la sinistra, soprattutto marxista, è globalista per vocazione. Il vero grande attacco alla globalizzazione - di cui Trump e la Brexit sono gli episodi più salienti - viene però oggi da destra, o dai “populismi”. Dilaga la tendenza a negare l’evidenza di un mondo globalmente interconnesso, tornando alle vecchie identità, nazionali o regionali.
Ora, questa esigenza di autodeterminazione va sempre più spezzettandosi: ogni regione potrà pensare che sia meglio decidere da sola, senza avere i lacci nazionali che la legano ad altre regioni, magari più povere, ecc.
Lo abbiamo visto con la Lega Nord, prima che svoltasse verso un nazionalismo neo-fascista. Accade così che da una parte la Gran Bretagna decide di separarsi dall’Europa, ma dall’altra questo spingerà scozzesi e nord-irlandesi a volersi separare a loro volta dalla Gran Bretagna, ecc. ecc. Alla fine di questo processo ricorsivo di separazioni, nel quale ci si illuderà di diventare sempre più liberi... c’è solo l’individuo solo, narcisista. Che non vuole legami né costrizioni. Ma non si può vivere da soli. A meno di non fare come il protagonista del film Into the Wild di Sean Penn: se ne va a vivere completamente isolato, autarchico, sovrano, in Alaska, per morirvi. Anche la prospettiva delle nostre società potrebbe essere la morte, quella della democrazia.
Questo di Orsina è un libro che evade dal recinto di molto dibattito politico di oggi, diviso tra neo-marxisti, neo-liberisti e neo-populisti. Un dibattito ormai stereotipato, dove già si sa prima che cosa ciascuno dirà.
CONOSCI TE STESSO, CONOSCI TE STESSA!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla ...
Abito bianco, bomboniere e 70 invitati alla festa: in Brianza la prima sposa single d’Italia
"Se a 40 non ho ancora il fidanzato faccio il matrimonio con me stessa": Laura Mesi ha mantenuto la promessa. E ha organizzato un mega party costato 10mila euro, viaggio di nozze compreso. "Ecco la mia fiaba senza principe azzurro"
di LUCIA LANDONI *
Abito bianco, bomboniere, taglio della torta, lancio del bouquet, familiari e amici commossi. Quello di Laura Mesi, 40enne istruttrice di fitness di Lissone (in provincia di Monza e Brianza), è stato un matrimonio tradizionale in tutto e per tutto, salvo per un particolare: mancava lo sposo.
"Sono la prima sposa single d’Italia. Qualche mese fa l’ha fatto anche un uomo di Napoli, ma a me l’idea era già venuta due anni fa. Avevo detto a parenti e amici che se entro il quarantesimo compleanno non avessi trovato la mia anima gemella mi sarei sposata da sola - spiega - Credo fermamente che ciascuno di noi debba innanzi tutto amare se stesso. Si può vivere una fiaba anche senza il principe azzurro. Se un domani troverò un uomo con cui progettare un futuro ne sarò felice, ma la mia felicità non dipenderà da lui".
Laura si è data da fare e ha organizzato in totale autonomia la sua cerimonia dei sogni: "Ho speso un po’ più di 10mila euro, pagando tutto di tasca mia. Ho fatto una piccola follia per il vestito e per le fedi, che sono due intrecciate in un unico anello. Grazie ai regali dei 70 invitati sono riuscita a coprire le spese del pranzo nuziale. Mi sono concessa anche il viaggio di nozze. Il giorno dopo la cerimonia, che si è tenuta in un ristorante di Vimercate, sono partita per Marsa Alam, sempre da sola".
Il matrimonio, celebrato da un amico che per l’occasione ha indossato una fascia tricolore, non ha alcun valore legale né religioso, ma la sposa garantisce che le emozioni provate sono state assolutamente reali: "Ho promesso di amarmi per tutta la vita e di accogliere i figli che la natura vorrà donarmi. Anche i miei familiari sono stati molto felici, compreso mio fratello che all’inizio era scettico sulla mia idea e invece poi ha finito per commuoversi accompagnandomi verso il celebrante".
Un’esperienza che la sposa single - seguita sull’omonima pagina Facebook da circa 1300 persone - ammette non essere per tutti: "Per portate avanti un progetto del genere servono una certa disponibilità economica, il sostegno di chi si ha intorno e soprattutto un pizzico di follia"
* LA REPUBBLICA, 21 SETTEMBRE 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CONOSCI TE STESSO!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla o, meglio, nella bara ("taùto" - napoletano)
LA FILOSOFIA E IL NARCISISMO "DIALOGICO". AMORE DELL’ALTRO O AMORE DI SE’? E’ LO STESSO. Una "risposta" di Umberto Galimberti
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
Il grande filosofo bulgaro naturalizzato francese, considerato uno dei massimi intellettuali contemporanei, aveva 77 anni *
E’ morto Tzvetan Todorov. Il grande filosofo bulgaro naturalizzato francese, considerato uno dei massimi intellettuali contemporanei, aveva 77 anni. L’annuncio è arrivato dal suo agente francese, dopo una lunga malattia. La notizia arriva poche settimane dopo la morte di un altro straordinario pensatore contemporaneo, Zygmunt Bauman, che con Todorov condivideva molti campi di studio.
Storico, filosofo, critico strutturalista e sociologo, celebre teorico della letteratura e studioso di grande originalità dei temi dell’alterità, dello spaesamento e dei totalitarismi, Todorov nasce nel 1939 a Sofia, in Bulgaria, dove si laurea in filologia nel 1963 e si trasferisce a Parigi dove inizia il dottorato, studia con Roland Barthes e cinque anni dopo diventa direttore del centro nazionale francese della ricerca scientifica. Di lì inizia la sua proficua attività accademica e saggistica.
Una delle sue opere più famose era "La paura dei barbari", in cui Todorov teorizzava il rischio della deriva violenta dell’Europa: a causa del clima di paura e tensione perenni, il rapporto con l’altro può diventare sempre più difficile. A questo proposito, diceva tempo fa in un’intervista a Repubblica, subito dopo l’attentato di Nizza: "Dobbiamo evitare di diventare anche noi dei ’barbari’, di diventare torturatori come quelli che ci odiano. Il multiculturalismo è lo stato naturale di tutte le culture. La xenofobia, le pulsioni sull’identità tradizionale non sono destinate a durare. Una cultura che non cambia è una cultura morta".
A proposito della società attuale e del suo futuro, Todorov sosteneva: "Le offese e gli attentati che abbiamo subìto sono gravi, ma non penso che mettano in pericolo la sopravvivenza della democrazia. Al contrario, si assiste a una convergenza delle forze politiche del Paese e a un rafforzamento della solidarietà in seno alla popolazione. Intensificare la raccolta di informazioni continuerà a essere una misura indispensabile, a patto che resti sotto il controllo giudiziario. I nemici interni invece seguono un altro percorso". A questo proposito, nel 2015 Todorov aveva partecipato al festival RepIdee di Repubblica a un incontro insieme al direttore Ezio Mauro dal titolo "Vigiliamo sulle derive della democrazia".
Tra i suoi libri più famosi ci sono "La letteratura fantastica" (Garzanti, 1970), "La conquista dell’America. Il problema dell’altro" (Einaudi, 1984), "Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (Einaudi, 1989), "Michail Bachtin" (Einaudi,1990), "Di fronte all’estremo" (Garzanti, 1991).
In Italia il suo ultimo libro "Resistenti" è uscito per Garzanti l’anno scorso. A giorni, fa sapere la casa editrice italiana, era previsto il ritorno in libreria, in edizione economica, di un altro suo noto saggio, "Il caso Rembrandt", in cui descrive l’umanità e la filosofia dell’opera del grande pittore olandese. La sua bibliografia è stata tradotta in 25 paesi.
Tra i vari riconoscimenti ottenuti nel corso della sua carriera da Todorov, si contano il Premio Principe delle Asturie per le Scienze sociali, il Premio Charles Lévêque dell’Accademia Francese di Scienze Morali e Politiche, il primo Premio Maugean dell’Académie Française, il Nonino e il premio "Dialogo tra i continenti" nell’ambito del Grinzane Cavour.
CONOSCI TE STESSO!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla o, meglio, nella bara ("taùto" - napoletano)
SENTIMENTI. Un legame gioioso e maturo non è una passione esclusiva: esige una presa di distanza per comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro
In amore ascoltate Spinoza per evitare il rischio Bovary
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 10.07.2016)
Se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary, ha scritto Flaiano, avrebbe probabilmente frenato le sue fantasticherie di «pornografia sentimentale». Un effetto dissuasivo ancora più forte l’avrebbe ottenuto, credo, con un paio di proposizioni dell’ Etica di Spinoza.
La povera Emma modellò la sua infelicità sulle molte possibilità narrative degli amori tormentati. Sognando di balli, duelli, eroine esangui nel gorgo della passione, imbrigliò l’amore nella fantasticheria di una forza che trascina alla rovina.
L’amore fa soffrire, doveva sospirare fra sé l’infelice signora Bovary, boccheggiante di noia, con la testa piena di romanzi d’appendice e un marito prosaico che nel frattempo sorbiva rumorosamente la soupe à l’oignon. A furia di sospirarlo, ci credette; pur di vivere quell’avventura romantica che si era imbastita non fece caso allo squallore della scappatella con Rodolphe. E finì avvelenata.
E pensare che l’antidoto a questo veleno si poteva trovare facilmente, distillando un po’ dell’ Etica di Spinoza; non un romanzo (qualcuno ha detto che non esistono romanzi sugli amori felici), e nemmeno un libretto di istruzioni o un decalogo che insegni a sfuggire alle relazioni fallimentari. Ma un libro per lettori coraggiosi; un libro petroso che, se lo si ascolta bene, può curare molti dei mali che nascono quando si vive prigionieri del luogo comune secondo il quale l’amore deve far soffrire.
Di Spinoza non si ricordano grandi amori. Le lettere raccolte dagli amici con cui coltivò una lunga corrispondenza dal suo esilio di reietto dopo lo herem, il decreto che lo «scomunicò», sono scritti dottrinali, con qualche fortuito scorcio sulla sua vita nascosta - troppo poco, però, per poterne ricostruire le vicende. Tutte le biografie ce lo consegnano come una sorta di santo eretico, un saggio stoico capace di condurre una vita esemplare, sobria e morigerata. Strana figura, quella di Spinoza, l’ateo virtuoso che sarà riesumato, ancora avvolto nel suo odore di santità, da un gruppo di giovanotti inquieti nella Germania di fine Settecento. Ma Spinoza dell’amore ha detto una cosa fondamentale: che amare non significa possedere l’altro, ma vederlo così com’è, comprendere che esiste al di fuori di noi; e quindi che l’amore vero non fa soffrire, ma anzi, è pura gioia.
L’ Etica parla molto di amore, ne costruisce una vera fenomenologia. L’amore è per Spinoza il motore di quella comprensione del mondo che, sola, permette all’uomo di rendersi veramente libero. L’amore gioioso di cui parla Spinoza è tutto il contrario di una passione esclusiva che procede per slanci di insicurezza e narcisismo, che segrega e fa soffrire; l’amore di cui parla Spinoza è la strada per uscire da se stessi e addentrarsi nel mondo.
