di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2010)
Benedetto XVI è amareggiato. Segue infastidito il verminaio del caso Feltri-Osservatore e lavora al suo libro su Gesù. Ma Ferrara sul Foglio minaccia: la decapitazione di Vian è questione di giorni. Intanto la Curia vive un clima di disorientamento totale, nave senza nocchiero in una mefitica bonaccia. Sembra far parte del destino tragico di questo pontificato il susseguirsi di tempeste continue: errori, sviste, conflitti con le grandi religioni, violente polemiche interne, miserabili risse dietro le quinte.
Nell’ultimo affaire nessuno si assume le sue responsabilità. Il direttore dell’Osservatore Romano (e se non lui la Santa Sede) non smentisce accuse gravissime. Feltri non porta nessuna prova a sostegno della sua denuncia. L’ex direttore dell’Avvenire Boffo continua a non chiarire il perché della condanna per molestie, lasciando che improvvisati portavoce diffondano la versione che tace per proteggere una terza persona. Il vero molestatore? I magistrati di Terni hanno già escluso pubblicamente che le telefonate di molestie partite dal cellulare di Boffo siano state fatte da qualcun altro.
In questo groviglio si inserisce pure il brontolio malmostoso dei ciellini per non essere riusciti ad approdare sulla poltrona della direzione di Avvenire, che il cardinale Bagnasco ha poi attribuito al vice di Boffo, Marco Tarquinio. Non per caso lo scrittore ciellino Antonio Socci è in prima fila nell’esigere aggressivamente da Vian di chiarire il suo ruolo nelle manovre anti-Boffo: “Il giornale del Papa - scandisce Socci - è al tappeto, nella persona del suo direttore, e le autorità vaticane, in testa la Segreteria di Stato, non possono più tirare avanti come se nulla fosse”. Di fatto, pochi escludono che Feltri una telefonata imprudente da Oltretevere abbia potuto riceverla.
Il Papa, ammettono i monsignori di Curia, “è triste e amareggiato”. Il suo atteggiamento è ambivalente. Si lascia informare degli sviluppi dello scandalo, perché non può fare diversamente, e al tempo stesso se ne allontana psicologicamente. Quasi non fossero queste le cose che realmente contano. C’è nel suo approccio il realismo del confessore (che conosce le miserie degli uomini) e il distacco del monaco che guarda all’orizzonte dell’eternità. Nel palazzo apostolico ricordano la sua preghiera-invettiva nella Via Crucis del 2005, mentre Wojtyla stava morendo: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che nel sacerdozio dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Signore, salvaci”.
Ma questo mistico realismo fa sì che Benedetto XVI guardi anche con una certa distanza alla macchina della Chiesa, agli apparati di Curia, ai conflitti che si svolgono nelle strutture ecclesiastiche. “E’ come se tutta questa struttura materiale per lui fosse in fondo secondaria”, spiega un vescovo che lo conosce bene.
A cosa pensa, dunque Papa Ratzinger? Si concentra sui suoi libri, sulle sue encicliche, su tutto ciò che è pensiero e parola del Romano Pontefice. “Sente come suo compito - dice chi gli è vicino - quello di ribadire la retta dottrina e annunciare i valori essenziali del cristianesimo”. Rivolge il suo impegno alla lotta contro la secolarizzazione in Europa, al confronto con la scienza, al dialogo tra fede e ragione, tra credenti e non-credenti. In ultima analisi il suo focus consiste nel ribadire al mondo contemporaneo la necessità di aprirsi alla Trascendenza.
Se il suo sguardo è rivolto a questi ampi orizzonti, la gestione della Curia e degli “affari interni” della Chiesa rischia di rimanere affidata a se stessa. Ratzinger ne conosce bene i peccati. Ancora mercoledì ha ricordato all’udienza che le ambizioni di “carriera e potere” sono tentazioni, da cui “non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa”.
Monito verace. Ma poi, nella gestione complessa della struttura imperiale cattolica, manca il polso della guida quotidiana. “C’è come uno spappolamento in Curia - commenta un veterano dei sacri palazzi - e in tante vicende, non solo nell’affare Boffo-Feltri, si avverta la mancanza di diplomazia, di cautela e di un agire senza strafare, che ha sempre caratterizzatogli uomini di Chiesa”.
Incalza un altro esponente della gerarchia ecclesiastica: “Non si intravvede il filo logico delle azioni. Manca la ratio gubernandi, l’arte del governo. Magari ci fosse un regista occulto, che regge le fila di questo scandalo, come si immagina certa stampa! Il guaio è che non c’è, e nessuno sa cosa sta accadendo”. La realtà odierna negli organismi centrali della Chiesa, conclude un monsignore di Curia, appare piuttosto come un “arcipelago di interessi e visioni differenti”.
Grande è il disordine sotto la Cupola di san Pietro, ma non è segno di vitalità. Alla fine forse ha ragione Ratzinger: il futuro della buona novella non verrà dalle strutture, bensì dalle minoranze creatrici.
Lotte vaticane e il caso Boffo
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 5 febbraio 2010)
«Nessuno ricorderà più questo episodio entro sei mesi» assicurava un dirigente della Segreteria di Stato vaticana a un ambasciatore, all’indomani della bufera mediatica su Dino Boffo. L’impressione del diplomatico era che la sottovalutazione del trauma non fosse tanto il prodotto di una sapienza vaticana che «pensa in secoli» e sdrammatizza naturalmente gli incidenti di giornata, con lo sguardo lungo sull’Eterno. Ed è probabile che nel rapporto al suo governo alla fine di quella torrida giornata di fine agosto egli sollevasse il dubbio se la diplomazia vaticana sotto Ratzinger mantenesse un sufficiente grado di realismo nelle analisi delle complicate vicende nelle quali dovevano avvolgersi e a volte contorcersi le relazioni tra la Chiesa e gli Stati nella nuova situazione mondiale.
La trasformazione delle dimissioni del direttore di Avvenire per l’attacco proditorio del giornale della famiglia Berlusconi in una «bomba a orologeria» sotto l’establishment vaticano era l’ultima cosa che i principali collaboratori di Benedetto XVI potevano attendersi. L’immagine che il mondo vaticano ha offerto di sé, nella congiuntura della nuova bufera, è stata di un organismo in difficoltà a reagire prontamente, forse per difetto di una percezione accurata dei vari fattori in gioco, in parte rimasti oscuri, o per la mancanza di un organismo direttivo che coordini i diversi «castelli» in cui si frammenta la curia. Può aver giocato anche, secondo alcuni, il timore di un altro attacco, che lambisca tonache alte.
In gran parte delle narrazioni, ricorre il riferimento al fianco paradossale dell’affare: un papato che si spende nella moralizzazione degli apparati gerarchici, che non arretra dalla linea dura nella repressione della pedofilia del clero e cala sui vescovi il prepensionamento per «gravi cause», si vede obbligato a misurarsi con conflitti non precisamente edificanti nel cortile di casa, la Chiesa in Italia, e nello stesso apparato centrale.
Disfunzioni istituzionali da tempo deplorate, anche in sede di Sinodi episcopali. Chiuso nella sua biblioteca, concentrato sui suoi scritti teologici, blindato dalla sua segreteria personale, il Papa non potrebbe essere chiamato a rispondere direttamente di alcune inadeguatezze osservate nella sua cabina di regia in Segreteria di Stato, a cui compete il controllo della curia. Il tasso di infortunistica del governo ecclesiale è del resto diminuito rispetto ai tempi di Regensburg, anche se le risorse intellettuali e politiche dei collaboratori del Papa non potrebbero colmare, per quanto generose, il vuoto di un sistema collegiale quale il Concilio Vaticano II aveva prefigurato, con i rappresentanti dei vescovi a coadiuvare il pontefice nella guida della Chiesa universale. Una delle riforme rimaste inevase, forse la più combattuta dal nucleo duro della curia romana.
La conseguenza è visibile, una centralizzazione senz’anima, che si autoconsuma in spartizioni di potere, carrierismo e rimozione del principio di realtà. Le opzioni personali di Papa Ratzinger hanno fatto affluire nei ranghi centrali nuovi leader. È normale che ogni Papa cerchi di avere mano libera rispetto al sistema di comando formato dal predecessore. Ma non sembra che le nuove risorse installate riescano a influenzare la struttura in modo da acquisirne l’adattamento culturale complessivo o almeno una sufficiente coerenza interna.
Sull’insieme ha fatto irruzione la tensione fra il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, e l’ex vicario cardinale Camillo Ruini. Il «caso Boffo» si va definendo sempre più precisamente come derivata di una divergenza politica che ha nei due leader della Chiesa romana i suoi principali terminali. Bertone è salesiano di spicco, un pastore più che un politico, e non teme di gloriarsene: la sua politica è oratoriale, la sua diplomazia alla salesiana, all’insegna dell’embrassons nous. È alle sue doti di «humanitas» che Benedetto XVI ha rivolto ogni elogio nella lettera con cui lo ha recentemente confermato in carica. Ma Bertone ha in comune con Ratzinger anzitutto la solitudine istituzionale. È uno scudo per la sua libertà di azione e la sua indipendenza, ma anche un limite.
Per quanto i suoi interventi pubblici siano giudicati meno soddisfacenti di quelli inarrivabili del suo Superiore, pure egli continua ad appoggiare la direttiva della prima enciclica di papa Benedetto «Deus caritas est»: «La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato». Questo non significa - aggiungeva a scanso di equivoci - disinteresse della Chiesa al risveglio della cultura sociale in un cattolicesimo inquinato dall’individualismo liberista, come deplorato dalla successiva enciclica sociale «Caritas in veritate».
L’opzione scartava le pretese integralistiche di un certo cattolicesimo, con l’appello a non strumentalizzare l’appartenenza cristiana per occupare pezzi di potere politico. È muovendosi in questa prospettiva che Bertone si è trovato in rotta di collisione con il protagonista della Chiesa della visibilità pubblica in Italia, Ruini, l’uomo che Wojtyla spalleggiato da CL aveva investito del compito di assicurare alla Chiesa «un ruolo trainante» nella società italiana in termini di influsso socio-politico.
Nel 2007,una volta insediato alla testa della Cei il cardinale Angelo Bagnasco, Bertone non tardò a raggiungerlo con una lettera programmatica, articolata in due punti: 1.Priorità all’impegno della Chiesa nell’evangelizzazione di un paese in via di scristianizzazione; 2. Le relazioni con partiti e istituzioni politiche, gestite dalla Cei, venivano avocate alla Segreteria di Stato.
