Spagna, in piazza ad oltranza
Sul voto il segno degli «indignati»
Presidio da quattro giorni e quattro notti nelle maggiori città della penisola iberica
Reazione dei partiti. I conservatori accusano il Movimento «M-15» di vicinanza alla sinistra
In più di 40 piazze spagnole dilaga la protesta per l’enorme disoccupazione e contro la politica. Organizzata sotto la sigla «Democrácia Real Ya» (Democrazia Reale Subito) ha coinvolto decine di migliaia di persone.
di Claudia Cucchiarato (l’Unità, 19.05.2011)
«Organizziamoci!», la parola d’ordine dopo quattro giorni di manifestazioni, più o meno spontanee, diventa un imperativo rivolto a ottenere ascolto, presso i politici, i media e i cittadini. Sono persone di tutte le età: pensionati, studenti, casalinghe, milleuristi, cassintegrati, delusi, indignati, e ora anche organizzati. In più di 40 piazze spagnole dilaga la protesta che qualcuno ha già battezzato «Primavera», simile a quella del Nordafrica.
Tutto iniziò il 15 maggio, traendo spunto dall’anziano guru francese Stéphane Hessel, che con il suo libro Indignatevi! ha acceso gli animi di moltissimi giovani del vecchio continente, soprattuto in Spagna, dove la disoccupazione ha raggiunto livelli esorbitanti. Anche in questo caso, Facebook, Twitter e blog sono stati decisivi per la mobilitazione. Decine di migliaia di cittadini si sono riversati in strada, con cartelloni contro lo scollamento tra politica e interessi dei cittadini, contro l’attuale legge elettorale, per una maggiore responsabilizzazione di chi governa nei confronti dei problemi della popolazione.
Le manifestazioni erano state organizzate dalla piattaforma «Democrácia Real Ya» (Democrazia Reale Subito), anche detta DRY. Che, però, a secco non è rimasta, anzi. L’entusiasmo, mescolato alla rabbia, ha spinto centinaia di persone a rimanere nelle piazze occupandole pacificamente giorno e notte. A Barcellona 400 persone da lunedì sera fanno i turni e compiti per mantenere organizzata e pulita la centralissima Plaça Catalunya.
A Siviglia, Malaga, Saragozza, Bilbao e molte altre cittadine di provincia le piazze sono state rivestite con scatoloni e tende per accogliere le decine di manifestanti. Solo a Granada si sono registrati incidenti, nella notte tra martedì e mercoledì, con il fermo di quattro manifestanti. Ma il cuore pulsante della concentrazione è nel cosiddetto “chilometro zero”: nel centro esatto del paese, la Puerta del Sol di Madrid, da domenica si concentrano gli obiettivi di fotografi e telecamere. Pensionati scambiano opinioni e consigli con studenti e massaie.
A chi si avvicina per chiedere informazioni, tirano fuori la bolletta della luce e l’ultimo stipendio: «Non arrivo a fine mese, e questo non interessa un piffero a quelli che stanno lì dentro», dicono puntando il dito verso la sede della Comunità di Madrid.
Tra i cartelli più ironici: «Poco pane per così tanti salami». Nonostante la Giunta Elettorale della Provincia di Madrid abbia rifiutato l’autorizzazione alla manifestazione, vista la prossimità con uno degli appuntamenti elettorali più importanti dell’ anno, loro si preparano a rimanere in piazza. Organizzati, mantengono riunioni e assemblee ogni pomeriggio fino a domenica. Il “Movimento 15-M”, in allusione al giorno in cui è nato, è già diventato la notizia principale di tutti i giornali e i tg.
LE ELEZIONI DI DOMENICA
Domenica si svolgeranno elezioni amministrative in quasi tutte le Regioni e città della penisola. Così, anche i partiti hanno iniziato a reagire. Esperanza Aguirre, presidente conservatrice della Comunità di Madrid, ha stigmatizzato il movimento, accusandolo di vincoli con la sinistra. «Non siamo un partito, non vogliamo immischiarci nella politica», ha risposto il movimento.
Un grido che ricorda gli inizi del Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo. Proprio Grillo è sbarcato ieri sera a Barcellona per uno spettacolo organizzato dall’associazione ItaliaES e da TiJEvents. Al vedere tanti giovani in piazza Catalunya «organizzarsi», ha portato la sua solidarietà. Chissà se anche quest’onda andrà oltre la tornata elettorale di domenica. Per ora rimane un avviso soprattutto per i partiti progressisti che, secondo i sondaggi, partono svantaggiati un po’ ovunque, anche a Barcellona, dove per la prima volta dal ritorno della democrazia in Spagna potrebbe imporsi un sindaco di centrodestra.
Accampati a Madrid come al Cairo
Migliaia di giovani protestano a Puerta del Sol contro l’austerità
di Elisabetta Rosaspina (Corriere della Sera, 19.05.2011)
Le ambizioni sono realistiche: tenere duro fino a domenica prossima, giorno di elezioni amministrative anche in Spagna. Ma il movimento «15M» , cioè 15 maggio, la data del corteo di «indignados» , indignati anti-sistema che l’ha partorito, ha già superato le sue stesse aspettative, guadagnandosi tutta l’attenzione nelle ultime, cruciali giornate della campagna elettorale.
Oltre alla stupefatta preoccupazione dei partiti in gara, ormai consapevoli che sarebbe più astuto adottarlo che castigarlo. Se fosse possibile. Ma il neonato è figlio solamente di Internet e di una ribellione che s’ispira liberamente all’ira dei sacri venerdì arabi: silenziosamente convocati dalla rete, via Twitter, Facebook o email, migliaia di manifestanti si concentrano ogni sera, da domenica scorsa, alla Puerta del Sol di Madrid, il «chilometro zero» che abitualmente segna l’ombelico della Spagna e che in queste ore pilota a distanza raduni analoghi a Barcellona, a Granada, a Saragozza e in un’altra quarantina di città iberiche.
Il tiranno da combattere non ha un volto, né un nome: è in questo caso un elenco di misfatti attribuiti ai partiti, alle banche, alla legge elettorale e al bipolarismo che ne scaturisce al governo, escludendo tutti gli altri dal ping pong. Neanche il leader della protesta ha un volto e, al momento, sembra proprio non esserci: «Decidiamo giorno per giorno, in modo assembleare - spiegano al banchetto delegato alla comunicazione - è soltanto la piazza che comanda qui» .
All’alba di lunedì la polizia l’ha sgomberata, ma la sera stessa si è formata una folla ancora più numerosa che ha sconsigliato alle autorità di ricorrere alle maniere dure. Tanto è bastato perché venissero piantate le prime tende per la prima di varie notti e che cominciassero a organizzarsi gli spazi: qui il centro stampa, là lo studio volante dell’avvocato di guardia, nella fattispecie Ignacio Trillo, per tutela legale, qui il laboratorio di manifesti e cartelloni, là l’ufficio turni per le pulizie. Non mancano nemmeno l’infermeria e il deposito di oggetti smarriti.
Manca invece un’idea definitiva sul nome del movimento, nato come «Democracia real ya» , democrazia vera ora, dal nome di una piattaforma di associazioni e ong. E adesso identificato con la sigla di una data, il 15 maggio. «È una protesta pacifica, non politica» , viene ripetuto a spettatori e partecipanti, ma senza che ciò riesca a rassicurare la giunta elettorale provinciale di Madrid che ha bocciato ieri pomeriggio la manifestazione fissata per le otto di sera e tutte quelle a venire, fino a domenica: secondo gli arbitri elettorali, questo tipo di concentrazioni pregiudica il regolare svolgimento della campagna e finirebbe per violare il diritto dei cittadini alla libertà di voto e la pausa di riflessione precedente l’apertura delle urne. La risposta, prevedibile, è stata: «Di qui non ci muoviamo».
Inclassificabili, e fieri di esserlo, gli occupanti evitano bandiere e distintivi, sanno che è il modo migliore per coagulare il malcontento trasversale della popolazione, a prescindere dall’età, dal ceto, dalle ideologie. Negano anche di propugnare l’astensionismo, ma se la prendono indistintamente con il potere: «Siamo anti-sistema, sì, è evidente - riconosce Cristina, 46 anni, intervenendo in un dibattito alla radio nazionale e sintetizzando il comune denominatore in piazza -. I giovani sono contro il sistema, perché il sistema li ha lasciati fuori. I politici e i banchieri, che ora stanno tagliando i diritti costati sangue e lacrime ai nostri padri e nonni, sono quelli che stanno convertendo i nostri figli in antisistema. Ma i giovani non sono soli, siamo in tanti a rivendicare un mondo migliore e più equo» .
A 140 caratteri alla volta, messaggi e istruzioni rimbalzano in tutte le regioni spagnole, come telegrammi istantanei, alimentati dal timore di un intervento della polizia: a Madrid, gli agenti si limitano a controllare il contenuto di zaini e borse, ma senza impedire l’accesso alla Puerta del Sol. Non c’è comizio in Spagna più illuminato dai riflettori di questo.
Spagna, la rivolta degli indignati
giovani in piazza contro Zapatero
Giovani e "indignados" a migliaia in sit-in a Madrid
"Qui come a piazza Tahrir"
Sfida al divieto di manifestare: domenica voto ad alta tensione
Alla vigilia delle amministrative Zapatero e i socialisti verso la sconfitta
di Omero Ciai (la Repubblica, 19.05.2011)
MADRID - Nonostante il divieto di manifestare, a migliaia sono scesi in piazza a Madrid per protestare contro la crisi, il sistema politico, la corruzione e la "collusione" tra politica e banche. Sono gli "indignados", movimento pacifico di giovani che protesta anche in altre città del paese.
«Non siamo antisistema è il sistema che è contro di noi», dicono migliaia di giovani che da giorni occupano il centro di Madrid. Non ci sono leader, né partiti, né sindacati, la forza che ha trascinato migliaia di persone a protestare nella capitale e in tutta la Spagna alla vigilia delle elezioni amministrative è la disperazione dei senza futuro. Crisi, economia stagnante e un tasso di disoccupazione che, tra coloro che sono in cerca di prima occupazione, supera il 40 percento: sono la fotografia di quella che gli economisti definiscono «generazione perduta». I social network hanno fatto il resto trasformando angoscia e malcontento in un fiume di rabbia che, come in Egitto e in Tunisia, ha trovato le sue piazze. La storica Puerta del Sol, nel centro di Madrid, e Plaza de Catalunya a Barcellona. «È il virus di piazza Tahrir che sbarca in Europa», scrivono i commentatori spagnoli.
Ieri, al terzo giorno di manifestazioni spontanee convocate via Twitter e Facebook, la Giunta elettorale ha negato l’accesso alla Puerta del Sol perché la protesta «può limitare l’esercizio della libertà di voto e la campagna elettorale» delle elezioni regionali e amministrative che si terranno domenica prossima. Ma migliaia di giovani hanno sfidato il divieto e i cordoni della polizia. Si sentono schiacciati dalla crisi, dalla precarietà e denunciano una disoccupazione al 21% nel paese, 44% per i minori di 25 anni.
