La Pentecoste, un’esplosione d’Amore
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “www.temoignagechretien.fr” del 12 giugno 2011
(traduzione: www.finesettimana.org)
La Chiesa nasce in un’esplosione. La Chiesa è esplosione. Il vecchio mondo crolla e uno nuovo sorge dalle rovine del primo. Questo nuovo mondo, lo si chiama il Regno di Dio. Non è più il mondo in cui ciascuno si rinchiude nel proprio passato e nelle proprie frontiere, in cui ogni identità si definisce per opposizione alle altre, in cui la storia ha distribuito i ruoli e i privilegi.
Il Regno di Dio è un mondo che è accompagnato dallo sguardo di un Padre che ama tutti ugualmente i suoi figli, che non ama solo quelli belli e buoni, quelli ricchi e in buona salute, ma tutti e con più attenzione ancora il malato, il piccolo, il mascalzone.
Perché l’amore di un padre e di una madre precede le qualità e le aspetta. Non è un giudice che separa i buoni e i cattivi. È un cuore che non smette di sperare che tutti si ritrovino. Si capirebbe con difficoltà l’estensione rapida del cristianesimo, nel bacino mediterraneo e oltre se si riducesse la Pentecoste alla nascita di una piccola setta religiosa nuova. Non è una nuova religione che nasce quel giorno, è una umanità nuova dove si aboliscono le frontiere, e con esse le gerarchie, i privilegi, le nazioni e le religioni. Non è vecchia del suo passato, ma giovane della sua promessa. Ricomincia con ogni aurora. Ricomincia con ogni bambino. Ricomincia con ogni perdono.
Perché allora la nostra Chiesa ha così velocemente, pare, ricreato delle frontiere tra i cristiani e gli altri, delle leggi che giudicano i buoni e i cattivi, delle appartenenze e una religione? Perché ha sostenuto che non c’era salvezza fuori di lei, visto che non c’è niente fuori di lei, poiché lei è l’umanità salvata? Perché ha presentato il battesimo come un’entrata in una comunità con le sue leggi e i suoi riti mentre è l’uscita da tutte le appartenenze che distribuiscono ad ogni bambino tare e privilegi?
Perché? Senza dubbio molto semplicemente perché la forza esplosiva della Pentecoste si è addormentata e si è fatta dimenticare. Allora i cristiani sono ridiventati dei cittadini docili, dei religiosi gelosi, degli ambiziosi di potere. Del vulcano, resta solo la lava raffreddata che è fiera di servire da concime alla terra. E la Chiesa, ancora calda dell’esplosione d’amore da cui proviene, invita i privilegiati a chinarsi verso i poveri, cerca delle vie di tolleranza con gli altri credenti, apre la sue porte con tutte le strategie della comunicazione moderna. Non ha dimenticato tutto, in lei dimora la promessa di un’esplosione futura.
Si potrebbe credere che l’esplosione d’Amore che è la Pentecoste sia da moltissimo tempo diventata inoffensiva. Lungo la storia, però, degli uomini e delle donne hanno buttato all’aria le tradizioni e le ovvietà per disegnare con le loro parole e con i loro gesti quel Regno di Dio che continua a rimbombare nelle profondità della nostra umanità. L’attualità stessa manifesta delle fumarole, testimoni di quel fuoco. I buoni cristiani sono in grado di riconoscere una nuova esplosione d’Amore? Niente è meno sicuro.
Perché se Paolo aveva l’audacia di pensare che nel Regno di Dio non c’era più né greco né ebreo, né schiavo né uomo libero, né uomo né donna, forse oggi aggiungerebbe, visto quello che sono diventati, né cristiano né non-cristiano. La Pentecoste non è una festa religiosa: è l’inizio di un’umanità nuova!
L’APOSTOLO ASTUTO MENTITORE, SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA AMORE ("CHARITAS")! UNA NOTA SULL’OPERAZIONE DI SAN PAOLO:
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO.
LA TERRA, LA BUONA NOVELLA, E LA COSTITUZIONE - LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI...
Lo Spirito del mondo
di Vito Mancuso (la Repubblica, 25.05.2015)
VIENE da lontano l’esito del referendum irlandese con cui oltre il 62 per cento dei votanti ha detto sì alle nozze gay. Viene dalla lotta a favore dei diritti umani.