Spinoza è stato forse il primo filosofo a costruire un’etica che sapesse farsi beffe della morale come scienza che addomestica il corpo a una teoria di valori astratti; ha sovvertito i termini dell’antica opposizione monolitica fra passione e ragione.
L’amore non è necessariamente una passione, nel senso di qualcosa che si subisce, dice Spinoza, che inventa il concetto nuovo di affetto, e trasfigura così la nozione classica di passione aprendole la possibilità di trasformarsi in un atto di conoscenza. Se la passione ci getta in balia di quello che proviamo, l’affetto è un mezzo per capire e conoscere il mondo anche attraverso le emozioni che suscita in noi. Come i colori nascono da combinazioni di giallo, rosso e blu, anche la tavolozza degli affetti è fatta di tre affetti primari: il desiderio - una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza -, la gioia e la tristezza. Se la tristezza è un negarsi al mondo, la gioia è uno slancio verso un legame più intenso con la realtà - per Spinoza, che usa una parola della Scolastica, perfezione.
Spinoza racconta un amore che è una pura espressione della gioia: una gioia particolare però, innescata dalla presenza di una causa esterna - l’oggetto dell’amore. L’amore, essendo gioia, ci rende più attivi, più «perfetti», più immersi nella realtà; ma non è possibile se non alla presenza di un altro, che coincide con lo scatenarsi di questa gioia. Simone Weil è stata perfettamente spinoziana quando ha scritto che l’amore ha bisogno di realtà; e che amare è riconoscere l’esistenza di altri esseri umani.
Qui inciampò la povera Madame Bovary: trincerandosi in un amore asfittico, non fece troppo caso alla causa esterna se non come a una proiezione delle sue fantasticherie scopiazzate dai romanzi, e non seppe allarmarsi quando quella gran passione, invece di renderla più attiva e più viva, la paralizzò, impedendole anche di indovinare quello che poteva passare per la testa di Rodolphe. Chi non riconosce l’esistenza dell’altro, infatti, è incapace anche di quell’esercizio di empatia che rende l’amore uno strumento di conoscenza dell’altro, ma anche di sé.
«Chi immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà anch’egli affetto da Gioia o Tristezza», dice la proposizione 21 della terza parte dell’ Etica : l’amore induce un mimetismo che ci porta a provare, per empatia, quello che immaginiamo provi la persona che amiamo; a condividerne le paure, gli odi e gli amori. Ma questo slancio empatico sarebbe solo una prova di narcisismo - o di bovarismo - se non tenessimo ben fermo l’aspetto fondamentale della teoria spinoziana dell’amore: cioè il fatto che si può parlare di amore solo in presenza di una causa esterna, di un altro che sta fuori di noi.
Per amare davvero, bisogna accettare la distanza, il segno che l’oggetto del nostro amore è reale. Robert Musil, in una sua pagina quasi di diario, Percezioni finissime, racconta la scoperta vertiginosa di questa distanza che ci separa dall’altro. Lo scrittore è a letto, con la febbre, in una camera d’albergo; ascolta nel dormiveglia, senza vederla, la toilette della moglie che si prepara per andare a dormire; e sente per la prima volta, nel frusciare della camicia da notte, nelle forcine che cadono sotto la spazzola, la vita segreta di lei: «Con piccoli gesti incoscienti e innumerevoli, di cui non sai renderti conto, tu t’immergi in un vasto spazio dove nemmeno un soffio di me stesso t’ha mai raggiunta. Lo sento per caso, perché ho la febbre e ti aspetto».
La povera Emma Bovary non dovette mai guardare Rodolphe con questi occhi, né ascoltarlo così, nel buio; eppure, se l’avesse fatto, le sarebbe stata risparmiata la vita. La vita, magari; non quel pungolo di dolore che si cerca di anestetizzare, nel nostro tempo che demonizza la sofferenza, con terapie di coppia e poste del cuore e manuali di self-help, e che però fa parte anche dell’amore più gioioso. Nell’atto di comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro, nel vedere il segreto di un’intimità senza desiderare di violarla o di annientarla, un dolore c’è. Un dolore sottile che - direbbe Spinoza - non si può domare a furia di ragionamenti, né cancellare con i sillogismi; ma viene abbracciato dall’amore vero, un affetto più forte della gelosia e della smania di possesso.
Solo se abbracciamo quel dolore, e troviamo il coraggio di guardare chi amiamo sapendo che non lo possederemo mai, possiamo provare a sfuggire all’epigrafe su cui Leo Longanesi ha fissato lo sberleffo di chi rifiuta per accidia la fatica della libertà: «Visse infelice, perché costava meno».
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 08.06.2016)
Nel 1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, inventa una storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare, stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può, leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi.
Mentre il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne (Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» - le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi maschi - «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti, persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill: un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria», scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità, resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino».
La via d’uscita proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana, al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una questione degna di nota. Oggi invece lo è».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
MICHEL SERRES "DENUNCIA" CARTESIO ("Dal metodo non nasce niente") E FA "UNA CONFESSIONE". "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
SE L’IO CATTIVO ORDINA LA STRAGE
La doppia personalità esiste, e si scatena quando la coscienza perde il controllo. La passione per le armi, come nel caso di Napoli, è un sintomo che deve allarmare
di Umberto Galimberti (la Repubblica D, n. 941, 30 maggio 2015)
Condivido la diagnosi della neuropsichiatra, che mi pare corretta. Troppo spesso siamo sicuri della nostra identità, e questa sicurezza è tanto più solida quanto più rimossa è l’altra parte di noi stessi.
Il motivo della doppia personalità è presente nel mito, nella letteratura, nei flm, nella psicoanalisi, nell’immaginazione infantile (si pensi al "compagno immaginario" che i bambini inventano per dialogarci nei momenti di solitudine), in un gioco vertiginoso di ombre e specchi.
Come scrive Wendy Doniger in La differenza sdoppiata (Adelphi): «Le mitologie indù e greca abbondano di sdoppiamenti incentrati sull’identità di persone che in vario modo hanno subito una scissione. Queste storie affrontano problemi che interessano molte culture, compresa la nostra: quale risposta dare?». Questa domanda è ripresa da Massimo Fusillo in L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio (Mucchi Editore), secondo il quale: «Si parla di doppio quando l’identità di un personaggio si duplica: uno diventa due. A questo punto sorge l’interrogativo: come si fa a essere ciò che si è?».
È quanto accade per esempio in La prodigiosa storia di Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso (1814), La principessa Brambilla di Ernst Hoffmann (1820-1821), Il sosia di Fëdor Dostoevskij (1846), Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde di Robert Louis Stevenson (1885), Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1891), La metamorfosi di Franz Kafka (1915). In questi romanzi è in gioco l’identità dell’Io, a proposito del quale Jacques Derrida scrive: «L’Io è sempre in certo qual modo uno pseudonimo», dietro il quale si agitano le più radicali domande su quel labile confine che delimita l’Io e l’altro da sé.
Si tratta di un confine che la psicoanalisi di Freud ha cercato di precisare distinguendo l’Io dall’Es e dal Super-io, mentre la psicologia analitica di Jung in qualche modo vi allude delimitando l’Io quale cerchio minore nel cerchio maggiore del Sé. Sempre in ambito psicoanalitico, lo studio più approfondito su questo tema è stato condotto da Otto Rank (Il doppio, Edizioni SE), per il quale il doppio è l’immagine rimossa di se stessi che, quando appare al soggetto, da un lato genera angoscia fino a incrinare la sicurezza della propria soggettività, dall’altro consente al soggetto di realizzare surrettiziamente i propri desideri più nascosti e rimossi, come il soggetto non oserebbe mai e come la sua coscienza non gli permetterebbe mai di agire. Ma quando la coscienza cala le sue difese, l’altra parte di noi stessi, con cui non facciamo mai i conti e mai ci rapportiamo, irrompe producendosi in gesti che noi tutti conosciamo nei nostri momenti d’ira, devastanti, quando non sono più controllati.
Quanto a coloro che detengono armi o si esercitano nei poligoni di tiro, ovviamente non è escluso che sia sottesa a questa passione, neppure troppo nascosta, la possibilità di uccidere. La stessa che anima i cacciatori che, per il piacer loro, privano noi tutti della gioia di vedere gli uccelli volare nel cielo e non consentono agli animali di abitare quei pochi boschi e foreste risparmiati dalla cementificazione. L’io cattivo, come lei lo chiama, già governa indisturbato l’io buono in molti di noi, e di volta in volta se ne vedono gli effetti devastanti, perché chi si rifornisce di armi o non rispetta la natura che ci circonda ha già di suo una natura governata dalla tentazione omicida. Che prima o poi può esplodere. La doppia personalità esiste, e si scatena quando la coscienza perde il controllo.
PERCHÉ NARCISO NON VALE L’AMORE
RISPONDE Umberto Galimberti *
Secondo il mito, quando amiamo chi non sa amare, dobbiamo attenderci le punizioni di Eros. Nella realtà, vuol dire imparare a non credersi onnipotenti
Sono una psicoterapeuta e insegno in una scuola di formazione
in psicoterapia relazionale, dove le sue pagine sono un utile materiale di riflessione e di confronto
per le discussioni con i miei allievi.
Le scrivo a proposito del narcisismo, tema che più volte lei ha affrontato, e che secondo
me oggi è di grande attualità.
Vorrei interrogarmi e interrogarla circa la "relazione narcisistica", ampliando lo sguardo sulla ninfa Eco che, nel mito, di Narciso è vittima - per intenderci - e tornare al "miracolo dell’amore" che Lei auspicava per il collega psicologo narcisista che in una lettera
le sottoponeva i suoi tormenti.
Nella mia esperienza clinica
vedo tante donne spesso belle, intelligenti e affascinanti,
che fanno a pezzi la propria vita rincorrendo questo "miracolo d’amore". Non smetto mai
di sorprendermi per la quantità
di energia che sono disposte
a investire in questa relazione "disperante" che, proprio nell’accanimento onnipotente
a diventare "qualcuno" per
il partner (per il quale sono invece solo estensione narcisistica del sé) trova la sua marca patologica.
Quando pare che, ridotte ormai come Eco nel mito, si decidano a
mollare, ecco che si riattiva
il gioco del partner che, proprio nella conquista di donne così importanti, alimenta il senso del suo sé (il cosiddetto "amore"). Poiché poi il narcisista è un magnifico incantatore, ci riesce
e tutto ricomincia, anche il dolore che si cronicizza in sofferenza. Vorrei che nelle sue pagine, che sono un riferimento per tante donne, lo scrivesse, che il miracolo dell’amore non consiste nel cambiare l’altro, semmai nella possibilità che, attraverso l’altro, ci è data di cambiare noi stessi.
Per esempio facendo quanto è possibile per ritrovare in noi stessi il senso del nostro vivere,
senza delegarlo al valore che l’altro
è disposto a riconoscergli.
Maria Luisa Campobasso
marialuisacampobasso@libero.it
Narciso era un giovane bellissimo circondato dall’amore e dall’ammirazione di quanti lo incontravano, ma alle profferte d’amore, che pure lo gratificavano, restava indifferente. Un giorno, di Narciso si innamorò la ninfa Eco che, non ricambiata e respinta, si consumò di dolore fino a morirne. Di lei rimase solo il ritorno della sua voce, l’eco appunto.