Alla fine della torrida estate 2009, Bertone seppe dai giornali che Ruini aveva aperto le porte del suo appartamento al premier Berlusconi, appena alluvionato dalla bufera sul porno di Stato, e al suo fido Gianni Letta. Era il segnale di una dicotomia al vertice, allo stesso tempo la rivendicazione di autonomia di Ruini. Egli mostrava di voler continuare a tessere come d’abitudine la sua rete politica, pur sapendo di porre in essere azioni difformi dalla prospettiva astensionista definita dalla direttiva Bertone. Che non si trattasse di un episodio lo confermava l’ulteriore incontro del cardinale con Fini, poi con Berlusconi e Letta, a pochi giorni dall’udienza del Papa l’8 gennaio. Una volta innervata nel cuore del governo ecclesiale, questa contraddizione si traduceva in un indebolimento oggettivo per la linea del duo Ratzinger-Bertone. Ma aveva anche ricadute sulla nuova leadership della Cei, per la riduzione dei margini di mediazione disponibili al cardinale Bagnasco alle prese con la transizione del dopo-Ruini. Anche se la linea più pastorale del nuovo presidente sembrava riscuotere consensi fra un elevato numero di vescovi, convinti che restare fermi sulla figura di Chiesa politica significherebbe scavarsi la fossa.
Bisognava dunque fare i conti ancora con il disegno di Ruini, deciso a ripristinare a Roma i tratti salienti di una Chiesa neo-costantiniana, per la quale le coscienze da formare sarebbero tanto meglio raggiungibili dall’etica cattolica quanto più soddisfacente fosse l’esito della raccolta dell’8 per mille concordatario, più sicuro l’organico dei professori di nomina e dottrina cattolica nelle scuole pubbliche, più votate in Parlamento leggi conformi ai principi cattolici, col favore della maggioranza di centro-destra.
Una tensione alta. Che comportava scelte concrete, ad esempio nel rinnovo del Rettore della Cattolica, finora sotto controllo ciellino o sulla questione dell’appoggio al «nuovo centro» di Casini e dell’orientamento del voto cattolico alle prossime regionali, se necessario anche intimando alle parrocchie di evitare di ospitare dibattiti con i candidati governatori. «Civiltà Cattolica»notava nel quaderno del 3 gennaio che si rafforza tra i cattolici la tendenza al rifiuto di un partito semplicemente identitario, l’opinione che «una forza organizzata di cattolici non serva, perché non bisogna confondere religione e politica». Ma il nuovo capitolo della storia Boffo provava la consistenza di un’opposizione interna potente e pronta a tutto, anche a mettere in minoranza il primato dello Spirituale sostenuto dal Papa e a mobilitare le schiere dei movimenti identitari sul terreno politico dove meno facile è il discernimento del confine tra la difesa dei «valori non negoziabili» e gli interessi concreti della destra .
Fonti vaticane hanno fatto osservare che questo "Boffo bis" era costruito su una ipotesi "disperata", quella che il semaforo verde dell’operazione fosse stato acceso da chissà chi ai piani alti del Vaticano. Ma non si esita ad ammettere che se l’obiettivo apparente dei registi dell’affare era l’indebolimento della figura di Bertone e la messa in moto di una resa dei conti nei Sacri Palazzi, la reale posta in gioco era di intercettare il tentativo di decontaminare la Chiesa dalla pretesa di farsi ancora arbitra delle sorti politiche. Le prossime elezioni regionali sono una sfida anche per la Chiesa, chiamata a verificare la sua disponibilità a rispettare più che in passato il diritto dei cattolici alla libera determinazione negli affari del corpo politico, pur riservandosi integra la missione propria sulle anime e sulle coscienze.
Del resto quando Bertone venne informato, - era in corso l’assemblea della Cei di maggio 2009,tre mesi prima dell’attacco di Feltri - che tra i vescovi girava la malsana «informativa» su Boffo, ebbe la reazione che ci si aspettava da lui: era una vecchia storia, nota in Segreteria di Stato da tempo. Si era già deciso che, per cumulo di mandati, non per altro, Boffo si sarebbe dimesso da Avvenire e si stava preparando per lui una importante carica nella Chiesa. Dunque, quella famosa storia, rimestata nella menzogna politica, non solo non era ritenuta degna di considerazione, ma nemmeno costituiva agli occhi dei massimi dirigenti della Chiesa un intralcio al futuro pubblico dell’ex direttore del giornale cattolico italiano. Parola del cardinale Bertone, oggi tirato in causa maldestramente come ispiratore della dannazione politica di Boffo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE.
TEOLOGIA-POLITICA LUCIFERINA .... A SILVIO BERLUSCONI UN "NOBEL"
“Vik” Arrigoni, vivere per l’utopia
di Angelo d’Orsi (il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2012)
Non sentitevi sciocchi se, aprendo questo libro appena uscito (Il viaggio di Vittorio, di Egidia Beretta Arrigoni, Dalai editore, pagg. 185, 15,00), sentirete gli occhi inumidirsi. Proseguendo nella lettura, sfogliando frammento dopo frammento la breve esistenza, intensissima e generosa, di Vittorio “Vik” Arrigoni, vi sarà difficile trattenere le lacrime. Del resto Vik non si vergognava di piangere, quando, sotto i bombardamenti israeliani su Gaza City, tra gli ultimi giorni del 2008 e i primi del 2009, puntando la videocamera, rinunciava alle riprese. “Ho scoperto di essere un pessimo cameraman” , scriveva, “non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non riesco, perché piango anche io”.
Il lutto aleggia in queste pagine, giacché il lettore sa come andrà a finire: sa che il protagonista, un ragazzo che letteralmente si era dedicato alla causa degli ultimi, dovunque nel mondo, fu trucidato nella “sua” Gaza, il 15 aprile 2011.
NON SA, INVECE, il lettore, che tutta la breve vita di questo ragazzo (muore a 36 anni), fu dedicata ad alleviare le altrui sofferenze, in un viaggio che lo portò in Africa, nel-l’Est Europa, in America Latina, prima di giungere nel tormentato Medio Oriente, fermandosi infine in quel fazzoletto di terra, intriso di sangue, che sono i Territori palestinesi, sottoposti al pugno di ferro israeliano. Vik si è speso, in ogni modo, sempre pacificamente, sempre con uno sforzo volto non soltanto a testimoniare ma a operare concretamente: non volle mai essere un “cooperante”, un “osservatore”, e meno che meno un giornalista, sia pure solidale: fu uno di loro, volle essere operaio, pescatore, scaricatore, infermiere, cuoco...: volle essere vittima tra le vittime.
IN UNA LETTERA alla mamma - che oggi è facile leggere come tragicamente profetica - scriveva, da Nazareth: “Percorro strade che rappresentano la nascita, il viaggio esistenziale, il miracolo, il calvario di un Dio che di queste terre sembra essersi scordato”. Lo faceva anche un po’ per la mamma, cattolica osservante, donna impegnata come un po’ tutta la famiglia, una famiglia il cui mondo, scrive Egidia, “non è mai stato un mondo chiuso individualista, egoista”. Lei, mossa proprio da una passione genuinamente politica, fuori dai partiti, si impegnò nel sindacalismo e nell’associazionismo, in quel di Bulciago, il paese della Brianza, dove si erano trasferiti gli Arrigoni, da Besana, borgo non lontano, dove Vik era nato nel 1975). E nel 2004 divenne sindaco, confermata nel 2009: Vik ne era orgoglioso, quanto lei era orgogliosa di suo figlio, sia pure con le apprensioni di una mamma, apprensioni, purtroppo, più che giustificate.
Ma sia allora, sia ora che Egidia si è posta a riordinare i ricordi, e a tentare di renderli pubblici, non c’è amarezza, nel racconto; solo dolore, filtrato sempre da una serenità che giunge alla penna dell’autrice dalla sua fede religiosa e, soprattutto, alleviato dalla consapevolezza che quel ragazzo era stato sempre dalla parte giusta, dalla parte di quegli ultimi di cui il Cristo volle essere interprete e salvatore.
Uno dei tanti episodi che ci regala Egidia Arrigoni, riguarda una foto di papa Ratzinger che in visita in Africa sfoggia un paio di meravigliose scarpette rosse firmate Prada. Vik la pubblicò, mettendole accanto l’immagine di un Gesù in croce, con i piedi trafitti, e ancora, un africano scalzo, e commentò: “Viene da pensare che se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri del-l’Africa avere accesso al Paradiso?”. Fu più volte arrestato, malmenato al limite della tortura dagli israeliani, che lo espulsero e lo dichiararono persona “non grata”. Ai suoi aveva scritto: “Rallegratevi del fatto che sono pronto a qualsiasi destino, perché vivere con ali recise non fa per me”.
NON ERA, insomma, Vittorio Arrigoni un ragazzo qualunque: la mamma rifiuta appellativi roboanti, da eroe a martire, ma a me piace invece esattamente riproporli, con assoluta convinzione. Se non è stato un eroe Vik, un eroe inattuale quanto necessario, di questi tempi orribili, chi lo è? Quanto al martirio non v’è alcun dubbio. Ve ne sono invece, e forti, su chi abbia organizzato il suo assassinio: che significa anche chiedersi a chi poteva giovare la morte di un militante pacifico della causa di quegli ultimi, che, dal 2002, furono i palestinesi.
Le pagine sulle giornate di aprile 2011, quando si affastellano le notizie sulla cattura e poi l’assassinio di Vik sono strazianti. L’intera nazione palestinese lo pianse, onorando come un fratello caduto nella lotta comune lui che, però, a differenza di loro, aveva scelto quel destino, in nome di valori che percepiva come imperativi. Scrisse l’ebreo dissidente, scrittore e militante contro le demolizioni delle case palestinesi, Jeff Halper, che con Vik condivise molte battaglie: “Tu eri e sei la forza terrena della lotta contro l’ingiustizia”. Non v’è molto da aggiungere; se non l’invito a leggere il libro (i proventi sono destinati alla Fondazione Vittorio Arrigoni - Vik Utopia).