UNA lotta iniziata più di due secoli fa nel nome dell’uguaglianza e che ha portato a una serie di conquiste sociali tra cui il suffragio universale, la libertà di stampa, la libertà religiosa, l’istruzione per tutti, la parità uomo-donna nel diritto di famiglia, il superamento legale di ogni discriminazione razziale e altri traguardi di questo genere, tutti riconducibili al valore dell’uguaglianza di ogni essere umano. Sabato l’ha ribadito la maggioranza degli irlandesi: “Yes Equality”.
In queste trasformazioni dei costumi e del diritto si manifesta l’evoluzione della cultura e del pensiero prodotta da ciò che Hegel denominava “Spirito del mondo”, nel senso che noi non siamo i padroni delle nostre idee, ma sono le idee a entrare in noi.
C’è però una differenza rispetto al filosofo tedesco, e cioè che ora il primato non è più dello “Spirito oggettivo” rispetto allo “Spirito soggettivo”, ma al contrario. Assistiamo a una radicale riscrittura dei rapporti tra singolo e società: il primato non è più della società e delle sue istituzioni a cui il singolo si deve uniformare come nei secoli passati, ma è piuttosto del singolo a cui la società deve sapersi adattare servendone la felicità e la realizzazione. Prima erano i singoli a piegarsi alle istituzioni, ora sono le istituzioni a piegarsi ai singoli, modificando persino la Costituzione, come in Irlanda.
Il valore in gioco era il diritto di ogni essere umano all’amore integrale. Fino a poco tempo fa nei Paesi più avanzati del mondo (ma in Italia ancora oggi) se una persona nasceva con un orientamento sessuale di tipo omosessuale si vedeva negato il diritto all’amore integrale, che non si accontenta di esprimersi solo come passione privata ma desidera uno statuto pubblico, nel senso che esso entra a definire l’identità sociale di una persona, non più singolo, ma legato a un’altra persona in permanente comunità di vita. È questo desiderio dell’amore di acquisire una dimensione pubblica che porta le persone a sposarsi, e non semplicemente a convivere.
Chi desidera sposarsi non riesce più a pensare se stesso a prescindere dall’altro e chiede alla società di riconoscere pubblicamente il suo nuovo statuto, mutando per così dire la sua carta d’identità sociale e dicendo al mondo: “non sono più solo io, io sono unito con l’altro”. Questo è ciò che io chiamo “amore integrale” e che ritengo essere un diritto costitutivo di ogni essere umano. L’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile che ogni essere umano acquisisce alla nascita, un diritto nativo, radicale, di cui nessuno può essere privato.
Ormai il tempo è compiuto anche da noi per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, senza distinzione. Il ritardo italiano non va colmato procedendo solo al riconoscimento delle unioni civili senza parlare di matrimonio, ma occorre procedere al matrimonio anche per le coppie gay, perché sono in gioco l’uguaglianza e il diritto nativo all’amore integrale.
Il senso complessivo di questo movimento è altamente evangelico, perché sempre, quando trionfa la singolarità della persona rispetto alla logica di Stato delle istituzioni e delle tradizioni, si afferma il punto di vista di Gesù, il quale sosteneva che il sabato era per l’uomo e non l’uomo per il sabato, e che per questo venne eliminato dal potere istituzionale.
La Chiesa gerarchica però non l’ha ancora capito. Non l’ha capito nel 1789 quando il movimento è iniziato, e non l’ha capito in questi giorni in Irlanda con i vescovi che hanno lanciato un appello per il «rispetto dei valori della famiglia tradizionale ». I singoli credenti invece sì. A meno infatti di non ritenere che essi in una nazione tra le più cattoliche al mondo siano solo il 37,9%, occorre riconoscere che per la maggioranza dei fedeli le posizioni della gerarchia cattolica non hanno rilevanza quando sono in gioco questioni etiche e diritti umani.
L’arcivescovo di Dublino ha detto che «la Chiesa ora deve fare i conti con la realtà». È vero, e spero che qualcosa avverrà. Ma ancora più importante è che i conti con la realtà li faccia la politica italiana, dando al nostro Paese una legge che consenta a ogni cittadino di vivere, nella pienezza del matrimonio, il diritto nativo all’amore integrale.
Pentecoste, festa difficile
di don Tonino Bello *
...... la Pentecoste è una festa difficile. Ma non perché lo Spirito Santo anche per molti battezzati e cresimati è un illustre sconosciuto.