Questo è il destino che attende le donne che amano i narcisisti, spinte dalla persuasione, tutta femminile, di poter cambiare col tempo e con le loro premure gli uomini che amano.
Questa convinzione, che penso abbia le sue radici nello sfondo di onnipotenza presente in ogni donna - forse derivato dal fatto che, in quanto generatrice, la donna ha il potere di vita e di morte - è tipico non solo di colei che ama i narcisisti, sopportando ogni sorta di frustrazione e delusione, ma anche di chi ama i violenti, subendo ogni sorta di brutalità, maltrattamento, abuso, sopraffazione, come ogni giorno le cronache ci riferiscono.
E allora è bene che le donne ricordino che possono generare i bambini, ma non ri-generare gli adulti, ormai solidificati e direi anche pietrificati nella loro identità.
L’amore, è vero, è una potenza che può trasformare gli uomini. Ma non i narcisisti, che sono tali proprio perché, oltre a se stessi, non sanno amare nessun altro. Lo stesso Freud riteneva che non ci fosse cura per loro, per il semplice fatto che, incapaci di una relazione con l’altro da sé, non sono in grado di instaurare una relazione emotiva neppure con il loro terapeuta.
Eppure incontrare un narcisista e innamorarsi di lui non è del tutto inutile, perché la sofferenza che si accumula in questa relazione può indurre la donna, se saggia, a ridurre il suo vissuto di onnipotenza ed evitare così l’autoinganno che le fa credere che, insistendo, possa cambiare le cose. Capisco che l’idea di riuscire a cambiare le cose costituisce per la donna a sua volta una gratificazione narcisistica, ma siccome il tentativo non approda, è inutile sprecare la propria esistenza per gratificazioni narcisistiche che comunque non arrivano.
E allora la conclusione è quella indicata dalla psicoterapeuta che ha scritto questa lettera, ove si lascia intendere che amore non è solo conoscenza dell’altro, ma innanzitutto conoscenza di sé, nelle regioni, mai frequentate, dove veniamo a trovarci quando ci innamoriamo.
Nello scenario tutto nuovo che amore dischiude possiamo conoscere, oltre alle nostre virtù che prima ignoravamo, anche i nostri limiti che nessun desiderio, neanche il più spasmodico, può superare. E il primo limite che dobbiamo riconoscere è quello della onnipotenza che la follia d’amore alimenta in noi, lasciando il narcisista, che non sa amare, nella più assoluta indifferenza.Secondo il mito, quando amiamo chi non sa amare, dobbiamo attenderci le punizioni di Eros. Nella realtà, vuol dire imparare a non credersi onnipotenti
NARCISIMO E POLITICA FASCISTOIDE-MAFIOSA. Una nota molto illuminante sul tema è nel lavoro di H. A Rosenfeld ("Il narcisismo distruttivo e la pulsione di morte", in : "Comunicazione e interpretazione", Torino 1989):
"Herbert Rosenfeld è stato uno dei più eminenti teorici clinici d’Inghilterra. Nei suoi studi sui disturbi di personalità narcisisstica egli si è imbattuto in una metafore che, molto tempo dopo la sua morte, ha influenzato generazioni di clinici in tutto il mondo.
Rosenfeld ha paragonato la mente del narcisista a una gang mafiosa, governata da un potente leader - un Don mafioso - che è il distillato di tutte le parti distruttive di una personalità. Manipolatorio, cinico, privo di sensi di colpa, feroce, costringe al silenzio tutte le parti buone della personalità con mere intimidazioni. Liquida le azioni distruttive attraverso un’imposizione di lealtà e fedeltà di gruppo alla parte dominante dfella personalità e crea un senso interiore di coesione basato sull’odio.
Il lavoro di Rosenfeld è il culmine della visione crerativa offerta dalla "psicoanalisi delle relazioni oggettuali". Esso mostra come nel nostro mondo interno noi esistiamo come un insieme di sé diversi legati a oggetti (rappresentazioni mentali di altri e aspetti della realtà esterna) all’interno della mente.
Se siamo equilibrati, allora le rappresentazioni distruttive verranno bilanciate da parte amorevoli, premurose, costruttive ed etiche della personalità" (cit. da: Cristopher Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 161-162)
Federico La Sala
Sulla psicopatologia di Berlusconi
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta *
Una persona che ha un comportamento come quello di Berlusconi può essere definito clinicamente paranoico? Io lo considero tale da oltre 20 anni. Tra l’altro trovo conforto nella testimonianza di una Signora che lo conosce molto bene e scrive: «è malato, curatelo». Sono convinto che soffre di tante manie che a volte diventano deliri. LUIGI PINGITORE
Direi di no. Il disturbo di Silvio Berlusconi non è un disturbo paranoico nella misura in cui non è strutturato intorno ad un delirio sostenuto da una passione più o meno infondata e non corrisponde ad una perdita di contatto con la realtà.
I tratti di personalità esibiti nel corso di questi 20 anni fanno pensare piuttosto ad un disturbo narcisistico di personalità perché Silvio Berlusconi è una persona che ha vissuto a lungo nel culto della sua immagine ed ha creduto in modo perfino ingenuo in chi, traendone vantaggio (i Lavitola) o per puro e semplice innamoramento (i Bondi) ha alimentato il suo bisogno di piacersi e la sua illimitata fiducia in se stesso.
È proprio al disturbo narcisistico di personalità, d’altra parte, che si collegano naturalmente la sua tendenza allo svilimento del sesso e della donna che tanta parte ha avuto nel suo declino e la sua tendenza a proiettare sull’altro (il comunista o il magistrato «cattivo») la responsabilità dei suoi insuccessi.
Confuso (il discorso sui figli che vivono come gli ebrei nei lager) e in crisi, il Berlusconi instabile di oggi è il bambino ferito dall’offesa di chi non crede più di lui. Quello di cui avrebbe bisogno ed a cui avrebbe diritto è un lavoro terapeutico capace di farlo mettere in contatto con il bambino spaventato che si nasconde dietro l’angoscia dell’adulto.
* l’Unità, 18.11.2013
*
Psicologia della separazione
Se l’identità è un’ossessione
La salute mentale di un individuo, e lo stesso vale per i gruppi e le istituzioni
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 21.11.2013)
La grande sovversione psicoanalitica del soggetto consiste nel mostrare che l’Io, come affermava Freud, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente scissa. Il soggetto non coincide - come voleva tutta una tradizione che discendeva da Cartesio - con il cogito, ma è abitato da più istanze. Esso appare come un parlamento nel quale vi sono partiti rappresentanti di diversi interessi: morali, pulsionali, cognitivi, critici, erotici, vitali, aggressivi.
La salute mentale non consiste nella presenza della monarchia assoluta dell’Ego ma nel comporre una sintesi efficace delle istanze promosse nel proprio parlamento interno. In questo senso per Freud la psicoanalisi era un’autentica esperienza di democrazia. La scissione tra i diversi partiti che compongono il parlamento interno deve essere ricomposta dal soggetto in un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Anzi, si potrebbe aggiungere, che la malattia mentale è legata all’impossibilità di trovare un punto di accordo tra le diverse istanze che compongono la personalità psichica perché una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce.
Ne deriva che la salute mentale di un individuo - ma si potrebbe benissimo allargare il concetto al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni - non consiste nel sopprimere le diverse istanze di cui è costituito il soggetto ma nel saperle articolare tra loro in modo sufficientemente flessibile.
Quando invece questa flessibilità - “plasticità” per Freud - viene meno si produce malattia, irrigidimento paranoico, intossicazione, patologia identitaria. Al posto di una vita psichica positivamente democratica si produce un rigetto violento delle “istanze di minoranza” che vengono espulse, bandite, allontanate dal soggetto. Si tratta di una espulsione violenta che anziché nutrire il dibattito interno del soggetto (di un gruppo o di una istituzione), finisce per generare una sorta di identità separata, alienata nella quale si cristallizzano, in una modalità scissionista, quelle parti interne del soggetto che questi non è più disposto ad ascoltare e a riconoscere come parti proprie.
La paranoia costituisce da questo punto di vista il regime più puro della scissione. In essa l’annullamento della scissione interna genera la scissione come espulsione, separazione di parti psichiche da sé e una loro proiezione verso l’esterno. Per questo la clinica psicoanalitica ci insegna che il nemico ha assai frequentemente il volto del simile e che l’odio più feroce e rabbioso di divora i fratelli, poiché l’oggetto massimamente detestato e rifiutato esprime la parte di noi stessi alla quale abbiamo tolto il diritto di parola.
Nella vita dei gruppi tutto questo è massimamente evidente: quante volte la lotta contro un nemico esterno offre la ragione della propria stessa identità e garantisce il compattamento dei legami interni? È quello che accade in ogni forma di razzismo, compreso quello omofobico. La nostra identità deve essere preservata dalla contaminazione con l’altro. Ma questo altro in realtà non abita in un continente straniero ma in noi stessi.
Ne consegue una legge generale: più si è flessibili verso se stessi e più tolleranti si è verso l’altro e più la democrazia interna ed esterna si arricchisce di contributi. Più, al contrario, si espellono i traditori, gli indegni, i reietti, gli impuri, gli oppositori interni, più, insomma, si rifiutano le voci che animano il dibattito interno e più, inevitabilmente, si utilizzerà la scissione come manovra difensiva incoraggiando meccanismi fatali di irrigidimento paranoico dell’identità.
Il significato psicoanalitico dell’abbandono
Quando Narciso sa dire addio
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, servono a nascondere il carattere finito e mortale dell’esistenza umana
Si tratta dunque di saper accettare i propri limiti
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 14.02.2013)
La vita umana necessita di maschere per esistere. È un fatto: ciascuno di noi ne indossa una o più d’una quando si trova impegnato nelle funzioni e nei ruoli sociali che lo riguardano. Non a caso l’interrogativo: «ma chi credo di essere?» spesso attraversa il dubbio della coscienza che muove verso il gesto della dimissione da un incarico. Per questo i soggetti che credono senza incertezze al proprio Io, gli “Egoarchi” come li avrebbe definiti Giuseppe D’Avanzo, sono solitamente soggetti immuni dal rischio di dimissioni perché privi di quella quota necessaria di distanza da se stessi che rende possibile l’autocritica e il riconoscimento dei propri errori.
Una leadership consapevole si misura dal modo in cui sa lavorare per preparare la sua dissoluzione rendendo possibile la sua permutazione e la sua trasmissione simbolica. Al contrario un eccessivo attaccamento al proprio Io rende impossibile l’esercizio di una leadership democratica perché resiste al principio della delega della responsabilità. Perché vi sia il gesto autentico delle dimissioni vi deve essere esperienza tormentata del dubbio e della propria vulnerabilità.
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, le investiture pubbliche, insomma tutto ciò che offre una identità collettivamente riconoscibile alla vita umana, ricoprono il carattere finito, mortale, leso dell’esistenza umana. Il gesto delle dimissioni è sempre ricco di echi emotivi perché implica la caduta della funzione stabilizzatrice e rassicurante di queste maschere che agiscono come dei veri e propri abiti identificatori.
