«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai, 3
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogni creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore. 6
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno. 9
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi. 12
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna. 15
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto. 18
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona. 21
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro». 24
* Fonte: Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio XI (ripresa parziale).
"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). *
Sulle "Ali" di Dante, una "inedita" versione del "Padre nostro":
O AMORE,
SPIRITO SANTO,
PADRE NOSTRO,
CHE SEI NEI CIELI,
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME,
VENGA IL TUO REGNO,
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
COME IN CIELO COSI’ IN TERRA.
TU CI DAI OGGI IL NOSTRO PANE PIU’ SOSTANZIOSO,
E RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
TU NON CI INDUCI IN TENTAZIONE
MA CI LIBERI DAL MALE.
COSI E’: COSI SIA.
AMEN.
* CFR. GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA!!!
AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
*
L’amor che move il sole e l’altre stelle
Un verso
di Antonio Prete (Doppiozero, 07 Novembre 2016)
Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: schegge che si trasformano in sorgenti luminose, frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono.
L’amor che move il sole e l’altre stelle
L’ultimo verso del Paradiso di Dante, l’ultimo verso della Commedia. Certo, è un verso che viene dopo l’ultima terzina, conclusivo, ed è parte di una frase poetica, che è questa:
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore. Il libro della Commedia, il grande viaggio nei tre regni in cui vivono passioni e memorie e gesti e fremiti e sogni e fantasmi terrestri, ha al suo estremo la sconfinata apertura di una fisica cosmologica nella quale principio e respiro, energia e movimento sono compendiati nella parola amore. L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche, dove sigillo ed emblema è ugualmente la parola stelle: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, ultimo verso dell’ Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito.
Dante dà fondamento anche con questo ultimo verso - “l’amor che move il sole e l’altre stelle” - alla poesia d’amore occidentale, la quale declinerà in mille varianti la relazione tra l’amore e l’orizzonte cosmologico e stellare. Ma quest’ultimo verso raccoglie anche, come in uno sconfinato abbraccio, tutto quel che il canto, il XXXIII del Paradiso, il canto dell’ultima visione, ha messo in scena. A partire dalla preghiera di san Bernardo alla Vergine, nel corso della quale il santo indica, come in una pala d’altare, il poeta, il penitente giunto al termine della sua peregrinatio nell’oltremondo. Il poeta è invitato da Bernardo, dopo la bellissima sua intercessione, a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Dove si dischiude il trionfo della luce. La luce, qui, è pura luce, non affidata a raffigurazioni di colori e forme: non ci sono esseri di luce con il loro volto, le loro ali fiammeggianti, le loro vesti abbaglianti. La luce è tutta dispiegata nella sua astrazione, nella sua coincidenza con la verità, potremmo dire. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione: come il sentimento del sogno che persiste dopo che il sogno è svanito, lasciando una diffusa dolcezza, come la neve che al sole si scioglie, si dissigilla, come le foglie lievi su cui la Sibilla scriveva i responsi, foglie subito perse nel vento. Una dolcezza resiste dopo la visione. E il lettore può evocare la stessa dolcezza che appare nell’ultimo verso dell’Infinito leopardiano, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, anche quella dolcezza resto di un’estrema impossibile visione.
Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”. Solo un’approssimazione, una terrestre raffigurazione.
In quella “luce eterna” che è intendimento di se stessa, amore di se stessa, ordine impenetrabile, fondamento che sfugge allo sguardo, il poeta non può penetrare, e tuttavia gli sembra che in quella luce traspaia un colore, un’immagine: “mi parve pinta della nostra effigie”.
È l’immagine della terrestrità, del vivente umano osservato nel cuore di uno splendore indecifrabile. E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geometra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione. Un ultimo fulgore percuote la mente e porta il desiderio di conoscenza verso la sua meta, ma in quell’istante cessa ogni fantasia, deflagra ogni potenza fantastica. Il poeta è già nel cuore di quel movimento che ha l’amore come principio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
AMARE NEL MARE DELLA VITA. Riprendere la navigazione ...
Una nota *
SE è VERO CHE “La ricerca del grande amore si fa ormai soltanto on line” (Laura Vasselli, "InLibertà", 29 giugno 2020), e, al contempo, che “La truffa esiste anche in danno della vita sentimentale” (L. V., "InLibertà", 10 giugno 2020), in una società “liquida” - dove non c’è più né un Giardino per Adamo ed Eva né una Itaca per Ulisse e Penelope - il problema su cui fare chiarezza e “chiudere l’argomento” è : “se è vero che nella vita è necessario amare innanzitutto sé stessi, come si fa a lasciare posto all’amore per qualcun altro ?”.
CONOSCER-SI: IN PRINCIPIO ERA LA “PAROLA” (IL “LOGOS”). RICORDATO CHE “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima : così profondo è il suo lògos" (Eraclito, fr. 45), E, insieme, RIGUARDATA LA FOTO (vedi sopra: accanto al titolo, sul dito “indice” di “due persone” l’immagine di “due ancore”), RIPARTIRE PROPRIO DA QUI : DAll’ancoraggio di “due navi”, di “DUE PERSONE CHE DISCORRONO” (Ferdinand De Saussure). Mi sembra proprio una (bella riflessione e una) buona indicazione!
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan -
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
FLS
Il poeta e l’interprete: storia di una passione dantesca
di Valentina Pagnanini (Il Chiasmo/Treccani, 29 giugno 2020)
Ufficialmente è stato al servizio del governo cinese, prima interprete, poi diplomatico, infine console, appassionato di scacchi nonché grande conoscitore della lingua e cultura cinese, coinvolto in iniziative militari segrete: l’effettiva professione di Eugenio Volpicelli ancora oggi resta un mistero.
È stato uno dei più grandi sinologi italiani, tra i primi ad aver diffuso la Divina Commedia in Oriente, coltivando la passione per Dante oltre l’attività diplomatica. È grazie a lui se nell’Ottocento in Cina iniziarono a circolare le prime traduzioni del poema dantesco, l’opera più rappresentativa della cultura italiana in Asia. A far luce su alcuni periodi oscuri della sua vita interviene il saggio di Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, nel quale si ripercorrono i viaggi, le missioni diplomatiche e gli incontri politici di Volpicelli e della moglie Iside. Quello tra i due coniugi è stato un sodalizio affettivo e ideologico. Eugenio e Iside si sono sposati a Milano il 14 febbraio 1891, insieme hanno condiviso l’amore per Dante e per la patria, le missioni diplomatiche e i segreti di stato, nonché i viaggi, da Milano a Hong Kong, a Nagasaki e Macao.
L’interesse per Dante sorge in lui in giovane età. La formazione di Volpicelli è affidata all’Istituto Orientale di Napoli, un unicum organizzato sul modello del Collegio dei cinesi, che costituisce la base per la sua attività diplomatica. Qui egli studia con profitto la letteratura italiana e le lingue orientali, per primo ottiene «una borsa di studio offerta dall’Istituto asiatico. E agli esami finali del 1881 si posizionò ancora una volta in testa a lla classifica. Dieci decimi in persiano e arabo, lingua questa che fu incaricato di insegnare» riporta Eric Salerno. In quello stesso anno, appena diplomato, egli decide di abbandonare Napoli e di seguire il richiamo dell’Est.
Volpicelli si interessava ai complotti della diplomazia e alle strategie politiche, praticava l’arte della guerra sfidando gli alti ufficiali a scacchi e wei ch’i, un gioco molto praticato in Giappone come esercizio di tattica militare, «istruttivo nell’arte della guerra». Si appassiona a tal punto da pubblicare due articoli su di essi per il Journal of the North China Branch of the Royal Asiatic Society di Singapore. «L’oggetto del gioco di wei ch’i può apparire molto facile, eppure sarà sufficientemente difficile portarlo a termine. Si tratta di occupare più spazio possibile sul tavolo e di impedire all’avversario di fare lo stesso» scrive nel 1892 e continua: «l’interesse del gioco non è concentrato in un posto come con gli scacchi, intorno al re, ma è sparpagliato ovunque sul tavolo, in quanto ogni singolo posto ha un effetto ugualmente importante nel risultato del gioco e conta nel totale finale che rappresenta la posizione delle due parti alla fine della lotta». Per concludere il gioco, «tradotto in termini militari, più che dare scacco matto al re bisognava puntare alla conquista del territorio». In ventotto pagine di spiegazioni e illustrazioni Volpicelli forniva le prime istruzioni di gioco del wei ch’i in una lingua europea, l’inglese. Se in Cina «lo veneravano come esperto degli scacchi cinesi», in Italia «lo idolatravano come uno dei primi ad aver compreso e descritto la struttura della lingua cinese, tra i simboli e le tonalità più diverse».
Egli arriva in Cina sul finire del diciannovesimo secolo e trova un paese profondamente diverso rispetto ai suoi studi, in piena crisi e in balia di conflitti interni ed esterni. Il suo primo incarico inizia nel 1882 ad Amoy, l’attuale Xiamen, porto strategico per le esportazioni di tè nel corso del Novecento. Qui, Volpicelli risiede per un lungo periodo, alternando visite alla capitale e ad altre città d’interesse coloniale, e racconta con orgoglio di una sua impresa compiuta in quegli anni che gli valse un importante impiego. Egli riuscì a circumnavigare a nuoto l’isola di Kulangsu - chiamata anche l’isola dei pianoforti per la più elevata presenza dello strumento musicale - prova della sua intraprendenza e coraggio, nonché di virtù. L’episodio fu seguito dall’assegnazione di un nuovo mandato: si richiedeva la sua presenza come interprete nella missione imperiale cinese volta a ottenere un armistizio con la Francia per il comando del Tonchino. Volpicelli prese parte alla missione, coordinata dalle dogane dell’impero, e diede prova delle sue abilità dialettiche. «Ebbe diritto, in segno della gratitudine cinese, all’ordine del Doppio Dragone» nota Eric Salerno, Parigi invece «insignì Volpicelli della commenda del Dragone dell’Annam, creata ad hoc per chi aveva fornito assistenza durante le operazioni navali in quel settore del Sudest asiatico».