È difficile, perché provoca l’uomo a liberarsi dai suoi complessi. Tre soprattutto, che a me sembra di poter individuare così:
Il complesso dell’ostrica.
Siamo troppo attaccati allo scoglio. Alle nostre sicurezze. Alle lusinghe gratificanti del passato. Ci piace la tana. Ci attira l’intimità del nido. Ci terrorizza l’idea di rompere gli ormeggi, di spiegare le vele, di avventurarci sul mare aperto. Se non la palude, ci piace lo stagno.
Di qui, la predilezione per la ripetitività, l’atrofia per l’avventura, il calo della fantasia.
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama alla novità, ci invita al cambio, ci stimola a ricrearci.
C’è poi il complesso dell’una tantum.
È difficile per noi rimanere sulla corda, camminare sui cornicioni, sottoporci alla conversione permanente. Amiamo pagare una volta per tutte. Preferiamo correre soltanto per un tratto di strada. Ma poi, appena trovata una piazzola libera, ci stabilizziamo nel ristagno delle nostre abitudini, dei nostri comodi. E diventiamo borghesi.
Il cammino come costume ci terrorizza. Il sottoporci alla costanza di una revisione critica ci sgomenta. Affrontare il rischio di una itineranza faticosa e imprevedibile ci rattrista.
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama a lasciare il sedentarismo comodo dei nostri parcheggi, per metterci sulla strada subendone i pericoli. Ci obbliga a pagare, senza comodità forfettarie, il prezzo delle piccole numerosissime rate di un impegno duro, scomodo, ma rinnovatore.
E c’è, infine, il complesso della serialità.
Benché si dica il contrario, noi oggi amiamo le cose costruite in serie. Gli uomini fatti in serie. I gesti promossi in serie. Viviamo la tragedia dello standard, l’esasperazione dello schema, l’asfissia dell’etichetta. C’è un livellamento che fa paura. L ’originalità insospettisce. L ’estro provoca scetticismo. I colpi di genio intimoriscono. Chi non è inquadrato viene visto con diffidenza. Chi non si omogeneizza col sistema non merita credibilità. Di qui la crisi della protesta nei giovani e l’estinguersi della ribellione.
Lo Spirito Santo, invece, ci chiama all’accettazione del pluralismo, al rispetto della molteplicità, al rifiuto degli integralismi, alla gioia di intravedere che lui unifica e compone le ricchezze della diversità.
La Pentecoste vi metta nel cuore una grande nostalgia del futuro.
* Segnalazione di don Aldo Antonelli
Ritrovare la fede primaria
intervista a Albert Rouet,
a cura di Jérôme Anciberro e Philippe Clanché
in “www.temoignagechretien.fr” - supplemento al n° 3524 del 24 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Superando il divario tra credenti e non credenti, l’arcivescovo emerito di Poitiers propone di scrutare quella che lui chiama la fede primaria, quelle “ragioni intime di agire che orientano l’esistenza” presenti in ciascuno. Di fronte all’indifferenza religiosa, le sole risposte possibili per Mons. Rouet sono la povertà e la richiesta fatta alla Chiesa cattolica di esprimere il suo disaccordo su certi elementi, senza cadere nella condanna.
Alcuni osservatori lamentano un aumento dell’ostilità nei confronti delle religioni. Lei sembra invece più sensibile all’indifferenza religiosa. Ma in che cosa è preoccupante questa indifferenza?
La Francia ha vissuto in 120 anni un’evoluzione che altri paesi cattolici (il Canada, la Svizzera...) hanno conosciuto in 40. Un’evoluzione avvenuta in tre tempi. Il primo è stato quello della laicità, della separazione delle coscienze dei cittadini e dello Stato dal sistema religioso. Era la fine della teocrazia. Il secondo tempo è stato quello della secolarizzazione. Si è deciso di risolvere i problemi al loro livello: quando si è malati, non si va più in pellegrinaggio, ma all’ospedale. Quell’epoca aveva ancora una conoscenza reale della religione. Nel 1974, quando viene chiesto al presidente Pompidou se è credente, risponde: “Mia moglie va a messa”. Nel mondo rurale, all’epoca, il consigliere generale “radical-socialista” e massone è anche un ex chierichetto, e sa che avrà il funerale in chiesa. Oggi - è il terzo tempo -, questa realtà è superata. Le persone non sanno più che accanto a loro esiste un mondo religioso. Non sono contro, sono altrove. Non capiscono perché quel mondo religioso esista, a che cosa serva e quale sia il suo valore. Ma, al contempo, accanto al mondo a-religioso, che si pensa retto dalla scienza e dalla tecnica, sussiste una credulità totale. È assolutamente immaginabile partecipare ad un pellegrinaggio senza essere veramente credenti. I “pardons” bretoni [feste religiose con messa solenne e processione in abiti tradizionali] hanno molto successo, e i cattolici se ne rallegrano. Ma non è qualcosa che entra in profondità. Tra lo zoo e la spiaggia, c’è anche il turismo religioso. Ma è un religioso asettico.