Sono studenti, disoccupati, casalinghe e si riconoscono in una piattaforma «Democracia real ya» (Vera democrazia subito) e nel movimento «15 Maggio»; chiedono una «democrazia partecipativa», e rifiutano un sistema politico dominato dal bipartitismo socialisti (Psoe)-conservatori (Pp), che vedono nelle mani di una casta nella quale serpeggia la corruzione. Le rivendicazioni esposte nei loro cartelli colorati vanno in tutte le direzioni. «Con l’euro le banche sono 4 volte più ricche» spiega un manifesto che enumera le differenze di prezzi fra il 1999 e il 2011. Altri riprendono la poesia del maggio francese nel ‘68: «Se non ci lasciate sognare, noi non vi faremo dormire», annuncia un pezzo di cartone. «Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri», accusa un foglio rosso. «Abbiamo il diritto di indignarci», dice un altro.
La protesta degli «indignados» si è estesa un po’ in tutto il paese. I partiti stanno a guardare colti di sorpresa alla vigilia di un voto che nelle previsioni dovrebbe cambiare lo scenario a favore del centro-destra, oggi all’opposizione. Il principale obiettivo della protesta sociale è il premier socialista Zapatero, al governo dal 2004, colpevole - secondo gli «indignati» - di non aver saputo reagire ad una crisi che in Spagna per l’anno in corso prevede una crescita irrisoria del Pil (lo 0,8%). Zapatero ha già annunciato che non si candiderà alle politiche nel 2012, ma sul banco degli accusati c’è tutta la classe politica, di destra e di sinistra.
Sul tema, nel sito, si cfr. (cliccare sui titoli, per andare ai testi):
Storia e attualità.
Il ritorno a casa dei Sefarditi, cinque secoli dopo
Si è chiuso il procedimento avviato da una legge del 2014 che ha consentito ai discendenti degli ebrei cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo di “riacquisire” la "perduta" cittadinanza iberica
di Paola Del Vecchio (Avvenire, sabato 12 ottobre 2019)
Il colombiano Andrés Villegas spera di trascorrere «una gradevole vecchiaia » in Spagna. E per questo non gli è costato spulciare nei registri ecclesiastici e perfino negli archivi dell’Inquisizione di Cartagena, che condannava chi praticava riti ebraici, per risalire ai suoi avi. In particolare al capitano Cristobál Gómez de Castro, che nacque nel 1595 e fu perseguitato per diffondere l’ebraismo.
Andrés Villegas è uno delle decine di migliaia di ebrei sefarditi che recupereranno la nazionalità spagnola persa oltre cinque secoli fa dai propri ascendenti, cacciati in massa per effetto dell’editto di conversione al cattolicesimo o di espulsione degli ebrei (Decreto di Alhambra), firmato il 31 marzo del 1492 dai Re Cattolici. È all’origine della diaspora che pose fine a 1.500 anni di presenza degli ebrei a Sefarad, il toponimo col quale la tradizione ebraica identificava la penisola iberica, per cui i discendenti sono identificati come ebrei sefarditi.
Molti si rifugiarono nell’adiacente Portogallo, in nord Africa, nei Balcani, in Turchia, ma anche in Sardegna e Sicilia, sotto il dominio spagnolo, e poi nelle Americhe. «Alcuni di loro, come avviene nei bazar di Istanbul, ancora conservano le chiavi delle case dalle quali furono cacciati», ricorda Ibrahim Lorenz, sefardita marocchino naturalizzato spagnolo.
Per riparare quella «ingiustizia storica», il governo di Madrid varò nel 2014 un disegno di legge per riconoscere la nazionalità - senza perdere quella d’origine - a tutti coloro in grado di dimostrare, con un certificato della Federazione delle comunità ebraiche in Spagna o dell’autorità rabbinica riconosciuta nel proprio Paese, la propria condizione di sefarditi per cognome, lingua, parentela e vincoli speciali con la cultura sefardita. La normativa, approvata all’unanimità dal Parlamento, puntava a «riparare un aggravio storico».
Il primo ottobre scorso, alla scadenza del termine previsto dalla normativa, sono state 149.822 le richieste pervenute al Ministero di giustizia e al Consiglio generale del notariato, delle quali oltre 72 mila nel solo ultimo mese, in gran parte provenienti dall’America Latina: circa 20 mila dal Messico, 15 mila dal Venezuela e 10 mila dalla Colombia. «I sefarditi non sono più ’spagnoli senza patria’», ha celebrato Isaac Querub, presidente della Federazione di comunità ebraiche, promotrice dell’iniziativa con l’allora ministro di Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardon. «La Spagna ha chiuso una ferita storica con un atto di giustizia perdurante nella memoria», ha rilevato.
Un rush finale per quello che è stato un percorso ad ostacoli, «relativamente difficile », secondo il quotidiano israeliano "Haaretz". Con la proroga di un anno della dead line, sono stati infatti semplificati alcuni dei requisiti richiesti. Non solo per la difficoltà delle comunità ebraiche di evadere le numerosissime petizioni, ma anche per la necessità di sostenere esami all’Istituto Cervantes, per accreditare la conoscenza di lingua e cultura spagnola. Più di tutto, l’esigenza di doversi recare in Spagna per registrare in atto notarile l’origine sefardita ha rappresentato un ostacolo per i circa 2 milioni di sefarditi stimati inizialmente da Madrid come eredi degli almeno 200 mila deportati e dispersi nel XV secolo.
«Nello spirito della legge c’è una sorta di risarcimento storico, per compensare la sofferenza che i sefarditi hanno manifestato nei secoli nella propria letteratura, poesia e canzoni», spiega Santiago Palacios, dottore di Storia Medievale all’Università Autonoma di Madrid. «Ma - afferma - è puramente simbolico. Colpisce che non sia stato avviato lo stesso processo con i moreschi, che soffrirono le stesse persecuzioni, per la comunità musulmana oggi radicata in prevalenza nel Magreb».
Per alcuni, come Doreen Alhadeff, statunitense di 69 anni di Seattle, che ha ottenuto la nazionalità per sé e le due nipoti, è stato più facile. In casa ascoltava parlare ladino, lo spagnolo che dal Medioevo le comunità sefardite ancora conservano. «Sentivo che era stato tolto qualcosa di importante alla mia famiglia e volevo recuperarlo», ha scritto nelle sue motivazioni.
Per altri, come lo scrittore francese Pierre Assouline, è stato più difficile. «Ho amici francesi che hanno ottenuto il passaporto spagnolo in maniera più rapida, è deludente», spiega l’autore, che nel suo dossier ha incluso una lettera al re Felipe VI.
La misura di «riconciliazione» consente di avere un passaporto europeo che, per molti latinoamericani, è il principale obiettivo. Da qui la corsa finale.
Già nel 2007 il governo socialista di Zapatero lanciò un’iniziativa di ’riparazione’ nei confronti dei discendenti di spagnoli emigrati durante la Guerra civile (1936-39) e il franchismo, naturalizzando mezzo milione di latinoamericani che riuscirono a provare la loro discendenza dagli esiliati.
Spagna, verso il nuovo governo Sanchez: 11 donne e 6 uomini
Vicepremier Carmen Calvo, c’è anche un astronauta
di Redazione ANSA *
MADRID. Il premier spagnolo Pedro Sanchez ha annunciato nella sua prima dichiarazione ufficiale dal Palazzo della Moncloa che nel nuovo governo di Madrid "per la prima volta dal ritorno della democrazia ci sono più donne che uomini, 11 su 17". L’Uguaglianza, di responsabilità della vicepremier Carmen Calvo, sarà una "autentica priorità del governo", ha aggiunto.
Questi secondo la stampa i nomi dei probabili nuovi ministri: - Presidente del governo, Pedro Sanchez. - Vicepremier, Carmen Calvo, ministro dell’Uguaglianza. - Giustizia, Dolores Delgado. - Finanze, Maria Jesus Montero. - Economia, Nadia Calvino. - Esteri, Josep Borrell. - Interni, Margarita Robles. - Difesa, Constantin Mendez - Amministrazione Territoriale, Meritxell Batet. - Investimenti, José Luis Abalos. - Educazione, Isabel Celaà. - Scienza, Università, Pedro Duque. - Lavoro, Magdalena Valerio. - Sanità, Carmen Monton. - Ambiente, Teresa Ribera. Mancano i nomi del nuovo responsabile della Cultura e del Portavoce del governo.
* ANSA 06 giugno 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Per un giorno il mondo parla spagnolo
Novecento città unite nella protesta nata 5 mesi fa a Madrid
Il mondo parla con inconfondibile accento spagnolo. Sono più di novecento le città di oltre 80 paesi dei cinque continenti che oggi scenderanno in piazza rispondendo a un appello venuto da lontano.
di Manuel Anselmi, Alessandro Oppes e Angela Vitaliano (il Fatto, 15.10.2011)
MADRID Era il 30 maggio, appena due settimane dopo la nascita del movimento degli “indignados”, quando nel clima di euforia della Puerta del Sol, fra tende da campeggio, gruppi di lavoro e assemblee permanenti, nacque l’idea un po’ folle di trasformare una protesta locale in manifestazione planetaria. Lo slogan globale venne scandido la prima volta nelle piazze di Spagna il 15 maggio: “Uniti per un cambiamento globale. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri, loro non ci rappresentano”. Parole concordate nell’assemblea preparatoria che, nei giorni scorsi, ha riunito a Barcellona i rappresentanti di una quindicina di paesi.
In Spagna saranno oltre 60 le città che scenderanno in piazza, ma il cuore della protesta sarà, ancora una volta, la Puerta del Sol, dove tutto prese il via in un pomeriggio di primavera, a pochi giorni dalle elezioni amministrative che segnarono la disfatta del Psoe di Zapatero. Anche questa volta, ci sono elezioni in vista: manca un mese alle politiche. Ma loro, gli “indignados” di Spagna, ripetono: “Non ci interessa. Questi politici non ci rappresentano”.
NEW YORK Alla fine, gli “indignados” di Wall Street si sono armati, ma solo di scope, disinfettanti e strumenti da giardinaggio per rifare un po’ il make up delle aiuole di Zuccotti Park. La decisione degli occupanti è scattata dopo che il sindaco Bloomberg, giovedì sera, aveva annunciato che ieri mattina, alle 7, gli addetti alla sanitation si sarebbero recati nell’area per il regolare lavoro di pulizia che, da circa un mese, non viene effettuato proprio per la protesta in atto. Il sindaco, che aveva fatto una visita a “sorpresa” agli “occupanti”, spiegando che Zuccotti Park doveva essere sgomberato prima dell’arrivo degli spazzini, aveva provato anche a rassicurarli sul fatto che, subito dopo, la protesta avrebbe potuto ricominciare regolarmente. Un’ipotesi che, però, non è andata giù ai ragazzi che temevano la messa in atto di regole ancor più restrittive, come il divieto di utilizzo di sacchi a pelo, unica difesa contro il freddo e la pioggia che nella notte di giovedì è caduta copiosa. Intanto per oggi, è prevista una mobilitazione degli studenti delle scuole di ogni grado, in supporto all’occupazione di Zuccotti Park la cui onda d’urto non accenna a diminuire.