La sua fama era giunta ben presto anche in Italia, il suo volto si stagliava in primo piano sulle copertine delle riviste italiane, le sue imprese erano motivo di orgoglio e onore per il governo italiano. L’8 novembre 1885 è dedicata a lui la copertina Un mandarino italiano in Cina del settimanale L’illustrazione italiana dove appare un’immagine di Volpicelli, fotografato con un casco coloniale in testa, corredata dalla didascalia: «L’italiano Volpicelli e i plenipotenziari per la pace in Cina». L’articolo menzionava le missioni diplomatiche nel Tonchino e in Corea, alle quali aveva partecipato Volpicelli come interprete e mediatore degli interessi italiani, ottenendo per i suoi servizi una commenda cinese:
La carriera di Volpicelli però non fu sempre costellata da riconoscimenti e onorificenze. Ci furono anche momenti bui, periodi di sospetti, critiche e accuse che coinvolsero Volpicelli in intrighi diplomatici. In Gran Bretagna c’era molta attenzione al modo in cui circolavano le informazioni e venivano diffuse le notizie, soprattutto nell’ambiente diplomatico. Volpicelli, d’altro canto, si interessava a questioni appartenenti non soltanto alla sua sfera di competenza, ma dava suggerimenti anche in altri ambiti, come nel campo militare, consigliando con perizia strategie e nuove mosse, tattiche da esperto giocatore di scacchi e wei ch’i. Fu proprio questa sua curiosità a procurargli degli inconvenienti politici. Se nel 1885 Eugenio Volpicelli era ritenuto degno di una delle più alte onorificenze cinesi e stimato in tutta Europa, trent’anni dopo, nel 1914 per l’esattezza, il suo operato non era più ben visto in Occidente e fu in breve tempo allontanato dalla sfera pubblica. Abbandonati gli incarichi ufficiali, egli si dedica alla lettura e alla scoperta dell’opera di un grande poeta e scrittore, viaggiatore esiliato come lui dai pubblici offici: Dante Alighieri.
Come sottolinea il filosofo Aijaz Ahmad in Orientalismo e dopo (2009), «Dante è la figura centrale attraverso cui si possono gettare dei ponti fra l’Antichità e la modernità», questo perché, secondo la definizione dell’orientalista Edward W. Said, «la forza poetica di Dante contribuisce a intensificare e generalizzare questa prospettiva [Orientalista] dalla quale l’Oriente è contemplato». Volpicelli avrebbe condiviso la passione per il poeta fiorentino con suo cugino Francesco Torraca, celebre commentatore della Divina Commedia, che nei primi anni del Novecento era professore di letteratura comparata all’Università Federico II di Napoli. La passione per il sommo poeta lo accompagnò sin dagli inizi, già a Napoli da studente era solito frequentare salotti rinomati nei quali veniva letto Dante.
Oltre l’attività di «interprete, diplomatico, storico e forse qualcos’altro, [Eugenio] si servì di una penna brillante per raccontare momenti importanti della sua avventu ra in Oriente e per spiegare ad altri diplomatici, ministri, re e principi, e poi alla gente comune, la realtà di quel mondo», di quella stessa penna si servì anche, e soprattutto, per tradurre Dante e farlo conoscere al pubblico cinese. «L’autore della Commedia fu sempre nel cuore e nella mente del nostro console generale» racconta Salerno.
L’amore per Dante era nato in Volpicelli da studi e ricerche, letture appassionate e ancora ricerche, Eugenio si era interessato alla vita del poeta in alcuni anni così simile alla sua, una carriera trascorsa al servizio del potere pubblico oscurata da false accuse di corruzione, l’allontanamento dalla propria patria più o meno forzato, la passione per i viaggi e le infinite peregrinazioni. Dante scrive: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete», e anche Volpicelli, in definitiva, fu un pellegrino. Confrontando l’Alighieri e il Volpicelli, si notano molti punti di contatto tra le due esperienze biografiche: due uomini politici, il letterato e l’interprete, entrambi orfani fin da giovani, ma con una vasta rete di amicizie, i loro anni migliori spesi tra l’otium litterarum e il negotium. Dal 1319 al 1321 anche Dante era stato ambasciatore, a Venezia, al servizio del signore di Ravenna Guido da Polenta. Comune anche l’interesse per le strutture della lingua, italiana per il poeta, cinese per il console, e per i numerosi dialetti coesistenti, alla ricerca di una lingua comune.
Nel 1942, è Anna Silvia Bonsignore, giornalista per L’Ambrosiano milanese di Umberto Notari, che nell’elzeviro Sull’italiano creato mandarino racconta all’Italia della passione dantesca di Volpicelli e segnala anche un suo viaggio in Cina alla ricerca di Dante. Volpicelli riscontra delle «similarità tra la carriera di Dante e quella del grande saggio cinese Confucio», al punto tale da intraprendere una traduzione della Commedia in lingua cinese. Egli aveva ritrovato nei testi filosofici cinesi echi del poema dantesco, che si traducevano in raffigurazioni, simboli e descrizioni strettamente legati alla Commedia. Si legge da un originale autobiografico del diplomatico:
Esattamente un secolo fa, in Cina, Eugenio Volpicelli rivelava al mondo la sua passione per l’opera dantesca, celebrando l’amore di Dante per Beatrice proprio nel ventottesimo anniversario del suo matrimonio, simbolo del duplice legame, affettivo e letterario, che lo univa indissolubilmente al sommo poeta.
Per saperne di più:
Si consiglia la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018. Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini: Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48 e La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; sui rapporti storico-letterari tra l’Italia e la Cina, si suggerisce il volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. Sull’orientalismo si propongono i testi: E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; A. Ahmad, Orientalismo e dopo, in M. Mellino (a cura di), Post-orientalismo, Meltemi, Roma, 2009.
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
Covid-19.
Bartolomeo I: la preghiera comune vero atto di libertà per evitare il baratro
Sulla giornata di preghiera di oggi il patriarca ecumenico di Costantinopoli: "Nessun sincretismo". "Chiudersi all’altro tradisce l’idea di Dio". "Amore e solidarietà è la via"
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 14 maggio 2020)
«Amore e solidarietà sono gli aspetti positivi della preghiera mondiale, per un cambio di mentalità... Il tempo delle parole è finito, ora possono solo iniziare le opere. Possiamo pertanto affermare che la preghiera comune sarà un passo importante nella volontà di evitare il baratro». Aderendo alla proposta dell’Alto Comitato per la fratellanza umana, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I ha fin dal primo momento sottolineato l’importanza che i credenti di tutte le religioni si uniscano in preghiera a implorare l’aiuto per tutta l’umanità nel tempo segnato dalla pandemia che il mondo sta attraversando. E per “Avvenire” così risponde.
Santità, perché è importante questo momento di preghiera comune fatta da appartenenti di diverse religioni? La preghiera comune non è un atto di sincretismo religioso ma un vero atto di libertà, caratterizzato dalla capacità di ogni essere umano di porsi in relazione con Dio per il bene di tutti. La libertà della preghiera è il primo elemento che caratterizza ogni dialogo umano, perché è dialogo con Dio. Non è altresì una forma di panteismo, ma è relazione intima, profonda e sacra tra il creato e il Creatore. È intima, perché nella preghiera di ogni essere umano vi è una sinergia relazionale che parte dal cuore sensibile dell’uomo. È profonda, perché pone ogni creatura a guardare in sé stesso, senza essere vittima di condizionamenti esterni, che alterano la visione profonda di Dio. Infine, è sacra, perché nella sacralità della persona umana vi è la comune appartenenza alla famiglia umana, che non propone rapporti di tolleranza, ma rapporti di uguaglianza, che non è fondamenta-lista o fanatica, ma capace di trovare le ricchezze della fede o anche dei riferimenti metafisici in tutti gli aspetti della religiosità dell’uomo. La preghiera comune pertanto supera le persecuzioni, perché esse non hanno diritto di cittadinanza; supera ogni atto di tolleranza, perché non c’è qualcuno che permette e qualcuno che accetta il permesso dell’altro; supera l’integralismo, perché esso è la negazione della libertà e se si nega la libertà, si nega anche il rapporto tra Dio e l’uomo.
Come si deve intendere anche il gesto del digiuno legato alle opere di carità? Il digiuno, come modo di preghiera e le opere di carità, come atto di ogni rapporto umano. Nella storia bimillenaria della Chiesa, il digiuno non è assenza o riduzione di cibo o altro, ma è un atteggiamento insito nell’uomo che si fa preghiera in Dio. Gesù stesso ha digiunato e ha insegnato come il vero digiuno spirituale possa vincere ogni forza avversa. E nella libera preghiera e nel digiuno spirituale non può mancare l’attenzione verso i fratelli. Allora questa preghiera mondiale trova il suo vero modo di essere vissuta, partecipata e sicuramente ascoltata e ne spiega la sua importanza.