Vaticano
Quando divisioni e veleni colpiscono un potere millenario
di Agostino Paravicini Bagliani (la Repubblica, 23.02.2012)
Le recenti cronache ci hanno raccontato i nuovi "veleni" vaticani. Che hanno stupito e fatto discutere perché di colpo sono emerse critiche e conflitti - come sempre, da verificare - che, prima, non affioravano quasi mai alla ribalta dell’opinione pubblica. Ed è come se avessimo assistito in qualche modo alla fine storica di un’antica segretezza. E magari ci sono anche venuti in mente i tempi antichi delle corti, quelli tra Medioevo e Rinascimento. Con la differenza però che per quei secoli, le notizie provengono da pamphlet, satire, dispacci di ambasciatori, cronache e altro ancora, le cui modalità di diffusione non possono certo essere paragonate a fenomeni alla Wikileaks di oggi. Non a caso qualcuno ha usato il termine "Vatileaks".
Nel passato, alcune fonti, come i diari dei maestri delle cerimonie pontificie del Rinascimento, non sono nemmeno state scritte per essere diffuse. Eppure è anche da loro che apprendiamo l’esistenza di "veleni" e scontri personali che appaiono talvolta emblematici dei rancori che possono nascere e svilupparsi in corti complesse come quelle dei papi del Medioevo e del Rinascimento. Come non pensare al ritratto che Paride de Grassi ci ha lasciato del suo celebre predecessore Giovanni Burcardo: «Se fosse stato umano, la nostra arte ne sarebbe uscita ingrandita, ma lui non soltanto non era umano, ma bestiale più di tutte le bestie e invidiosissimo»...
Improperi e gesti violenti potevano verificarsi persino alla presenza del papa. Nel giugno 1486, il cronista romano Stefano Infessura annota che mentre il cardinale Giovanni Balue tentava di convincere il papa di invitare il duca di Lorena a far valere i suoi diritti sul regno di Napoli, contro il cardinale «si scagliarono il vicecancelliere Rodrigo Borgia (futuro Alessandro VI) e il cardinale Savelli che gli rivolsero molte parole ingiuriose e offensive», cui il cardinale Balue rispose per le rime, affermando che il «il vicecancelliere era un marrano»...
Tradimenti non sempre verificabili riguardano il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), forse il più conflittuale della storia del papato medievale. Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna non sarebbero riusciti ad entrare l’8 settembre 1303 nella città di Anagni per catturare Bonifacio VIII senza la complicità di due cardinali, Riccardo Petroni e Napoleone Orsini! Lo ricorderà lo zio dell’Orsini, il cardinale Matteo Rosso Orsini, rimasto fedele a papa Caetani. I due cardinali Colonna, Pietro e Giacomo, lanciarono contro Bonifacio VIII persino l’accusa - infondata - di avere indotto con l’astuzia il suo predecessore, Celestino V (1294), a compiere "il gran rifiuto". I rancori di cui fu vittima Bonifacio VIII erano anche dettati da comportamenti personali. Per i contemporanei, già da cardinale, il Caetani «pensava di non essere mai stato ingannato da alcuno» e «si vantava di poter confondere gli uomini con le sue parole».
Insomma, in una corte, la gestione dei propri comportamenti era una condizione indispensabile per evitare conflitti. Tratteggiando nel 1627 le doti personali del Cardinale Nipote, l’ambasciatore veneziano Pietro Contarini proporrà un ritratto ideale dell’alto prelato di curia, che si dimostra capace di «evitar l’odio che per l’ordinario suole cadere sopra quelli che si veggono più vicini; et lo fa maggiormente per non ingelosire il cardinal Barberini» (Antonio Menniti, Il tramonto dela Curia nepotista, Roma, Viella, 1999).
In una corte dalle relazioni sociali sovente fluide e labili, sottomesse a continue oscillazioni, tra ascesa e declino, il miglior modo di non subire ingiustizie o conflitti era pur sempre quello di disporre di un indiscusso prestigio. O di farlo credere... Secondo Salimbene de Adam (m. 1288), il cardinale Ottaviano Ubaldini (m. 1272), ricordato da Dante nella sua Divina Commedia (Inferno X, 120), «sapendo di non avere le grazie del papa, e che la cosa era stata divulgata da molti della curia e di altre parti, faceva credere di avere la grazia del papa» sostando «a chiacchierare con qualche chierico nell’anticamera, fino a che non era sicuro che tutti i cardinali fossero usciti». Sperava così «che lo considerassero il cardinale più importante della corte»...
L’esistenza di documenti in cui si espongono forti critiche, peraltro non destinate ad essere pubblicate, contro organi curiali, ha sorpreso e ha fatto discutere. Anche a questo riguardo, le differenze con il passato antico sono notevoli. Nel Medioevo e nel Rinascimento, critiche anche polemiche potevano essere lette persino alla presenza del papa. Il 13 maggio 1250, a Lione (città in cui Innocenzo IV aveva celebrato un concilio per deporre l’imperatore Federico II), il cardinale Giovanni Gaetano Orsini lesse in concistoro, quasi d’improvviso, una memoria che il sapiente vescovo di Lincoln Roberto Grossatesta - "fondatore" dell’università di Oxford - aveva consegnato ad alcuni cardinali e allo stesso pontefice e che conteneva una fra le più severe denunce della politica della curia romana del Duecento. Non fu un caso isolato, tutt’altro.
La situazione evolverà però dal Cinque e Seicento in poi. In sintonia con nuove forme di vita sociale all’interno delle corti sovrane europee, la radicalità degli scontri personali ed anche della formulazione di critiche e polemiche lascerà il passo a modalità nuove, meno irruenti e più segrete. Di qui la nostra sorpresa nel vedere, oggi, come tanti secoli fa, il ritorno in primo piano, proprio dall’interno del Vaticano, di polemiche e scontri personali cui non eravamo più abituati.
LA CHIESA, LA MAFIA, LA ZONA GRIGIA
di Raffaello Saffioti
DALLA CALABRIA UN CONTRIBUTO ALL’INCONTRO DI ROMA SUL TEMA: “SOTTO LE DUE CUPOLE. CHIESA, RELIGIONE, MAFIA” *
L’incontro che avrà luogo a Roma col titolo “Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia” mi dà l’occasione per richiamare e sviluppare il mio recente documento “Le feste religiose nel Sud. Palmi, San Rocco, la Varia. E la chiamano fede”, pubblicato sul sito del periodico “Il dialogo” (www.ildialogo.org) e su quello delle Comunità Cristiane di Base (www.cdb.it).
In quel documento ho esaminato due feste religiose di Palmi, in Calabria, che registrano una straordinaria partecipazione popolare, e manifestano la devozione della città a San Rocco e alla Madonna. Mi sono chiesto quanto queste feste siano segno di autentica fede religiosa, ponendomi dal punto di vista biblico, proponendo una scelta di testi dell’Antico e Nuovo Testamento.
Chiedevo: Palmi, città cattolica? E notavo che di fronte al fenomeno mafioso la città “non vede, non sente, non parla”.
Due anni fa, in occasione del trasferimento del Vescovo Giancarlo Bregantini dalla diocesi di Locri-Gerace alla diocesi di Campobasso, avevo pubblicato un documento col titolo “La Chiesa, il potere, la mafia. Quando il Pastore lascia il suo gregge: il ‘caso’ Bregantini” (www.peacelink.it).
Scrivevo:
“Per chi vive lontano dalla Calabria è difficile capire a fondo come si vive in questa regione, capire pure come funziona il sistema di potere clientelare-mafioso e il ruolo che giocano la Chiesa come istituzione, gli ecclesiastici e i cattolici in genere”.
Raccogliendo le suggestioni e gli stimoli che provengono dal testo che accompagna il programma dell’incontro di Roma, va sottolineato “l’accostamento ‘chiesa e mafia’ ” che “rinvia ad analisi e interrogativi sul ruolo del cattolicesimo italiano”.
Quando diciamo “Chiesa”, di quale Chiesa parliamo?
Per il tema dell’incontro di Roma, credo che ci convenga parlare della Chiesa-istituzione e riproporre il tema del potere della e nella Chiesa-istituzione.
Il tema andrebbe esaminato partendo dal Vangelo e arrivando alla Costituzione Lumen gentium, del Concilio Ecumenico Vaticano II, ripercorrendo il processo storico bimillenario. Qui basta affermare, oltre l’esigenza permanente della riforma della Chiesa (“Ecclesia sempre reformanda est”), l’esigenza attuale ed urgente della riforma della struttura gerarchica della Chiesa-istituzione, per renderla coerente e conforme alla legge evangelica dell’eguaglianza e della fraternità.
Il principio gerarchico va attaccato alla radice, non solo nelle varie organizzazioni laiche, ma anche nella organizzazione della Chiesa. Dove c’è gerarchia, c’è disuguaglianza, dipendenza, violenza, segretezza. E questi sono principi che si ritrovano anche nelle organizzazioni criminali.
La parola “gerarchia” dovrebbe scomparire da ogni vocabolario.
“Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi?”
Queste domande vengono poste dal libro I sommersi e i salvati, di Primo Levi (Einaudi, 1986).
“Un saggio imprescindibile per capire il Novecento e ricostruire un’antropologia dell’uomo contemporaneo” (dalla quarta di copertina).
“Il capitolo centrale, il più importante del libro è quello intitolato La zona grigia”, come dice lo stesso Levi.
Una breve citazione.
“Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da ‘laboratorio’: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E’ una zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna terribilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
... Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70” (pp. 29, 30).
Chi fa parte della zona grigia?
La Chiesa cattolica ne fa parte?
Il tema posto da Primo Levi si sta divulgando. Esso, mentre le varie analisi del fenomeno mafioso finora tentate si sono rivelate inadeguate e insufficienti, aiuta a decifrare e comprendere sempre meglio quel fenomeno, per il quale si può dire quello che è stato detto per la mafia calabrese, che “prima ancora di essere un’organizzazione criminale, è diventata ormai un fenomeno sociale e culturale”.
E’ dalla zona grigia che la mafia trae la sua forza ed è in essa che si trovano collusioni, connivenze e complicità di ogni tipo.
Francesco Tassone, direttore della rivista “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, dopo una intimidazione mafiosa alla famiglia dell’ingegnere Antonio D’Agostino, di Vibo Valentia, ha scritto:
“Non basta denunciare il sistema mafioso (...), e neppure costruire luoghi di aggregazione sociale e posti di lavoro, senza contemporaneamente rompere di fatto, oltre moralmente, con quel sistema, senza iattanza ma in modo visibile, marcando nel concreto della situazione la differenza. Evitando di far parte, come avviene per la gran parte di essi (avvocati, sacerdoti, medici, ingegneri, insegnanti - non parliamo dei sindacalisti e degli altri ruoli direttivi) dell’establishement locale e delle sue regole di (buon) comportamento” (Dalla lettera a Comunità Libere, Gioiosa Ionica e a Libera, Vibo Valentia, in “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, 104/106, giugno/dicembre 2008, pp. 139-140).