SANTIAGO Sono giovani, sono comuniste e sono donne. Hanno dei ruoli di dirigente, di portavoce, di responsabili. L’opinione pubblica mondiale, conosce soprattutto il nome di Camila Vallejo. Soprattutto grazie alla sua bellezza. Ma la Vallejo il 15 novembre, data della rielezione del portavoce della Confech, la confederazione dei movimenti universitari, molto probabilmente lascerà. Forse sparirà nell’anonimato come molti suoi predecessori, forse, come invece spera il Pc cileno che l’ha già inserita nel coordinamento nazionale del partito, continuerà a fare politica. Di sicuro, dietro di lei, tra le fila de movimento, ci sono tante ragazze pronte a prendere il suo posto. Come Camila Donato, Daniela Serrano o come Karola Carioli. Ancora più giovani della già giovane Vallejo. È singolare che molte di loro si chiamano Camila, qualcuno ipotizza in onore di Camilo Cienfuegos, il compagno di lotta di Fidel Castro morto per un incidente subito dopo la rivoluzione. Di sicuro molte di queste ragazze vengono da famiglie di comunisti che hanno sopportato duramente gli anni della dittatura di Pinochet.
SPAGNA
A piedi da Barcellona a Madrid
La marcia degli indignados
Un cammino lungo 29 giorni con altrettante tappe in città del Paese. Lo scopo dei partecipanti è quello di raccogliere altri compagni: sarà "una nuova iniziativa per far recepire l’indignazione". Il 24 luglio una grande manifestazione nella capitale *
BARCELLONA - Non si sono lasciati spaventare dal caldo afoso e, zaino in spalla, hanno iniziato il loro cammino verso la capitale. Una cinquantina di ’indignados’ spagnoli hanno lasciato stamani Barcellona per raggiungere Madrid a piedi: 652 chilometri in 29 giorni per ritrovarsi, insieme ad altre marce partite da Valencia e Cadice, nella capitale spagnola per una grande manifestazione il 24 luglio.
Nel loro viaggio attraverso la Spagna, i giovani di Barcellona si fermeranno in 29 città e paesini per raccogliere altri compagni: sarà "una nuova tappa per far recepire l’indignazione", ha detto David, uno degli organizzatori. In questa prima giornata di cammino, i ragazzi catalani, partiti alle 7 tra gli applausi dei passanti, si fermeranno a Esplugues de Llobregat e hanno previsto di passare la notte a Vallirana. Ogni sera, ad ogni tappa, si terrà un’assemblea, sottolinea un comunicato distribuito dagli ’indignados’ di Barcellona, "perché crediamo che camminare sia un modo per scambiarsi idee, ascoltare, costruire dei domani allo stesso tempo numerosi e diversi, uniti dalla stessa indignazione".
Il gruppo è assistito da un’equipe composta da un medico e da un’infermiera disoccupati. "Ci siamo preparati a ogni tipo di emergenza", ha spiegato il dottor Alvaro, con "medicine e tutto quello che può servire sopratutto a prevenire".
Ispirato dalla primavera araba, il movimento dei giovani ’indignati’ è nato spontaneamente il 15 maggio 1 per denunciare la corruzione della politica e rivendicare il diritto al lavoro e le proprie aspirazioni per un futuro migliore. E dopo lo smantellamento, il 12 giugno scorso, del loro accampamento alla Puerta del Sol a Madrid, i giovani "indignados" vogliono consolidare il loro movimento attraverso assemblee popolari e manifestazioni periodiche. Domenica scorsa almeno 200 mila persone hanno manifestato in tutta la Spagna, nella prima grande mobilitazione del movimento, contro la disoccupazione e la crisi economica.
* la Repubblica, 25 giugno 2011
Superare le piazze
di Santiago López Petit *
Santiago López Petit, docente di Storia della Filosofia presso l’università di Barcellona e promotore, con altri, del movimento Espai en Blanc, è tra gli intellettuali più apprezzati nel movimento M15. Pubblichiamo un suo articolo molto discusso in queste ore nelle acapampadas spagnole, da Barcellona a Madrid.
1. Il movimento 15M che si è manifestato in questi giorni segna la fine di un lungo periodo di obbedienza e di sottomissione. Occupare la piazza è stato il gesto radicale - promosso in molte città - che ci ha permesso di lanciare il grido collettivo di «Basta. Vogliamo vivere». Abbiamo smesso di avere paura. Insieme abbiamo attraversato l’impotenza e la solitudine.
2. Abbiamo imparato a organizzare, prendere decisioni insieme, a vivere in strada e abbiamo vissuto per strada. L’intelligenza collettiva è stata straordinaria e ha permesso di realizzare ciò che appariva impossibile: creare un altro mondo all’interno di questo mondo, ma anche contro questo mondo di miseria morale ed economica. Siamo riusciti ad auto-organizzare un buco nero incomprensibile al potere, che ha paura. Il potere teme ciò che non può capire, e quindi, controllare.
3. La novità fondamentale del nostro movimento è che non si costruisce in fabbrica, ma riunisce e condivide il disagio di ognuno. Non andiamo nella piazza occupata come lavoratori, cittadini... ma ci si lasciamo alle spalle ogni identità. Siamo noi stessi più che in qualsiasi altro luogo, allo stesso tempo siamo parti singole di una forza anonima, una forza di vita che vuole andare oltre ciò che è noto.
4. Il «Noi» che si è formato non pre-esisteva, non era latente, ma è emerso nel momento in cui abbiamo occupato la piazza. Per questo è un Noi aperto, aperto a chiunque vuole entrare e farne parte. Nella piazza abbiamo imparato a coniugare l’espressione «fare politica», e lo spazio stesso è stato quello che ha permesso il coordinamento dei differenti modi di «fare politica», che si presentano necessariamente nel corso del tempo. È emerso il rumore di sottofondo del silenzio del potere. Noi siamo i volti di questo rumore che si è concluso con il silenzio del cimitero.
5. Occupare le piazze significa prima di tutto prendere parola. Ma la parola, il discorso non è tanto ciò che si dice quanto ciò che viene fatto. Nelle piazze occupate la cosa più importante è quello che viene fatto e come viene fatto. Di certo, così è stato. A volte, però, poco a poco il potere ci ha dato un modo di lavorare [commissioni, sottocommissioni, il consenso...] ed è diventato un vero e proprio freno. Da un lato, un’organizzazione così divisa, anche se può essere efficace, favorisce la dispersione, la perdita di contenuti essenziali e, soprattutto, una profonda arbitrarietà che finisce per essere paralizzante. D’altra parte, il consenso deve essere un mezzo, mai un fine, altrimenti decisioni politiche improrogabili non possono essere prese. Lo stare insieme non può essere misurato in unità di consenso.
6. Ora il problema è come proseguire il movimento appena nato. C’è qualcosa che giorno per giorno osserviamo: se non andiamo avanti, necessariamente torniamo indietro. E questo perché la posizione che abbiamo raggiunto occupando le piazze viene compromessa sia dal ritorno alla ribalta di scelte personali, cioè un proliferare completamente soggettivo di interessi che eravamo riusciti isolare, sia per la campagna di diffamazione [«15 M è pericoloso», «provoca danni»...] orchestrata dai media ufficiali.
7. Il problema non è abbandonare o meno la piazza. Il problema è come ci muoviamo in avanti con un movimento che è stato il più importante degli ultimi anni e sicuramente ha aperto un ciclo di lotte. In Plaza de Catalunya hanno gridato più volte «Qui comincia la rivoluzione». Forse dovremmo prendere sul serio queste parole. Quando diciamo «noi non siamo merce», «nessuno ci rappresenta» o altre espressioni simili stiamo costruendo un discorso rivoluzionario, che mina l’essenza di questo sistema. Il problema non è abbandonare o meno la piazza. Il problema è se abbiamo il coraggio di passare da «indignati» a «rivoluzionari».
8. Come indignati sapevamo di dover attaccare prima di chiunque altro i politici e banchieri. Questa intuizione è stata giusta con particolare riferimento ai primi. Il sottosistema politico che funziona con il codice «governo/opposizione» è molto facile da attaccare. È sufficiente affermare coerentemente «nessuno ci rappresenta» per provocare il corto circuito dei codici fondamentali che organizzano la realtà. Non è un caso se è cresciuta la delegittimazione dello Stato. Invece non siamo riusciti a erodere il codice di «avere/non avere i soldi» che governa il sottosistema economico. Né, ovviamente, abbiamo saputo affrontare la crisi e usare la crisi come una modalità di governo.
9. Per questo motivo il movimento delle «occupazioni delle piazze» è destinato a fare un salto oppure a restare all’interno di una bolla di autocompiacimento fatta di opzioni di avvio; la delegittimazioni della politica da sola non sarà in grado ma di aprire un altro mondo. Essa deve affrontare tutta la realtà, questa realtà completamente capitalista e soffocante. Fare un salto vuol dire avere il coraggio di essere rivoluzionario. Più precisamente. Avere il coraggio di immaginare che cosa vuol dire essere rivoluzionari oggi.
10. Il problema non è abbandonare o meno la piazza. Il problema è come superiamo la piazza, e quindi dobbiamo pensare non solo come indignati ma come rivoluzionari. Di fronte a una realtà [il capitalismo] che è essenzialmente depoliticizzante perché consente di replicare il conflitto e nasconde il nemico, perché aumenta costantemente le sue dimensioni in modo che l’ovvio si imponga, l’unico modo è difendere il fare politica, «quando non c’è nulla di politico tutto è politica». Superare la piazza è coniugare collettivamente l’espressione «fare politica», dobbiamo quindi inventare un dispositivo comune che abbiamo già cominciato a utilizzare: sciami cibernetici, assemblee generali e di quartiere, commissioni...
11. Così come siamo non possiamo essere inclusi in uno spazio pubblico statale - siamo un’assemblea generale, un gruppo in fusione, un popolo nomade, un mondo di stranezze - l’organizzazione che sostiene «l’andare oltre» deve essere anche un dispositivo complesso e congiunto. La forza dell’anonimato, la forza della vita che siamo, respinge i vecchi modelli identitari e settoriali. Analogamente, qualsiasi tentativo di riconquistare la nostra forza attraverso la forma partito è necessariamente destinato a fallire. La forza dell’anonimato non può mai essere racchiusa in un’urna.