Questi gesti quali sviluppi posso portare in questa umanità sconvolta dalla pandemia? Da troppi anni, l’umanità non è stata attenta al grido di dolore che saliva dalla creazione di Dio. Un piccolissimo e sconosciuto virus, ci ha fermati. L’intera umanità si è accorta della sua fragilità, della importanza dei rapporti interpersonali e ancora una volta si trova ad un bivio dopo questa esperienza. Il tempo delle parole è finito, ora possono solo iniziare le opere. Possiamo pertanto affermare che la preghiera comune sarà un passo importante nella volontà di evitare il baratro. Innalziamo la nostra preghiera a Dio con fede, supplichiamo con la certezza dell’ascolto, imploriamo con lacrime di vera contrizione. Come sviluppo positivo del gesto della preghiera comune di tutta l’umanità ribadiamo di vivere questo periodo come un cammino del deserto per giungere in sicurezza alla Terra Promessa, quando la scienza, per grazia di Dio, vincerà la battaglia col virus. Perché siamo sicuri che, anche con le nostre preghiere, vincerà. E la prova è una occasione per cambiare al meglio. Nella direzione di rafforzare l’amore e la solidarietà. Amore e solidarietà sono gli aspetti positivi della preghiera mondiale per un cambio di mentalità.
Qual è il contributo che possono dare le religioni per un mondo più vivibile? Possono aprire alla vera conoscenza dell’altro. La chiusura, in ogni religione, è da considerarsi di per sé stessa un tradimento e un offuscamento dell’idea di Dio e di Divinità. Conoscere significa partecipare alla vita intima del fratello che abbiamo accanto, significa superare gli stereotipi che arrivano da altre epoche, significa capire, comprendere, apprezzare e quindi rispettare e amare. Il rispetto e l’amore portano al dialogo, non per una “unica religione mondiale”, come alcune volte sentiamo dire, ma perché il dialogo forma la base profonda etica e spirituale dell’uomo. Se le religioni del mondo sapranno fare di questo dialogo la loro forza, allora anche la loro fede, il loro Credo sarà rafforzato, non contro qualcuno, ma a favore di tutti. Le religioni saranno così portavoci di una “società aperta” dove non avrà la ultima parola solamente la omogeneizzazione economica e lo sviluppo basato sul principio della autonomia dell’economia, ma saranno espressioni di fede nella libertà e nella dignità umana. (Si ringrazia per la traduzione p. Athinagoras e Nikos Tzotis)
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
Celebrazioni. Nel 2021 cadono i 700 anni della morte del poeta. Oltre 300 i progetti programmati in Italia e nel mondo, con al centro la «Commedia»
L’Alleluja eterno di Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020).
Abbiamo appena celebrato i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello (6 aprile), e già s’annunciano i 700 anni dalla morte di Dante (1321), preceduti dall’aver posto in calendario l’annuale “giorno di Dante” al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e inizio a Firenze, all’epoca di Dante, dell’anno civile.
Il tempo pasquale è propizio a ricordare che l’iter della Divina Commedia si svolge, nella finzione del poema, nella settimana santa del 1300, anno del Giubileo. È dunque, eminentemente, un poema di Resurrezione e Dante stesso, al sommo del Purgatorio, descrive in una luminosa terzina il gaudio a venire dei risorti: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando » (XXX, 13-15).
Nel nome del realismo, il secolo XIX, e in particolare Francesco De Sanctis, ha celebrato la cruda materia dell’Inferno, riscattato in amore e dignità dai canti di Paolo e Francesca e di Ulisse. I grandi scrittori del Novecento hanno preferito il Purgatorio, il «dolce color d’orïental zaffiro», così caro a Borges (Sette notti), o il Paradiso dell’esilio dolorosamente rimeditato da Mandel’štam: «Dall’alto di scale inumane / Davanti a palazzi tutti spigoli, / Alighieri poteva cantare / più intensamente la sua Firenze / con la labbra riarse» (Quaderni di Voronej, 1935-1937); o quello tellurico, e cosmico, descritto da Saint-John Perse, il poeta di Anabase e di Exil, nel commentare l’incipit del canto II: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca», così chiosando: «Non si era più intesa una voce siffatta dall’antichità latina. Ed ecco che questo canto non è più reminiscenza, ma creazione reale, e come un canto d’alveare che sciama verso l’Ovest, con il suo popolo di Sibille. [...] Poesia, ora dei grandi, cammino d’esilio e d’alleanza, lievito dei popoli forti, e levarsi degli astri presso gli umili» (Per Dante, 1965). Sì, Dante non è più, o solo, «reminiscenza» (anche se andrebbe sempre studiato a memoria), ma è futuro, per il XXI secolo: «È assurdo leggere i canti di Dante senza attrarli verso l’attualità. Essi sono fatti per questo. Sono dei proiettili lanciati per cogliere l’avvenire. Esigono un commento in futurum » (Mandel’štam, Conversazione su Dante).
Le celebrazioni del prossimo anno hanno suscitato un grande fervore: al Comitato nazionale per le Celebrazioni dantesche, istituito dal ministro Dario Franceschini, sono pervenuti oltre 300 progetti, da tutta Italia, dall’Europa, dall’America latina, dagli Stati Uniti; iniziative che toccano tutte le arti, la musica, il teatro d’opera e di parola, i Musei, gli Archivi, le città di Dante, le Accademie, le Università, le scuole.
Dante è veramente, come voleva Ezra Pound, everyman, ciascuno di noi; nello scorcio del XX secolo la voce di Carmelo Bene, di Vittorio Sermonti, di Vittorio Gassman, e soprattutto di Roberto Benigni, ha portato la Commedia sullo schermo televisivo e nelle piazze; Dante è davvero “popolare”: ci si può compiacere, ove questo non significhi recitarlo per via un giorno all’anno e perderne la lettura - lettura integrale del poema - nelle scuole.
In questo senso Dante è specchio fedele del nostro tempo: la maggior parte dei progetti presentati riportano Dante allo spettacolo, alla scena; o a una miriade di convegni a venire, propri dell’opificio accademico. Dante non è tuttavia un poeta della festa, ma dell’esilio, dei destini ultimi dell’umanità: Dante non si compiace mai dell’indugio (tranne un istante con Casella), corre al “fine ultimo”, con ansia e con sete: «[nel poema] le immagini si separano e si danno addio. È duro ascendere le balze dei suoi versi, colmi di addii» (ancora Mandel’štam).
Dante è un poeta in futurum: attenderà, finita questa pandemia, noi, al chiuso ora, guidandoci con la mansueta dolcezza dei suoi versi: «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso; // e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; // sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta, / pudica in faccia e ne l’andare onesta» (Purgatorio, III, 79-87).
È un poema infinito, e che tuttavia si chiude: « A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 142-145; il compito del poeta termina; a colui che ha fatto il cammino di Croazia per vedere il volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, la Grazia concede che desiderio e volontà infine si appaghino e si riducano a un solo ordine universale, come splendidamente annota il Tommaseo: «Fantasia: La visione delle cose celesti rende inutile la fantasia, che fa luogo al puro intelletto. Volgeva: Dio volgeva con libero equabile tranquillo moto, soddisfatti, il mio desiderio e l’amore».
Si chiude infine la lunga battaglia della tentazione, del contendere del Bene e del Male, in quel velle redento, che era stato avvolto nei vincoli e nelle insidie del Maligno, secondo le Confessioni di Agostino: «Velle meum tenebat inimicus» (VIII, 10).
Il poema va letto nell’asprezza di questo ruvido certame: due cantiche su tre (Inferno e Purgatorio) parlano di pene: eterne o redimibili; il Paradiso terrestre è vuoto; anche nel Paradiso Dante è costantemente interrogato (sulla fede, speranza, carità), rivelato dall’avo il destino d’esilio, lontanando infine nella gloria anche Beatrice. Ma quel velle placato è pur la fine del trionfo del Dies irae: «Dies irae, dies illa, / Solvet seclum in favilla,/ Teste David cum Sybilla», poiché ora la Sibilla e le sue sentenze si sciolgono per sempre: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Paradiso, XXXIII, 64-66).
Solo alcuni grandi scrittori del Novecento hanno inteso questo “petroso” agone del poema; vorrei ricordare su tutti Flannery O’Connor che al culmine del suo Diario di preghiera si affisa su quella soglia, di grazia e di tormento, che è l’ingresso del Purgatorio, descritto da Dante con crudo espressionismo: «Là venimmo: e lo scaglion primaio / bianco marmo era sì pulito e terso, / ch’io mi specchiai in esso qual io paio. // Era il secondo tinto più che perso, / d’una petrina ruvida e arsiccia, / crepata per lo lungo e per lo traverso» (IX, 94-99).
Flannery O’Connor non sceglie il primo gradone, lo specchiarsi di una coscienza lacrimata e detersa; si inginocchia, con Dante, sul secondo, nel triturarsi della contritio smarrita di fronte alla parete, come di sangue, che «sopra s’ammassiccia». Della Commedia soltanto questo la urge, questa carcerazione che scarnifica: «Chiedi / umilmente che ’l serrame scioglia» (ivi, 107-108). Per poi confessare, vera lettrice di Dante e della sua scarna oltranza: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore» (Diario di preghiera, nota del 25 settembre [1946]).
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Carlo Ossola presiede il Comitato nazionale per le celebrazioni di Dante, 2021, ed attende (con Luca Fiorentini, Pasquale Porro, Jean-Pierre Ferrini, Stéphanie Vermot) all’edizione bilingue «Pléiade» della Divina Commedia
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LE INIZIATIVE E LA NUOVA EDIZIONE COMMENTATA DEGLI SCRITTI
«Lectura Dantis» a Roma. Per il settimo centenario della morte di Dante (settembre 2021) si stanno progettando iniziative, spettacoli (a Pompei), mostre, convegni (anche online). Prosegue la nuova edizione commentata degli scritti del poeta per l’Editrice Salerno: in autunno uscirà il volume VII/2 con le Opere già attribuite a Dante; in primavera ’21 è previsto il Convivio e l’Inferno per novembre ’21. L’edizione dei Commenti danteschi, sempre da Salerno, vedrà quello alla Commedia di Pietro Alighieri (autunno ’20) e di Bernardino Daniello (primavera ’21). Sul sito casadidanteinro ma.it (in foto, la casa a Roma) ci sono le registrazioni degli incontri avvenuti e i programmi futuri della «Lectura Dantis» romana che, ora fermata dal virus, si svolge la domenica alle 11: mai interrotta dal secondo dopoguerra. Inoltre ricordiamo di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, 2019): è un repertorio con tutti i luoghi del poema.