Quindi, per combattere la mafia, ormai lo sappiamo, non basta la repressione con l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, e non bastano le denunce, neanche quelle di documenti solenni e autorevoli della Gerarchia ecclesiastica.
In questi ultimi mesi alcuni vescovi del Sud hanno espresso posizioni nuove, molto coraggiose. Su “Famiglia Cristiana” (n. 11 del 14 marzo 2010), tre vescovi hanno commentato il documento della CEI sul Mezzogiorno.
Il Vescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro:
“Ci siamo occupati del sacro e non della fede ... sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, che non incidono e non cambiano i comportamenti”. “Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa”.
Il Vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero:
“ Ogni comunità scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari”.
Il Vescovo di Acerra, monsignor Antonio Riboldi:
“I cristiani al Sud devono svegliarsi. (...) Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota”.
Grande è il ruolo e grande è la responsabilità della Chiesa cattolica. Un fatto di cronaca che fa riflettere (dal quotidiano “calabria ora” del 21 agosto 2010, p. 12):
“Abolite due soste, la statua non passa da casa dei clan”.
“Sotto osservazione delle forze dell’ordine, la processione che tutti gli anni si svolge il 16 agosto a Palmi in onore a San Rocco. L’ufficio di Polizia palmese, infatti, avrebbe ‘consigliato’ al Comitato organizzatore, di evitare due delle fermate previste durante il lungo tragitto che compie la statua del santo per le vie della città”.
Le due fermate sconsigliate avrebbero dovuto aver luogo davanti la casa di due note cosche cittadine. “L’invito della polizia è stato accolto dagli organizzatori che, dopo più di 50 anni, hanno mantenuto intatto il percorso della processione, ma hanno abolito le due soste considerate dalle forze dell’ordine ‘inopportune’ ”.
Quelle due soste, “segno di ‘riverenza’ verso le potenti famiglie di mafia”, dovevano essere sconsigliate dalla Polizia, o dal Vescovo e dal Parroco?
Palmi, 15 settembre 2010
Raffaello Saffioti
rsaffi@libero.it
* Il Dialogo, Domenica 19 Settembre,2010 Ore: 05:04
Tavola rotonda dal titolo "Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia" *
Intervengono: Augusto Cavadi (teologo), Don Luigi Ciotti (presidente e fondatore Associazione Libera), Alessandra Dino (sociologa) e Giuseppe Leotta (magistrato).
Dal sito di Radio Radicale
Colpire Boffo per educarne cento
di Marco Politi (il fatto Quotidiano, 31 agosto 2010)
Un anno dopo, l’affare Boffo resta quello che era. Una storia torbida. Un atto di killeraggio di Vittorio Feltri ai danni del direttore di Avvenire. Una vittoria (forse di Pirro) di Berlusconi, che riuscì allora a silenziare il giornale dei vescovi e a intimidire la Cei, ma ha creato all’interno della Chiesa rancori insanabili di cui da un mese all’altro - quando sarà davvero in difficoltà - potranno chiedergli conto. Qualcuno dei suoi falchetti, come Giorgio Stracquadanio, pensa ancora di poter minacciare contro gli avversari politici (vedi Fini) il “metodo Boffo”, e non ha capito che la loro vendetta i prelati la gustano freddissima.
Noemi, D’Addario e la questione morale
LA STORIA ha un antefatto nella primavera del 2009 con le rivelazioni sui patetici show inscenati da “Papi” Berlusconi: Noemi, le ragazzotte a Villa Certosa, le escort che un qualsiasi faccendiere gli infila nel letto a Palazzo Grazioli per la modica cifra di mille euro. Non esiste nell’Occidente democratico leader di governo che sguazzi in un tale clima da basso impero. Azzurri e leghisti, abitualmente indomiti difensori dell’identità cristiana in Italia, fanno finta di niente e tacciano di moralismo chi osa protestare. Ma qualcosa non torna nel disegno berlusconiano di negare rabbiosamente la realtà. Gli viene a mancare d’improvviso l’alleanza con la gerarchia ecclesiastica.
Pressato dal disagio della base cattolica moderata, il giornale dei vescovi Avvenire - generalmente benevolo (problemi degli immigrati a parte) con il centrodestra, com’è desiderio del segretario di Stato vaticano cardinale Bertone - comincia a criticare il Cavaliere. Il 5 maggio un editoriale di Avvenire chiede al premier “sobrietà”, perché (come ribadisce in queste settimane Famiglia Cristiana) la “stoffa umana di un leader, il suo stile e i valori di cui riempie concretamente la sua vita non sono indifferenti, non possono esserlo”. È uno schiaffo sanguinoso. Ma il commento non è firmato dal direttore del giornale. Berlusconi spera ancora in una tregua.
Invece, a piccole dosi, il direttore Boffo inizia a dare voce alle critiche dei lettori, commentando con postille sempre più pungenti. Finché il 25 luglio Boffo prende di petto Berlusconi e lo accusa di “non avere fatto chiarezza” sul puttanaio delle seratine a Palazzo Grazioli. Lo smaschera sul caso D’Addario.“La vicenda-chiosa Boffo - non solo non ci convince ma, per quanto ci è dato di capire, continua a piacere poco a larga parte del Paese reale”.
Berlusconi è furibondo. Pressato all’interno, deriso all’estero, decide di partire con una campagna d’autunno a tout azimut contro i suoi avversari. Manda Feltri alla direzione del Giornale. Boffo è il primo della lista. Il 28 agosto il Giornale esce agitando una presunta “nota informativa” (desunta, sembra di capire, da fascicoli giudiziari o di polizia) secondo cui Boffo “noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni” ha tentato di intimidire una signora di Terni a causa di una relazione con il marito.
Il fango e le dimissioni
LA “NOTA” è un falso. Non esiste in nessun fascicolo istituzionale. Il ministro Maroni nega pubblicamente l’esistenza di qualcosa del genere e qualsiasi documentazione di Stato sulla vita privata di Boffo. Berlusconi fa finta di dissociarsi. Salta l’incontro tra il premier e il cardinal Bertone previsto a L’Aquila per la Perdonanza. Ma il pestaggio del Giornale è sistematico. Cinico. Senza quartiere. Il 3 settembre Boffo si dimette. Mesi dopo Feltri dovrà ammettere pubblicamente di avere usato un falso. Ma lo attende ancora un procedimento dinanzi all’Ordine nazionale dei giornalisti. Sulla scena politica la lezione è chiara. Con la potenza di fuoco dei media “di famiglia” Berlusconi può rovesciare fuoco e fango su chiunque.
La pace: “Che piacere rivederla”
MA QUALCOSA non torna sul versante della Chiesa. Boffo non ha mai chiarito pubblicamente perché il Tribunale di Terni lo abbia condannato nel 2004 a una ammenda penale di 516 euro per “molestie” partite da un suo cellulare. Ma soprattutto non si è mai capito perché le massime autorità ecclesiastiche abbiano opposto resistenza all’aggressione brutale del fronte berlusconiano soltanto per un pugno di giorni. È intervenuto a difesa di Boffo il cardinale Bagnasco, esprimendo “disgusto” per il killeraggio. È intervenuta la Cei. È intervenuto il cardinale Bertone. Si è mosso il Papa. Il 3 settembre 2009 tutto era già finito. Boffo si dimetteva e spariva nel nulla. Il 26 settembre, partendo per Praga, Benedetto XVI incontrava a Ciampino Berlusconi e lo salutava come se niente fosse con un “che piacere rivederla”.
Non è l’unica strana incongruenza. Mentre già era partita l’aggressione a Boffo, il direttore dell’Osservatore Romano criticava in un’intervista l’Avvenire per le sue denunce contro la politica governativa sull’immigrazione e sottolineava che i rapporti tra Santa Sede e governo erano eccellenti. Quanto al falso dossier, si è poi saputo che era stato confezionato nel mondo cattolico. È stato Giuseppe De Rita, profondo conoscitore del mondo cattolico, a dichiarare al Fatto che la gerarchia ecclesiastica “non voleva lo scontro”. Dunque ha ingoiato l’aggressione. Un collaboratore del cardinale Ruini, che ha battuto ogni corridoio dei Palazzi ecclesiastici, racconta qualcosa di più: “La gerarchia temeva che si scatenasse contro la Chiesa una campagna su scandali sessuali condotta senza esclusione di colpi”.
Il “metodo” e il pestaggio mediatico
VITTIMA di “violenza”, come scrisse nella sua lettera di dimissioni, Dino Boffo da allora ha vissuto ritiratissimo. Ha superato una forte depressione, ha rinunciato a un corso che teneva all’Università Cattolica, è rimasto però nel Comitato permanente dell’Istituto Toniolo, l’organismo che gestisce la Cattolica, e inoltre partecipa ancora al Progetto culturale Cei. Da poco ha ricominciato a riprendersi. È andato a Malta a studiare l’inglese, ma ancora non fa nuove scelte professionali. Il “Metodo Boffo” è diventato sinonimo di pestaggio mediatico. Ma se le responsabilità di Berlusconi e Feltri sono chiare, resta la domanda: quando la Chiesa vorrà ribellarsi a questo clima di piccoli Neroni.
Breve storia del diavolo. Il male nell’era delle tentazioni quotidiane
di Marino Nola (la Repubblica, 10 agosto 2010)
Uno nessuno centomila volti per l’inventore della tentazione. Il diavolo non è mai uguale eppure resta sempre lo stesso. Serpente infido, angelo caduto, caprone volante, dragone sulfureo. Ma anche eroe maledetto, libertino irredimibile, mercante d’anime. E ancora anormale, marginale, deviante. Bel tenebroso oppure brutto sporco e cattivo. E perfino terrorista e serial killer. Dalla Genesi ai nostri giorni il maligno ne ha cambiate di facce.
A dirlo è Daniel Arasse, storico dell’arte della Sorbona, in un libro appena uscito in Francia per le Edizioni Arke. Titolo Il ritratto del diavolo. Argomento, le mille sembianze con cui la nostra civiltà nel corso della storia ha cercato di rappresentare il principio attivo del male. Finendo per fare del signore delle tenebre il mutaforma per antonomasia. Proprio come quelli che oggi popolano il cinema e la letteratura fantasy. Ma in realtà ad essere veramente diabolico è proprio questo trasformismo gattopardiano. Cambiare tutto perché nulla cambi, mimetizzarsi per continuare ad indurci in tentazione.