12. Superare la piazza non è una metafora. Consiste nell’infiltrarsi nella società come un virus, muoversi come partigiani che realizzano un atto di sabotaggio della realtà durante la notte. Ma dobbiamo tornare ad intermittenza nella piazza e lavorare per mantenere il segno della nostra sfida. La piazza occupata deve restare un riferimento politico, e al tempo stesso la migliore base operativa dalla quale partire per continuare questa guerra di guerriglia. Infiltrarsi nella società significa, in breve, una messa in discussione radicale di tutto ciò che è imposto dalla forza delle cose ovvie. Perché questa lotta sia efficace, dobbiamo dotarci di una strategia di obiettivi e di una modalità di interventi adeguati. Il grido di rabbia e di speranza che ha risuonato nelle strade deve organizzarsi politicamente, altrimenti si perderà nel buio. E il silenzio ancora una volta entrerà nei nostri cuori.
13. Quando la vita è il campo di battaglia vengono distinti i diversi fronti di lotta, ed è più facile che mai creare una strategia di obiettivi. La strategia di obiettivi che proponiamo potrebbe cominciare con: a) 1.000 euro a persona per il solo fatto di far parte della società e data la ricchezza già accumulata. b) nessuno sgombero e possibilità di ritorno degli espulsi. Possibilità di restituire la casa alla banca e non pagare più il mutuo. c) No alla legge Sindhi. Contro la privatizzazione della rete. La strategia di obiettivi si adatta e ha senso solo all’interno del movimento che delegittima lo Stato e i partiti. Non si tratta quindi di un punto di minimo che alcuni portavoce negoziano.
14. Una strategia di obiettivi richiede un’azione diretta da eseguire. Nel nostro caso, tuttavia, il suo completamento non può essere considerato sotto il modello classico dello sciopero generale. Da un lato, la fabbrica ha perso ogni centralità politica nella misura in cui è diffusa sul territorio, dall’altro lato, in essa esiste il pericolo per come i sindacati storici le gestiscono. Così come con l’occupazione della piazza è stato creato un modo di lottare non previsto, l’azione diretta stessa deve essere ripensata. La trasformazione sociale, economica e politica che ha avuto luogo negli ultimi decenni - l’intera società è diventata produttiva - gioca a nostro favore perché estende la vulnerabilità il tutto il territorio. Per questo motivo, l’azione diretta deve essere per lo più in grado di interrompere il flusso di merci, energia e informazione che attraversano e organizzano la realtà.
15. Il gesto radicale di occupare la piazza che si è diffuso in molte città dovrebbe favorire lo svuotamento delle istituzioni di potere, ma deve continuare in un blocco reale ed efficace a questo sistema di oppressione. Non è impossibile. Siamo noi stessi vivendo che sosteniamo questa macchina infernale e corrotta. Se siamo davvero indignati dobbiamo rendere la nostra vita un atto di sabotaggio e poi tutto cadrà a pezzi. Tutto crollerà come un castello di carte e forse scopriremo una spiaggia in Puerta del Sol. Non sappiamo ancora quali sorprese possano portare il mondo che stiamo cominciando a costruire.
[Tra i libri di Santiago Lopez Petit, tradotti in italiano, segnaliamo «Amare e pensare. L’odio del voler vivere» e «Lo Stato guerra. Terrorismo internazionale e fascismo postmoderno», edizioni Le Nubi]
* CARTA, 4/06/2011 - http://www.carta.org/2011/06/superare-le-piazze/
La primavera impetuosa dei ragazzi del Mediterraneo
Quanto è accaduto in Nord’Africa, quanto sta accadendo in Spagna dovrebbe farci riflettere: hanno ragione loro. In base a come sapremo rispondere si giocherà anche il futuro dell’Italia
di Anna Finocchiaro (l’Unità, 28.05.2011)
È un dato acquisito che le rivoluzioni scoppiate in tanti Paesi della sponda Sud del Mediterraneo abbiano sorpreso diplomatici, intelligence, osservatori politici. Mi pare altresì evidente che l’attenzione europea ma dell’Italia voglio parlare oggi stia esorcizzando quella sensazione di spaesamento che la sorpresa sempre conduce con sé, ripiegando l’attenzione quasi esclusivamente sulle conseguenze che quei rivolgimenti producono sulle politiche nazionali, e dunque sull’ondata migratoria, sull’impegno militare, sui rapporti di forza in ambito europeo.
Questioni molto serie, ma che rischiano di sottrarre all’analisi (forse anche alla curiosità di una conoscenza piena) proprio gli elementi di cambiamento di quelle rivoluzioni che, appunto, hanno spaesato una politica irrigidita dalle categorie della realpolitik, mostrandola incapace di cogliere quanto di straordinariamente forte, vitale e credibile, correva nel solco carsico delle società tunisine, egiziane, libiche, per fermarci ad esse.
Questo spostamento di attenzione può trasformarsi in un punto di debolezza del nostro Paese (e dell’Europa) suscettibile di produrre conseguenze negative anche di lungo periodo, mentre l’attenzione che il Presidente Obama ha manifestato in questi giorni, con la proposta per il prossimo G8 di Deauville, costituisce una indiretta conferma dell’importanza strategica di una relazione con quei Paesi che non sia stretta solo sul timore e sull’apprensione che oggi segna l’atteggiamento del governo italiano, tanto più evidente quanto più pesa l’interdetto politico della Lega. Colpiva, nella sua prima relazione al Senato, che il Ministro Frattini, qualificasse Lampedusa come "l’ultima frontiera d’Europa", inconsapevole che questo punto di vista (nel senso proprio) tradisse un errore prospettico grave, poiché i recenti eventi confermano il Mediterraneo come luogo geopolitico e geoeconomico tra i più interessanti del globo (e l’Amministrazione USA ne pare, al contrario, ben consapevole), e perché capovolgere quel punto di vista, e considerare Lampedusa e il Mezzogiorno italiano come la "prima" frontiera d’Europa nel Mediterraneo potrebbe essere assai utilmente speso sul tavolo europeo, magari con maggiore efficacia e successo di quanto non sia accaduto recriminando di essere stati lasciati soli nelle remote lande dell’ultima frontiera, in quell’ "hinc sunt leones" nel quale si rifugiavano antichi e inconsapevoli geografi e, oggi, trova riparo la pavida e snervata politica italiana.
Ma c’è dell’altro. Si è liquidata con troppa fretta un’ evidenza: a suscitare la rivolta sono stati giovani uomini e giovani donne. Il resto, tutto il resto, è venuto dopo. Il gesto di rottura, coraggioso e perentorio, la sua ineluttabilità è stato dei giovani di quei Paesi. Ragazzi e ragazze che hanno studiato e hanno utilizzato e sfruttato le nuove tecnologie per informarsi, mettersi in rete, parlare al mondo. Questo è. E se questo è accaduto in Nord Africa, con una forza e una credibilità ignota e a tutt’ oggi ignorata dalla esangue politica del nostro Governo, basta girare ancora un po’ la testa verso la Spagna e guardare i suoi ragazzi "indignados" per capire cosa sta succedendo.
Il vento si sta alzando, e riempirà ognuna delle nostre piazze, ed è bene che sia così. Hanno ragione loro. Su quanto saremo capaci di vederli e capirli per davvero, su quanto saremo capaci di rispondere e offrire, su quanto sapremo lasciargli spazio e potere e responsabilità giocheremo la partita che riguarda il futuro dell’Italia e dell’Europa.Per quanto mi riguarda credo che questa dell’autonomia e della libertà delle nuove generazioni sia proprio gerarchicamente la prima questione che il Paese deve affrontare. E non sono affatto convinta che possiamo pensare che essa si risolverà "di risulta", migliorando le condizioni generali di crescita del Paese. Non è così.
Quei ragazzi non sono solo "figli", non possiamo vederli solo attraverso i loro padri e le loro madri, sono persone che reclamano autonomia, libertà e piena cittadinanza. E quello che si manifesta è un nuovo soggetto politico, maschile e femminile, vitale e arrabbiato. Non riduciamoci a temere l’ira dei giusti e a fronteggiarla. Arriviamo, per una volta, prima pronti ad ascoltarla e accoglierla. Usiamo generosità. Quello che chiedono è placarla quell’ira, per trasformarla in forza. Loro e nostra.
Se gli invisibili della società si trasformano in movimento
Dalla Spagna alla Gran Bretagna, dalla Grecia all’Italia, la protesta dei giovani rappresenta una richiesta di rinnovamento della politica
Non è la prima volta nella storia che una mobilitazione di massa nasce sulla base di emozioni repentine e motivi morali
Partono da questioni molto materiali che poi diventano generali e inventano uno spazio pubblico nuovo che non è più quello della televisione
di Marc Lazar (la Repubblica, 26.05.2011)
Il movimento degli indignados presenta caratteristiche tradizionali e al tempo stesso aspetti piuttosto innovativi, che hanno una portata che va al di là della penisola iberica. Gli spagnoli non sono i soli a protestare contro il deterioramento della situazione sociale. Da mesi l’austerity introdotta nei vari Paesi europei si scontra con una resistenza sempre più forte. Il risultato è un crollo di popolarità dei capi di Governo, performances elettorali negative dei loro partiti o delle loro coalizioni e scioperi e manifestazioni di vasta portata, come ad esempio in Grecia, in Portogallo o in Gran Bretagna. Il malcontento si esprime dunque secondo modalità ben note in democrazia: disaffezione verso i leader al potere, rovesci elettorali, azioni collettive classiche.
Le proteste spagnole aggiungono indubbiamente un elemento nuovo a questo scenario. Innanzitutto perché sgorgano da legami spontanei creati inizialmente da internet, che è servita da cassa di risonanza di eventi-mondo o eventi-mostro (nel senso che schiacciano gli altri): i manifestanti di Madrid si ispirano al modello egiziano. In secondo luogo perché aggregano principalmente, ma non esclusivamente, giovani, come già era successo in Italia o in Gran Bretagna. Questi mileuristas (cioè i ragazzi che guadagnano mille euro al mese) come li ha definiti la romanziera spagnola Espido Freire, esprimono la loro collera. Hanno lauree su lauree ma non trovano lavoro (in Spagna un giovane su due al di sotto dei trent’anni non ha un impiego, e il tasso di disoccupazione è al 20 per cento) o sono sottoposti a un lunghissimo precariato che incide sugli altri aspetti della loro vita, come la possibilità di avere una casa o di crearsi una famiglia. In Spagna come in altri Paesi, i baby loosers, secondo la formula del sociologo Louis Chauvel, devono farsi carico del peso dei numerosi vantaggi ottenuti dai baby boomers. La vecchia Europa rischia di andare incontro a un vero e proprio clash of generations.
Ma il movimento spagnolo ha un altro aspetto ancora, quello dell’indignazione, eco del famoso saggio Indignatevi!, di Stéphane Hessel, diventato un best seller in Europa. Che una mobilitazione nasca per motivi morali e sotto la spinta di emozioni repentine non ha nulla di strano. In Sicilia, dopo i sanguinosi attentati contro il generale Dalla Chiesa nel 1982 e contro i magistrati Falcone e Borsellino nel 1992, una parte della società civile si sollevò contro la mafia. In Francia, l’avanzata del Fronte nazionale nel 1984 suscitò una mobilitazione dei giovani contro il razzismo con lo slogan «Non toccare il mio amico». Questi due esempi illustrano la differenza con le azioni a cui stiamo assistendo. Le lotte contro la mafia in Sicilia e contro il razzismo in Francia furono rapidamente strumentalizzate dai partiti politici, la Rete di Leoluca Orlando e il Pci in Italia e il Partito socialista di François Mitterrand in Francia.