LE MINORANZE POSSONO FARCI USCIRE DAL SECOLO DELL’ORRORE
dii Franco Fortini (il manifesto, 28 ottobre 1986).
Non voglio davvero disconoscere che la libertà minore (pedagogica perché fortifica, per via di esperimento ed errore, il soggetto disordinato, e lo introduce al sistema di premi e di punizioni che l’esistenza è) non sia anche apportatrice di salubrità, di salute. Anzi, nel nostro presente che è feroce con i deboli e li sopprime ai minimi vitali (o anche al di sotto di quelli) e si vanta del sangue che la sera si trova sotto la suola delle scarpe, la libertà di disporre del cibo e del letto, delle vesti e delle medicine sarà certo meno terapeutica della volontà di quanto non siano le libertà di scelta ma è, di queste ultime, la condizione prima.
Bisogni e desideri, necessità e fantasmi sono inseparabili e in continuo transito gli uni attraverso gli altri. Per non averlo capito in tempo, la tradizione laico-liberale e quella socialista, a eccezione di pochi che onoriamo, si sono presentate impreparate all’appuntamento dei nostri decenni e hanno continuato a ripetere i luoghi comuni dell’autocoscienza individuale oppure di un impegno politico che tutto delegava al Partito, inteso quale supremo gestore dell’autocoscienza.
E proprio per questo è potuto sembrare invece che, chiamata da Eliot la “infermiera agonizzante”, la Chiesa terapeuta e taumaturga sia stata capace di supplenze allo stato, di unificare apostolato e guarigione, politica sacramentale e pedagogia della salvezza; né sarebbe male che vi guardassimo più da vicino.
Per decine di anni troppa parte dell’ottimismo scientifico e delle illusioni sono passate, senza reale verifica, dalla tradizione giacobina o democratico-laica a quella comunista; che, come abbiamo vissuto, quando le fallisca il duro padre leninista ricorre ai miti sentimentali che hanno abbeverato progresso e industria, dai saint-simoniani al New Deal.
Mi permetto rammentare, di passaggio, che non si è data sufficiente attenzione ai punti di contatto tra il pessimismo antropologico che è proprio della storica “terapia” cristiana e quello storico di una parte rilevante, sebbene minoritaria, del marxismo moderno. Per il cristiano l’uomo è costituzionalmente ammalato, leso da un vulnus originario che lo ha reso separato dalla natura edenica; la sua guarigione è salvezza e si attua fuori dal tempo, il presente non è che figura di un altro presente immutabile. Ma anche una parte del pensiero rivoluzionario, quella non rousseauiana né positivistica, non hanno una mera fine ma solo una trasformazione storica, non solo una funzione negativa ma anche una positiva.
Solo l’ammalato può allora essere il terapeuta dell’ammalato, secondo la parola brechtiana, sklaven verden dich befreien “schiavi ti libereranno”. Nei medesimi anni di Brecht, inascoltati dalla sinistra dell’ottimismo “progressista”, lo dicevano anche Simone Weil e Ernst Bloch. Ma se era relativamente facile dire questo pensando alle classi umiliate e offese dell’Europa di cinquant’anni fa, chi realmente oserebbe oggi proporre, accanto a quelle, come terapeuti o liberatori, come i re guaritori o lebbrosi della leggenda, gli schiavi, i malati, i feriti del terzo e quarto mondo? O i nuovi barbari delle nostre periferie? Eppure, non dimentichiamolo, fu questa la sfida cui si confrontarono cent’anni fa i rivoluzionari europei.
Il ruolo terapeutico di “pratiche sociali”.
Una volta avrei capito subito che cosa si intendesse con “pratiche socali”; oggi, ma dubitosamente, credo che si alluda all’area vastissima e giustamente imprecisa, che è oggetto di volontariato o semi-volontariato o di particolari attività amministrative, dove si lavora a contatto di situazioni generalizzate, prodotte dalla società presente ma che, essa situazione, nelle proprie istituzioni, è incapace di gestire e trasformare. A me pare che la particolare condizione di queste “pratiche sociali”, nel loro inevitabile ambiguo rapporto con le istituzioni dello stato del “benessere” o “sociale” (e con quelle sue sottosezioni che sono i partiti) le volga a qualcosa che non è soltanto fattuale, empirico, immediatistico bensì a qualcosa che “deve o “dovrà” essere.
La “pratica sociale” sembra, fortunatamente, eccedere proprio quel frazionamento degli uomini, quella reificazione in figure e ruoli che è, a mio avviso, l’inevitabile e già ovunque visibile conseguenza delle prediche sulla “fuga dal centro” e sulla fine dei progetti di futuro. L’Occidente conosce benissimo questi corpi intermedi fra partecipazione e secessione. E’ inevitabile che i poteri centrali diffidino, tentino di inglobare o controllare o, al bisogno perseguitino, come fu con i Giansenisti e con gli anarchici. Questi microrganismi sono naturalmente terapeutici, sono libertà e la portano, enzimi del corpo sociale e, come spesso ripetono,”nel mondo ma non del mondo”.
Nessuna di queste istituzioni di mutuo soccorso psichico e fisico, ideologico e corporeo, può evitare, come un qualsiasi Esercito della salvezza, il passaggio dalla minestra all’opuscolo, al libretto rosso o verde, all’invito a film, riunioni o feste; ma che dico, non può e neanche deve, perché il ruolo terapeutico di queste pratiche sociali è proprio di essere un indice teso a qualcos’altro, a un dover essere, a un “oltre” e, se non lo sono, allora valgono quanto il medico della mutua, i congressi dei partiti, il campionato di calcio o il Te Deum a Santiago.
Per dire tutto in una formula: la condizione che chiamiamo di libertà - da qualcosa e per qualcosa - non è terapeutica o lo è solo se contiene in sé la possibilità di un superamento di se stessa ossia una obbligazione e un impegno, quindi una accettata limitazione di se stessa per un fine e un orizzonte ulteriori.
Quanto affermo va contro il costume intellettuale ereditato dal progressismo. In una società che non vuole sentirne parlare (o vuol sentirne parlare soltanto “a destra” ossia con ben precise garanzie di ordine sociale) quanto affermo implica anche considerare terapeutico ciò che indirizza gli investimenti libidinali verso quel che oltrepassa la nostra biografia, dunque verso una repressione.
Non sarà possibile mutare il presente senza minoranze che sviluppino e pratichino terapie e autoterapie mirate direttamente alla fuoriuscita dal secolo degli orrori e stupidità cui siamo avvezzi. Sotto la sua pupilla di Medusa, l’esperienza della prima metà del secolo ci ha pietrificati a segno che queste mie parole appaiono, nella più benevola delle ipotesi, come patologia autoritaria.
Rassicuriamoci, non propongo l’Opus Dei né la Terza Internazionale. Ho detto “minoranze”, ma quello di cui sto parlando riguarda tutti, terapeuti e pazienti, portatori di salute e di un possibile rationale obsequium, di una razionale ubbidienza a quanto senza alcun dubbio si configura come una forma o figura di Super IO.
Probabilmente è quella di cui parla la Commedia quando in vetta al Purgatorio, allo homo viator chiamato Dante Virgilio dice che ormai incorona te sovra te, indicando il segno di una salute raggiunta non in una unità ma in una divisione accettata fra un sé universale e un sé particolare.
Anzi, il primo segno ed esercizio di una libertà ricevuta o recuperata è in quel processo ininterrotto di identificazione e di separazione, fra momento di autorità (interiore o esteriore) e momento di ubbidienza (interiore e esteriore). Ecco perché al celebre motto liberale “La mia libertà finisce dove comincia la libertà di un altro”, non da oggi ma da un secolo si replica: “La mia libertà comincia esattamente e soltanto dove comincia la libertà di un altro”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
Santa Marta.
Il Papa: si trovino soluzioni a favore dei popoli, non del denaro
Francesco prega perché i governanti e gli scienziati trovino la strada giusta alla crisi causata dal Covid-19, soluzioni che siano a favore della gente
di Vatican News *
Nell’omelia, Francesco ha commentato il Vangelo odierno (Mt 28, 8-15) in cui Gesù risorto appare ad alcune donne esortandole a riferire ai suoi discepoli di andare in Galilea: là lo vedranno. Nel frattempo, annota l’evangelista, i sacerdoti corrompono i soldati posti a guardia del sepolcro, dicendo di riferire che i discepoli di Gesù erano giunti di notte rubando il corpo mentre loro dormivano. Il Vangelo - ha affermato il Papa - propone una scelta che vale anche per oggi: la speranza della resurrezione di Gesù e la nostalgia del sepolcro.
Così, nel trovare soluzioni a questa pandemia, la scelta sarà tra la vita, la resurrezione dei popoli, e il dio denaro. Se si sceglie il denaro, si sceglie la via della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro. Il Signore, è la preghiera del Papa, ci aiuti a scegliere il bene della gente, senza mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Vangelo di oggi ci presenta un’opzione, un’opzione di tutti i giorni, un’opzione umana ma che regge da quel giorno: l’opzione tra la gioia, la speranza della resurrezione di Gesù, e la nostalgia del sepolcro.