Si tratta di una spogliazione traumatica che riporta la nostra vita alla sua condizione più nuda. È l’ora della verità; l’evento che ci ricorda che il nostro essere è irriducibile alla maschera sociale che lo riveste. Per questa ragione nel soggetto dimissionario possiamo rintracciare sempre una quota depressiva legata alla perdita dell’identità narcisistica che l’identificazione alla maschera pubblica gli garantiva.
Ma può valere anche il contrario: dare le dimissioni può significare per chi compie questo atto un effetto salutare di liberazione dai lacci della maschera. All’uomo - che è un essere in continuo divenire - l’abito rigido dell’identificazione appare sempre come un abito troppo stretto; lasciarlo cadere può allora allargare la vita, può essere una perdita feconda che rende possibile un affacciarsi rinnovato sul mondo.
Per la psicoanalisi la malattia e la sofferenza mentale sono legate ad un eccesso di identificazione rigida al proprio Io e al suo Ideale di padronanza. Il gesto della dimissione è un test di salute mentale perché implica la capacità del riconoscimento del proprio limite, cioè della propria castrazione.
Non a caso è proprio la Legge simbolica della castrazione a presiedere l’intero percorso evolutivo della vita, il quale esige continue dimissioni simboliche: il bambino deve dimettersi dal suo ruolo per entrare nella turbolenze attive dell’adolescenza; l’adolescente deve dimettersi per assumersi la responsabilità della vita adulta e, a sua volta, l’adulto deve affrancarsi dal proprio Io per accettare la vecchiaia come transizione finale verso la morte.
E non è forse proprio questo ultimo passaggio della vita a rivelare che l’attaccamento ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo, ma il tentativo, tragico o farsesco, di rivestire artificialmente la sua finitezza mortale? Non è forse questo che s’incontra ogni volta che si dà gesto autentico, non solo tattico, di dimissioni? Non è per questa ragione che Nietzsche pensava all’uomo come ad un “ponte ”, ad un “tramonto”, ad un essere destinato a superare sempre se stesso, ad un “oltreuomo”?
Come superare il mondo di Narciso
Due saggi analizzano le difficoltà degli adulti di oggi
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 18.07.2012)
L’idolo della crescita e dell’espansione senza misura di cui si è nutrito l’Occidente ha rivelato il suo limite: l’uomo come “misura di tutte le cose” ha alimentato l’illusione narcisistica di una libertà senza debiti che si è beffardamente ribaltata - in questa grande crisi finanziaria - nella realtà di un debito smisurato.
Due libri di resistenza, duri e forti, scritti da due teste non omologate, fuori serie, ci introducono alla necessità di pensare l’uomo in modi diversi. Si tratta di Contro gli idoli postmoderni (Lindau) di Pierangelo Sequeri e Come fare. Per una resistenza filosofica di Rocco Ronchi (Feltrinelli).
La loro lettura del disagio della nostra Civiltà utilizza lenti teoriche diversissime. Sequeri - teologo di fama internazionale - sa riprendere e attualizzare la parola biblica facendola dialogare con quella della filosofia contemporanea più alta con una originalità unica. La sua prospettiva è quella di un sostenitore convinto della necessità di un ritorno alla radici umanistiche del cristianesimo in un’epoca che sembra ridurre a carta straccia ogni riferimento alla dimensione etica e insostituibile della responsabilità singolare. Ronchi è invece uno studioso di Bataille e Blanchot, di Sartre e Bergson, di Lacan e Deleuze, da tempo impegnato a ricordarci che la filosofia non può mancare l’appuntamento con l’assoluto in un’epoca dove questo compito - pensare l’assoluto - sembra suscitare solo la pacca sulla spalla di una critica ironica che ha preso congedo da ogni pretesa di dire la Verità ultima.
Sequeri è un teologo e pensa a Dio, ma cristianamente si rivolge innanzitutto all’uomo: l’anima dell’Occidente ha bisogno di rifondare un altro umanismo, non antropocentrico, non narcisistico. Ronchi è un filosofo che critica spietatamente la retorica umanistica che celebra l’Uomo come centro del mondo e si rivolge ad un Assoluto materialistico come espressione della potenza infinita della vita al di là dell’uomo. Ma non si deve confondere la prospettiva di Ronchi con una riedizione nostalgica dell’assoluto della vecchia metafisica. La sua scommessa è quella di glorificare il tempo non come scadimento, esaurimento dell’essere, ma come manifestazione assoluta dell’essere. Rovesciamento di Emanuele Severino: il nichilismo non è attribuire essere al divenire, ma pensare il divenire come esaurimento dell’essere, laddove il divenire è invece la sua manifestazione assoluta e non la sua falsa apparenza.
Ronchi cerca l’assoluto nel mondo, nella sua forza impersonale, nella sua potenza vitale. Se Sequeri mette al centro dell’assoluto l’uomo, Ronchi scarta l’uomo per mettere al centro l’inumanità impersonale dell’assoluto. Se il primo insiste a pensare il mondo come donazione, come indebitamento dell’uomo a un’offerta e a una Grazia che lo trascendono, il secondo parte dal presupposto che «l’uomo non è l’unità di misura del mondo», che «il mondo non è per l’uomo e l’uomo non è per il mondo». Eppure queste due voci così diverse finiscono per porre la stessa domanda: cosa resta in un tempo dove tutte le grandi narrazioni del mondo - come ripete l’adagio postmoderno - sono evaporate? Come si può trarre soddisfazione dalla vita, senza cadere nel circo iperedonista, senza perdersi, senza inseguire l’idolo narcisistico dell’espansione senza misura e della frenesia della “mobilitazione totale”? Cosa resta oggi se nei luoghi in cui si gioca la partita dell’umano, Narciso ha preso il posto del Prometeo di Marx e del Dioniso di Nietzsche?
Per Sequeri resta il dono della testimonianza, la responsabilità degli adulti nel rendere generativo il processo di filiazione. Per Ronchi «restano i post, vale a dire coloro che si definiscono reattivamente sulla base di una impotenza a essere comunisti, fascisti, padri, ecc. Restano gli esausti», ovvero coloro che possono farla finita con la retorica della riduzione del mondo a risorsa da sfruttare infinitamente. Quello che resta non è l’io del narcisismo, l’io del cogito, l’io come autoaffermazione di sé, ma piuttosto l’infinito della vita dalla cui potenza noi ci difendiamo attaccandoci, in una illusione di padronanza, al nostro piccolo Io. Il mondo della vita non è terra di conquista e l’antropocentrismo non può essere l’ultima parola dell’Occidente.
Ecco il punto dove le acque di questi due libri convergono: esiste una soddisfazione che non si riduca alla soddisfazione sterile e mortifera di Narciso? Si può godere in modo diverso rispetto al godimento sterile di Narciso e di Caino? Esiste una alternativa al falso divenire dell’iperedonismo e la sua ideologia del benessere, del corpo obbligatoriamente in forma, della celebrazione narcisistica della libertà?
Non c’è libertà se non nell’assunzione della solitudine del nostro godimento, sostiene Ronchi, ma non c’è libertà se non come esperienza della donazione al di là dell’Io, impegno nella trasmissione di una eredità, di una filiazione generativa.
È questo l’appello che Sequeri rivolge con voce alta e chiara a noi adulti: «Che vogliamo fare? Credenti o non credenti, quanto siamo, è ora di onorare l’impegno senza svicolare in dialoghi troppo socratici: o siamo contro l’idolo che mangia i bambini, o siamo fiancheggiatori della sua devozione intoccabile... Andate, liberateli, fateli lavorare. Battetevi con le unghie e coi denti perché abbiano la migliore formazione possibile... sperano di trovare qualcuno che non cerchi pateticamente di imitare la loro insicurezza».
L’ossessione del corpo diventa una malattia
Così la cura del sé, dalla forma fisica al mangiar sano, è stata esasperata, trasformandosi, nei suoi eccessi, in una patologia Quando il benessere diventa una ideologia non accettiamo più le nostre imperfezioni
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 27.05.2011)
L’anziano protagonista di uno degli ultimi film di Woody Allen, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, recitato da un raro Anthony Hopkins, esulta scoprendo che il suo DNA gli garantirà una vita inaspettatamente protratta. Il rifiuto dell’avanzare degli anni lo mobilita alla ricerca di una giovinezza perpetua che non implica solo il progetto tragicomico di sposare una escort in carriera, ma anche l’assoluta dedizione al potenziamento atletico e alla purificazione salutista del suo corpo come per suffragare scaramanticamente la previsione esaltante offertagli dal discorso medico. Questo personaggio non è un alieno ma una maschera tipica del nostro tempo. Il corpo diventa un tiranno esigente che non lascia riposare mai.
In uno dei suoi ultimi libri titolato Il governo del corpo (Garzanti 1995), Piero Camporesi aveva abbozzato l’idea che una nuova "religione del corpo" si stesse imponendo nella nostra Civiltà. Peccato non abbia avuto il tempo per elaborare con la giusta ampiezza questa intuizione che oggi si impone ai nostri occhi come un’evidenza. Aveva ragione Camporesi: il nostro tempo ha sposato l’ideale del corpo in forma, del corpo del fitness, del corpo in salute, come una sorta di comandamento sociale inedito. Si tratta di una religione senza Dio che eleva il corpo umano e la sua immagine al rango di un idolo. Così il corpo sempre in forma, obbligatoriamente in salute, assume i caratteri di un dover-essere tirannico, di un accanimento psico-fisico, di una prescrizione moralistica: ama il tuo corpo più di te stesso!
La nuova religione del corpo si suddivide in sette agguerrite. Ma il loro comune denominatore resta l’esasperazione della cura di sé che diventa la sola forma possibile della cura come tale. Quella dimensione la dimensione della cura che per Heidegger definiva in modo ampio l’essere nel mondo dell’uomo e la sua responsabilità di fronte al fenomeno stesso dell’esistenza, sembra oggi restringersi al culto narcisistico della propria immagine.
La nuova religione del corpo richiede infatti una dedizione assoluta per se stessi. Volere il proprio bene, volersi bene, diventa il solo assioma che può orientare efficacemente la vita. Ogni sacrificio di sé, ogni arretramento rispetto a questo ideale autocentrato, ogni operazione di oltrepassamento dei confini del proprio Ego, ogni movimento di dispendio etico di se stessi viene guardato con sospetto dai fedeli di questa nuova religione. La stessa domanda rimbalza come una mantra dalla stanza dello psicoterapeuta sino negli studi dei talk show televisivi: perché non ti vuoi bene, perché non vuoi il tuo bene?
Le espressioni psicopatologiche di questa cultura si moltiplicano. La classificazione psichiatrica dei disturbi mentali (DSM) si arricchisce in ogni edizione di nuove sindromi che sono spesso l’effetto diretto di questa invasione sconsiderata della cura eccessiva di sé. Si pensi, per fare solo un esempio, alla cosiddetta ortoressia che etimologicamente deriva dal greco orhtos (corretto) e orexis (appetito). Si tratta di una nuova categoria psicopatologica che definisce, accanto all’anoressia, alla bulimia o all’obesità, una particolare aberrazione del comportamento alimentare caratterizzata dalla preoccupazione eccessiva per il "mangiare sano".
Ma come è possibile che una giusta attenzione a quello che si mangia sia classificato come una patologia? L’ortoressia esibisce un tratto essenziale del nostro tempo; il perseguimento del benessere, dell’ideale del corpo in salute, del corpo come macchina efficiente, può diventare un vero incubo, un’ossessione, può trasformarsi da rimedio a malattia. Il corpo che deve essere perennemente in forma è in realtà un corpo perennemente sotto-stress.