L’indignazione non basta a fare una politica. I giovani spagnoli ne sono consapevoli e infatti intrattengono un rapporto ambivalente con la politica. Si scagliano contro il Governo, ma diffidano dell’opposizione, e temono qualsiasi strumentalizzazione. Contemporaneamente, elaborano riforme della legge elettorale, del Senato e del sistema dei partiti.
Additare il loro movimento come un fenomeno di antipolitica quindi sarebbe un grande errore. Al contrario, la loro esistenza attesta che l’Europa è in preda a processi contraddittori. Da un lato registra la spettacolare avanzata di partiti populisti che accusano le presunte élites di costituire un unico blocco uniforme, stigmatizzano i partiti di Governo, tessono le lodi del popolo eretto a unico detentore di qualsiasi verità, combattono l’immigrazione, sfruttano tutte le paure, patrocinano un ripiegamento sull’ambito locale, regionale o nazionale, rivendicano una democrazia plebiscitaria fondata su referendum riguardanti le problematiche più complesse e seducono gli strati popolari.
Dall’altro lato vede svilupparsi mobilitazioni di altro genere che partendo da questioni molto materiali diventano via via più generali, inventano un nuovo spazio pubblico di deliberazione che non è quello della televisione, esigono trasparenza, intendono controllare i Governi, vogliono essere ascoltati, propongono di migliorare il funzionamento dei sistemi politici, sono aperti al mondo e creano una democrazia partecipativa in cui si riconoscono prevalentemente i rappresentanti dei ceti medi.
Certo, questa seconda tendenza è ancora incerta e fragilissima, e può rivelarsi effimera (soprattutto se a Madrid gli indignados falliranno nel loro tentativo di condizionare le politiche pubbliche, com’è successo finora alle mobilitazioni tradizionali dei loro padri), può essere oggetto di manipolazioni da parte di piccoli gruppi di militanti ed è fortemente contraddittoria quando si propone di inventare un’altra politica aggirando i rappresentanti eletti e le loro organizzazioni. Ma lancia una sfida reale a tutte le persone responsabili.
Come integrare questa ricerca di un modo migliore per vivere insieme e di una democrazia rinnovata? Se le élite politiche e i partiti classici rimarranno sordi a queste grida, se si accontenteranno di riformette di facciata invece di fornire risposte istituzionali in grado di ridisegnare l’agorà moderna e consentire di soddisfare questa profonda aspirazione alla partecipazione, rischieranno di deludere e aggravare ulteriormente la crisi della rappresentanza politica.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Internet si dimostra essere uno strumento che aiuta, un collante che riporta "l’agorà" al centro del dibattito pubblico.
Si disegna una sfida che viene portata ai partiti tradizionali
La rivincita della piazza
di Miguel Gotor (la Repubblica, 26.05.2011)
Dalle manifestazioni virtuali a quelle "esistenziali"
Per anni ci siamo cullati nell’idea che la piazza telematica avrebbe oscurato quella reale, ma gli ultimi avvenimenti rivelano che internet rappresenta un collante in grado di riportare l’agorà al centro del dibattito pubblico. Non la piazza virtuale, bensì quella esistenziale che si riempie di corpi, di colori e di "sentimenti contro", come l’indignazione e la rabbia.
L’ultima novità propagata dalla rete globale è il movimento M-15 di Spagna che ha suscitato le ansie comparativiste di una certa Italia perché quei manifestanti sono contro il governo (meglio se socialista), sostengono di disprezzare i partiti e, soprattutto, dichiarano di non essere di sinistra né di destra formando così un impasto malleabile, buono da spendersi nelle nostre contrade del "né-né". Assomigliano ai "grillini" - dicono - dimentichi del fatto che costoro si sono rapidamente costituiti in sigla organizzata intorno al loro furbissimo guru e ambiscono, legittimamente, oggi a occupare gli scranni comunali e, domani, quelli del vituperato parlamento. Quest’aspirazione a farsi subito partito, travestita col mantello del movimentismo anti-parlamentare, costituisce un abito nazionale dalla foggia antica ma sempre di moda. Eppure, si tratta di un proposito radicalmente diverso dalle buone intenzioni della gioventù spagnola, in cui il solo elemento di originalità in comune con i "grillini", ma anche con il "popolo viola" o con le recenti manifestazioni delle donne, sta nell’uso di internet come medium aggregativo mobilitante.
Certo, non bisogna mai smarrire il senso delle proporzioni. L’ultima volta che ci siamo indignati per davvero è stato quando abbiamo visto paragonare le piazze di Madrid a quelle di Bengasi, l’autunno spagnolo alla primavera araba. Come se fosse possibile mettere sullo stesso piano il costo di un sorriso arrabbiato a favore di videocamera con il sibilo di una pallottola in fronte sparata nel buio della repressione.
Piuttosto la piazza spagnola sembra un acquario in cui il conflitto è marginalizzato dentro un recinto che lo trasforma in inquietudine teatralizzata. I manifestanti sono consapevoli di avere subito un furto di presente e di futuro poiché si è rotta la rassicurante catena dell’hidalguía tra le generazioni: gli zii e i padri di quei ragazzi hanno abbondantemente mangiato sopra le loro spalle e la linea della vita lascia presagire che continueranno a pasteggiare ancora a lungo. In Spagna come in Italia. Non resta quindi che accucciarsi nel sacco a pelo del nostro scontento, gridando una rabbia e una paura che vivono in una dimensione anzitutto sentimentale ed emotiva. Come se fossero un tatuaggio, che segna un’identità e consente di riconoscersi, nonostante tutto.
Il problema, però, rimane sempre lo stesso: come trasformare la protesta in proposta, come rendere quell’acquario di visibilità autoreferenziale, amplificato dall’onda mediatica, un progetto collettivo conflittuale, che resti non violento? In questo sforzo si incontra necessariamente la mediazione della politica e - udite, udite - anche i partiti potranno svolgere un ruolo rinnovato se sapranno aprirsi e non chiudersi, respirando insieme e non contro la società civile. Sarà un caso, ma l’Italia si è bloccata da quando la società civile e i partiti hanno iniziato a guardarsi in cagnesco, ognuno pensando di poter fare a meno dell’altro.
Come essere degni, ogni giorno sempre di più, della propria indignazione? Questa è l’autentica sfida che interroga la buona politica, a Madrid come a Roma, perché è legata agli affanni comuni della nostra democrazia e ci dice anche che, da quella rabbiosa speranza di piazza, si può sempre ripartire.
_________________________________________________________________ Chi sono i ragazzi protagonisti a Madrid
Quel diritto alla speranza
Non sono molto difficili da capire i motivi di questo malessere. Almeno per chi riesce a ragionare fuori dagli schemi di un sistema infestato dal discredito dalla corruzione, dall’inefficienza e dall’impotenza
di Javier Moreno (la Repubblica, 26.05.2011)
Ancor prima di avere il diritto di chiederci, e di chiedergli, che cosa vogliano, perché protestino, che cosa propongano e quali siano i loro progetti per il futuro, prima ancora di criticare le loro ragioni o le loro richieste, è indispensabile sapere chi siano. Solo da ciò che sono, e non da ciò che chiedono, riusciremo ad estrarre un senso a ciò che sta accadendo oggi nelle piazze di Spagna, e forse domani d’Europa, la prima grande crisi della post-democrazia sotto la pressione della crisi economica e finanziaria mondiale.
Ed enunciare chi siano quelle decine di migliaia di persone è semplice: disoccupati che tirano avanti con lavori precari, orfani del presente; impiegati che a loro volta tirano avanti con lavori precari, orfani del futuro, con salari irrisori; giovani con condizioni di vita sempre più deteriorate, senza la possibilità di accedere a una soluzione abitativa decente, senza la possibilità di mettere su una famiglia, dolorosamente consapevoli del fatto che vivranno peggio della generazione dei loro genitori; pensionati con pensioni che non bastano per mangiare e arrivare alla fine del mese; universitari che credevano di aver raggiunto i propri sogni solo per scoprire che li attendono gli uffici di collocamento (il 43% dei giovani è disoccupato) o delle condizioni di lavoro così offensive, dei salari così infimi, dei contratti così precari, a volte di qualche giorno o di qualche settimana, in posti che non hanno niente a che vedere con ciò che hanno studiato all’università, da aver abbandonato qualsiasi speranza, capiamolo bene, da aver abbandonato qualsiasi speranza che il governo, i partiti politici, il sistema politico, o chiunque sia a capo di un’istituzione abbia la capacità o l’interesse di mettere rimedio alla loro situazione, alle loro situazioni.
Ci sembra strano? No. Sono così difficili da capire i motivi del loro malessere? Sicuramente, no. Non per chiunque sia ancora capace di pensare al di fuori degli schemi riduzionisti di una politica istituzionale infestata dal discredito, dalla corruzione, dall’inefficienza e dall’impotenza nell’offrire soluzioni quando le entrate dello Stato crollano per la crisi e i mercati impongono degli aggiustamenti sociali. Gli "indignados", tuttavia, oltre a essere quello che sono, si sono riuniti nelle piazze per esibire la lista delle loro richieste, per prendere la parola, per esporre le loro esigenze, la loro critica alla totalità della politica realmente esistente, ma anche, ahimè, le loro evocazioni rielaborate di esperimenti storici liberticidi di sventurata memoria, le loro illusioni antiparlamentari la cui applicazione in passato sfociò inevitabilmente in situazioni aberranti e abusi, oltre ai consueti slogan da cortile di facoltà, abbasso l’Fmi, confisca dell’edificio vuoto di una banca perché venga messo a disposizione, no all’economia, no alla politica, sia chiaro, no a questa politica, anche senza la capacità di formularne un’altra, che non è poi compito loro.
