La grande rassegnazione
Scrive Marx ne Il Capitale: "Le persone esistono solo come maschere economiche. E, solo come personificazioni di rapporti economici, esse si trovano l’una di fronte all’altra"
Risponde Umberto Galimberti *
Di lavoro si può morire, come accade in Francia. Manager che si suicidano sul posto di lavoro, come se il fallimento dell’azienda fosse il fallimento della loro vita. Ci si identifica talmente con l’azienda che il suo fallimento crea una crisi esistenziale.
Ma ci si suicida anche per mancanza di lavoro: sono due facce legate al lavoro, così osannato da certo capitalismo. Ma perché proprio ora? Perché la crisi ha messo a nudo la grande questione del lavoro.
Marx messo in soffitta rispunta drammaticamente a ricordarci che il lavoro che diviene alienazione può distruggere l’uomo, il lavoro che ha come fine solo il profitto crea alienazione, l’uomo diviene un’altra cosa da sé. Ma anche la sua mancanza riduce l’uomo a cosa.
Ma non è solo Marx a impostare questo problema. Se prendete San Tommaso, così come lo legge Vittorio Tranquilli nel suo monumentale Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, vi dice, arrivato a San Tommaso, che il lavoro fisico ha la stessa dignità di quello intellettuale e che ambedue hanno come fine l’uomo, creato da Dio. Vecchia riflessione, ma drammaticamente attuale.
Luciano Ferrari, Livorno
ferrariluc@alice.it
Marx nell’Ottocento e Heidegger nel secolo scorso (due filosofi dalle idee politiche radicalmente opposte) segnalavano la progressiva riduzione dell’uomo alla sua funzione "mercantile", nel senso che l’individuo è costretto a presentarsi con quella maschera (Charakter Maske, dice Marx) in cui sono scolpiti i tratti del suo impiego o, come dice Heidegger, del suo essere "im-piegato (be-stellt) al fine di assicurare l’impiegabilità (Bestellbarkheit)", a cui l’economia, regolata dalle leggi di mercato, destina uomini e cose.
Con la maschera in volto, l’uomo non è più in rapporto con il mondo, ma esclusivamente con le leggi che governano il sistema mercantile in cui il singolo si trova ad operare. Il suo agire non lo esprime, ma esprime la razionalità dell’apparato economico che determina non solo la sua azione, ma anche la relazione con i suoi simili, mediata dalle leggi che connettono la produzione, lo scambio e il consumo delle merci.
Tutto ciò, e questo è il tragico, non è "oppressione", ma "sistema". Di oppressione si poteva parlare prima dell’avvento dell’economia di mercato oggi globalizzata, dove la reificazione dell’uomo, la sua riduzione a cosa, avveniva per la volontà di un altro uomo, sia che questi si esprimesse come individuo o come classe, per cui era possibile da parte dei "reificati" individuare, nell’abbattimento di quella "volontà", la condizione della loro liberazione. E tutte le rivoluzioni che hanno scandito i passaggi d’epoca nelle età precedenti la globalizzazione erano praticabili, perché accadevano all’interno dell’umano, tra una volontà opprimente e una volontà oppressa, o come dice Hegel, "tra un servo e un signore".
Perché le rivoluzioni esplodessero era sufficiente quella "presa di coscienza", secondo l’espressione di Marx, capace di segnalare la base irrazionale dell’oppressione e la conseguente razionalità della successiva liberazione.
Ma quando la reificazione, la riduzione dell’uomo a cosa, non è più l’effetto di una volontà, quindi di un evento irrazionale, ma l’effetto della razionalità del mercato, allora non avremo più, come nelle età che hanno preceduto la globalizzazione del mercato, il dominio dell’uomo sull’uomo, ma il dominio della razionalità del mercato su tutti gli uomini, servi o signori che siano, i quali non si trovano più contrapposti l’uno all’altro, ma entrambi dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità che regola le leggi di mercato, contro cui ogni rivoluzione è impraticabile.
Per questo i giovani accettano con rassegnazione qualsiasi lavoro temporaneo o in nero, per questo chi perde il lavoro va in crisi d’identità e non sa come uscire dalla notte buia della disperazione. E questo non perché si sono identificati con il loro lavoro, ma perché non hanno una controparte dal volto riconoscibile con cui confrontarsi.
Il mercato, infatti, non ha volto, il mercato è nessuno. Ed è vero, come ci ricorda Romano Madera in Identità e feticismo (Moizzi editore) che "Nessuno, come già ci segnalava Omero, è sempre il nome di qualcuno", ma questo qualcuno, nel mercato globalizzato, è invisibile. Di qui la rassegnazione e la disperazione che affliggono sia la classe imprenditoriale sia la classe dei subordinati, per la prima volta nella storia non più in contrapposizione, ma entrambi sottomessi alla dura legge della "razionalità" (?) del mercato.
* la Repubblica/D, 12 dicembre 2009, p. 222
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
Come superare il mondo di Narciso
Due saggi analizzano le difficoltà degli adulti di oggi
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 18.07.2012)
L’idolo della crescita e dell’espansione senza misura di cui si è nutrito l’Occidente ha rivelato il suo limite: l’uomo come “misura di tutte le cose” ha alimentato l’illusione narcisistica di una libertà senza debiti che si è beffardamente ribaltata - in questa grande crisi finanziaria - nella realtà di un debito smisurato.