La vita medicalizzata rischia di diventare una vita che si difende dalla vita. Il corpo si riduce ad una macchina di cui deve essere assicurato il funzionamento più efficiente. Il medico non è più, come indicava Georges Canguilhem, l’"esegeta" della storia del soggetto, ma il "riparatore" della macchina del corpo o del pensiero. La malattia non è un’occasione di trasformazione, ma un semplice disturbo da eliminare il più rapidamente possibile cancellandone ogni traccia.
L’ortoressia riflette questa curvatura paradossale dell’ideologia del benessere mostrando come le attenzioni scrupolose alla protezione del proprio corpo possano trapassare nel loro contrario. Roberto Esposito ha da tempo messo in valore nei suoi studi di filosofia della politica sul paradigma immunologico questa contraddizione interna all’igienismo ipermoderno: il rafforzamento delle procedure di protezione della vita rischia di capovolgersi nel loro contrario facendo ammalare la vita.
Lo sfondo antropologico della nuova religione del corpo è quello del narcisismo ipermoderno che costituisce l’esito più evidente del tramonto di ogni Ideale collettivo. Se la dimensione dell’Ideale si è rivelata fittizia, se il nostro tempo è il tempo che non crede più alla potenza salvifica e redentrice degli Ideali, ciò per cui vale la pena vivere sembra allora ridursi al solo culto di se stessi.
La nuova religione del corpo è un effetto (non certo l’unico) del declino nichilistico dei valori, del perdere valore dei valori. Il corpo eletto a principio assoluto sfida, nel suo furore iperedonista, ogni Ideale per mostrarne tutta l’inconsistenza di fronte alla sola cosa che conta: il proprio corpo in forma come realizzazione feticistica dell’Ideale di sé. L’igienismo contemporaneo opera così un rovesciamento paradossale del platonismo. Il corpo salutista non è affatto il corpo liberato, ma è un corpo che da carceriere è divenuto carcerato. Se per Platone il corpo era il carcere dell’anima, se era la sua follia impropria, il corpo salutista appare invece come un corpo che è divenuto ostaggio, prigioniero di se stesso, carcere vuoto, puro feticcio, idolo senza anima.
Il comandamento del benessere, come accade per tutti gli imperativi che si impongono come obbligazioni sociali, come misure standard alle quali dover uniformare le nostre vite perché siano considerate "normali", rischia di scivolare verso l’integralismo fanatico del salutismo ortoressico. Soprattutto se si considera che questo comandamento punta a rigettare lo statuto finito e leso dell’uomo, la sua insufficienza fondamentale.
L’ideologia del benessere è infatti una ideologia che prova ad esorcizzare lo spettro della morte e della caducità. In questo svela il suo fondamento perverso se la perversione in psicoanalisi è il modo di rigettare la castrazione dell’esistenza, cioè il suo carattere finito. L’ideologia del benessere che alimenta la nuova religione del corpo sbatte la testa contro il muro della morte. E’ questo ostacolo inaggirabile che il nostro tempo vorrebbe espellere, cancellare, sopprimere e che invece ci rivela tutto il carattere di commedia che circonda il culto ipermoderno del corpo.
Dobbiamo ricordarci che la cura di sé non esaurisce la dimensione della vita. La cura è innanzitutto cura dell’Altro. Nietzsche aveva indicato la virtù più nobile dell’umano nella capacità di saper tramontare al momento giusto. Rara virtù nei nostri tempi, da celebrare come una preghiera.
(L’autore è psicanalista e saggista, il suo ultimo libro "Che cosa resta del padre?", è pubblicato da Raffaello Cortina)
L’epidemia dei giovani narcisisti
Una psicologa lancia l’allarme: colpito un ragazzo su tre.
La colpa? Culto dell’immagine e Internet
La ricerca. Negli Usa analizzati i profili psicologici di16mila studenti: dilagano arroganza, egocentrismo, materialismo
Il motivo. «In un mondo così competitivo che esalta gloria, fortuna e ricchezza la forte autostima aiuta a stare a galla»
di Rita Sala (La Stampa, 04.04.2011)
Il narciso della specie umana sboccia tutto l’anno, ed è un peccato che non abbia una fioritura breve e intensa, come il suo omonimo vegetale. Invece è destagionalizzato, tipo i pomodorini in serra, e cresce ovunque, specialmente nel mondo giovanile, suscitando una pericolosa ammirazione. Proprio quello che vuole.
L’allarme narcisismo questa volta arriva da Jean Twenge, psicologa della San Diego State University, che ha condotto una ricerca su sedicimila studenti e li ha trovati malatissimi. I sintomi: arroganza, egocentrismo, scarsa empatia, materialismo spinto. Ed ecco i dati: negli ultimi trent’anni i narcisisti sono diventati un esercito, il 30 per cento, mentre nel 1982 erano soltanto il 15. Un altro studio su 35mila persone di varie età ha dimostrato che oggi i giovani sono molto più narcisisti degli anziani (il 10 per cento contro il 3) mentre prima era il contrario. Era l’esperienza ad alimentare questo disordine della personalità, mentre adesso narcisisti (quasi) si nasce. E lo si diventa facilmente, alla luce dei riflettori. Jean Twenge punta il dito contro genitori troppo permissivi, cultura delle celebrità e Internet. Un cocktail micidiale. Gli studenti intervistati hanno ammesso sereni che il narcisismo è una necessità: guai a esserne sprovvisti in una società così competitiva. Autostima, fiducia in se stessi, «io sono il migliore», «ho sempre ragione» e via di seguito, aiutano. Ma il narcisismo, spiega Twenge, non c’entra con la competizione: «Questi ragazzi che sognano fortuna e gloria, ricchezza, perfezione fisica ossessiva sono talmente convinti di essere dei fuoriclasse che nemmeno studiano». E fuori dalla classe ci finiscono sul serio.
È un discorso già sentito, anche se non ancora sostenuto da una tale massa di dati comparativi e adesso che ci sono, è ovvio: siamo circondati. Il protagonismo, il presenzialismo, lo sgomitamento per apparire, la capacità di manipolare gli altri sono considerati meriti un po’ in tutti i campi. Il modello è quello dei reality. Basta esprimere una personalità, avere un’abilità qualsiasi: raccontare barzellette, sedurre, far piangere. Involontariamente il tronista di «Uomini e Donne» è diventato il simbolo del narciso corteggiato (deliziosa la parodia di Claudio Bisio a «Zelig», dove Claudiano mastica gomma mentre Tatiana e Valeriana si accapigliano per lui), come Vittorio Sgarbi può essere considerato l’esempio perfetto dell’istrione, con un suo adorante pubblico.
Le società, è vero, hanno sempre avuto i loro narcisi, artisti, attori, ballerine e anche qualche nano, il problema è che adesso stanno diventando troppi, o troppo ingombranti, come segnala la presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio, Marialori Zaccaria. Ingombranti al punto da provocare un’ondata di manualistica specializzata. «Come difendersi da un narcisista» (il più venduto), «Guerra al narcisismo», «Ho sposato un narciso: manuale di sopravvivenza per donne innamorate» (graziosa cover con un cerotto sul cuore). Ma è una contraerea piuttosto debole.
Come ricorda Zaccaria, nel 2013, quando sarà pubblicato il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm V, a cura dell’American Psychiatric Association), «bibbia» della psichiatria internazionale, il narcisismo patologico non ci sarà. Cancellato. Perché non c’è una pillola che lo guarisca, non c’è business per le aziende farmaceutiche, e allora tanto vale non prenderlo in considerazione. Si profilano tempi duri, tra Grandi Fratelli e Lady Burlesque, tra personalità onnipotenti e successo dell’eccesso. E nessuno pensa di chiedere per i gli anti-narcisisti una «no fly zone» in attesa di tempi migliori.
Intervista
Lo studioso: “Alla fine si corre il rischio di rimanere da soli”
di R. SAL. (La Stampa, 04.04.2011(
Edoardo Giusti, direttore dell’Aspic (Associazione per lo sviluppo psicologico dell’individuo e della comunità), che ha 37 sedi in Italia, si è occupato a lungo di narcisismo. Il libro che gli ha dedicato, ripubblicato da poco da Soverato, ci spiega con chi abbiamo a che fare.
Professore, come si riconosce un narcisista?
«Ce ne sono di due tipi: uno esibizionistico, consapevole o inconsapevole (perciò più facile da riconoscere perché coltiva la propria onnipotenza, e desidera l’invidia degli altri), e uno nascosto, ipervigile, difficile da individuare. Tutti e due cercano soltanto una cosa: l’ammirazione».
Ci sono specie diverse di narcisismo?
«C’è l’istrione che gesticola, litiga e si crea un pubblico. C’è l’isterico che piange, cerca di ottenere compassione, simpatia. Questi due modelli sono molto televisivi, ne abbiamo tanti sotto gli occhi: il seduttore con l’harem, i vincitori di un concorso, i partecipanti ai reality. Ma è il web che esalta l’onnipotenza con il mito dell’interconnessione e l’infinità dei contatti». Come si diventa narcisisti?
«A livello emozionale si comincia con un abbandono reale o con la paura di subirne uno. I comportamenti, poi, possono essere diversi. Prendere droghe (cocaina, che è un euforizzante), l’inseguimento del potere, il denaro, il sesso, la bellezza».
Ci si può curare?
«Esclusivamente con la relazione terapeutica, non certo con i farmaci. Ma sono casi rari perché il narcisista non ha un’introspezione marcata, vive il qui e l’ora, usa gli altri e li fa soffrire, mentre lui non soffre. Può sentire la necessità di una cura soltanto di fronte a un abbandono che gli provoca depressione. Penso a Fabrizio Corona e Belen Rodriguez. Se lei lo lasciasse per sempre, sarebbe una ferita al suo narcisismo. Allora forse...».
Insomma, siamo al trionfo del narcisismo?
«Non è detto: un istrione è divertente in un salotto. Lo esibisci in pubblico, lo eviti nel privato. Il destino del narcisista è la solitudine».
Medici dell’anima?
Disavventure sul lettino dello strizza
Si discute se escludere il narcisismo dalle patologie psichiche (troppo diffuso per essere a-normale): ma il guaio è districarsi tra mille scuole analitiche
di Elisabetta Ambrosi (il Fatto, 27.01.2011)
Il libro di Elisabetta Ambrosi sottotitolato “Malefatte degli psicoanalisti”. Un sincero appello ai dottori e ai pazienti della psicanalisi moderna. L’autrice ci introduce con pudore nella sua vita privata, a volte lasciando intuire, a volte raccontandosi senza riserve.
Il narcisismo non è più una malattia. La notizia arriva dagli Stati Uniti, dove gli esperti che stanno lavorando alla nuova edizione del Dsm, il manuale per diagnosticare i disturbi mentali ad uso degli psichiatri, stanno discutendo se declassarlo. Il motivo? Troppo diffuso per essere considerato patologico, “a-normale”, appunto. Più che un disturbo di personalità, è un disturbo della società, come aveva capito nel lontano 1979 il pessimista Christopher Lasch, nel suo La cultura del narcisismo.