Sin dai primi secoli del Cristianesimo la vera arma del diavolo è proprio la sua capacità di trucco e di travestimento. Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che gli angeli ribelli scacciati dal paradiso rivelarono alle donne arti diaboliche come l’uso della “polvere nera con cui si prolungano gli occhi”. Quello che oggi non a caso si chiama mascara.
Seduzione uguale tentazione. Come quella cui viene sottoposto sant’Antonio da un sexy-diavolo in sembianze femminili. Simile alla sensualissima Anita Eckberg che Fellini, in “Le tentazioni del dottor Antonio”, trasforma in una prorompente diavolessa bionda che sulle note di “bevete più latte” fa perdere la testa a Peppino De Filippo nelle vesti del bacchettone di turno. Di fatto Tertulliano, oltre a riaffermare che la tentazione è femmina, condanna la cosmetica in quanto mascheramento che snatura il modello divino di cui il volto umano è la copia rivelatrice. E in molte incisioni medievali il demonio viene riconosciuto proprio quando si toglie la maschera. Finendo letteralmente smascherato. Proprio come Diabolik. E come Arlecchino, la maschera per antonomasia, che in origine è anche lui un diavolo. Lo dice il nome stesso che viene dall’antico germanico hölle könig, che in inglese diventa hell king, ovvero re dell’inferno.
Ma questa capacità illusionistica non è solo uno strumento del mestiere, è anche la storica ragion d’essere del maligno. Che riesce, ieri come oggi, a rendere il male pensabile e soprattutto rappresentabile solo a condizione di restare un’icona a bassa risoluzione cui la Chiesa stessa non ha mai dato un volto definitivo. Ed è proprio grazie a questa indefinizione che il diavolo è rimasto un evergreen. Capace di un morphing perpetuo che ne fa sempre il profilo più aggiornato del male, la sua ultima versione.
Diceva Dostoevskij che in realtà l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza. Come dire che ogni epoca ha il Lucifero che si merita. Lo mostra a chiare lettere la storia dell’arte occidentale che registra puntualmente le metamorfosi del grande nemico. Sin dalle prime raffigurazioni altomedievali dove Satana e Belzebù hanno facce da turchi, da mongoli, da africani. Tratti etnici per significare un male straniero, un pericolo che viene dall’esterno. Fino a quel tornante decisivo che sta fra medioevo ed età moderna quando il demonio perde le ali di pipistrello, la coda di dragone, gli zoccoli da satiro pagano, per lasciare il posto a un maligno dal volto umano.
Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolocardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica.
Così il diavolo cede il posto al diabolico che è in ciascuno. Come diceva Paul Valéry, il diavolo diventa come Dio. Entrambi esistono, ma solo in noi e insieme formano una coppia inseparabile di divinità latenti. Come dire che la modernità lascia all’uomo la scelta tra bene e male. Tra resistere alle tentazioni del peccato o al contrario cedere deliberatamente cancellando così l’idea stessa di peccato. Una rivoluzione che finisce per fare del diavolo il simbolo della vittoria del piacere e della libertà. O, addirittura, della forza vindice della ragione, per dirla con Giosuè Carducci. Un eroe bello e impossibile. Come il Satana di William Blake del Victoria and Albert Museum di Londra, uno Spartaco venuto dagli inferi che guida gli angeli ribelli all’assalto del trono di Dio. E come il Satana di Milton che preferisce essere re all’inferno piuttosto che servo in paradiso.
Ma proprio perché si è fatto umano, troppo umano, il diavolo sparisce progressivamente dalla pittura e dall’iconografia. Che hanno bisogno di forconi, di artigli, di squame e di occhi fosforescenti da incubo. Se è facile dipingere dei mostri è difficile rappresentare la mostruosità. E così l’agente del caos esce dai manuali di storia dell’arte per entrare in quelli di criminologia e di psichiatria. E a dargli la caccia sono gli scienziati come Cesare Lombroso che fa dell’antropometria una demonologia positivista popolata di delinquenti, anormali, briganti, mattoidi e “pazzi morali”.
Uno zoo umano affollato di poveri diavoli come il “falsario piemontese”, il “ladro napoletano”, “l’anarchico lucano”. Più demonizzati che demoni in verità. Oggi, scacciato dalla morale religiosa Satana si delocalizza e si scioglie nel sociale. Entra nei moderni tribunali della coscienza laica con un look tutto nuovo. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato.
E soprattutto medicalizzato. Un maligno da psicologi e dietologi più che da teologi. Un demonio interinale microfisicamente nebulizzato in mille piccole tentazioni e altrettanto piccole demonizzazioni che ci aiutano ad orientarci tra un bene e un male ad assetto variabile, più mutevoli degli indici della borsa. Dal colesterolo ai radicali liberi, dai grassi idrogenati ai raggi UVA. Dal sovrappeso agli inestetismi. Dalla mucca pazza all’effetto serra. E così il simbolo del male diventa sintomo di malessere. È tutto quel che resta del diavolo nell’era della flessibilità. Che ha tolto il posto fisso anche a Belzebù.
“Le portrait du diable”, un saggio di Daniel Arasse, ed. Arke
Il Papa, Ruini e la rivolta degli atei devoti
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano” , 11 febbraio 2010)
Sulla Curia attonita è calata la parola di Benedetto XVI in difesa di Bertone e di Vian. Ma ora è la rivolta degli atei devoti. Ferrara sbeffeggia il comunicato e il Giornale irride: “Il Papa fuori dalla grazia di Dio”.
Eccoli i rimasugli imprevisti e velenosi del lungo regno del cardinal Ruini, che dopo il crollo della Dc pensò di posizionare la Chiesa al centro del gioco politico. Scegliendosi alleati in campo cosiddetto “laico”, difensori improvvisati di un cristianesimo senza Cristo, araldi dell’identità cattolica d’Italia nel nome di un Vangelo agitato come libretto di Mao. Contro gli “uomini di Bertone” lancia frecciate sprezzanti Giuliano Ferrara, evangelista del pensiero ratzingeriano e infaticabile combattente a fianco delle gerarchie ecclesiastiche contro la 194 o i Dico o il testamento biologico.
La smentita vaticana, motteggia, è “squillante e molto tardiva”, di una “violenza verbale inconcludente”, stilata per “silenziare e mettere alla gogna l’informazione laica, libera, amica che denuncia il fattaccio”.
Doveva succedere prima o poi. Se la Chiesa, durante il ventennio ruiniano, è stata gestita come soggetto partitico, manovrata come un Comitato centrale per organizzare astensioni ai referendum, animare manifestazioni di piazza contro disegni di legge, intimidire governi... doveva finire che i mass media la considerassero alla stregua di un partito come gli altri, con le sue fazioni e i suoi intrighi, e che gli “alleati” di ieri si lanciassero a gettare benzina sulle divisioni interne come succede nel teatrino politico.
L’iperpoliticizzazione ruiniana ha condotto la Chiesa a perdere la sua “diversità”. Perché una cosa è combattersi nei ranghi ecclesiali su temi come il Concilio, il negazionismo, la sessualità, il rapporto con l’islam, altro è lasciare che venga proiettata l’immagine di corvi che portano pacchi maleodoranti di nido in nudo.
Un tale degrado d’immagine non si era mai visto in epoca contemporanea. E il verminaio è stato prodotto proprio da coloro che la strategia ruiniana aveva eletto come punta di diamante dell’inf luenza cattolica in partibus infidelium.
Gli elefantini allegramente neo-integralisti, “alla laica”, il cardinale Ruini, da presidente della Cei, se li era bene allevati. Facevano da pendant perfetto agli arditi ciellini. Gli ossequienti alla Ferrara tornavano utili per dare smalto al Comitato Scienza e Vita (sapiente mix di cattolici e agnostici), messo in piedi dietro le quinte dall’allora dirigenza Cei, per imporre la linea astensionista al referendum sulla fecondazione assistita.
Tornavano utili per predicare contro le “stragi” dell’aborto e buttare bombe intellettuali contro l’I l l u m i n ismo, nell’esaltazione delle perenni “radici cristiane” dell’Italia e dell’E u ro p a Nel 2006 al convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona il cardinal Ruini incoraggiò Benedetto XVI all’e l ogio degli atei devoti, portati in palmo di mano perché erano testimoni dell’“insuf ficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’e t ica troppo individualista”. Elogiati perché sensibili alla “gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”. Erano - s c a ndì Benedetto XVI - una “grande opportunità” che la Chiesa italiana doveva “cogliere”.
Si è visto. In queste settimane la “grande opportunità” ha armato la canizza assieme ai ciellini e ai falchi ruiniani contro l’Osservatore Romano per mettere al tappeto il cardinale Bertone. E adesso che il Papa (malvolentieri, peraltro) è dovuto intervenire di persona, Ferrara demolisce il comunicato, smontandone la “violenza verbale inconcludente ” e accusando nuovamente Vian di avere avvalorato la “cacciata di uno stimato giornalista cattolico” come Boffo. Mentre il G i o rnale, in passato estremamente rispettoso nei confronti della Chiesa, invita il Papa a informarsi “in tre minuti” della fondatezza della condanna per molestie di Boffo. In questo girotondo di bande il mondo dei fedeli cattolici appare ferito, disgustato e disorientato.
Alcuni punti fermi sono tuttavia acquisiti. La “velina”, che Feltri pubblicò l’agosto scorso, è nata in ambienti cattolici milanesi: avversari di Boffo per la concentrazione di potere avvenuta nelle sue mani come zar del sistema mediatico cattolico (Avvenire, la televisione della Cei, la rete delle radio cattoliche) e come portavoce politico di Ruini ormai in pensione. La “velina” è stata spedita in primavera, con buste e francobolli vaticani, all’indirizzo di circa duecento vescovi. Sarebbe morta nei cassetti se Feltri non l’avesse messa in pagina per punire Boffo, reo di avere criticato su Avvenire Berlusconi per l’affare escort. Il paradosso è che Boffo, solo premuto dalla base cattolica e con l’assenso del nuovo presidente della Cei Bagnasco, aveva attaccato il premier. Prima dello scandalo aveva sempre seguito la linea Ruini favorevole al centro-destra. Anche Bertone, il “nemico” di Ruini, è peraltro favorevole al centrodestra. Perciò fece intervenire ai primi di settembre Vian con un’intervista al Corriere della Sera per bacchettare l’Avvenire: proprio per salvaguardare i buoni rapporti istituzionali con Berlusconi. Un gioco degli specchi.