I partiti, di sinistra e di destra, possono ignorare gli "indignados" se vogliono, e sicuramente lo faranno facilmente quando questi cominceranno a diluirsi nei prossimi giorni, dopo avere esaurito l’esplosione di libertà e di energia dei giorni che hanno preceduto le elezioni. Gli "indignados" se ne torneranno a casa e scompariranno dalle piazze, ma non lo faranno il loro malessere, il loro futuro spezzato, i loro lavori precari, le loro basse pensioni, la loro mancanza di lavoro. Insisto: i partiti possono ignorarli, ma non lo faranno mettendo a rischio esclusivamente le loro aspettative politiche, che è l’unica cosa che sembrano capire. Lo faranno mettendo a rischio la stabilità e la validità morale dell’insieme del sistema democratico.
traduzione di Luis E. Moriones
L’autore catalano: "L’economia ha punito chi era al governo"
Lo scrittore Cercas: "Ma sulle libertà civili non si torna indietro"
Il Paese ha bisogno di una grande riforma della politica. Se la protesta non si volatilizza, avrà conseguenze importanti
Non cambierà molto nei rapporti con la Chiesa: le azioni verso il suo potere sono state simboliche, non reali
di Omero Ciai (la Repubblica, 23.05.2011) MADRID - «Era impossibile - dice lo scrittore catalano Javier Cercas - che con questa situazione economica la Spagna non punisse nelle urne il governo in carica. Ci sono 5 milioni di disoccupati e non trova lavoro un giovane su 2 sotto 30 anni. Quelli che lo trovano sono precari, spesso con scarse prospettive. E in molti casi con impieghi al di sotto della loro reale preparazione. Vincerà il centro destra anche le elezioni generali? E’ possibile. Io non voterò mai a destra ma riconosco l’importanza dell’alternanza in democrazia. E’ una cosa sana».
Non ha paura che il leader del Partito popolare Rajoy voglia spazzare via la "rivoluzione laica" di Zapatero?
«Sulle libertà civili non si torna indietro. Non credo che quando il centro-destra tra qualche mese arriverà al governo nazionale decida di cancellare i matrimoni gay o il divorzio express. Di certo (ride) non ci potrà riportare in Iraq come fece Aznar». E la relazione con la Chiesa? «Io penso che Zapatero nella sua rivoluzione laica abbia fatto delle cose importanti. Ma riguardo alla Chiesa la sua azione è stata più simbolica che di sostanza. Il potere della Chiesa in Spagna non è cambiato molto».
Come vede il futuro degli "indignados" di Puerta del Sol?
«Mi fa piacere che abbiano deciso di restare in quella piazza a discutere per un’altra settimana e spero che riescano ad essere concreti, a costringere i partiti politici al confronto con le loro proposte. La Spagna ha bisogno di una grande riforma della politica e se la protesta degli "indignados" non si volatilizza in poche settimana avrà conseguenze importanti in questo Paese. Spero che i partiti siano costretti a confrontarsi con loro».
Cosa serve alla politica in Spagna?
«Rinnovamento. Ci stavo pensando proprio in questi giorni grazie agli "indignados". Della politica in Spagna non si occupano i migliori. Per esempio io non conosco nessuno della mia generazione che ha scelto di impegnarsi nella politica. E’ sbagliato. Ad un certo punto la politica è diventato un affare di persone mediocri, soprattutto a livello locale. Protestare costringe i partiti a non addormentarsi, a rinnovarsi».
Quindi anche l’alternanza?
«Voglio dirlo con molta chiarezza. Io sono cresciuto a Gerona, una cittadina della Catalogna dove la sinistra, i socialisti, governano da 30 anni. Non è bene. L’alternanza in democrazia è salutare. D’altra parte il partito socialista sperava che la crisi economica durasse meno e invece non ne siamo ancora usciti e non ne usciremo nei prossimi mesi. Non credo che il partito popolare farà una politica economica molto diversa da quella socialista. I margini sono stretti, per questo spero negli "indignados".
SPAGNA
Psoe travolto nelle amministrative
Zapatero: "No elezioni anticipate"
Il governo, punito per la gestione della crisi, viene sconfitta in molte grandi città, comprese roccaforti come Siviglia e Barcellona. Il Pp prende il 37,5% contro il 27,7 dei socialisti: oltre 7 punti in meno rispetto al 2007 Il leader del Pp Mariano Rajoy (al centro) ringrazia i sostenitori *
MADRID - Il voto del 22 maggio per le amministrative spagnole ha travolto il Psoe di Josè Luis Rodriguez Zapatero, che ottiene il peggior risultato della storia nelle elezioni municipali (il 27,8 per cento dei voti), quasi 10 punti e 2,2 milioni di voti in meno del Pp. I Popolari di Mariano Rajoy sono riusciti a raddoppiare la distanza conquistata nello storico 1995, preludio alla sconfitta socialista nelle elezioni generali dell’anno successivo che portò il Pp alla Moncloa nel 1996. Il Psoe, che ha pagato molto caro la gestione della crisi, ha perso 1,5 milioni di voti anche rispetto al 2007: Zapatero ha riconosciuto la "chiarissima" sconfitta ma ha escluso l’anticipo delle elezioni generali per poter portare a termine "le riforme imprescindibili per il recupero economico". A scrutinio concluso, il Pp ha ottenuto il 37,53% dei voti, il Psoe il 27,79. Anche nel 2007 aveva vinto il PP, ma allora la distanza era stata di appena 7 decimi: 35,62% contro 34,92%.
Per i socialisti la sconfitta è storica anche perché travolge alcuni dei loro rincipali feudi, come la comunità di Castilla-La Mancha, il municipio di Barcellona e gli otto capoluoghi andalusi, compresa Siviglia. Di fatto, le elezioni lasciano una mappa politica in cui il Pp domina nei comuni e anche nelle principali comunità autonome. I socialisti conservano il governo dell’Andalusia e dei Paesi Baschi (in questo caso con l’appoggio del Pp). Il Partito Popolare ha vinto le elezioni per la prima volta anche in Extremadura, un altro grande bastione del Psoe, che però potrebbe mantenere il governo della regione se trova l’accordo con Ixquierda Unida.
* la Repubblica, 23 maggio 2011
GALASSIA INTERNET E MUTAMENTI ANTROPOLOGICI."DEMOCRACIA REAL YA"!. IL TEMPO DELL’ESODO ....
IN SPAGNA, NELLA PIAZZA DEL NUOVO SOLE. Dopo il crollo della mente viaggio verso l’esternità. Una nota di Gaetano Mirabella
DANTE E IL "SOLE NUOVO":
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE.
Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Savater: “Gli Indignados? Esempio di cività e democrazia”
Lo scrittore appoggia il movimento dei giovani spagnoli
di Alessandro Oppes (il Fatto, 22.05.2011)
Madrid “Fare un parallelo con le rivolte della primavera araba? Direi proprio che è impossibile. Mi sembra azzardato e fuorviante. Qui si dimostra la forza straordinaria di una democrazia, capace di accettare la sfida di una comunità che scende in piazza a rivendicare le proprie ragioni. Lì sono popoli disperati che chiedono il rispetto di diritti fondamentali, come la libertà, e a cui i regimi rispondono con la repressione, a volte sanguinaria”. Non è sorpreso, e tantomeno contrariato Fernando Savater, di fronte all’esplosione, improvvisa e pacifica, del movimento degli “indignados”. Anzi, dalle parole del filosofo e scrittore, uno dei più noti intellettuali spagnoli, universalmente conosciuto per il best-seller Etica per un figlio, sembra trasparire una moderata simpatia nei confronti dei ragazzi accampati da una settimana alla Puerta del Sol di Madrid e in decine di altre piazze spagnole.
Perché ora? E perché proprio in questo modo?
Francamente non c’è da stupirsi. In questo paese si è raggiunto un livello di disoccupazione molto alto, si sono toccati i limiti di guardia. I giovani, soprattutto i più preparati, capiscono di non avere prospettive e sono costretti ad andar via, all’estero, per cercare di costruirsi un futuro. C’era un livello di insoddisfazione crescente, quasi di impotenza. Forse non era prevedibile la forma in cui questo movimento è nato, più che altro perché eravamo abituati da tempo a un’inspiegabile apatia. Ma non mi sorprende affatto: sono appena rientrato dal Messico e ho visto che lì, nella capitale, nella piazza del Zócalo, ci sono giovani che si riuniscono e manifestano . E lo stesso accade in altre capitali dell’America Latina.
Dà un giudizio positivo sulle loro rivendicazioni?
Positivo nel senso che vedo giovani e meno giovani che simpatizzano , parlano, discutono liberamente in un esercizio salutare di partecipazione. È un esempio di civiltà, perché non è segnato da nessun tipo di violenza. Non si riuniscono per creare problemi, vogliono solo cercare di risolverli.
Eppure dà da pensare la rapidità con cui un movimento, nato dal nulla, è riuscito in pochi giorni a focalizzare l’attenzione del mondo intero.
Ciò che è cresciuto, a una velocità sorprendente, è la forma di convivenza. Il discorso, forse, è un altro quando si passa alla parte teorica. In fondo, almeno per il momento, tra le tante proposte che emergono ci sono parecchie cose che si erano già viste. Ci sono una serie di idee di buon senso, e altre un po’ meno, magari destinate a restare nel libro dei sogni.
Crede che questo improvviso risveglio sociale possa avere qualche conseguenza sul voto delle amministrative di oggi?
Sinceramente non so se potrà influire in qualche modo. A guardare freddamente i numeri, si può vedere che è un fenomeno molto vistoso ma che non sembra coinvolgere milioni di persone. Nelle democrazie abbiamo la tendenza a pensare che i problemi li devono risolvere i nostri rappresentanti. Vedremo alla chiusura delle urne se qualcuno avrà cambiato idea, e in che modo.
Chi sono questi giovani? Forse persone tradite da quello Zapatero che, sette anni fa, promise: Non vi deluderò?
Tra i tanti, uno dei più gravi errori commessi da Zapatero è stato quello di annunciare, tempo fa, che la crisi stava per terminare. Invece le cose sono andate sempre peggio. Se avesse preso misure capaci di dare qualche risultato, non ci troveremmo probabilmente a dover commentare la nascita di questo movimento. Certo che si sentono delusi e traditi.
Trentaquattro milioni di cittadini sono chiamati alle urne per elezioni regionali e comunali
Nelle piazze continua la pacifica rivolta giovanile contro il sistema politico nel suo insieme
Spagna al voto, gli indignati rubano la scena ai partiti
Trentaquattro milioni di spagnoli chiamati alle urne oggi per le amministrative.
Da una settimana attenzione concentrata sulla contestazione giovanile.
Indignati in piazza anche nel giorno di silenzio elettorale.
di Claudia Cucchierato (l’Unità, 22.05.2011)
«Se non ci lasciano sognare, non li lasciamo dormire». Scritto a pennarello su un lenzuolo 9x2m e issato all’ingresso sud-ovest della Plaça Catalunya di Barcellona, è questo il motto che definisce le intenzioni degli «indignati» riuniti in più di 160 piazze di Spagna. In effetti, non è un rumore assordante quello che fanno, bensì un rumore di fondo, costante, come un fischio nelle orecchie dei quasi 100.000 tra sindaci, consiglieri, presidenti regionali, deputati e procuratori che usciranno eletti dagli scrutini di questa notte.