Tutti colpevoli, nessun colpevole. Può forse rallegrarsene il premier, i cui comportamenti, dopo il caso Ruby, sono stati descritti sotto il segno della psicopatologia. Un narcisista esibizionista o, meglio, un “narcinista”, narciso e cinico, come lo ha definito Massimo Recalcati sul «Fatto». Tanto che qualcuno ha fatto notare che, oltre al medico e al confessore, avrebbe urgente bisogno di uno psicoanalista. A stendersi sul lettino però non dovrebbe essere solo Berlusconi.
Perché, a ben guardare, il premier incarna nevrosi molto moderne. La “sregolazione pulsionale”, l’incapacità di tenere insieme legge e desiderio, la sostituzione del desiderio con il godimento sono patologie di oggi, che affondano le loro radici nella rivoluzione del soggetto di matrice sessantottina. Magari mal interpretata. Ma che comunque ha condotto a una società di uomini e donne, dotati sì di fallo, ma “senza inconscio”, secondo la suggestiva immagine che ne ha dato Recalcati. Uomini che, nella loro adesione all’imperativo del godimento, sessuale o consumi-sta, finiscono dritti dritti nella braccia delle pulsioni di morte.
E DUNQUE, come ha ammesso perfino Giuseppe De Rita, direttore del Censis, le categorie della sociologia non bastano più per spiegare sia la società che la politica. Bisogna tornare a quelle della psicoanalisi. Già, ma di quale psicoanalisi? Perché se è legittimo l’allarme sui fragili elettori-consumatori, lo è pure quello sugli psicoanalisti.
Quale terapia potrà davvero curare la perversione ipermoderna del godimento, l’unica vera odierna legge ad personam? E soprattutto: la psicoanalisi funziona ancora nell’epoca della morte del Padre, e della Legge? In Francia, il dibattito è acceso, come testimonia la mole di pubblicazioni - la più discussa quella di Michel Onfray contro Freud (Crépuscule d’une idole). Da noi invece, di psicoanalisi non si parla più. È come se gli specialisti si fossero ritirati sull’Aventino della psiche, lasciando la discussione su malattie e terapie al salotto televisivo dei vari Crepet.
Rispetto della privacy e divieto di fare diagnosi in pubblico, si difendono. Ma non sarà anche che i nostri strizzacervelli, di fronte alle nuove patologie striscianti, quelle sotto il segno dell’ambiguità, come le ha definite la psicoanalista Simona Argentieri, non sono stati capaci di aggiornarsi? D’altro canto, non solo l’efficacia delle teorie, ma anche le competenze dei singoli analisti sono sottoposte a ben pochi controlli. Una volta entrati sotto il cappello di una scuola accreditata del ministero, raramente devono preoccuparsi di qualcosa, perché quando l’analisi fallisce, ammesso che il paziente se ne accorga, il danno è indimostrabile e non risarcibile . Così, tornando all’ipotetico paziente narciso, è meglio avvisarlo del fatto che, qualora decidesse di entrare in analisi, rischierebbe di incappare in due analisti opposti. Se in cura da un freudiano doc, potrebbe trovarsi di fronte una terapia troppo simile al vecchio, e gratuito, catechismo. Un setting obbligatorio di molte sedute a settimana, in studi bui dove analiste severe (e un po’ frigide) invitano il paziente ad un duro lavoro in vista della guarigione morale. Nella quale il sesso ha perso il suo peso originario, sostituito com’è dall’analisi del transfert con l’analista-madre, che farà di tutto per renderlo dipendente da lei.
IL RISULTATO? Una conversione poco autentica, che finita l’analisi mostrerà le corde. Oppure l’adozione di una doppia verità, ligio a Freud dentro, vanesio pansessualista fuori. Un esito peggiore, però, si avrebbe nel caso di un incontro tra un narciso e un lacaniano. Il linguaggio oscuro, esoterico, in cui si spiega che il desiderio è sempre “altro”, non “possesso”, ma “vuoto”, rischia di avere un effetto paradossale: convincere il fragile sé alla ricerca del godimento della giustezza del suo passare da un fiore all’altro, senza una definitiva scelta mortifera, proprio come insegnava il Maestro. Che malignamente Corinne Maier, nel pamphlet Buongiorno lettino, descrive come “un dandy collezionista, amante delle belle macchine e delle donne. Seduttore (nonostante le sue orecchie smisurate), incapace di rispettare l’autorità, intrattabile e arrogante; apolitico, ma con tendenze conservatrici”.
Due modelli, il disincarnato freudiano assertivo e regolatore, e il lacaniano dissipato, molto simili persino alla nostra politica. L’uno al centrosinistra che, come ha scritto Ida Dominijanni, “occupa il campo della Legge svuotandolo della sua forza simbolica”; l’altro al centrodestra, “che occupa il campo del desiderio svuotandolo della sua forza creati-va”.
Se esistono analisti capaci di curare il nostro nar-cinismo, allora, battano un colpo, intervengano nel dibattito. Raccontando cos’è la psicoanalisi e perché serve ancora, quali sono i suoi strumenti e le sue idee forti, in un’epoca di passioni deboli e organi sessuali troppo sviluppati. In questo caso siamo disposti a stenderci sul lettino, assieme al Caimano. Purché, per favore, ci aiutino a trovare il desiderio. Nel pubblico e nel privato.
Seicento esperti riscrivono l’intero sistema diagnostico dei disturbi della personalità. Con qualche novità e molte polemiche
Il narcisismo non è più malattia
Così la psichiatria “scagiona” chi ama troppo se stesso
Da Freud in poi lo studio dell’egoismo patologico è stato per anni al centro della psicanalisi
Tra le ragioni del "declassamento" la necessità di più evidenze ma anche interessi corporativi
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 10.12.2010)
Il narcisismo non è più un disturbo della personalità. Sono 600 psichiatri ad affermarlo, proprio nel momento in cui il fenomeno sembra sempre più diffuso. Nel maggio 2013, infatti, verrà pubblicato il "DSM 5", una sigla che sintetizza il sistema diagnostico più diffuso al mondo in campo psichiatrico. Fin dalla sua prima edizione, del 1952, ha impegnato le migliori menti della disciplina per stabilire quali disturbi psichici includere e quali escludere dalla complessa classificazione. Quest’ultima versione, frutto di un lavoro di anni, ha coinvolto 600 specialisti ed è costata 25 milioni di dollari.
Molti disturbi sono stati eliminati, altri sono stati riformulati secondo nuovi criteri: nel sito dell’American Psychiatric Association si possono leggere le proposte di revisione dei disturbi di personalità che, semplificando, sono stati ridotti da 10 a 5. E mentre è rimasto il disturbo borderline di personalità, è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità. Una scelta che ha scatenato molte polemiche. Sull’American Journal of Psychiatry un gruppo di eminenti psichiatri americani e inglesi, fra cui Otto Kernberg, presidente della Società Psicoanalitica Internazionale, ha scritto che in questo modo non è più rappresentato adeguatamente lo spettro dei disturbi di personalità che si possono osservare.
D’altra parte il disturbo narcisistico di personalità ha ricevuto una minore attenzione nella ricerca clinica di questi anni: non è facile riconoscere "campioni" con caratteristiche generali anche perché non si dispone di metodi di indagine adeguati. A questo punto il clinico che tratta questi pazienti nel proprio studio non avrebbe un riferimento diagnostico a cui rifarsi. Ma resta importante chiedersi perché il disturbo narcisistico di personalità sia stato escluso nonostante il narcisismo patologico abbia rappresentato per molti decenni un tema centrale nel pensiero psicoanalitico fin dal saggio di Freud del 1914 Introduzione al narcisismo. Freud aveva messo in luce che il narcisismo, ossia l’investimento e l’amore per sé, permea la nostra vita quotidiana dall’amore dei genitori per il proprio figlio all’amore sentimentale fino alle preoccupazioni ipocondriache per la propria salute.
Nel corso degli anni il concetto di narcisismo ha assunto anche una dimensione sociale, riflettendo orientamenti e comportamenti quotidiani descritti dal sociologo americano Christopher Lasch nel suo famoso libro La cultura del narcisismo, del 1979. Lasch parlando della società americana di allora raccontava come si fossero affermati, con la caduta delle grandi ideologie, modelli di individualismo esasperato che spingevano verso le pratiche di autocoscienza o verso il culto del proprio corpo o verso la liberalizzazione sessuale, per sconfiggere le paure e le ossessioni della vecchiaia e della morte. Il libro di Lasch aveva anticipato tendenze che si sono via via affermate nel mondo occidentale, basti pensare alla pratica di Facebook attraverso cui ci si presenta agli occhi degli altri per confessarsi e ottenere conferme in un intreccio infinito che esalta la propria individualità.
Era questo il contesto in cui ha preso corpo il concetto di narcisismo patologico, caratterizzato da un senso grandioso di sé e dal costante bisogno di conferme da parte degli altri. Inevitabilmente la vita emotiva dei narcisisti è particolarmente povera e superficiale, con un bisogno di costanti rassicurazioni e una incapacità a provare empatia per gli altri, soprattutto per le loro sofferenze. Se il narcisismo è divenuto la coloritura fondamentale della vita quotidiana sfuma il confine fra normalità e patologia. È così diffuso nei comportamenti di tutti i giorni da divenire una costante della personalità umana, secondo l’affermazione dello psicoanalista americano Heinz Kohut. Il termine narcisista, poi, fa parte del lessico comune non solo negli scambi quotidiani con gli altri, ma anche per descrivere i comportamenti di molti governanti, presi solo dai propri interessi ed egoismi. Togliendo il disturbo narcisistico di personalità dalle classificazioni psichiatriche non si verrebbe inevitabilmente a sancire la normalità dei comportamenti dei politici e a giustificarli?
Non credo che queste considerazioni abbiano influenzato la task force che si è occupata dei disturbi di personalità. E allora in base a quali criteri è stata costruita la nuova classificazione? In primo luogo il panorama della ricerca psichiatrica è in rapida evoluzione, studi in campo genetico e neurobiologico stanno ridisegnando i confini dei disturbi psichici e allo stesso tempo occorrono evidenze forti per stabilire che un disturbo realmente esista. Rileggendo i casi clinici di Freud, ad esempio quelli di isteria, difficilmente si potrebbe fare oggi la stessa diagnosi di allora. E poi le scuole psichiatriche più prestigiose, soprattutto americane, vogliono ottenere un adeguato riconoscimento nella nuova classificazione del DSM. Dalla prima edizione si è verificato un profondo cambiamento del paradigma scientifico, da un modello psicoanalitico dominante negli anni ’50 a un approccio basato sulle evidenze, per cui una sindrome clinica, al pari delle malattie internistiche, può essere riconosciuta solo con indagini effettuate nella popolazione generale oppure in gruppi selezionati di pazienti che si rivolgono ai servizi psichiatrici.
Anche altre ragioni, meno scientifiche, pesano sulle decisioni di includere o escludere un disturbo, ad esempio il ruolo delle società di assicurazione americane che coprono le spese psichiatriche dei propri assistiti. Se si amplia troppo l’ambito dei disturbi psichici le assicurazioni dovrebbero affrontare costi crescenti. Infine vi è il ruolo ancora più importante delle industrie farmaceutiche. Qui l’interesse è esattamente il contrario, ossia allargare sempre di più l’ambito delle persone che fanno uso di psicofarmaci. Se la psichiatria dilata la definizione dei disturbi psichici la potenziale utenza può ampliarsi a dismisura, basti pensare che le prescrizioni di antidepressivi sono aumentate in Gran Bretagna del 171% nel decennio 1991-2001, dice il Department of Health.