Emarginato Boffo, si sono mossi ora a gennaio gli atei devoti e manipoli ciellini e ruiniani per “ridare l’onore” all’ex direttore dell’Avvenire e mettere in difficoltà Bertone diventato troppo potente in Vaticano. Ma nel polverone del campo di battaglia si stagliano alcuni fatti precisi. Feltri dichiara chiuso il caso e annuncia che non “rivelerà” nomi. (E Berlusconi, con le elezioni incombenti, dichiara d’i mprovviso di essere tanto dispiaciuto per gli attacchi portati a Boffo a mezzo stampa).
Bagnasco continua in silenzio la sua “linea pastorale” né con Bertone né con Ruini. E lo scarno comunicato Cei testimonia la volontà di non mettere neanche un dito nel verminaio. I grandi porporati della Chiesa italiana - Scola, Sepe, Tettamanzi, futuri protagonisti del Conclave - tacciono, per mostrarsi superiori a queste miserie. E i cardinali di Curia stranieri sospirano: “Robe tutte italiane”.
Un malessere antico e lo smarrimento del mondo cattolico
di Alberto Melloni (Corriere della Sera,10 febbraio 2010)
C’è un senso molto profondo di sofferto smarrimento che percorre oggi le comunità cattoliche e che merita di essere ascoltato con attenzione. Infatti dall’agguato teso all’ex direttore di Avvenire a fine estate, è stato tutto uno stillicidio di voci, moralismi, pettegolezzi, malignità, nessuno dei quali è nato per partenogenesi.
L’uscita di scena di Dino Boffo è stata accompagnata da solidarietà di rito e da rivincite maramalde che non sono rimaste senza replica. Subito è incominciato l’indovinaindovinello di Vittorio Feltri, nel quale sono entrati tutti coloro che hanno cercato di vincere non si sa quale premio rispondendo al quesito: «Chi ha passato le informazioni usate da Il Giornale? ». E in questa caccia al tesoro ecco nuove raffiche di colpi bassi, ostentazioni, dinieghi, veti, pallottole vaganti. Insomma un reality al veleno, una mala educación che disgusta i capannelli delle mamme fuori dal catechismo e annoia le anime sante.
Le ricostruzioni che si sono cimentate con i retroscena di questo disastro sono state spesso manovre in conto terzi o rifrittura di invenzioni sussurrate a mezza bocca. E hanno solo aumentato uno sconcerto nel quale tutte le voci della Chiesa hanno perso il ritmo comunicativo, finendo vittime del loro silenzio o delle loro parole.
Una condizione particolarmente sconcertante per il cattolicesimo italiano nella sua interezza. Questa comunità che aveva dato alla Chiesa tanto è oggi in uno stato di confusione. Forse perfino pronta a credere che la sua autorevolezza coincida col destino del regolamento sugli arredi scolastici e certo rassegnata quando si sente dire che l’esclusione dei candidati italiani negli ultimi due conclavi appare un segno della Provvidenza, piuttosto che la cifra di una mutata esperienza di cattolicità. Ma anche, più in generale, la Roma che è centro del cattolicesimo appare frastornata: gli episodi sono meno gravi, ma ugualmente sorprendenti.
La causa di beatificazione di Wojtyla è stata aperta in modo straordinario e chiusa in tempi record: ma non farà piacere ai testimoni- i quali, è bene ricordarlo, in un processo canonico hanno il diritto/dovere di dire ogni cosa, anche la più negativa o indimostrata per fornire alla causa ogni elemento di giudizio - vedere pubblicate le loro parole dal postulatore che del riserbo doveva essere il custode.
La questione della chiesa cinese è complessa e di difficile decifrazione: ma è sorprendente - ne parla Gianni Valente nell’ultimo numero di 30giorni - che qualche pezzo di mondo ecclesiastico con addentellati in curia e nel web chiami «traditore» un vescovo cinese con alle spalle dieci anni di galera e riconosciuto dal Papa, solo perché il suo modo di leggere la recente lettera del Papa a quella Chiesa non coincide con le proprie idee.
La girandola delle voci sulle importantissime nomine attese in curia non è certo inusuale e va presa con le molle: ma il fatto che si possa trattare il trasferimento da diocesi lontane come fosse una promozione, dà il senso di uno sfaldamento della comunicazione. Che non è un fatto tecnico, ma di pienezza del cuore.
Sia chiaro: il problema non è lo scandalo o la divisione in astratto di cui tanto si parla. Nessuno più della Chiesa romana ha una visione realistica della propria «corporeità»: la fragile moralità degli uomini, il dissidio politico, la lotta fra gruppi di potere che s’acuisce spietata con l’avanzare negli anni dei papi - per lei tutto è déjà vu. Non uno spiritualista inesperto, ma Domenico Tardini, faro dei diplomatici vaticani del secolo XX, commentava nel suo diario i complimenti che gli vennero fatti nel 1939, nel decennale della conciliazione, in una curia che si attrezzava a un difficile conclave, con la sua usuale crudezza: scriveva che «a chi la guarda da fuori la Santa Sede sembra un albero frondoso, ma chi la conosce sa che le sue radici sono piene di vermi».
Non uno qualsiasi, ma Indro Montanelli pubblicò sul Corriere del 1962 tre articoli per accusare papa Giovanni, ormai tumorato, di essere stato nella sua gioventù un simpatizzante modernista, sfuggito per un pelo alle condanne che avrebbero fatto di lui uno scomunicatello qualsiasi: fece queste uscite sulla base di soffiate venute niente meno che dal capo del Sant’Ufficio e solo la lunga vita che gli fu data permise al patriarca del giornalismo italiano di fare ammenda di quell’ingenuo avvitarsi nelle spire del pre-conclave.
Ciò che rese quelle vicende sopportabili non fu il fatto che avessero un peso «minore» (anzi), ma che si inserissero in quel dinamismo di Chiesa che rende il vangelo eloquente dentro il tempo e dentro la storia. Certo: la comunicazione di questa società fatalmente amplifica i rumori, specie quelli sordidi; la spavalderia del mai sopito semipelagianesimo italico ha peggiorato le cose; un pizzico di irresponsabilità generalizzata ha condito il tutto.
Ma il fondo di sconcerto viene dalla mancanza di un confronto sul vangelo: anzi, di un confronto su Dio, diceva don Pino Ruggieri in una appassionata relazione tenuta sabato a Firenze al gruppo «Il vangelo che abbiamo ricevuto».
La Chiesa italiana ha attraversato una lunga stagione nella quale tali dialettiche sul vangelo sono state compresse nella ricerca di un unanimismo politicamente utile. Nella Chiesa universale ha prevalso l’idea che l’identità di vedute con le posizioni morali del magistero fosse l’unico crisma di ortodossia. Mentre la santa emulazione sui grandi nodi della disciplina cristiana - la disciplina spirituale, la disciplina orante, la disciplina del dialogo e della mitezza - è rimasta in sordina come fosse un pezzo di antiquariato conciliare buono per i ricordi.
Vaticano, un calvario profano
editoriale (Europa, 10 febbraio 2010)
Che strana e spiacevole impressione: il comunicato ufficiale della sala stampa vaticana, la pubblicazione sull’Osservatore romano, l’autentica del papa. Procedure di una certa solennità, rese obbligate dalla pressione crescente, quasi imposte da reiterate intimazioni di giornali e commentatori laici.
Tutto nel tentativo di respingere «una campagna diffamatoria contro la Santa Sede, che coinvolge lo stesso Romano Pontefice». Con il rischio che invece di sopire le polemiche, il duro comunicato di padre Lombardi le ecciti ulteriormente, come dimostra la replica durissima di Giuliano Ferrara («il comunicato l’ha scritto Vian in persona»).
Anche perché a questo punto è partita una contro-campagna che addossa a Cl, ai suoi molti opinion- makers e appunto al Foglio la responsabilità di aver scaricato sulla Segreteria di stato e sul direttore dell’Osservatore Vian il sospetto infamante di una congiura ai danni di Dino Boffo. Comunque vada, è una brutta storia per i vescovi, per la Curia e per lo stesso pontefice. Ieri su Europa Aldo Maria Valli e Massimo Faggioli leggevano la vicenda come conseguenza di una terribile confusione nella governance della Chiesa.
Senza essere altrettanto esperti, una evidenza balza agli occhi. Contro la Chiesa si ritorce la scelta, forse obbligata quando venne presa da Ruini venticinque anni fa, di scendere in campo, militante, nella società e nella politica, per far valere ragioni e valori che la mediazione democristiana non riusciva più a difendere. Nella società e nella politica, ripetiamo.
Ma nel 2010 la società e la politica in Italia sono questo. Sono scandali a luci rosse, guerre di dossier, foto compromettenti, carte processuali rivelate o alterate, campagne denigratorie. Tutto ne viene contaminato, compreso il sacro. Ne vennero segnati perfino gli ultimi giorni di Eluana Englaro.
C’è chi ne trae la conseguenza che vescovi e Curia dovrebbero ritrarsi. Non sappiamo. Certo quella di ieri non è l’ultima sosta di questo loro calvario profano.
Caso Boffo, la Santa Sede
"Diffamazioni contro il Papa" *
CITTA’ DEL VATICANO - E’ in corso "una campagna diffamatoria contro la Santa Sede, che coinvolge lo stesso Romano Pontefice". Lo afferma la Segreteria di Stato vaticana in una nota in cui smentisce le ricostruzioni di stampa sul coinvolgimento del direttore dell’Osservatore Romano nel caso Boffo. Le "notizie e ricostruzioni" apparse sulla stampa a proposito del coinvolgimento del direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian nel caso dell’ex direttore di Avvenire Dino Boffo "non hanno alcun fondamento", dice la sala stampa vaticana che aggiunge: "E’ falso che la velina contro l’ex direttore dell’Avvenire venisse dall’Osservatore Romano". "Il Papa - fa sapere la Santa Sede - che è sempre stato informato, deplora questi attacchi ingiusti e ingiuriosi, rinnova piena fiducia ai suoi collaboratori e prega perché chi ha veramente a cuore il bene della Chiesa operi con ogni mezzo perché si affermino la verità e la giustizia".