SPUNTI PER IL DIBATTITO
Nella giornata dedicata alla riflessione, subito prima delle elezioni che si svolgono oggi in 8.116 comuni e 13 regioni spagnole, le piazze hanno registrato il tutto esaurito. L’urlo muto, che alla mezzanotte di venerdì ha inaugurato il silenzio imposto da una legge criticata nella cosiddetta «era digitale», ha fatto il giro del mondo. Molto più loquace di qualsiasi parola o dichiarazione dei candidati, la riflessione silenziosa e pacifica degli «indignati» monopolizza da una settimana il dibattito politico nel paese iberico. Ma cosa chiedono? Difficile dirlo. Un po’ di tutto in realtà. Ogni proposta è accettata, ogni spunto per il dibattito accolto, depositato nell’apposita urna di cartone e sviscerato in lunghe discussioni dove la parola si prende alzando la mano e il grado di approvazione si misura con una specie di applausometro artigianale.
Tutti gli striscioni e i cartelli che facevano riferimento alle votazioni sono stati staccati dalle piazze, per evitare di dare scuse alla Giunta Elettorale per sciogliere i raduni, come imporrebbe la legge. Ne rimaneva solo uno ieri in Plaça Catalunya, penzolante in un cestino: «Non li votare, loro non lo farebbero». Più di 34 milioni di spagnoli sono chiamati alle urne e il voto in bianco, secondo tutte le inchieste e i sondaggi in circolazione, potrebbe essere molto più alto che in qualsiasi altra tornata amministrativa precedente.
CAMBIAMENTI STRUTTURALI Ma non è da imputare esclusivamente alle mobilitazioni nate dalla manifestazione del 15 maggio. Non è sulle elezioni che vogliono essere decisivi gli «indignati». Vogliono cambiamenti strutturali, dibattono giorno e notte su argomenti trasversali come l’acqua pubblica, la sanità, l’educazione, il diritto alla casa e al lavoro. Hanno raccolto centinaia di migliaia di firme contro gli sfratti coatti. Applicano la formula della partecipazione diretta, chiedono referendum per l’approvazione delle leggi più importanti, per bypassare la centralizzazione del potere.
I partiti in lizza per le elezioni li guardano da sette giorni con un misto di timore e rispetto. I conservatori del Partito Popolare cercano di minimizzare il movimento, adducendo ipotetiche connivenze con la sinistra. Di fatto, Izquierda Unida è stata l’unica formazione a presentare ricorso contro il veto ai presidi imposta dalla Giunta Elettorale. Dall’altra parte, il Partito Socialista, attualmente al governo, si trova di fronte a un dilemma ben più delicato. Sa che non può far finta di nulla, né nascondersi dietro un «non dipende da noi».
Le previsioni di voto lo danno perdente anche in comuni storicamente di sinistra come Siviglia e Barcellona. Eppure, cavalcare l’onda rivoluzionaria potrebbe essere per il Psoe controproducente. È per questo che il Ministro degli Interni e vicepremier Alfredo Pérez Rubalcaba ha deciso di non sciogliere i raduni. Primo tra tutti quello che nella Puerta del Sol di Madrid conta da una settimana una media di 30.000 persone permanentemente connesse con Facebook e Twitter
Il ritorno dei cittadini
di Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera, 21.05.2011)
Stupisce soltanto chi non conosce Milano, il risveglio civico di una città che si interroga da tempo su se stessa e sull’orgoglio perduto. Nel voto che ha spiazzato il centrodestra e sorpreso il centrosinistra c’è molto dell’indignazione che si legge ogni giorno nelle lettere ai giornali, insieme a una richiesta di attenzione della politica e alla domanda di maggiore serietà. Serietà intesa come rispetto, efficienza, controllo, garanzia di equità: messaggi che la città operosa recapita da anni a chi governa attraverso incontri e dibattiti che finiscono inesorabilmente con una domanda: dov’è Milano, dove sono i milanesi. Milano è nello stesso posto di sempre.
Coi suoi numeri da record, i suoi primati, le sue opportunità, tra lampi di luce e zone d’ombra, prove riuscite d’integrazione e nicchie di paura. I milanesi invece sembrano dispersi, perduti in mille isole di resistenza civile: molti si battono per il verde, per una strada, per un quartiere, portano il bene della solidarietà agli emarginati di ogni tipo, malati, anziani, disabili, immigrati, carcerati. Chiedono una città più pulita, più ordinata, la sicurezza senza il coprifuoco, l’attenzione per le piccole cose. Ma spesso bisogna andarli a cercare, per riunire intorno ad un progetto le tante articolazioni di una società minuta in fermento, che si dà da fare per migliorare il benessere dei cittadini e la qualità della vita.
Giuliano Pisapia ha incrociato questo fermento, quel new deal civico organizzato negli ultimi anni in piccoli centri di opinione, associazioni culturali, gruppi di lavoro nei quartieri e nelle parrocchie, che il Corriere aveva documentato nel suo viaggio in camper, attraverso le varie zone della città. Ha dato attenzione e ascolto ai cittadini, in modo semplice e diretto, a differenza della campagna elettorale di Letizia Moratti. Il sindaco uscente aveva già avuto segnali in questo senso, qualcuno aveva già evidenziato la distanza eccessiva tra richieste dei cittadini e Palazzo Marino.
Quando cinquecento persone si autoconvocano al teatro Puccini per discutere del «Manifesto per Milano» , come nel giugno dello scorso anno, vuol dire che c’è una ritrovata voglia di partecipare alle scelte per il futuro della città. Vuol dire che tanti cittadini chiedono ascolto sui loro piccoli e grandi problemi, o vogliono, come il cardinale Tettamanzi, essere protagonisti di una Milano capace di ritrovare la sua leadership nel Paese. Ci si vuole riconoscere in una città capace di dare il giusto valore al merito, di fornire qualche buon esempio e di allontanare il virus della volgarità. Nel «Manifesto per Milano» ci sono parole come rispetto, competenza, responsabilità. Sono parole che ci riguardano (diversamente da quelle del caso Lassini, contro i magistrati). Queste parole torneranno a ripetersi in questi giorni. Ma non si possono svendere nel marketing elettorale.
EL PAÍS Madrid, sábado, 21 mayo 2011 (cliccare sulla zona evidenziata, per andare sul tito di "El Pais"):.
Llenazo en la Puerta del Sol en el sexto día de protestas; 10.000 personas en Valencia; otras tantas en Barcelona... El Supremo ha rechazado el recurso de IU contra el veto que impuso la Junta Electoral pero los indignados del 15-M no parecen dispuestos a marcharse de vacío. La policía no va a desalojar
Zapatero e la sindrome rivoluzione
Rischio scontri con la polizia per i giovani di Democrazia Real alla vigilia del voto
di Alessandro Oppes (il Fatto, 21.05.2011)
La piazza è dei giovani, i politici si sono dovuti rifugiare all’interno di spazi chiusi e ben vigilati per celebrare - tra iscritti e fedelissimi ai partiti - l’atto finale di una campagna elettorale trasformatasi in un incubo. A mezzanotte, con l’inizio della giornata di riflessione che precede le amministrative di domani, è scattato il divieto di manifestazione deciso, tra le polemiche e con un solo voto di scarto, dalla Giunta centrale elettorale dopo sette ore di dibattito infuocato. Ma, mentre l’estrema destra mediatica gridava ieri mattina a un fantomatico “boicottaggio della democrazia” rappresentato dai ragazzi accampati alla Puerta del Sol di Madrid e in decine di altre piazze spagnole, il ministro dell’Interno Alfredo Pérez Rubalcaba ha chiarito con tre parole la linea del governo: “Opportunità, congruenza e proporzionalità”, ha spiegato il numero due di Zapatero, saranno i principi che guideranno l’azione della polizia nelle prossime ore. “Ciò che faremo è compiere il mandato costituzionale, e quello delle forze di sicurezza è applicare le leggi. Perché si capisca meglio, dove c’è un problema la polizia non ne crea un altro, nè altri due o tre”.
L’IMPEGNO, INSOMMA, sembra essere a non intervenire, visto che le proteste si sono svolte finora in forma completamente pacifica. Anche ammesso che le rivendicazioni del movimento Democracia Real Ya possano in qualche modo condizionare l’andamento della giornata elettorale, conseguenze ben più gravi sul voto avrebbe - come fa notare in un editoriale il quotidiano El País - l’eventuale decisione di sgombrare con la forza migliaia di persone riunite in piazza, tra l’altro sotto gli occhi delle tv di tutto il mondo. A subire un effetto devastante sarebbe, ovviamente, il governo socialista, già alle prese con una delicatissima tornata elettorale che, se si confermano le previsioni dei sondaggi, potrebbe dover fare i conti con la più clamorosa batosta da quando - sette anni fa - José Luis Rodríguez Zapatero andò al potere.
Il Psoe rischia di perdere alcune delle sue roccaforti storiche, come i municipi di Barcellona e Siviglia, dove governa da trent’anni, e la regione di Castiglia La Mancha. In bilico anche altri feudi socialisti come l’Estremadura, Aragona e le Asturie, mentre i popolari dovrebbero restare ben saldi al potere tanto a Madrid come a Valencia nonostante - in questa regione - il presidente Francisco Camps (paragonato ieri dal New York Times a Berlusconi) sia imputato di corruzione assieme ad altri quattro alti funzionari dell’amministrazione locale. Attesa anche per i risultati delle comunali nel Paese Basco dove, a 8 anni dalla messa fuorilegge di Batasuna, ritorna sulla scena la sinistra indipendentista con la lista Bildu: autorizzata nei giorni scorsi dal Tribunale costituzionale con una decisione che ha provocato durissime polemiche soprattutto tra le organizzazioni di vittime del terrorismo, potrebbe sfiorare il 20% dei consensi.
Ma l’andamento della giornata elettorale sembra essere tutt’altro che al centro delle preoccupazioni tra i protagonisti del “maggio spagnolo”. Nonostante i divieti, e le polemiche roventi che li circondano, loro hanno ben chiaro che questa esperienza di partecipazione è appena agli inizi. Scatta la giornata di riflessione? E allora “noi continuiamo con l’esercizio di riflessione collettiva”, assicurano.
E, visto che oggi è vietato manifestare, subito dopo la mezzanotte, alla Puerta del Sol, hanno risposto così: a centinaia, con la bocca coperta dal nastro adesivo, che tutti insieme hanno strappato via per lanciare un “grido muto al cielo”.
Manifestazioni nelle maggiori città. Sit in a Roma
di Lorenzo Salvia (Corriere della Sera, 21.05.2011)
«Yo te voto, yo te pago, yo decido» . Scritta rossa su fondo bianco, il cartello che apre il sit in vicino a piazza di Spagna sembra romanesco ma è castigliano purissimo. Perché è vero che è arrivata in Italia la protesta degli indignados, i giovani che a Madrid occupano da una settimana Puerta del Sol per protestare contro una politica che li ignora e chiedere una democrazia diretta. Ma, almeno per il momento, non c’è nessun effetto a catena, nessuna macchia d’olio che si allarga come in Tunisia ed Egitto.