Le donne vanno avanti a portare l’annuncio: sempre Dio incomincia con le donne, sempre. Aprono strade. Non dubitano: sanno; lo hanno visto, lo hanno toccato. Hanno anche visto il sepolcro vuoto. È vero che i discepoli non potevano crederlo e hanno detto: “Ma queste donne forse sono un po’ troppo fantasiose” ... non so, avevano i loro dubbi. Ma loro erano sicure e loro alla fine hanno portato avanti questa strada fino al giorno d’oggi: Gesù è risorto, è vivo tra noi. E poi c’è l’altro: è meglio non vivere, con il sepolcro vuoto. Tanti problemi ci porterà, questo sepolcro vuoto. E la decisione di nascondere il fatto. È come sempre: quando non serviamo Dio, il Signore, serviamo l’altro dio, il denaro. Ricordiamo quello che Gesù ha detto: sono due signori, il Signore Dio e il signore denaro. Non si può servire ambedue. E per uscire da questa evidenza, da questa realtà, i sacerdoti, i dottori della Legge hanno scelto l’altra strada, quella che offriva loro il dio denaro e hanno pagato: hanno pagato il silenzio. Il silenzio dei testimoni. Una delle guardie aveva confessato, appena morto Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Questi poveretti non capiscono, hanno paura perché ne va della vita ... e sono andati dai sacerdoti, dai dottori della Legge. E loro hanno pagato: hanno pagato il silenzio, e questo, cari fratelli e sorelle, non è una tangente: questa è corruzione pura, corruzione allo stato puro. Se tu non confessi Gesù Cristo il Signore, pensa perché dove c’è il sigillo del tuo sepolcro, dove c’è la corruzione. È vero che tanta gente non confessa Gesù perché non lo conosce, perché noi non lo abbiamo annunciato con coerenza, e questo è colpa nostra. Ma quando davanti alle evidenze si prende questa strada, è la strada del diavolo, è la strada della corruzione. Si paga e stai zitto.
Anche oggi, davanti alla prossima - speriamo che sia presto - prossima fine di questa pandemia, c’è la stessa opzione: o la nostra scommessa sarà per la vita, per la resurrezione dei popoli o sarà per il dio denaro: tornare al sepolcro della fame, della schiavitù, delle guerre, delle fabbriche delle armi, dei bambini senza educazione ... lì c’è il sepolcro.
Il Signore, sia nella nostra vita personale sia nella nostra vita sociale, sempre ci aiuti a scegliere l’annuncio: l’annuncio che è orizzonte, è aperto, sempre; ci porti a scegliere il bene della gente. E mai cadere nel sepolcro del dio denaro.
Il Papa ha terminato la celebrazione con l’adorazione e la benedizione eucaristica, invitando a fare la Comunione spirituale. [...].
* Avvenire, lunedì 13 aprile 2020 (ripresa parziale).
DOPO I “VENTICINQUE SECOLI” DI DANTE, I "TREMILA ANNI" DI GOETHE, E I "MILLE ANNI DOPO DAVIDE E GIONATA" .. *
Idee.
Se gli amici fanno le ali della storia
La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 9 aprile 2020)
Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri-scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.
Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze brevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi.
L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche.
Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.
Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Il cristianesimo non ha inventato l’agape lo ha semplicemente visto ed esaltato. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente sono tutti presenti nell’amicizia, che non è solo philia. Non dobbiamo, infatti, commettere l’errore di pensare che l’amicizia sia espressa dalla sola parola philia. No. Perché anche nel mondo greco la philia non è mai sola, è la philia la prima ad avere bisogno di amici.
La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci. Pochi dolori sono più grandi di quello per la morte di un amico - in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos.
Il bel libro di Pietro del Soldà, noto conduttore di Radio3 e filosofo, dal titolo suggestivo Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, pagine 152, euro 16), ci offre una occasione propizia per riflettere, oggi, sull’amicizia. Del Soldà lo fa a partire dalla filosofia e dal mondo greco. Questa mia pagina lo fa prendendo le mosse dalla Bibbia, una seconda radice profonda dell’Umanesimo occidentale. La Bibbia non parla molto di amicizia. Ma ne parla, e in alcuni libri le ha dato un posto centrale.
A partire dall’Adam, l’essere umano, che è anche amico di Dio, prima di essere amico della donna e degli altri uomini. E non certamente a caso in uno degli ultimi episodi dell’ultimo vangelo, quello di Giovanni, troviamo un bellissimo dialogo sull’amicizia: «Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [philia]?» ( Vangelo di Giovanni 21,15-17). Un gioco di parole e di verbi che si perde nelle lingue moderne, ma chiarissimo nell’originale greco.
Il libro di Giobbe, ad esempio, è composto essenzialmente di dialoghi con i suoi amici: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Levarono la loro voce e si misero a piangere » (Giobbe 2,11-12).
Dal contesto si capisce che questi uomini che si recano presso il mucchio di letame di Giobbe siano amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Ma lo sviluppo dei dialoghi di Giobbe ci mostrerà che quei quattro uomini che lo vanno a trovare non sono, in realtà, amici di Giobbe ma difensori di astratte teologie che si riveleranno nemiche dell’uomo e di quel Dio che volevano difendere. Le grandi prove della vita sono anche test che distinguono il grano degli amici dalla zizzania dei finti amici. Ecco perché tra i canti più belli di Giobbe c’è una un’amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sull’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19).
Molti amici svaniscono nel tempo della sventura, e svanendo ci dicono che non erano amici. Ma è con Gionata, figlio di re Saul, che l’amicizia fa il suo grande ingresso nella Bibbia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Questa amicizia prende le forme di un patto solenne, forse un “patto di sale”, dove la non corruzione del sale diceva simbolicamente il “per sempre”.
La Bibbia sa cos’è un patto- Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. Nei grandi patti d’amicizia, Dio passa “in mezzo” agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti, non vengono pronunciati in pubblico. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Una grande amicizia biblica è quella tra Davide e Gionata, che prende la forma di un patto sacro, di un’alleanza solenne, di una vera e propria fraternità spirituale: la fraternità è una forma di amicizia. Un giorno Gionata, quando ormai infuriava la guerra civile tra suo padre Saul e Davide, aveva detto al suo amico Davide: «Andiamo ai campi» (20,11).
La Bibbia conosce molto bene questa frase. Era stata quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi non per ucciderci ma per salvarci. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli inviti di Gionata sono più numerosi degli inviti di Caino, perché le mani degli amici sono di più di quelle degli assassini.
Mille anni dopo Davide e Gionata, un altro amico dell’uomo, fondatore di una comunità di amici («non vi chiamo più servi ma amici»), fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e perché la promessa dell’amico è vera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO : IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
***
UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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Lo psicologo: “Nella Divina Commedia c’è la storia di tutti”
Widmann: "Narra l’abisso dell’inconscio, il Regno dell’Io e la Sfera del Sé"
di Rachele Bombace ("Agenzia DIRE", 25/03/2020)
ROMA - “La Divina Commedia è la descrizione più completa del percorso di individuazione. Dietro la narrazione fittizia dell’anima di un viandante che compie una redenzione spirituale, un viaggio nell’aldilà, in realtà c’è il percorso di un’anima in evoluzione e di un viaggio nell’inconscio (aldilà della coscienza). È un viaggio trasmutativo, in cui il protagonista parte da situazioni infere, buie, cupe, travagliate e sofferte, per approdare a situazioni metaforicamente paradisiache, di leggerezza, luce e visione cosmica. Lo stesso Dante, durante la stesura della Divina Commedia, subirà una profonda trasformazione personale”. A parlarne all’Agenzia Dire, in occasione della prima edizione del Dantedi’, è Claudio Widmann, analista junghiano di Ravenna e autore del libro ‘La Commedia di Dante come percorso di vita’, di cui si attende la pubblicazione dalla casa editrice Magi.
“Il sommo poeta decise di scrivere la Divina Commedia nel corso dell’elaborazione del lutto per la morte di Beatrice. La svolta esistenziale arriva non tanto dall’esilio, ma dalla sua prima condanna a morte. In quel momento comincia a revisionare la sua vita, le sue concezioni, e scrive questa grande narrazione simbolica che si sviluppa parallelamente al suo percorso esistenziale e interiore. È quantomeno singolare, e per certi versi commovente, che nell’estate del 1321 lui porti a termine la Divina Commedia, in cui si rispecchia la sua evoluzione di vita, e poi nel settembre del 1321 muoia. Come se la scrittura della Divina Commedia fosse la narrazione della sua evoluzione interiore- sottolinea lo studioso- e, arrivando a compimento il libro, termina anche la sua vita”. (DIRE)
Roma, 25 mar. - La Divina Commedia è una grande narrazione simbolica. “Non racconta solo l’esperienza trasformativa di Dante. Ha la capacità di raccontare l’esperienza trasformativa di ciascuno di noi. La condanna a morte ha rappresentato per il poeta un’enorme esperienza di smarrimento- continua l’analista junghiano- ma tutti noi viviamo esperienze di smarrimento, anche molto acute, che possono rappresentare però dei momenti di svolta”.
Dopo lo smarrimento, Dante fa i conti con le spinte interne, quali l’inedia, l’indolenza, il non prendere posizione, il temporeggiare, la voglia di vendetta, i desideri bellicosi e aggressivi, l’imbroglio e il tradimento (soprattutto quello di noi stessi). “Sono stati animo ben descritti nel Cerchio degli ignavi- ricorda Widmann- e, proprio come Dante, anche noi abbiamo conosciuto momenti in cui ci saremmo lasciati cadere in quelle spinte ostili che rischiano di renderci mostruosi”.