* la Repubblica, 09 febbraio 2010
Benedetto XVI: "Violati i diritti dei minori"
La chiesa condanna i preti pedofili *
CITTA’ DEL VATICANO - "La Chiesa non manca e non mancherà di deplorare e di condannare i suoi membri che purtroppo, in diversi casi, agendo in contrasto con questo impegno, hanno violato i diritti dei minori". Così nel discorso rivolto questa mattina ai membri del Pontificio consiglio per la famiglia, papa Benedetto XVI è tornato a condannare gli abusi sessuali sui minori commessi dai preti, proprio mentre sta portando a termine la stesura della Lettera alla Chiesa irlandese dopo lo scandalo pedofilia che ha portato alla dimissioni di quattro vescovi. La pubblicazione della Lettera è prevista in occasione di un incontro con i vescovi irlandesi che si terrà il 15 e 16 febbraio.
"La Chiesa, lungo i secoli, sull’esempio di Cristo, ha promosso la tutela della dignità e dei diritti dei minori e, in molti modi, si è presa cura di essi’’, ha detto il Pontefice, aggiungendo che "la tenerezza e l’insegnamento di Gesù, che considerò i bambini un modello da imitare per entrare nel regno di Dio, hanno sempre costituito un appello pressante a nutrire nei loro confronti profondo rispetto e premura", mentre "le dure parole di Gesù contro chi scandalizza uno di questi piccoli impegnano tutti a non abbassare mai il livello di tale rispetto e amore".
Il Papa ha quindi ricordato come la Convenzione sui diritti dell’infanzia sia stata accolta "con favore" dalla Santa Sede, "in quanto contiene enunciati positivi circa l’adozione, le cure sanitarie, l’educazione, la tutela dei disabili e la protezione dei piccoli contro la violenza, l’abbandono e lo sfruttamento sessuale e lavorativo".
* la Repubblica, 08 febbraio 2010
Veleni ecclesiastici e morte del sacro
di Enzo Mazzi (il manifesto, 6 febbraio 2010)
Questi velenosi intrighi ecclesiastici che stanno emergendo in relazione al caso Boffo chiamano in causa responsabilità personali di altissimi prelati. Non è escluso che prima o poi venga tirata dentro la persona stessa del pontefice. Anzi c’è già chi parla di un suo coinvolgimento personale nella vicenda. C’è pane in abbondanza per i media che si nutrono di scandali. Ma è molto riduttivo e secondo me fuorviante questo ridurre tutto all’orizzonte scandalistico della colpa personale.
Gli intrighi vaticani che stanno emergendo dovrebbero essere visti e analizzati come segnali potenti del fatto che è marcio nella radice il sistema ecclesiastico e più ampiamente il sistema del sacro. Non elaborare una tale analisi ci fa perdere ancora una volta un’occasione storica per la crescita culturale globale. Porre l’attenzione e forse la scure alla radice del sistema ecclesiastico vuol dire detronizzare non solo il papa ma il Dio stesso dell’onnipotenza e il Gesù divinizzato dal mito e reso il perno della cultura sacrificale.
Uno dei più noti testimoni della necessità di una tale crescita culturale è Dietrich Bonhoeffer. Rampollo dell’alta borghesia tedesca fonda insieme ad altri pastori la «chiesa confessante» in alternativa e opposizione all’ufficialità della Chiesa evangelica che si era compromessa con il nazismo e finisce in vari lager fra cui Buchenwald e Flossemburg dove viene impiccato il 9 aprile 1945. Nei due anni di internamento scopre l’assenza del Dio delle religioni. E in una serie di «lettere dal lager» scritte a un amico delinea una sorta di teologia della fede non-religiosa che consiste nel vivere nel mondo «come se Dio non ci fosse». Il fare a meno dell’ipotesi Dio nelle relazioni sociali e nella politica è finalmente il raggiungimento della maturità dell’esistenza umana e la condizione per l’assunzione piena della responsabilità. Lo stesso cristianesimo dovrà diventare una nonreligione, come del resto era all’inizio. È complesso il pensiero del teologo dell’assenza di Dio ben oltre la mia semplificazione. E non è affatto nuovo. La novità sta nella sua contestualità storica legata all’assunzione della laicità come valore e nella sua diffusione planetaria.
Il messaggio di padre Ernesto Balducci mi sembra che si ispiri con forza a Bonhoeffer e anzi lo approfondisca: «Dio è la cifra assoluta dell’aggressività umana (...) Le religioni, nate come sono in questa cultura di guerra, sono sempre religioni di guerra, nonostante che esse magari esortino alla pace, invochino la pace. Esse legittimano il costume di guerra, le categorie mentali della guerra (...)Per vivere, esse devono morire». Sono affermazioni forti. E soprattutto sono centrali nell’elaborazione dello scolopio, figlio di un minatore dell’Amiata, rimasto fedele alla cultura popolare delle proprie origini.
Con altri accenti dice le stesse cose un grande maestro buddista zen, vietnamita, cresciuto nella solidarietà con la lotta anticolonialista del suo popolo,Thic Nhat Han: il buddismo deve morire come dottrina della «Pura terra senza sofferenza». Nella Pura terra il canto degli uccelli celesti è la voce del Dharma. Ma il canto di un uccello è il terrore dei vermi e degli insetti. Lo stesso suono che evoca bellezza può anche ispirare paura e dolore. La pratica buddista muta il samsara nella Pura terra ma può impedirci di vedere il dolore, l’angoscia, la sofferenza, le bombe, la fame, la corsa alla ricchezza e al potere. E la Pura terra può diventare anch’essa oppio.
Bonhoeffer, Balducci, Thic Nhat Hanh, testimoni esemplari fra tanti, danno voce e forma a un’inquietudine e a un impulso che sentiamo scaturire in noi dal profondo. I cattolici progressisti, quelli del «disagio», dell’accoglienza, dell’ambientalismo e della pace dovranno prima o poi incominciare a porre la scure alla radice della violenza nell’intimo dei sistemi religiosi. I cattolici dell’associazionismo progressista fanno propri i temi dei movimenti dal basso portando talvolta la radicalità e la forza dell’ispirazione evangelica. Questo è positivo. Ma il compito dei cattolici nei movimenti non può limitarsi ad essere una voce in più. Hanno un compito specifico specialmente nell’era dei fondamentalismi: sradicare la violenza dall’intimo degli apparati religiosi ed ecclesiali. Mentre anche loro di fronte al sacro si bloccano.
È il caso ad esempio dell’incontro di cattolici che si svolge oggi a Firenze per il secondo anno chiamato appunto «Firenze 2». Un settore significativo del cattolicesimo fiorentino aperto rivolge una critica agli organizzatori dell’evento: vi state adattando ai soliti «convegni di dottrina teologica calati un po’ dall’alto ...pensiamo infatti che anche la stessa impostazione della giornata, pur su un tema così attuale e con momenti di preghiera, risenta della volontà di prescindere dalla contingenza che quei temi portano quando invece noi crediamo che la contingenza del tempo presente necessiti in certi momenti storici della forza dello svelamento, della traduzione di quei principi, di quelle linee nella nostra vita ecclesiale, senza silenzi che non sarebbero compresi». Ma aiutare le religioni a morire, con tutta l’incertezza e il rischio che comporta, e con tutta la saggezza che richiede, non può essere ancora una volta un impegno per soli religiosi. Ha ragione il sociologo Franco Ferrarotti nel sostenere che la fame di sacro e il bisogno di religione vanno sottratti all’abbraccio mortifero della religione-di-chiesa, burocratica e gerarchicamente autoritaria, ma aggiunge che ciò va fatto con una lotta su più fronti, «dentro ma anche fuori della chiesa».
Insomma i laici non possono più continuare a chiamarsi fuori dai problemi religiosi, ecclesiali e perfino teologici. Le frontiere della laicità non si possono più disegnare in base al muffito metro del credere/non credere. C’è bisogno di consapevolezze nuove e di percorsi inediti. Val la pena di tentare?
IL RETROSCENA.
Silenzio da parte italiana sulle presunte trame
in cambio di uno stop ai giudizi morali sul presidente del Consiglio
Governo e Santa Sede alle grandi manovre
Berlusconi offre un patto di non belligeranza
di CLAUDIO TITO *
ROMA - Un patto di non belligeranza. Una pace lunga tutta la legislatura tra gerarchie della Chiesa e Governo. Poggiata su un solo architrave: l’archiviazione definitiva e "senza conseguenze" del caso Boffo. Senza far sprofondare nel polverone mediatico i vertici della Segreteria di Stato. Nel giro di cinque mesi gli interessi del Vaticano e di Silvio Berlusconi sembrano di nuovo convergere. E si sono materializzati in una telefonata che all’inizio di questa settimana ha messo in contatto il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con Palazzo Chigi. Un colloquio che ha avuto un unico argomento: la conclusione "immediata e senza conseguenze" della querelle aperta a fine agosto con l’editoriale di Vittorio Feltri sul Giornale.
Il filo che univa il presidente del consiglio e i vertici d’Oltretevere cinque mesi fa si era ingarbugliato. La vicenda dell’allora direttore di Avvenire era deflagrata in un campo di sospetti. Tanti gli interessi che univano la Curia e la presidenza del consiglio, pesanti invece i distinguo che separavano il Cavaliere da una parte ancora influente dei vescovi italiani: quelli che facevano capo alla Cei, al cardinal Ruini e a Angelo Bagnasco. Convinti, questi ultimi, che l’affondo del quotidiano di casa Berlusconi fosse la risposta alle lettere critiche pubblicate da Avvenire.