A protestare in piazza sono gli spagnoli che vivono in Italia, quasi tutti studenti Erasmus. È così a Roma e Milano, ma anche a Firenze, Bologna, Napoli e in tutte le città coinvolte, ieri sera, dopo un tam tam su Internet e Twitter. Su Facebook la pagina «Italian revolution: democrazia reale ora» ha superato le 10 mila adesioni. E anche sul fratello minore, Twitter, quello degli indignados italiani è stato fra i temi più popolari. Molti avevano pensato a una costola nostrana del movimento, visto che precari e studenti senza futuro abbondano anche da noi, come pure il malessere verso la politica e le sue caste. Ma per il momento in piazza scendono solo gli spagnoli, a casa loro e negli altri Paesi dove vivono.
Tra i pochi italiani che partecipano al sit in di Roma c’è il «barbuto» Marco Ferrando, l’ex candidato di Rifondazione espulso da Bertinotti dopo le sue dichiarazioni su Israele. Oggi guida il Partito dei comunisti lavoratori e tiene sotto braccio il suo appello di due mesi fa, quando invitava gli italiani a imitare la protesta dal basso del Maghreb. Non poteva mancare. «Se la protesta regge in Spagna - dice - vedrete che andrà avanti anche da noi. E ne vedremo delle belle» .
In piazza un centinaio di ragazzi ripete, in spagnolo, gli slogan che conosciamo anche in Italia, «Noi la crisi non la paghiamo» . Dura un’ora poi tutti a casa. - scrive su Facebook Francesco Silenzi, solidarizzando con chi manifesta: «Anche in Spagna il primo giorno non ne parlava nessuno. Ora è la prima notizia di giornali e tv» . Vero, ma l’arrivo degli indignados in Italia è solo un fuoco di paglia, acceso dalla velocità dei soliti Facebook e Twitter? Oppure il movimento crescerà come in Spagna e alla fine anche la politica dovrà farci conti? Il programma è quello originale del movimento spagnolo, gira sulla rete e viene distribuito in piazza con volantini in due lingue. Gli indignados chiedono una «rivoluzione etica» , vogliono eliminare la «dittatura dei partiti» per arrivare alla democrazia diretta, «facilitando la partecipazione dei cittadini attraverso i canali diretti»
. Un’idea molto simile a quella che da tempo sostiene Beppe Grillo. In questi giorni il comico genovese è a Barcellona. Un giornale spagnolo, Pùblico, ha accostato gli indignados proprio al suo Movimento 5 stelle che alle ultime elezioni è cresciuto ancora. E Grillo ne è ben contento, del paragone: «La rivoluzione dal basso ha superato Gibilterra- scrive sul suo blog- ed è arrivata in Spagna dai Paesi del Maghreb. Il contagio potrebbe espandersi in tutta Europa. Il 2011 potrebbe diventare come il 1848, quando le vecchie istituzioni vennero travolte. Un mondo nuovo sta nascendo, l’indignazione è il suo carburante» . La protesta è appoggiata anche dal Popolo viola, il movimento nato due anni fa con il no Berlusconi Day. Dai partiti ufficiali, invece, per ora non è arrivato nessun segnale. Tranne Ferrando, che si guarda intorno e sbotta trattenendo un sorriso: «Ma la sinistra, dov’è?» .
Indignati, da Madrid l’onda si allarga
di Carmine Saviano *
L’esempio spagnolo. Hanno un motivo comune per indignarsi: l’assenza di futuro. E una richiesta collettiva: cambiare le dinamiche dello stato sociale. Madrid chiama, gli italiani rispondono. Chiedendo “Democrazia reale, adesso”, lo stesso slogan usato dai manifestanti a Porta del Sol. Anche lo schema è simile: prima l’aggregazione sui social network, poi la richiesta di organizzare manifestazioni reali, fisiche, nelle strade. Su Twitter l’ashtag #italianrevolution è da quasi due giorni il più utilizzato dagli utenti italiani. Proposte, messaggi, idee. E anche su Facebook si rilanciano contenuti e metodi della protesta.
Una primavera europea. Gli indignati sfruttano appieno le potenzialità del web. Costruendo reti virtuali tra paesi diversi. L’obiettivo è quello di dar vita a una “primavera europea” sulla falsariga di quella araba. La volontà è promuovere un ripensamento dal basso del ruolo dell’Europa. Dalla Francia all’Inghilterra, passando per la Germania e l’Italia: la circolazione di informazioni e documenti è incessante, magmatica
Le richieste. Sul fronte delle rivendicazioni si va verso un un unico canovaccio. In tanti traducono il manifesto programmatico degli indignati spagnoli. Eliminazione dei privilegi della classe politica, lotta contro la disoccupazione, diritto alla casa. Poi la qualità dei servizi pubblici, la riduzione delle spese militari, un fisco più equo e misure per ampliare le libertà civili e gli istituti di democrazia diretta.
Presidi e flash mob. Stasera, in numerose città italiane, sono previsti iniziative e falsh mob per portare in strada la protesta degli Indignati. Appuntamento alle 20 a Roma, Bari, Torino, Milano, Palermo. Qui la mappa aggiornata. E qui la pagina Facebook “Democrazia reale adesso”.
* La Repubblica/Blog "Movimenti" (ripresa parziale):
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2011/05/20/indignati-in-piazza-anche-in-italia/?ref=HREC1-9
"Pane e giustizia la sfida al potere degli indignados"
"In strada ci sono persone che chiedono solo una democrazia migliore"
"Per la prima volta c’è una generazione che non ha prospettive di miglioramento"
di Omero Ciai (la Repubblica, 20.05.2011)
«Lo confesso subito: ho una grande simpatia per gli occupanti della Puerta del Sol, per questi ragazzi che stanno protestando nel centro di Madrid accampati in una piazza come gli egiziani di piazza Tahrir. Con la situazione sociale che stiamo vivendo è strano che non sia accaduto prima». Lo scrittore spagnolo Javier Cercas, premiato per la sua opera all’ultimo Festival del libro di Torino, si sta appassionando al movimento di protesta che ha attratto tutta l’attenzione mediatica alla vigilia delle elezioni amministrative e regionali di domenica prossima.
Chi sono? Che cosa sta succedendo in Spagna?
«Sono architetti, avvocati, insegnanti, studenti universitari. Ragazzi giovani che hanno studiato, e ai quali le famiglie e i governanti hanno promesso un futuro e che non lo trovano. Non c’è. Per la prima volta dalla Guerra Civile in Spagna c’è una generazione che non ha prospettive di migliorare la propria vita. Mio nonno lasciò un Paese e una vita migliore a mio padre. E lo stesso accadde tra mio padre e me. Invece, oggi, io rischio di lasciare a mio figlio una situazione economicamente peggiore. Oggi ha sedici anni, ma se non succede nulla quando sarà più grande dovrà ricordare con nostalgia come viveva grazie allo stipendio di suo padre. Non avrà uno stipendio per vivere e da vecchio non avrà una pensione. La maggioranza dei giovani non trova lavoro e chi lo trova guadagna meno di mille euro al mese. Non si può vivere in un Paese europeo con meno di mille euro. A Madrid ne servono 700 solo per affittare una casa. E dunque? Sono giovani che non hanno alcuna prospettiva di diventare adulti. Hanno studiato, si sono laureati, hanno viaggiato, sono preparati, ma non hanno alcuna chance».
Che fine ha fatto la Spagna del boom? Quella che supera l’Italia tra le prime dieci potenze economiche mondiali? Che fa da battistrada per i riformisti di tutta Europa con i suoi progressi nei diritti civili e nelle libertà individuali?
«Era un’illusione, in gran parte. Abbiamo vissuto una stagione molto al di sopra delle nostre possibilità e i giovani di oggi stanno pagando il conto».
Non è incredibile la parabola di Zapatero, un leader che ha saputo sorprendere l’Europa con le leggi a favore dei diritti (divorzio espresso, matrimoni gay, aborto per le minorenni, coppie di fatto) e ora è travolto dall’economia?
«In Italia avete avuto una visione sempre troppo ottimista di Zapatero. È facile governare quando l’economia va bene ma il leader di un paese va giudicato di fronte alle crisi. Ritirarsi dall’Iraq fu un gesto di grande forza simbolica. Ma un politico si misura nelle crisi, nella capacità di reagire e di proporre soluzioni. E nella crisi economica Zapatero è stato un disastro. Non ha capito cosa stava accadendo e non ha saputo dare al Paese risposte concrete. La Spagna fashion, la Spagna di moda che vince i mondiali di calcio, produce i film di Woody Allen, abolisce perfino la corrida e si arrampica nel benessere era una irrealtà cui tutti abbiamo creduto e dalla quale nessun politico ci ha messo in guardia. Anzi. Io penso che l’immagine vera della Spagna di oggi, insieme ai laureati disoccupati o precari accampati alla Puerta del Sol, il chilometro zero, il punto dal quale si misurano tutte le distanze, sia Seseña, una urbanizzazione moderna alla periferia di Madrid che avrebbe dovuto accogliere 60mila abitanti e che oggi è praticamente vuota, abbandonata. Seseña è il simbolo del boom economico spagnolo sospinto dalla bolla della speculazione immobiliare. La bolla è scoppiata affondando tutto e i ragazzi piantano le tende al chilometro zero».
È proprio pessimista?
«No, credo nella Spagna ma condivido le ragioni di questa protesta. In piazza non ci sono degli idealisti rivoluzionari ma solo persone che chiedono una democrazia migliore. La democrazia perfetta non esiste, siamo tutti d’accordo, solo le dittature possono essere orrendamente perfette, ma la democrazia si può migliorare. Faccio un esempio: quando è iniziata la crisi finanziaria in Spagna abbiamo fatto come Obama negli Stati Uniti. Abbiamo aiutato le banche a non fallire perché se fosse saltato il sistema saltava tutto. Bene, ma si era anche detto che dopo sarebbero state messe delle regole. Invece non è cambiato nulla: quando ci sono difficoltà economiche paghiamo tutti mentre appena c’è da guadagnare qualcosa...».
Ma in Spagna c’è una "dittatura partitocratica" come dicono i giovani della Puerta del Sol?
«Credo di sì. La politica avrebbe bisogno di una vasta riforma. Per prima cosa andrebbero abolite le liste chiuse grazie alle quali le gerarchie dei partiti eleggono chi vogliono. L’elettore vota il partito, non le persone. E questo è sbagliato, regala un potere immenso alle élite dei partiti».
Un altro movimento nato grazie ai social network. Quanto assomigliano le proteste di Madrid alla primavera araba?
«Non darei troppa importanza ai social network. Sono strumenti. Twitter è lo strumento della protesta di oggi come nel ’68 erano i ciclostili. Invece riguardo alla primavera araba credo che Puerta del Sol le assomigli moltissimo. Al Cairo chiedevano la democrazia, a Madrid giustizia sociale e riforme. È un vento nuovo che sfida i politici di qualsiasi orientamento».
Finalmente l’INDIGNAZIONE: forte, chiara, pacifica, intelligente e soprattutto GIOVANE!
L’Italia Indignata è con il popolo e i giovani spagnoli!( El pueblo unido jamas serà vencido!)