È probabile che l’approccio farmacologico abbia influenzato anche la revisione nel DSM 5 dei disturbi di personalità. Nella nuova proposta rimane il disturbo borderline di personalità che viene curato con prolungati trattamenti farmacologici, mentre è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità, per cui venivano consigliati trattamenti psicoterapici. Ma forse il mondo sta cambiando: il narcisismo non solo aiuta a vivere, può addirittura, se assume un carattere di grandiosità personale, predisporre verso una carriera politica.
Il tuo commento è in attesa di moderazione Pier Pietro Brunelli maggio 17, 2010 a 18:42
Ringrazio i creatori e i partecipanti a questo blog e li invito ad interagire nel dibattito nel seguente blog di cui sono titolare come psicoterapeuta (particolarmente esperto ed attento alle vittime di persone affette da disturbo narcisistico di personalità) :http://albedoblog.wordpress.com/2010/03/27/bugiardi-ipocriti-manipolatori-affettivi-saperne-di-piu-per-potersi-difendere/
Inoltre pubblico il seguente mio articolo che sta riscontrando un notevole interesse. Cordiali saluti Pier Pietro Brunelli
IL TRAUMA DA NARCISISMO (TdN)
Tutti i narcisisti sono più o meno maligni a seconda della situazione, basti dire che si approfittano dell’amore altrui a scopo egoistico e manipolatorio. Tuttavia esistono tipologie particolarmente maligne di narcisismo. Si riconoscono perché non piangono mai o quasi mai, inoltre umiliano sadicamente il partner con molteplici modalità, specialmente quando la relazione si sta ultimando, allo scopo di distruggerlo moralmente. Come narra il mito di Narciso, il quale istigava i suoi ex-amanti al suicidio, purtroppo il narcisista maligno può giungere anche a questo. La malignità si puo’ esprimere anche attraverso denunce alla polizia per il solo fatto che il partner chiede una spiegazione. Inoltre la malignità si esprime anche attraverso la diffamazione del partner presso amici e anche persone che il partner-vittima non conosce. Le vittime di un narcisista è come se fossero state contagiate da un virus psichico (fortunatamente non è AIDS, ma qualcosa di simile sul piano mentale). Oppure è come se le vittime traumatizzate da un narcista fossero entrate in contatto con un potente veleno, ad esempio l’amianto, o scorie radiottive, e quindi sono intossicate Le persone infettate/intossicate da un narcisista attraverso una relazione perdono le loro difese immunitarie nei loro punti deboli, per cui i loro problemi psicologici si acuiscono pericolosamente. Vi è poi un forte crollo dell’autostima per cui ci si sente brutti, incapaci, insicuri in quanto appare inconcepibile di essere stati trattati con tanta violenza psicologica dalla persona amata. La sintomatologia della vittima - che io definisco come colpita da TRAUMA DA NARCISISMO (TdN) - può essere più o meno grave e va curata onde evitare peggioramenti. Va detto che quando si viene abbandonati si può subire un TRAUMA ABBANDONICO di maggiore o minore intensità, che è già di per sé assai doloroso e sconvolgente, ma se a questo si aggiunge il TdN TRAUMA DA NARCISISMO, la situazione diventa ancora più grave, in quanto il partner narcisista, oltre ad abbandonare, mira a distruggere, umiliare, ferire, offendere il partner che viene abbandonato. Quest’ultimo, cioè la vittima del narcisista, può sviluppare una vera e propria sindrome traumatica specifica, che negli Stati Uniti è stata già evidenziata da qualche anno, ma che in Italia non è ancora chiara. In pratica si pensa soltanto ad un trauma abbandonico e non si riesce a capire a diagnosticare che è qualcosa di assai peggiore, un TdN, appunto. La sindrome da TdN si caratterizza con un persistente stato d’angoscia e il pensiero ossessivo del fantasma del partner narcisista, del quale non si riesce a compredere la crudeltà. Ciò si accompagna con attacchi di panico, depressione, ansia, difficoltà a dormire, difficoltà ad alzarsi la mattina, sociofobia (paura degli altri), disturbi dell’alimentazione, comportamenti compulsivi (come guidare pericolosamente, o drogarsi e ubriacarsi, o fare abuso di farmaci), pensieri suicidari, difficoltà a stare da solo ma anche a stare in compagnia, disturbi della sfera sessuale, deterioramento delle relazioni familiari e delle amicizie (in quanto molti non capiscono e credono si tratti di una semplice storia d’amore finita, per la quale non si dovrebbe soffrire più di tanto), difficoltà nella vita lavorativa e nella capacità di concentrarsi, paura di luoghi e oggetti che rievocano il narcista traumatizzante. Queste sintomatologie possono protrarsi per molto tempo con il rischio di minare effettivamente anche la salute fisica, provocando quindi l’insorgere di patologie somatiche, funzionali ed organiche, che possono diventare anche gravi. Il narcisista, a seconda del suo grado di malignità (e quindi del suo potere infettivo) è un portatore di morte e, purtroppo, può perfino riuscire in tale macabro risultato e comunque giunge a ‘togliere anni di vita’, ovvero danneggia gravemente la vita di chi lo ha subito. Bisogna quindi capire che si è stati colpiti da una disgrazia, cioè da una vera e propria malattia di una certa entità, che comporta cure adeguate e un periodo di ricostituzione e riabilitazione. Innanzitutto bisogna eliminare le nostalgie amorose verso il narcisista, che appariva come una persona un po’ difficile, ma tuttavia amabile, e bisogna capire che invece si ha avuto a che fare con un vero e proprio squilibrato, con un portatore di serio disturbo di personalità (classifficato dal DSM, il più importante Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi mentali). Tale disturbo di personalità ha un decorso molto lento e il malato non ne è consapevole; egli si rende conto solo parzialmente della sua malignità, ma la giustifica in quanto crede che questa sia giusta, dato che gli serve per aumentare il suo potere e per vendicarsi del mondo in generale, mondo gli sembra non dargli mai quello che egli davvero meriterebbe.
Raramente i narcisisti sono curabili, a meno che una profonda crisi dovuta ad un lutto ad una disgrazia non li porti ad uno stato di depressione che li costringe ad una terapia. Ma ad un certo punto la malattia evolve, in genere prima della terza età, sviluppando disturbi di tipo schizoide, bipolari e ansioso depressivi che costringono il narcisista a doversi curare anche se poi si possono tuttalpiù contenere i sintomi. Bisogna quindi pensare che queste persone la pagheranno molto cara, ma anche che nella loro vita affettiva hanno fatto tanto male e quibndi meritano di pagarla. La vittima del narcisista deve assolutamente al piu’ presto liberarsi di un ‘oggetto interno malato’, cioè dell’immagine del narcisista amato che ha introiettato dentro di sé. Per fare ciò innanzitutto va capito che il persistere dell’attaccamento al narcisista, nonostante tutto il male che questi ha provocato, deriva dalla speranza che la guarigione del narcisista comporti anche la guarigione del fantasma del narcisista divenuto un oggetto interno malato. Tuttavia si tratta di una vana speranza, il narcisista non può guarire, bisogna quindi capire che ciò che deve guarire è il narcista introiettato, in quanto oggetto interno, quindi deve guarire una parte di sé che è stata infettata dal narcisista, indipendentemente dal destino di questi. Il partner narcisista, introiettato come oggetto d’amore malato ed infetto, è un fantasma persecutorio e angosciante che nella sofferenza tiene costantemente viva l’immagine del narcisista disgraziatamente amato. Si spera costantemente che esso/a guarisca e si crede che solo in tal modo si potrà guarire. Purtroppo non è così, il narcisista ha intaccato il nostro sistema immunitario psichico e ne ha compromesso le funzioni, anche se lui o lei guarisse (cosa come ho detto quasi impossibile), la vittima resterebbe comunque malata. Le vittime devono fare attenzione a non fare abuso di psicofarmaci che, talvolta le vengono proposti, in quanto il medico o lo psichiatra ‘scambia’ spesso la situazione per un crollo depressivo... MA NON E’ COSI’ , semmai e’ un crollo dell’autostima per cui gli antidepressivi non fanno effetto o possono solo attutire certi sintomi, ma in certi casi possono addirittura peggiorarli (a volte, ma sempre per un breve periodo e sotto controllo medico sono indicabili i ‘neurolettici’). E’ chiaro che anche la vittima ha a sua volta ha un problema latente, nel quale il narcisista è riuscito ad infiltrare i suoi influssi maligni, così tale problema latente si acuisce e viene fuori con maggior virulenza. Allora è importante differenziare la situazione e approfittare per capire che un conto sono i propri problemi personali venuti a galla (e sono da risolvere) e un conto sono quelli indotti dall’oggetto interno narcisista malato.
Quindi nei confronti dell’ex-partner narcisista bisogna cambiare atteggiamento emotivo, bisogna contenere il dispiacere di aver perso una persona amata, comprendendo che non ci si rendeva conto che quella persona era effettivamente una persona malata di mente. Ciò ovviamente dispiace molto, ma bisogna accettare la verità, altrimenti si rischia di impazzire. Infatti il narcisista durante tutto il rapporto è stato costantemente ambivalente, faceva il bello e il cattivo tempo, minacciava continui abbandoni, li metteva in atto e poi tornava, a tratti faceva l’affettuoso e a tratti diventava cattivo, questo andamento ambiguo e malsano che si è sopportato nel tempo ha reso la vittima emotivamente instabile ed insicura; poi quando la vittima viene abbandonata il narcisista con malignità più o meno sottile, dopo averla indebolita, mira a distruggerla. Questo bisogno di distruggere la vittima deriva dal fatto che il narcisista sa di essere stato cattivo (seppure non lo può ammettere) e non sopporta che la vittima gli rifletta la sua cattiveria in quanto ne è testimone, la subìsce e cerca di difendersi, di protestare, di fare chiarezza (...invano). Allora, poiché il narcisista non sopporta di essere considerato e di sentirsi cattivo (comunque di avere un lato cattivo, come tutti più o meno hanno), in quanto crede di essere un piccolo Dio in terra che, semmai gli altri cattivi e invidiosi, non comprendono - ha bisogno di distruggere le tracce, le prove ed anche il testimone della sua cattiveria; lo fa colpevolizzando la vittima, umiliandola, trattandola molto male. Infatti per il narcisista essere amati vuol dire potersi specchiare in uno specchio (il partner-vittima) nel quale lui/lei può ammirarsi in tutto il suo potere e bellezza; quando lo specchio (cioè la vittima) incomincia a fare presente che qualcosa non va o comunque ad opporsi a quelle che invece sono cattiverie, mancanze, ambivalenze del narcisista, quest’ultimo si altera sempre di più, ed essendo incapace di riconoscere i suoi errori (ciò lo mette in una crisi inconcepibile) o giammai di chiedere scusa, incomincia a credere che sia lo specchio il ‘vero cattivo’, cioè la stessa sua vittima, quindi fa un’operazione di ribaltamento proiettando la sua cattiveria sulla vittima, ed esercita tutta la sua cattiveria ed il suo odio per colpevolizzare la vittima (in certi casi, di maggior malignità, può persino criminalizzarla con denunce e querele e può perfino istigarla al suicidio). Lo specchio che gli serviva per ammirarsi va distrutto, fatto cadere in mille pezzi. E così infatti avviene, la vittima cade a pezzi, mentre il narcisista se ne va in giro a testa alta credendo di essere nel giusto e riesce perfino a divertirsi e apparentemente a stare bene, incurante dei danni che ha fatto, ed anzi addirittura sentendosi come un giustiziere che ha fatto bene a rovinare quella persona che, sì lo amava, ma che non era degna di lui/lei in quanto ha osato rispecchiargli le sue parti negative. Lo specchio che ha osato tanto, va quindi distrutto senza pietà. Dunque, è chiaro di chi stiamo parlando? con chi abbiamo avuto a che fare? Signore e Signori, come si dice comunemente, stiamo parlando di UN PAZZO/A! ne siamo stati infettati; non ci resta che curarci con pazienza e amore di se stessi. La pazzia non è da intendere solo come l’essere fuori dalla realtà, ma anche nelle sue forme lucide, che non alterano le funzioni cognitive o l’esame di realtà, ma che sono comunque pericolose per sé e per gli altri. Uno psicopatico serial killer, nella vita di tutti i giorni, sembra una persona assolutamente normale. Un narcisista di tipo maligno si differenzia dallo psicopatico perché non uccide, non esercita violenza diretta, ma comunque attua comportamenti volti a danneggiare tutti coloro che per errore si fidano di loro, nell’amore, nell’amicizia, nelle relazioni parentali. Si tratta quindi veramente di una forma di pazzia, la quale ha il potere di far impazzire chi ne viene ingenuamente a contatto.