Nell’Inferno il poeta si confronta con una dimensione in cui rischia di essere trascinato, sommerso e travolto in modo inconsapevole dalle varie spinte interne. “Il viaggio nell’Inferno è un viaggio nell’abisso dell’inconscio, è un viaggio doloroso, dove le cose ci possiedono senza che neanche ce ne rendiamo conto. Nell’Inferno Dante opera un capovolgimento- spiega l’analista- si rovescia fisicamente e simbolicamente, cambia prospettiva. Da quel momento la discesa diventa la salita sul Monte Purgatorio. Si confronta di nuovo con il narcisismo, l’invidia, la distruttività, l’indolenza, la passività, la dipendenza, ma in una forma più consapevole- precisa lo studioso- perché lo fa con gli strumenti dell’Io. In questo senso il Purgatorio è il regno della verticalità dell’Io, è la dimensione psichica dove l’Io ha il governo sulle cose interiori”.
Se nell’Inferno l’autore avverte una sofferenza molto acuta, “nel Purgatorio mette maggiormente in risalto la fatica, perché è maggiore lo sforzo richiesto all’Io nel gestire con consapevolezza i contrasti interni”. Con la conoscenza e la coscienza, “Dante apprende a rifuggire da qualunque unilateralità, sia quella della generosità che dell’egoismo ad esempio”. In questa concezone, quindi, il Purgatorio “è una grande celebrazione delle antinomie, nel quale Dante cerca di tenere insieme aspetti contraddittori tra di loro, come la tenerezza e la fermezza, l’ira mala e l’ira sana”.
Dante evolve. “Dopo che l’Io ha imparato la solidità, a non essere trascinato dalle pulsioni, a non essere unilaterale, ad andare oltre le proprie preferenze e le proprie inclinazioni, il poeta sale nei cieli.
Il Paradiso è la sfera del Sé - continua Widmann - se da un lato i cieli sono sferici, dall’altro Dante accede a quelle dimensioni della psiche di maggiore rotondità, in cui le cose sono più smussate, integrate e levigate. La sfera non ha spigoli, né alto né basso, è il luogo dove non ci sono alternanze, è il luogo della completezza”. A differenza dell’immagine stereotipata ed edulcorata che “abbiamo del Paradiso dove tutto è luce, bontà, felicità, bellezza e perfezione- precisa lo psicoanalista di Ravenna- Dante descrive un Paradiso come completezza, che accoglie anche quegli spiriti che sono venuti meno ai loro voti. Un cielo più sopra ci sono gli spiriti che hanno realizzato grandi cose proprio attraverso i loro aspetti ombra. Come il desiderio di fama che fa parlare Giustiniano nel Cielo di Mercurio”. C’è pure Cunizza da Romano, “che ha avuto diversi mariti e amanti- racconta Widmann- ma a differenza di Francesca (dell’Inferno) non si è avviluppata dentro la passione amorosa. Quella passionalità è diventata il gradino per accedere a forme d’amore più spiritualizzato, filantropico, elevato e meno passionale. Forme più raffinate di una stessa pulsione”.
Il Paradiso, per Dante, è un’esperienza “difficilissima - chiarisce lo psicoanalista - tanto che ne ha appena un’intuizione della completezza più piena che si possa immaginare. Una sensazione che ogni tanto c’è data di vivere quando facciamo esperienza dei più puri stati d’animo, quelli che la psicologia raccoglie sotto il termine di ‘pick experience’, ovvero di esperienze di picco: il raggiungere le prestazioni migliori, le intuizioni più limpide o gli stati d’animo non contaminati. Sono quei vissuti che spesso identifichiamo come una beatitudine metaforicamente paradisiaca”.
Ricostruendo allora il percorso simbolico della Divina Commedia, si può vedere che queste esperienze “sono caratteristiche dei momenti in cui la coscienza dell’Io si connette e si interfaccia con il fondo archetipico della psiche. La piccola coscienza dell’Io entra in contatto con l’enormità inconscia degli archetipi, ed è lì che a volte viviamo i momenti di grazia, le intuizioni più lucide e acute” Ma essere sfera non è facile.
“L’individuazione non può essere scambiata con uno stato d’animo più o meno beante - sottolinea Widmann - l’individuazione è un particolare regime dell’assetto interattivo tra l’inconscio e la coscienza. In questo senso lo stato di beatitudine dura un attimo, però produce una riorganizzazione permanente dell’assetto interiore, che ci costringe costantemente a cercare un’interazione soddisfacente tra le due parti antinomiche. Il Paradiso è un’esperienza che si può portare dietro aspetti di sofferenza dell’Inferno”. Alla sofferenza dell’Inferno segue la fatica del Purgatorio e si arriva alla spontaneità del Paradiso: “Qui l’Io non deve fare forza nel portare avanti le cose perché ha imparato a raccordarsi con la dimensione inconscia (del sé). Una delle caratteristiche delle ‘pick experience’ è proprio che le cose vengono spontaneamente- conclude Widmann- Dante non fa fatica a salire tutti i cieli”.
CORONAVIRUS E CIVILTA’: ENEA, SAN CRISTOFORO, E DANTE - OGGI:
La civiltà è Enea che porta Anchise sulle spalle
di Laura Marchetti (il manifesto, 24.03.2020)
«L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti». Le parole dette ieri dal presidente della Repubblica italiana, in maniera solenne e commovente, sembrano così voler far scudo contro quell’aberrante e diffusa convinzione, espressa in maniera più o meno sotterranea, che le morti così numerose non siano state poi così importanti perché riguardavano i vecchi, per di più già malati. Mattarella al contrario ci ricorda quale patrimonio siano i vecchi, come siano indispensabili per i bambini, proprio in quanto “rimbambiti”, ovvero anche loro bambini, disposti a giocare, a divagare, a trasgredire.
E come siano importanti per i giovani, per la possibilità che hanno di trasmettere loro antichi saperi, valori vissuti, comunitarie tradizioni, forme diverse di presa dello spazio e di percezione dei tempi. E come, in definitiva, siano importanti per ognuno di noi, perché nel tempo dell’effimero e dell’oblio, di fronte agli spettacoli e ai consumi, mostrano il valore degli affetti teneri, dei ricordi, della memoria e del compianto.
Le parole del presidente sono dunque dense di significato educativo ed esistenziale ma hanno anche un impatto politico radicale perché, per la prima volta, interrompono la filosofia eugenetica che è la pratica e lo spirito di questi insani tempi. Dal documento degli anestesisti spagnoli alla teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi, fino alla sottrazione forzata dell’assistenza sanitaria accaduta in certi ospedali italiani, si teorizza la necessità, per la “medicina delle catastrofi”, di scegliere fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti. Una scelta dovuta allo stato di eccezione e alla situazione estrema, tesa a sottrarre responsabilità alla coscienza personale, che porta però con sé la traccia indelebile di un giudizio di qualità dato alla vita, come se una vita - la più forte, la più abile - fosse solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra con più facilità dovrebbe essere rottamata.
In tale scelta gerarchica - che, perdurando lo stato di eccezione, potrebbe essere estesa anche a tutti i disabili e a tutti i fragili - si conserva il segreto del potere totalitario e della società “tanatologica”, la società di massa del ‘900 che si fonda su un continuo commercio con la morte.
Lo dice Elia Canetti in un libro magnifico e terribile scritto in anni bui e insani quasi come questi (Masse e Potere). In questa società tanatologica, potente diviene sia il capo, che acquisisce potere di morte, sia chi si distingue dalla morte sopravvivendo. La sopravvivenza è di per se stessa acquisizione di potere.
Chi è morto giace, sta per terra; chi sopravvive sta in piedi. Già solo questa collocazione spaziale rende “l’istante del sopravvivere, l’istante della potenza”, anche perché inconsciamente insorge la convinzione di una vera e propria “elezione”, una emozione comparativa che non risparmia nessun rapporto, nemmeno quello più affettivo, nemmeno quello con i figli o i genitori o i fratelli. Su questo senso di elezione si fonda dunque il totalitarismo, secondo Canetti. Ma, potremmo aggiungere, anche il capitalismo in quanto tale trasforma in Pil la sopravvivenza, poiché miglior produttori sono i vivi, cioè gli abili, i giovani, i forti.
C’è nel potere contemporaneo quindi, il persistere di una barbarie di fondo, una inciviltà. La civiltà si fonda invece al contrario e nasce quando Enea in fuga dall’incendio, porta con se il vecchio padre sulle spalle e, per mano, il giovane figlio. La pietà, che è la sua qualità esistenziale e la sua qualità sociale, lo spinge nell’aiutare, includere tutti, curare tutti, anche a scapito della propria sopravvivenza, del proprio potere.
Quella pietà è anche l’intelligenza della specie, in quanto la specie sopravvive, sottolineano i biologi della complessità, non nella lotta ma perché la madre continua ad allattare il figlio e perché gli uomini, anche quando vivono rintanati, non sono topi che si distruggono ma anzi si prestano soccorso.
Noi, nell’agenda delle cose che dobbiamo mettere in campo quando finirà la guerra e vorremmo fare il mondo nuovo, dovremmo mettere in campo la pietà. Fin da ora, in quanto già ora abbiamo due problemi. Il primo è quello di non morire, ma il secondo è quello di vivere civili.
UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo, sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE,OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS *, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino" ! O no?! -- *Federico La Sala
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA”
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?! E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
L’anima e la cetra /2.