Perché?
La nostra società ha tolto agli uomini la responsabilità della loro storia. Non siamo più immersi negli scontri ideologici. I bambini vengono orientati presto. Le fabbriche chiudono, senza che si sappia esattamente chi lo ha deciso e perché. Il gioco politico si è ridotto ad una guerra di statimaggiori. Che cosa resta alla gente? Solo la sua pelle. Questo individualismo è pesante da portare, allora ci si protegge. L’indifferenza religiosa non è un rifiuto materialista, ma una protezione. Eppure, la fortezza delle persone non è vuota. Anzi, conservano nel più profondo di se stesse ciò a cui tengono. Tenteranno delle esperienze individuali.
E meno esperienze collettive?
Sì, e questo vale anche per i partiti politici e per i sindacati. Eppure, il desiderio è presente. Ma siccome il timore di essere spossessati della propria storia è forte, più un sistema religioso vorrà dettare un certo comportamento, meno sarà credibile.
Lei attribuisce ai nostri contemporanei indifferenti alle religioni una “fede primaria”. Che cosa significa?
Non si può ridurre l’uomo ad un istinto meccanico, come la caccia in certi animali. Nell’uomo, c’è del gioco, c’è dell’incompiutezza. Un individuo non è mai solo ciò che pretende di essere o che dà l’impressione di essere. Questo gioco lo obbliga a prendere delle decisioni, non solo secondo dei processi tecnici, ma come un impegno della sua libertà. La fede primaria orienta le ragioni intime di agire, che dominano l’esistenza. Questo va oltre le preoccupazioni come mangiare o vestirsi. È un minimo esistenziale. Senza questo minimo non c’è vita umana, l’uomo è soffocato, perché solo due volte nell’esistenza quello che è coincide con ciò che appare: allo stadio di feto, quando è nel ventre materno, e a quello di cadavere nella sua bara. Tra i due, siamo quello e anche qualcos’altro. È precisamente in questa indecisione che bisogna decidersi... ed affidarsi.
Il discorso consumistico classico evoca anche i “margini di libertà” dell’individuo. In che cosa questa libertà del consumatore è diversa dalla libertà che lei evoca?
Le persone non sono così succubi della pubblicità come si crede... Anche quando si fanno piacere, il loro gesto va al di là del consumo. A Natale, sappiamo che certe spese sono inutili. Quando persone che prendono un sussidio RSA [Revenu de Solidarité Active, sussidio per persone senza lavoro o con un salario troppo basso] comprano ai figli una macchinina telecomandata da 400 euro, si può certo condannare questo gesto in nome dell’economia familiare. Ma vi si può anche vedere una maldestra rivendicazione di dignità: “Perché non ne abbiamo diritto? Ci è forse proibito?”. Dietro l’aberrazione economica, il gesto è forse indispensabile dal punto di vista della fede primaria. Questo tipo di comportamento è strano per le persone sensate, quelle che hanno tutto ciò di cui hanno bisogno...
Il suo modo di considerare il consumismo attuale può sembrare molto benevolo...
Il fatto è che bisogna distinguere il disaccordo e la condanna. Cristo, nel Vangelo di Giovanni, esprime il suo disaccordo. Ma non condanna la persona. Affermando di essere in disaccordo, si discute, e l’altro è un interlocutore. Condannando, al contrario, si prende l’altro per un oggetto che si mette da parte. Eppure, questo mondo ha bisogno che gli si dica di no. Ad esempio per il consumismo.
Quando la Chiesa cattolica esprime un disaccordo a proposito di un tema riguardante la società, la cosa viene spesso sentita come una semplice condanna e non viene percepita la distinzione che lei ha appena espresso.