Raccomando alle vittime da TdN di non cadere nell’abuso degli psicofarmaci (o di altro, alcol, fumo, droghe) e di rendersi conto che occorre un buon psicoterapeuta, o almeno persone capaci di comprendere a fondo (soprattutto che non credano che si tratta di un ‘semplice’ mal d’amore, di un trauma abbandonico). Se qualcuno che legge queste righe non se lo può permettere, io come psicoterapeuta posso sostenerlo un pochino anche attraverso questo blog, ma in verità occorre proprio una psicoterapia. State attenti a non tentare drastici cambiamenti di vita, non fate lunghi viaggi, non buttatevi tra le braccia di chiunque... se riuscite a capire che siete, purtroppo, veramente stati vittima di una persona malata & malefica (che avrà giustamente quel che si merita, in quanto non è che per la propria pazzia si possa liberamente danneggiare gli altri senza pagarala) allora siete già ad un buon punto per la guarigione. Tuttavia, purtroppo possono restare segni permanenti, infatti l’aver subito pesantemente l’influenza di un narcisista può compromettere in modo quasi irreparabile certe nostre sensibilità e funzioni, come nel DPTS (il Disturbo Post Traumatico da Stress che lasciava i militari reduci del Vietnam per tutta la vita destabilizzati). Nella pratica clinica e nella mia esperienza ho avuto modo di rilevare uno specifico TdN, e cioè un TRAUMA DA NARCISISMO, che richiede cure, solidarità, comprensione. Se il TRAUMA DA NARCISISMO viene curato e compreso, le ferite si cicatrizzano, resta il segno, ma diventa anche il segno della forza e della conoscenza. A mano a mano che si guarisce si comprende di come la propria conoscenza della vita sia aumentata, di come ci si sente meno egoisti e più sensibili alle sofferenze altrui, di come sia importante un amore vero ed equilibrato, raggiungibile solo se prima si raggiunge una buona comprensione di se stessi e si impara ad accettarsi per come si è ed a volersi bene. Allora l’incubo passerà, il ‘mostro’ non potrà più farvi alcun male, davanti a voi ci sarà davvero la prospettiva di un mondo migliore... Vi ricordo che per eventuali comunicazioni private potete scrivermi a pietro.brunelli@fastwebnet.it Pietro Brunelli Psicoterapeuta - Un abbraccio e coraggio! http://www.albedo-psicoteatro.com/PsicologiaIn
io sono vittima di un narcisita patologico. Sono una dipendente affettiva e non so se sono anche narcisita, ma sono sicura che piuttosto che far del male agli altri lo faccio a me stessa. Dopo 4 anni di rapporto sto tentanto di allontanarmi da questo vampiro , infatti sono 3 mesi che tengo duro e che non lo frequento piu’, ma lui purtroppo continua ad assillarmi, dice che gli manco e che mi vuole bene. Sono sicura pero’ che appena gli do un cenno per ritornare, lui è felice ma solo per il fatto che puo’ tenermi ancora sotto controllo - già sperimentato . Nel frattempo ci sono tutte le altre donne che deve tenere su, a suon di bugie manipolazioni e tradimenti. Ho passato questi anni ad entrare e uscire da questo rapporto, perchè appena lo frequentavo e sentivo la percezione dei suoi tradimenti mi si abbassava notevolmente l’autostima, mi sentivo brutta e non curata, non avevo piu’ risorse e lui in cambio mi diceva che non poteva stare con una così, senza iniziativa e con tanta depressione perchè altrimenti si deprimeva anche lui. Lui pero’ non mi ha mai lasciata. L’ho sempre fatto io. Devo dire pero’ che da piccolina non sono stata accudita da mio padre, e percio’ per un po’ di affetto dell’uomo sono disposta a vendermi anche per una caramella-
Per le crisi depressive a causa di lui interrompevo il rapporto per poi ritornarci dopo essermi risanata perchè mi sentivo piu’ forte. Ma poi si tornava sempre allo stesso punto di partenza. Mi chiedo a volte se la mia incapacità di accettare i tradimenti di lui - credo per lo piu’ sessuali che affettivi - sia dovuta alla mia infantile affettività, oppure se comunque è giusto non accettare e sono sulla strada giusta. Penso che accettare sarebbe meglio ( io pero’ non devo pedinarlo), pensando che lo fa solo per darsi un’emozione e nulla di piu’. l’affetto non centra nulla.
Ora non so che fare. La distanza con lui è durissima, devo mettermi in testa che è molto piu’ importante la mia salute e lo stare in piedi da sola , che la sua immagine e vicinanza.; ma da brava masochista e senzastima do’ sempre piu’ importanza agli altri che a me, pur di ottenere quello che mi serve. Soffro tantissimo con lui ma anche senza di lui. Prendo gli antidepressivi Noi vittime ci possiamo appellare ad un qualcosa per stare meglio? che ci faccia capire che anche se sentiamo la mancanza di questi narcisi e magari sono con altre donne in quel momento, possiamo dire: Beh tanto farà lo stesso con lei come a fatto con me. NON è IN GRADO DI COSTRUIRE E ANCHE LEI DIVENTERA’ UNA DELLE TANTE. Ma non credo che basti....... ci vuole una affermazione piu’ forte. Molte volte sto bene solo per il fatto che lui mi chiama e che magari penso che ci ritornerò insieme. E’ come se fosse una tregua al dolore che sento. Ma poi razionalmente dico di no.
AIUTO!
leggere le sue parole è stato illuminante. veramente. già di cose ne ho capite molte negli ultimi 3 anni. a seguito di un incontro con un narciso doc. non potevo immaginare esistessero questo tipo di personalità. ma ora mi accorgo che ce ne sono molte. e sinceramente analizzando negli anni i fatti un pò credo, che ognuno di noi, si possa riconoscere con qualche tratto. aver incontrato un uomo che ha tutti i tratti rilevabili in una personalità narcisistica veramente mi ha "inquinata". 3 ancora sto cercando di uscire dal tunnel.
l’uomo che ho avuto la sfortuna o fortuna non so ancora 3 anni fa
dall’inizio ha usato termini e frasi d’effetto. frasi con contenuti importanti, troppo importanti per un rapporto iniziato da pochissimo. questo già avrebbe dovuto suggerirmi qualcosa. poi la mia disponibilità, la mia verità, il mio voler esserci. il suo allontanarsi, il suo sparire. il porre sempre una barriera di fronte ad una mia concessione. per poi tornare docile a carino. quasi romantico. e io incapace di manifestare il mio fastidio per i suoi silenzi, il suo allontanarsi. e io incapace di capire che mi stavo già mettendo nei suoi panni senza essermi preoccupata ancora dei miei. i più importanti. sapevo di non star bene in quello stato di cose. poi il mio agire indispettito, quasi a voler manipolare. per avere una reazione per capire di essere qualcosa di speciale. e lui che gentilmente mi chiede di non essere ostile perché " lui è fatto così ". e io a capire il senso di questo. capire e accogliere, sempre. perché lui è gentile. si. troppo. tanto quanto è duro con i suoi silenzi. e il mio dolore aumenta. il mio senso di rabbia aumenta. ma soffocato tutto dalle sue frasi d’effetto: "ci sposiamo", "adottiamo un bambino", "per me sei importante", "come faccio a non vederti più". lui sempre più sicuro di avermi vicina. Io che ritorno ad essere accogliente. e poi il sesso. il volermi a tutti i costi. e poi basta. le settimane scorrono senza sentire il suo desiderio di volermi vicina. poi di nuovo, improvvisamente, un ritorno e siamo "noi" per pochi istanti. poi ancora il vuoto. e poi ancora il ritorno. un’intimità a intermittenza che mi sfinisce e che non posso vivere. che mi fa male. un sentimento che non può che perdere di significato in questo accendi e spegni. ma che rappresenta la sua incapacità di sentire e la sua attitudine a palettare quello che dovrebbe essere la gioia della vita: un sentimento per qualcuno. che forse quindi non c’è un sentimento. sicuramente non c’è. è bramosia, è narcisismo, è ricerca di affermazione, è insicurezza. forse tutto questo insieme. allora? io non posso alimentare la mia dipendenza. si. perchè forse è una dipendenza. credere che sia amore è la trappola. sentire il desiderio nella distanza è la trappola. credere che le parole corrispondano al suo sentimento è la trappola. e non riesci più a vedere se le azioni poi corrispondono alle parole. no. le azioni non ci sono. e allora? aspettare ancora? si. esserci ancora ? si. credere ancora ? no. ma aspetti. E’ lui crede di poter fare. e io lo lascio fare. fino ai miei eclatanti rifiuti di questa relazione non-relazione, di questa amicizia camuffata da relazione, camuffata da amicizia. e poi i suoi ritorni con l’istinto di volermi a tutti i costi per poi scappare di nuovo. il suo dimostrare a sé stesso che tutto è perfetto. perché l’alibi perfetto è sempre latente: "io non riesco a coinvolgermi, sono un instabile, un egoista" certo, così è più facile dire "te lo avevo detto!" e poi ancora il cercarmi, il suo bisogno di riempire una serata ma non di passarla necessariamente con me. i suoi messaggi un pò romantici e un pò seduttivi quasi a voler significare "le provo tutte". e ancora i miei rifiuti. per non sentirmi condizionata, occupata, colonizzata dal pensiero di lui. per riuscire a a non sentirlo un investimento troppo esclusivo. ma anche i miei messaggi gentili per provocarlo e i suoi silenzi per provocarmi. e ora ? la mia indifferenza ? ci riuscirò ?