La mano che abbassa il ponte
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 4 aprile 2020)
«Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano?». Con questa domanda inizia il Salmo 2. Una domanda tremenda che i profeti e i sapienti ripetono da millenni: perché nonostante la vocazione alla pace e al benessere iscritta nel cuore di ogni persona e delle comunità, gli uomini continuano a esercitarsi nell’arte della guerra, a seminare e coltivare discordia e inimicizia? Le civiltà restano vive finché non si stancano di ripetere questa domanda.
Siamo trasportati dal salmo dentro un ambiente di ribellione, in una congiura di popoli nei confronti di un re - «Spezziamo le catene, gettiamo via da noi il giogo» (2,2). Questo re non è un sovrano qualunque: «E i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo unto» (2). Il protagonista del salmo è il Messia, l’unto di YHWH, mistero e anelito di tutta la Bibbia. Il salmo dice che i popoli cospirano «invano», e che di queste congiure «ride Colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro» (4). È molto probabile che il Salmo 2 sia stato scritto dopo l’Esilio, quando la monarchia in Israele non c’era più e il popolo aveva sperimentato la distruzione, la sconfitta, la deportazione. Aveva sentito sulla propria pelle la forza tremenda delle trame di potere e di conquista dei popoli, e lì aveva capito che la verità del loro Dio non coincideva con la vittoria sui nemici. L’esilio fu infatti il grande tempo in cui gli ebrei impararono che un Dio sconfitto può restare un Dio vero.
Perché allora quell’«invano»? Nonostante l’esperienza della sconfitta e della violenza che prevale sulla pace, la Bibbia qui e altrove annuncia l’avvento di un Messia, e quindi di un tempo nuovo finalmente diverso, giusto e buono. Più la realtà si allontana dal tempo messianico, più occorre annunciarlo. Credere e affermare una verità quando la storia e il presente dicono tutt’altro: è questo il vero ruolo della grande spiritualità, che è sempre incarnata, che parla della nostra vita soprattutto nei tempi nei quali l’evidenza dice l’opposto delle sue parole. È negli esili che si fanno i sogni più grandi.
L’attesa del Messia è un’anima profonda dell’intera Bibbia. La troviamo nei profeti, nei libri storici, e ora nei salmi. È una forma concreta che assume in essa la speranza. Questa attesa ha tenuto vivo il futuro e lo ha custodito come giudizio sul presente e come possibilità di liberazione.
Se si perde la dimensione messianica della storia, la vita individuale e sociale accorcia il suo orizzonte, si schiaccia tutta sul presente, si spegne la gioia e si abbuia la libertà. Ci riempiamo di piccole attese perché abbiamo ucciso quella più grande. Il capitalismo ha racchiuso il Messia nella merce (come aveva capito Marx), e così lo ha cancellato. Il messianesimo biblico è l’anno giubilare della storia, quel tempo diverso che diventa criterio morale per giudicare le prassi di tutti gli altri tempi. Il Messia resta tale finché non è ancora venuto. È il sovrano del non-ancora, il suo tempo è l’ideale che misura il tempo reale, un ideale che è profezia della storia. C’è un rapporto profondo tra profezia e messianesimo: entrambi sono dentro e fuori la storia, reale e ideale, già e non ancora. E quando si perde questa tensione vitale e paradossale, il messianesimo si identifica in questo o in quel leader politico e la profezia diventa profezia di corte - sta anche qui il senso di quell’anima critica nei confronti della monarchia che è ben presente e operante nei libri storici della Bibbia.
Per usare le parole di Jacob Taubes, il messianesimo biblico ci ricorda che «il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi». Ci dice quindi che se esiste una dimensione fondamentale della libertà che è auto-liberazione, in altre sue dimensioni decisive la libertà è invece liberazione per mano di qualcuno che abbassa per noi il ponte levatoio. La Bibbia ha custodito nei secoli questa dimensione della libertà come liberazione, l’ha scritta come suo primo comandamento, e così ci ha protetti dall’auto-inganno frequentissimo di immaginare libertà senza avvertire più il bisogno di una voce diversa dalla nostra che ci chiama e ci salva. Sta qui uno dei sensi di quella che chiamiamo salvezza. Grazie a questa attesa tenace del Messia, nella Bibbia il futuro non diventò «un tempo omogeneo e vuoto: perché ogni secondo era la porta da cui poteva passare il Messia» (Walter Benjamin).
Un errore grave e frequente dei cristiani è allora pensare che l’attesa del Messia sia finita con la venuta di Cristo, dimenticando che egli deve venire ogni giorno e deve ritornare. La liturgia è il grande luogo dove ciò che è stato si incontra con ciò che è e che sarà: in ogni Sabato Santo preghiamo che il sepolcro torni ancora vuoto e ogni resurrezione accade oggi. Nella Bibbia ricordare è verbo al futuro.
Molto noto e forte è il versetto 7 del Salmo: «Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"». Una frase splendida, molto amata anche nel Nuovo Testamento e nel cristianesimo, dove la categoria di "Figlio di Dio" è divenuta un pilastro teologico. In questo salmo (e altrove nella Bibbia ebraica) scopriamo, tra l’altro, che chiamare Dio con l’appellativo di Padre e concepire la condizione umana come figliolanza non è una invenzione del cristianesimo ma eredità biblica.
Ma è quell’oggi che ci conquista - «oggi ti ho generato». Qui non c’è solo, forse, un’antica traccia di un canto composto per la consacrazione di un nuovo re in Israele; in questo "oggi" ci possiamo leggere anche qualcosa di diverso e di più. C’è il paradigma di ogni vocazione spirituale, che è una figliolanza che si manifesta dentro un primo oggi che si ripete in tutti gli oggi dell’esistenza, perché una vocazione è viva solo nel presente, e in questo presente continuo si incontra l’eternità.
Ogni paternità e ogni maternità umana è poi una generazione declinata al presente. È ripetere per tutta la vita: «Oggi ti ho generato» - «Ma ora che sei morta, o madre, io so le volte che mi hai generato. In silenzio, non vista d’alcuno» (David Maria Turoldo). Ogni generazione è ri-generazione, e ciò che è vivo se non si rigenera degenera. La paternità-maternità ci dice, simbolicamente (quindi realmente), che siamo vivi e capaci di generare perché oggi siamo rigenerati. Il giorno che tutti smetteranno di generarci inizieremo a morire. Per la Bibbia il principio, l’origine di questa generazione-rigenerazione sempre attuale è Dio, che quindi diventa il garante di quella mutua generazione che scandisce il ritmo della vita. Fino alla fine, quando nell’ultimo oggi ci sorprenderemo di vedere scendere il ponte levatoio e passeremo, indenni, sopra i coccodrilli.
Dopo aver udito pronunciare la promessa del Messia-figlio, eccoci precipitati in un altro paesaggio ampio e profondo: «Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini della terra» (8). Questo «chiedimi» ricorda l’invito rivolto da Dio a Salomone nell’oggi della sua chiamata: «Chiedimi ciò che vuoi» (1 Re 3,4). Salomone chiese la cosa più bella («Un cuore che sa ascoltare»: 9). Non sappiamo invece cosa chiese quel re dell’antico salmo; sappiamo però la promessa ivi contenuta, che se è diventata salmo allora, è promessa universale: le genti e la terra sono anche nostra eredità e nostro possesso. Sono l’eredità e il possesso di chi prega i salmi, che oggi, mentre li canta si deve riscoprire erede di tutte le genti e possessore dell’intera terra. Nell’umanesimo biblico, però, tutta la terra è di YHWH, e gli uomini sono soltanto utilizzatori e amministratori (economi). E dunque ogni proprietà è seconda e ogni possesso è imperfetto. La promessa è vera perché è imperfetta, o perché la completezza sta nella sua incompletezza.
Ogni figlio è erede, e quindi i figli di Dio sono eredi di tutto il cielo e di tutta la terra. Lo abbiamo intuito, e ci siamo sentiti eredi. Ma ci siamo dimenticati dell’incompiutezza, siamo diventati padroni della terra, l’abbiamo profanata, siamo diventati, molte volte, mercenari.
Dentro la stessa tradizione e promessa, un giorno Gesù di Nazareth ci disse qualcos’altro di nuovo e di importante su questa speciale eredità: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». La mitezza è anche il riconoscimento dell’incompiutezza e della provvisorietà dell’esistenza e dei nostri possessi. Il mite abita il mondo senza diventarne predatore, possiede senza concupiscenza, usa i beni con castità. Il mite è custode della terra e del fratello. È l’anti-Caino. Solo una custodia mite può amministrare l’eredità della terra e far sì che i figli siano eredi di un patrimonio non sperperato.
La mitezza è virtù delle mani - mansueto, cioè "abituato alla mano", docile alla mano del pastore, come sa fare l’agnello. La custodia mite non è stata quella della nostra generazione. Ma oggi ci siamo improvvisamente ritrovati dentro una inondazione di mitezza, in un oceano di mansuetudine. Questo tempo tremendo sta diventando il tempo dei miti. Quello di chi sa restare a casa, di chi sa stare, docile, sotto le mani di medici e infermieri. Stiamo vedendo molte mani abbassare ponti su sponde che prima sembravano irraggiungibili.
«E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (Salmo 2,10-12). Le ultime parole del salmo ci donano una nuova beatitudine per questo tempo: «Beato chi in lui si rifugia».
L’anima e la cetra/5.
La benedizione dell’attesa
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 25 aprile 2020)
«Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: penetra nel mio bisbiglio. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché te, te supplico Signore» (Salmo 5, 2-3). Un uomo innocente è accusato di un delitto. Ha cercato di difendersi, invano. Ha esaurito i gradi di giudizio della giustizia umana. Gli resta ancora il Giudice di ultima istanza. Si alza di buon mattino, anticipa il sorgere del sole, si reca nel tempio per presentare a Dio la sua “causa”. Riesce solo a bisbigliare poche sillabe, a emettere un sussurro con le ultime energie morali che gli sono rimaste: «Al mattino ascolta la mia voce; al mattino ti espongo la mia causa e resto in attesa...» (4).