Sì, è una difficoltà molto grande. Condannare, lo si può fare molto in fretta. Ma per dire di no, devo aspettare che l’altro mi abbia espresso le sue ragioni che lo spingono ad agire in un percorso che io non prenderei. Finché non avrò percepito che in quel desiderio, anche sbagliato, si trova una parte buona di desiderio di vivere meglio, non posso dire di no. Bisogna scorticare questo desiderio. La condanna, in quanto verdetto, fa a meno di questa analisi. La differenza è essenziale.
Di fronte alla “non credenza”, la Chiesa cattolica, fino al Vaticano II, è stata a lungo in un atteggiamento di condanna. Del resto, solo pochi anni fa i vescovi francesi hanno soppresso il servizio nazionale “Non credenza e fede”, ufficialmente per ragioni economiche. I non credenti non interessano più alla Chiesa, così come la Chiesa non interessa più ai non credenti?
Sono convinto che Cristo non ha creato un sistema religioso, ma un tipo diverso di relazione. Non si tratta di approvare tutto, ma almeno, in una logica di dialogo, di cammino comune e di rispetto reciproco, di esprimere la nostra fede primaria. Se no, il rischio è di rinchiudersi in se stessi. Conosciamo il percorso: “Siamo minoritari, siamo i puri, gli ultimi fedeli...” A coloro che la pensano così, cito san Matteo: “Siate perfetti come è perfetto il padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). La perfezione del Padre consiste nel far sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti, e a far piovere sui buoni e sui cattivi. “Se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,47). La perfezione di cui parla Matteo è l’equità di Dio, che tratta ogni uomo in funzione del suo bisogno esistenziale. E non un idealismo morale, che a priori condanna delle posizioni, senza aver visto le persone che le vivono. Questo cambia tutto.
Questo atteggiamento è difficile da vivere per un’istituzione che deve difendere delle posizioni che ritiene minacciate.
Un sistema religioso non può rispondere alla sfida dell’indifferenza. La sola risposta, è la povertà e l’umiltà della fede. “So in chi ho creduto”, dice Paolo (2Tm 1,12). I cristiani hanno solo questo. Dobbiamo procedere senza protezioni, senza nulla da difendere.
La religione cristiana pretende tuttavia di detenere un accesso privilegiato alla verità, grazie alla Rivelazione. Non è illusorio far finta di essere poveri in materia, mentre si sa - o si pretende di sapere - che cos’è la verità?
La modernità ci porta a rivisitare tutti i sistemi creati. Perché l’augustinismo è durato così a lungo, perché la scolastica torna oggi a riprendere vigore? I cristiani devono interrogarsi su questo bisogno tutelare di pensieri già pensati. Si sono confuse teologia e fede. Nelle lingue semitiche, verità e fedeltà sono la stessa parola. Cristo non ha detto “ho la verità”, ma “sono la verità” (Gv 14,6). Se la fede è relazione con Cristo, entriamo in un mondo non concorrenziale, senza esclusività.
Dobbiamo testimoniare la nostra capacità di vivere con Gesù, restando persone in piedi e libere. “Chi fa la verità viene alla luce” (Gv 3,21). Se il credente non partecipa all’elaborazione della verità che professa, non è la verità del Vangelo. La verità non può essere scritta una volta per tutte. Non è qualcosa. È qualcuno. Questa confusione tra il sistema e l’esistenza è anche il risultato della controversia modernista tra scienza e fede, tra naturale e soprannaturale, tra temporale ed eterno. Non se ne esce. Ma la vera domanda è: che cosa fa vivere e rende liberi?
Non si può costringere una persona che non vuole credere. Eppure, molte persone “di fede” sono tentate di dire ai loro amici non credenti: “Un giorno ci arriverai, sei un credente che si ignora”.