Due libri di resistenza, duri e forti, scritti da due teste non omologate, fuori serie, ci introducono alla necessità di pensare l’uomo in modi diversi. Si tratta di Contro gli idoli postmoderni (Lindau) di Pierangelo Sequeri e Come fare. Per una resistenza filosofica di Rocco Ronchi (Feltrinelli).
La loro lettura del disagio della nostra Civiltà utilizza lenti teoriche diversissime. Sequeri - teologo di fama internazionale - sa riprendere e attualizzare la parola biblica facendola dialogare con quella della filosofia contemporanea più alta con una originalità unica. La sua prospettiva è quella di un sostenitore convinto della necessità di un ritorno alla radici umanistiche del cristianesimo in un’epoca che sembra ridurre a carta straccia ogni riferimento alla dimensione etica e insostituibile della responsabilità singolare. Ronchi è invece uno studioso di Bataille e Blanchot, di Sartre e Bergson, di Lacan e Deleuze, da tempo impegnato a ricordarci che la filosofia non può mancare l’appuntamento con l’assoluto in un’epoca dove questo compito - pensare l’assoluto - sembra suscitare solo la pacca sulla spalla di una critica ironica che ha preso congedo da ogni pretesa di dire la Verità ultima.
Sequeri è un teologo e pensa a Dio, ma cristianamente si rivolge innanzitutto all’uomo: l’anima dell’Occidente ha bisogno di rifondare un altro umanismo, non antropocentrico, non narcisistico. Ronchi è un filosofo che critica spietatamente la retorica umanistica che celebra l’Uomo come centro del mondo e si rivolge ad un Assoluto materialistico come espressione della potenza infinita della vita al di là dell’uomo. Ma non si deve confondere la prospettiva di Ronchi con una riedizione nostalgica dell’assoluto della vecchia metafisica. La sua scommessa è quella di glorificare il tempo non come scadimento, esaurimento dell’essere, ma come manifestazione assoluta dell’essere. Rovesciamento di Emanuele Severino: il nichilismo non è attribuire essere al divenire, ma pensare il divenire come esaurimento dell’essere, laddove il divenire è invece la sua manifestazione assoluta e non la sua falsa apparenza.
Ronchi cerca l’assoluto nel mondo, nella sua forza impersonale, nella sua potenza vitale. Se Sequeri mette al centro dell’assoluto l’uomo, Ronchi scarta l’uomo per mettere al centro l’inumanità impersonale dell’assoluto. Se il primo insiste a pensare il mondo come donazione, come indebitamento dell’uomo a un’offerta e a una Grazia che lo trascendono, il secondo parte dal presupposto che «l’uomo non è l’unità di misura del mondo», che «il mondo non è per l’uomo e l’uomo non è per il mondo». Eppure queste due voci così diverse finiscono per porre la stessa domanda: cosa resta in un tempo dove tutte le grandi narrazioni del mondo - come ripete l’adagio postmoderno - sono evaporate? Come si può trarre soddisfazione dalla vita, senza cadere nel circo iperedonista, senza perdersi, senza inseguire l’idolo narcisistico dell’espansione senza misura e della frenesia della “mobilitazione totale”? Cosa resta oggi se nei luoghi in cui si gioca la partita dell’umano, Narciso ha preso il posto del Prometeo di Marx e del Dioniso di Nietzsche?
Per Sequeri resta il dono della testimonianza, la responsabilità degli adulti nel rendere generativo il processo di filiazione. Per Ronchi «restano i post, vale a dire coloro che si definiscono reattivamente sulla base di una impotenza a essere comunisti, fascisti, padri, ecc. Restano gli esausti», ovvero coloro che possono farla finita con la retorica della riduzione del mondo a risorsa da sfruttare infinitamente. Quello che resta non è l’io del narcisismo, l’io del cogito, l’io come autoaffermazione di sé, ma piuttosto l’infinito della vita dalla cui potenza noi ci difendiamo attaccandoci, in una illusione di padronanza, al nostro piccolo Io. Il mondo della vita non è terra di conquista e l’antropocentrismo non può essere l’ultima parola dell’Occidente.
Ecco il punto dove le acque di questi due libri convergono: esiste una soddisfazione che non si riduca alla soddisfazione sterile e mortifera di Narciso? Si può godere in modo diverso rispetto al godimento sterile di Narciso e di Caino? Esiste una alternativa al falso divenire dell’iperedonismo e la sua ideologia del benessere, del corpo obbligatoriamente in forma, della celebrazione narcisistica della libertà?
Non c’è libertà se non nell’assunzione della solitudine del nostro godimento, sostiene Ronchi, ma non c’è libertà se non come esperienza della donazione al di là dell’Io, impegno nella trasmissione di una eredità, di una filiazione generativa.
È questo l’appello che Sequeri rivolge con voce alta e chiara a noi adulti: «Che vogliamo fare? Credenti o non credenti, quanto siamo, è ora di onorare l’impegno senza svicolare in dialoghi troppo socratici: o siamo contro l’idolo che mangia i bambini, o siamo fiancheggiatori della sua devozione intoccabile... Andate, liberateli, fateli lavorare. Battetevi con le unghie e coi denti perché abbiano la migliore formazione possibile... sperano di trovare qualcuno che non cerchi pateticamente di imitare la loro insicurezza».