Ora, però - racconta chi frequenta gli ovattati corridoi vaticani - nel contatto telefonico con Bertone è stata concordata una nuova linea: ristabilire un "corretto" rapporto nelle relazioni tra Chiesa italiana e governo, saldando un’intesa che possa reggere agli urti della legislatura e arrivare agli appuntamenti cruciali del 2013: ossia al prossimo voto politico e all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Proprio per questo, negli ultimi quindici giorni, il premier ha messo in campo tutti suoi ambasciatori per ottenere il massimo risultato dalla "archiviazione" del "caso Boffo". "Io sono sempre stato dalla loro parte - ha raccontato in settimana il capo del governo - e non c’è bisogno di conferme da questo punto di vista. Però non voglio più che mi si accusi o mi si faccia la morale". Il primo passaggio allora si è consumato nel colloquio riservato (il 20 gennaio scorso) con Camillo Ruini, l’ex presidente della Cei e prelato ancora potente nelle gerarchie ecclesiastiche. Il secondo con la telefonata che ha messo in contatto la Segreteria di Stato e Palazzo Chigi. Due conversazioni che si sono concentrate sulle polemiche scatenate dalla pubblicazione sul "Giornale" del dossier Bobbo, rivelatosi poi falso; e sulle rivelazioni circa il ruolo della Segretaria di Stato e del direttore dell’Osservatore romano, Giovanni Maria Vian. Il pranzo "chiarificatore" tra Vittorio Feltri e Boffo, infatti, ha messo in allarme gli ambienti più vicini al governo della Santa Sede. Il rischio che il nome di Vian e, soprattutto, quello di Bertone possa essere esplicitato in una sede pubblica - ad esempio in occasione della convocazione a fine mese di Feltri davanti all’Ordine dei giornalisti - ha provocato un vero sussulto nelle stanze di San Pietro. Un timore recapitato ai vertici dell’esecutivo italiano.
Poche ore dopo, negli uffici d’Oltretevere, è stata letta con un sospiro di sollievo la precisazione di Feltri di mercoledì scorso: "Non conosco né Bertone, né Vian". Una puntualizzazione, però, che ancora non lascia tranquilli. Anche perché manca un ulteriore tassello per chiudere il "caso". La "tregua" tra ruiniani e bertoniani, infatti, non riesce a prendere forma. La richiesta avanzata dai primi - fa notare chi ha parlato con i due "contendenti" - di "pareggiare" il conto con il "siluramento" di Vian, al momento è stata respinta. Motivazione: negli uffici della Segreteria di Stato, nessuno riesce a prevedere la reazione del "licenziando". Il sospetto di una risposta scomposta con il convolgimento esplicito dei piani alti del Vaticano fa ancora premio sulla volontà di una "tregua". Tant’è che negli ultimi giorni è stata persino valutata un’altra opzione: quella di aprire la trattativa per concedere il "riscatto" a Boffo con un altissimo incarico nella galassia editoriale della Cei. La paura di un coinvolgimento ufficiale della Segreteria di Stato, insomma, mette il Cavaliere nell’insolita condizione di accedere al confronto in una posizione di forza. Anzi, in questa fase si sente addirittura al centro della "mediazione" in corso tra le "correnti" cardinalizie.
Non a caso il faccia a faccia di due settimane fa con Ruini - spiega chi frequenta il mondo della Conferenza episcopale - si è concentrato su questi aspetti. Ricostruire un dialogo anche con i vescovi italiani e massimizzare il profitto della battaglia tra i due fronti della Chiesa. Anche perché, il presidente della Cei Bagnasco - a differenza di Bertone il cui incarico alla segreteria di Stato non ha scadenze - dovrà tra poco più di due anni chiedere a Benedetto XVI il secondo mandato quinquennale.
© la Repubblica, 06 febbraio 2010
Caso Boffo
Nessuna telefonata Bertone-Berlusconi
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa, 6/2/2010)
’’Non c’e’ stata nessuna telefonata tra il Segretario di Stato Vaticano, Cardinal Tarcisio Bertone, e il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ne’ ieri ne’ pochi giorni fa come scriveva stamani ’La Repubblica’. E ci sembra davvero grottesco sentir parlare, ancora oggi, di un ’patto di non belligeranza’’’. E’ quanto afferma un comunicato di palazzo Chigi.
«Il Papa sa che i peccatori sono anche nella Chiesa, danneggiata dai silenzi non dalle verità». Nel giorno della condanna papale dell’eutanasia («colpo al cuore dei principi cristiani»), a dettare la linea su lotte di potere, caso Boffo e scandali ecclesiastici è Arrigo Miglio, responsabile Cei del Welfare e vescovo di Ivrea.
Il bertoniano «doc» Miglio, in «pole position» per la successione di Poletto a Torino, richiama il monito di Ratzinger alla conversione, mentre il Papa si informa in Curia e nell’episcopato italiano riguardo l’origine interna della «velina» pubblicata dal «Giornale» sull’omosessualità dell’ex direttore di «Avvenire». «La Chiesa sarebbe molto più danneggiata se quando ci sono cose che non vanno tentasse di nasconderle», spiega Miglio che lancia anche un appello all’elettorato cattolico. «In Piemonte e anche nel Lazio, come in tutto il Paese, quando si tratta di elezioni regionali e amministrative in primo piano dovrebbero esserci i problemi locali al di là degli schieramenti e delle formule», avverte. Sono «considerazioni generali, un messaggio evangelico per tutti», precisa Miglio.
Intanto però, il vescovo emerito di Pistoia, Simone Scatizzi rialza barriere ideologiche sui valori scatenando le proteste delle associazioni gay: «L’ostentata e dichiarata omosessualità impedisce l’amministrazione della comunione».
Sul caso Boffo nessuna relazione è stata chiesta alla Segreteria di Stato. Attraverso i canali istituzionali (colloqui con Bertone, Bagnasco, Re) il Pontefice sta acquisendo elementi di valutazione per capire come siano andate realmente le cose.Vigila in silenzio. «Non cadranno teste né muteranno nella sostanza gli equilibri di potere, però verranno ridimensionati alcuni ambiti di competenza», assicurano in Curia. Nell’immediato si profila un Osservatore Romano «low profile» e a basso tasso polemico (il discorso papale contro il carrierismo è stato titolato su fede e cultura). Il professor Vian, spesso consultato nei tre anni di direzione anche su questioni extra-Osservatore, resta al suo posto, ma gli attacchi alle alte gerarchie preoccupano Benedetto XVI. Non a caso, per la prima volta in due settimane, padre Federico Lombardi ieri è intervenuto, seppure in maniera laconica: «È ovvio che il Papa sa quel che succede ed è informato della realtà». Nei Sacri Palazzi si pensa alla linea di prudenza collaudata negli scandali finanziari degli scorsi decenni: separare il livello «tecnico» da quello «politico».
Al direttore dell’Osservatore Romano, indicato dai «mass media» come colui che ha avallato l’informativa fasulla contro Boffo, viene riconosciuto in Vaticano il merito di aver accresciuto il prestigio culturale e il peso internazionale del giornale del Papa. Al tempo stesso, però, gli viene attribuita un’eccessiva disinvoltura nel gestire i rapporti «intra ed extra curiali», insieme alla consuetudine (atipica per chi lavora Oltretevere) di influenzare l’informazione di quotidiani e agenzie di stampa. Il clamore suscitato dalle dimissioni di Boffo e le rivelazioni di Vittorio Feltri sul suo anonimo informatore di Curia vengono derubricate a «guerra di carta» nell’editoria cattolica. Rancori senza esclusione di colpi, siluramenti e vendette ma senza avalli dei «livelli superiori», cioè Segreteria di Stato e la Cei. Quindi, nessun ruolo di «mandante» di Bertone, né l’intenzione di affossare Ruini attraverso l’uscita di scena del braccio destro Boffo e di ridimensionare l’autonomia del suo successore Bagnasco. In Curia si analizza da quale direzione soffia il vento della maldicenza e se, e come, la Chiesa debba rispondere.
SULLE DICHIARAZIONI DEL VESCOVO EMERITO DI PISTOIA, SIMONE SCATIZZI
nel sito, si cfr.:
LA CLOACA
di don Aldo Antonelli
"La chiesa è fatta di uomini e di donne che hanno il peccato originale"!
Così si sarebbe spresso Arrigo Miglio (rigorosamente senza Mons!), vescovo di Ivrea e responsabile Cei per i problemi sociali e del lavoro. ............ "La chiesa è fatta di uomini e di donne che hanno il peccato originale"!
Detta a proposito della melma che c’è sempre stata negli ambienti curiali e che ora sta venendo all’evidenza anche dei più ignari, dimostra soltanto l’imbecillità di cui sono capaci certi nostri vescovi.
Tirar fuori il peccato originale di fronte all’arrivismo carrieristico e senza regole degli arrampicatori chiesiastici, o di fronte al fenomebo della pedofilia di un certo clero, o anche ( per allargare il discorso) di fronte agli stupri, alle violenze, alle guerre imperiali, agli stermini di massa, è come dire che siamo nella normalità: visto che normalmente tutti abbiamo il peccato mortale!
Sarebbe come dire che chi non è drogato, che non è un pedofilo, chi non stupra e non ammazza, chi non fa carriera passando sul cadavere del colleghi, tutti costoro sono né uomini né donne! O almeno non sono membri di questo genere umano soggetto alla tirannia del peccato originale!
Ma si può essere tanto imbecilli?
Si può essere tanto ignoranti e tanto infingardi da non avere né l’intelligenza né il coraggio di dare nome e cognome e paternità ai mali di oggi, quelli storicamente datati?
Mi dispiace per la diocesi di Ivrea che, dopo la bella presenza di una figura grande e profetica come quella dell’amico Bettazzi, si ritrova un vescovo di tanta volgare pacchianeria..
Ma quella di Ivrea (e anche qui è necessario allargare il discorso) non è una storia a se, non è una eccezione. Quella di Ivrea è la storia comune a tante, e direi a tutte o quasi, le diocesi del mondo. Ha incominciato Giovanni Paolo II a fare man passa delle figure più aperte e sensibili, dei personaggi più progressiti e profetici, sostituendoli con le "mezze cartucce", si dice dalle mie parti. Da dopo la morte di Paolo VI (e mettiamoci pure quel buonuomo di Papa Luciani), con l’avvento di Papa Woitila, si è fatto strame di persone dalla coscenza vigile e dall’intelligenza attenta, sostituite sistematicamente con personaggi ambiziosi, carriesristi senza scrupolo, intrallazzatori d’alto bordo, menestrelli tuttofare, baciamadonne, baciapile, baciamoneta e baciaberluska!!
Ora ne cominciamo a pagare lo scotto.
Se non fosse triste, tremendamente triste, tutta questa storia che ha reso la chiesa una landa deserta su cui scorazzano allegramente movimenti intimistico-spiritualistico-trafficanti come CL e consorteria varia, ci sarebbe da intenerirsi per il candore bambino di questo papa, anche lui frutto maturo di una carriera non sempre limpida, che bolla lo spirito arrivista dei curiali richiamando tutti al principio evangelico del servizio...!
Stiamo messi male, molto male: socialmente ed ecclesialmente, economicamente e politicamente.
Sento dentro di me scoppiarmi il grido: chi mi libererà da questo mondo di morte?
Aldo