È frequente e perfettamente illusorio. Come se avessimo da un lato i credenti e dall’altro quelli che non hanno niente! Si elimina completamente la fede primaria. Posso forse definire non credente il mio amico militante sindacale comunista che, in tutta la sua carriera, ha rifiutato un salario superiore a quello più basso praticato nell’impresa? Aveva una fede primaria più sviluppata di certe persone dotate di un sistema religioso nella testa, ma senza granché nelle viscere. Per la teologia più classica, la fede che viene da Dio entra nell’uomo tramite la fede primaria. L’opposizione non è tra credenti e non credenti, ma tra diversi radicamenti e contenuti di fede. Nel nostro mondo secolarizzato, l’indifferenza ci obbliga a precisare il nucleo della nostra fede. Sono sorpreso che ci si stupisca quando dico questo. Il centurione del Vangelo (Lc 7, 1-10), buon pagano, chiede a Gesù, di primo acchito un guru dell’epoca, di guarire il suo servo. Non vale niente in teologia e in catechismo, ma la sua fede esistenziale è totale. E Gesù dice che non ha mai visto una fede simile in Israele. Ciò che Cristo vede prima di tutto, è l’autenticità del progetto esistenziale. Tutto possiamo pensare, salvo di essere circondati dalla non credenza.
Di questo passo, qualcuno potrebbe tacciarla di relativismo...
Si sono costruiti dei sistemi senza radicamento esistenziale, e li si fa combattere tra di loro. Non sono un anti-intellettuale. Si possono costruire delle teorie, ma anche la più bella, soprattutto se è religiosa, deve ad un certo momento manifestarsi nel reale, nel concreto, nell’esistenza di una persona che la professa. È a questo che è attento Cristo! La controversia del relativismo, siamo noi a crearla. È solo un dibattito per borghesi dei salotti parigini del XVIII e del XIX secolo, tra un sigaro e un cognac.
Sembrerebbe che si possa andar d’accordo tra credenti di confessioni diverse e perfino con agnostici o atei su valori ampiamente condivisi. Ma in che cosa si può credere?
Le beatitudini ricordano esigenze vitali, espressione che preferisco a “valori”. È in questo quadro che appare la seduzione di Cristo. Mi sono convertito a vent’anni per questo. Non ho mai ritrovato una tale autenticità. Per Matteo, la croce ha senso solo tra le beatitudini. Allora, si passa da queste esigenze vitali, da questi valori, ad una persona che dà loro un volto e che le ha vissute fino in fondo.
Allora, lei pensa che si cominci col credere in qualche cosa prima di credere in qualcuno?
Sì. Perché mai credere in qualcuno se non si cerca in lui la realizzazione dei propri desideri profondi?
Per rassicurarsi, ad esempio.
È una parola pericolosa. Vorrei dire che la fede non è fatta per rassicurare. Ma chi non ha mai bisogno di essere rassicurato, di essere riconosciuto? Chi non ha mai paura, a parte gli incoscienti? Se l’essere rassicurati è vissuto come una copertura di tipo materno, è catastrofico. Se invece lo si prende come la necessità di essere riconosciuti, non se ne può fare a meno. La purezza totale è disumana. La fede deve rispondere a dei bisogni primari. Senza la gioia di credere, senza sicurezza della fede, non si può vivere. Il limite tra i due è tenue, ma non gettiamo via il bambino con l’acqua sporca.
Quale sarebbe l’atteggiamento giusto dell’istituzione nei confronti della non credenza?
Una Chiesa che sa tutto non interessa. Cristo dice alla Samaritana: “Ho sete”. Ha mai sentito un vescovo dire questo a un non credente o a una persona “mal credente”? In questa relazione si deve poter dare solo se si riceve. È la logica dello scambio, della comunione e dell’alterità. Per essere io, ho bisogno dell’altro. La nostra Chiesa, purtroppo, dà l’impressione di non cercar di ricevere. Il Vaticano II non ha detto che era necessario che tutti fossero cristiani, ma che ci siano dei cristiani nel mondo. Non è la stessa cosa. Se la Chiesa cattolica, per salvarsi, si accontenta di contabilizzare il numero dei fedeli che vanno a messa, come ne XIX secolo, va a sbattere contro il muro. Deve vivere con le persone, sostenerle nella loro fede primaria, essere testimone di ciò che ha vissuto Cristo. Facendo solo del culto, i preti diventano insignificanti. Siamo alla fine di un’epoca religiosa. Bisogna cambiare logica: o si crea del sacro, della religione per continuare le nostre vecchie abitudini, nel qual caso si resterà nell’insignificanza e si continuerà a far aumentare l’indifferenza, o ci si posiziona in una relazione di dialogo e di scambio, e forse, allora, si sarà ascoltati.
Gesù è Figlio di Dio?