Penetra nel mio bisbiglio. In queste ultime udienze della vita resta solo il fiato per un bisbiglio. Non ci sono preghiere più umane dei sussurri sottovoce mescolati col pianto. Il sussurro dell’uomo umiliato e straziato è la forma pura della preghiera che commuove il cielo e la terra. Ed è la più bella preghiera laica e umanissima che ci possiamo dire gli uni agli altri, quando solo chi è capace di sussurrare tra il cuscino, il ventilatore e il cuore può penetrare bisbigli preziosi come la vita.
Quest’uomo sa di essere innocente, e denuncia e condanna i malvagi che l’hanno ingiustamente infamato: «Tu non sei un Dio che gode del male... Tu hai in odio tutti i malfattori... Sanguinari e ingannatori, il Signore li detesta» (5-7). E poi loda Dio che lo ascolta: «Io, invece, per il tuo grande amore, entro nella tua casa... Guidami, Signore, nella tua giustizia a causa dei miei nemici; spiana davanti a me la tua strada» (8-9). Bella l’immagine della strada spianata. La giustizia è anche rettitudine, cioè l’arte di rendere rette le vie, di spianare gli ostacoli, di rimuovere le pietre d’inciampo, cioè gli scandali. La via del povero è costellata di pietre e di ostacoli. Leggi, decreti dei potenti, trucchi. La giustizia dovrebbe spianare la sua strada e farlo camminare libero. La buona storia umana è una progressiva trasformazione di strade accidentate in strade dritte e poi una continua manutenzione di queste strade aggiustate perché alla prima nostra distrazione si riempiono subito di pietre e di scandali.
L’uomo del Salmo 5 usa una tipica struttura retorica del salterio: “loro ... io invece”. Loro stolti e bugiardi ... io invece innocente. Quale il senso di questo: “io invece”? Una prima lettura di questi versi porterebbe a dire che il Dio biblico esaudisce le preghiere in virtù della giustizia di colui che prega. L’intervento della giustizia di Dio sarebbe una risposta alla giustizia dell’uomo. Solo il giusto è ascoltato nella sua preghiera. Molti lo pensano, molti lo hanno sempre pensato, perché tendiamo ad attribuire a Dio le stesse caratteristiche dei buoni giudici umani. Delitti e pene, meriti e premi. Amiamo talmente la giustizia da non poter immaginare un Dio che sia meno giusto di noi. E così, prima creiamo la giustizia divina “a immagine e somiglianza” della nostra, e poi, una volta creata, usiamo questa giustizia “divina” per dare un crisma sacrale alla nostra giustizia umana, per condannare gli altri con la benedizione di Dio, fino a fondare oggi la meritocrazia sulla Bibbia e sui Vangeli. Lo abbiamo sempre fatto, e continuiamo a farlo. Noi conosciamo le leggi economiche e quelle giuridiche e, senza volerlo, abbiamo costretto Dio a diventare un commerciante e un giudice.
Ma c’è anche una seconda possibile lettura. È quella che non pone la ragione dell’ascolto della preghiera nei meriti/colpe di chi prega ma nella gratuità di Dio. Siamo salvati perché siamo buoni o diventiamo buoni perché siamo salvati? L’antica domanda al cuore della fede biblica. San Paolo cita questo salmo 5 (il versetto 10 sulla cattiveria e la menzogna degli altri) per dire qualcosa che va nella direzione di questa seconda interpretazione: «Non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia» (Rm 3,13). Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia. Una rivoluzione epocale e ancora incompiuta, perché è troppo forte in noi la tentazione di leggere ciò che di buono ci accade come la ricompensa dei nostri meriti, e le cose cattive che succedono agli altri come frutto delle loro colpe. Perché ci piacciono i doni, ma di più ci piace pensarci meritevoli dei doni. Ma se Dio fosse circoscritto nello stesso perimetro della nostra idea di giustizia commerciale e giuridica non avremmo da nessuna parte qualcuno capace di far evolvere ciò che già chiamiamo giusto in quel giusto che non ha ancora questo nome.
Se e quando le comunità costringono Dio a essere giusto nelle forme e nei modi della loro giustizia umana, si auto-confinano in trappole etiche che impediscono alla giustizia loro e di Dio di diventare migliore. Sono i casi, molto frequenti nelle religioni, quando una teologia ristretta restringe l’umano. La Bibbia e il suo Dio sono invece cresciuti insieme alle interpretazioni che gli uomini e le donne hanno dato alla giustizia divina. Anche questo è reciprocità tra cielo e terra. Le stesse pagine bibliche, gli stessi salmi, hanno detto cose diverse alle diverse generazioni di lettori. E non tanto né soltanto per lo sviluppo delle tecniche esegetiche, ma perché l’evoluzione delle nostre idee di giustizia e di amore hanno cambiato e arricchito le domande che abbiamo imparato a rivolgere a Dio e a noi stessi, e così quelle antiche parole bibliche hanno imparato parole nuove e diverse dal patire degli uomini e delle donne. La Bibbia è logos e dia-logos, ci parla solo se le facciamo domande, e attende che ogni giorno le ripetiamo: “vieni fuori”.
Ogni generazione ricomprende il “sacrificio” di Isacco e la passione di Cristo sulla base della crescita delle idee di giustizia che è stata capace di generare e far risorgere dalle sue ferite. Oggi diciamo cose diverse - e le dobbiamo dire - sui padri, sui figli, sui sentimenti che provano gli uni e gli altri di fronte ai Golgota e ai Monti Moria, perché abbiamo avuto migliaia di anni per capire cosa sia il morire e il risorgere. E se noi impariamo cose nuove sulla vita, in noi le impara anche la Bibbia che riesce così a dirci cose che non poteva dirci duemila anni fa, né ieri. Il Dio biblico per crescere ha bisogno di noi e della crescita della nostra giustizia. La parabola del buon samaritano che si prende cura dell’uomo “mezzo morto” ha detto sempre cose nuove dopo ogni guerra, dopo ogni epidemia, dopo ogni volta che siamo arrivati noi “mezzi morti” in un prontosoccorso; e potrà dire cose nuove oggi quando medici e infermieri ci hanno ampliato la semantica dell’espressione “prendersi cura”. E forse avevamo bisogno di due mesi di chiese chiuse e liturgie sospese per capire diversamente, in questa ora, le parole del Vangelo di Giovanni: «Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).
C’è molto del canto di Giobbe nei canti del Salterio. Il nostro canone colloca i Salmi dopo il Libro di Giobbe perché non capiamo i Salmi senza leggerli in compagnia di Giobbe, se non li cantiamo dal suo mucchio di letame, se non li intoniamo fuori dalla mura, come lui scomunicati, condannati dagli amici, in dialogo con un Dio che tarda ad arrivare. Anche Giobbe trasformò la sua discarica in una aula di tribunale, anche lui portò sul far del mattino la sua “causa” a Dio: «Con Dio desidero contendere. Ecco, espongo la mia causa, sono convinto che sarò dichiarato innocente» (Gb 13, 17-18). Allora se leggiamo la causa del salmista insieme alla causa di Giobbe possiamo imparare qualcos’altro di nuovo sul loro Dio.
L’autore del Salmo 5 porta a Dio la sua causa, e... “attende”; Giobbe chiede a Dio di scendere dal suo trono per essere fideiussore della sua innocenza, e ... attende. Entrambi hanno in comune l’innocenza e hanno in comune l’attesa di una giustizia diversa. Non sappiamo se questa giustizia più giusta arrivò per il protagonista del Salmo 5, non è mestiere del Salterio narrarci gli epiloghi delle vicende dei suoi personaggi. Conosciamo però come finì la preghiera di Giobbe: nonostante la sua innocenza, il Dio di Giobbe non venne all’appuntamento, e quando, alla fine, arrivò, non era il dio che Giobbe aspettava; non venne il Dio di Giobbe ma quello dei suoi amici e della loro teologia, un dio che si rivelò troppo più piccolo della giustizia di Giobbe che era cresciuta insieme alle sue piaghe.
Allora un messaggio nascosto in queste pagine bibliche è la benedizione dell’attesa. La fede in una giustizia diversa e più alta genera la speranza non-vana che domani possa davvero arrivare il Messia e che lo sapremo riconoscere come si riconosce un amico perché lo abbiamo atteso e desiderato.
Il giorno del Messia è domani, ma questo domani benedice l’oggi e gli cambia il nome. Alla nostra generazione non manca solo la fede, le manca soprattutto la speranza e il desiderio dell’attesa.
Questa attesa in-finita della storia non è esclusiva di un club di innocenti e di giusti: è anche quella dei malvagi e dei peccatori, perché si può sempre infilare in uno dei pertugi di innocenza che ogni uomo vive in alcuni giorni luminosi della vita - anche Caino, anche Giuda, e quindi anche io, sebbene debba sempre combattere la tentazione invincibile di identificarmi con la parte giusta dei salmi. La nostra bontà è più grande dei nostri peccati.
Un’altra volta, un altro giorno, un altro uomo in crisi e depresso che voleva morire sotto una ginestra, fu salvato da un sussurro, da una «sottile voce di silenzio» (1 Re 19). Quella volta fu Dio che imparò a sussurrare, e quel bisbiglio arrivò all’orecchio di Elia e lo risuscitò. E se la preghiera fosse soltanto un incontro di sussurri?: «Tu benedici l’innocente Signore, lo corazza e lo incorona la tua benevolenza» (15).