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “www.temoignagechretien.fr” del 26 febbraio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Dopo aver sentito una delle mie prediche, un amico mi diceva, con un sorriso canzonatorio: “Lo ammetta! Ario aveva ragione!” Voleva dire che il Gesù che io predicavo, profeta di un amore universale, riconciliatore dell’umanità, non aveva bisogno di essere Dio per essere interessante. Dietro la stabilità della posizione cattolica tradizionale, la fede reale dei nostri contemporanei è più fluttuante. Si trovano dei buoni cristiani che dicono che la figura di Cristo per loro è sufficiente e che non provano il bisogno di risalire fino a Dio. Il dibattito che si è aperto tra Frédéric Lenoir e Bernard Sesboué testimonia questa esitazione.
L’osservazione di quell’ascoltatore mi ha fatto male. Rifiuto con tutta la mia fede di ridurre Gesù ad un semplice profeta. E il rimprovero di arianesimo mi ferirebbe nel più profondo della mia fede.
Eppure è vero che anch’io esito ad usare l’espressione “figlio di Dio”. Non perché significherebbe troppo, ma perché non significa abbastanza! Evoca una relazione non sufficientemente stretta, che lascia spazio ai due termini. Il figlio di Dio non è necessariamente Dio, come neanche il figlio del Re è necessariamente Re. Invece, parlando del Padre, il Figlio si situa in una relazione di comunione che li distingue e li unisce. Il Padre e il Figlio, nella relazione dello Spirito d’amore, sono insieme Dio. Dio è un gioco di relazioni, un Essere condiviso tra più persone. Perché parlare del Figlio di Dio, dato che non si parla del Padre di Dio? Gesù, che ama parlare di sé come Figlio dell’Uomo, non si presenta mai come Figlio di Dio.
E questo Figlio, è Gesù di Nazareth, un uomo tra gli uomini. La sua saggezza, la sua audacia, la sua bontà, la sua misericordia sono quelle di un uomo. Lo si è potuto seguire e ci si può ancora interessare di lui mettendo sotto silenzio le sue confidenze mistiche. Ma se ho con lui una relazione diversa da quella che ho con tanti filosofi, è che con lui intravedo la possibilità di risolvere una volta per tutte l’angoscia di vivere sotto lo sguardo di un “Altro” sconosciuto. Con Socrate, abbiamo trovato in ognuno di noi quella luce che ci fa uscire dal nostro isolamento e che si chiama Ragione. Con Gesù, siamo riconciliati con il Mistero dell’Esistenza che ci opprime.
Dovremmo forse avere l’audacia di dire che ci siamo liberati di Dio. Quella parola ha da sempre designato, al singolare come al plurale, una presenza sconosciuta che ci limita, che gioca con la nostra esistenza, che ci giudica dall’alto, che ha sempre l’ultima parola e che pretende sottomissione e adorazione. Ma se la nostra sorgente è un amore paterno che ci vuole autonomi, liberi, creatori a sua immagine. Se è un Padre e non un Giudice o un Capo, la nostra vita si trova trasformata nel profondo: non siamo più sottomessi, ma complici, non siamo più servi, ma eredi. Lui non si aspetta da noi null’altro che amore.
Gesù è l’uomo nel quale gli uomini si sentono chiamati ad uscire dal timore di Dio per entrare nell’Amore del Padre, ad uscire dal consenso alla Legge Universale per entrare nell’audacia della Creatività. La piccola Giulia potrebbe forse dirci che un presidente non è più un presidente se è il suo papà! In ogni caso, mi sembra che un Dio che è nostro Padre, cessi un po’ di essere Dio!
Osiamo dire: Padre Nostro!
Nel Paradiso terrestre chi lavava i piatti?
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage Chrétien” del 29 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
La risposta, se ci fosse, sarebbe per noi di grande utilità per porre fine al dibattito nel quale la chiesa è impegnata oggi con passione. Di fatto, la teoria del genere sarebbe il nemico principale della tradizione cristiana a vedere recenti dichiarazioni. Questa ideologia mirerebbe a distruggere completamente la morale del matrimonio cristiano, ma anche a relativizzare le più antiche certezze della struttura ecclesiale che attribuisce a ciascun sesso ruoli specifici.
Queste diverse e spesso sofisticate teorie conducono, mi sembra, a togliere le relazioni uomo-donna dalla sfera della natura per situarle solo nell’ambito della cultura. Sappiamo da tantissimo tempo che le società umane si sono costruite attorno a strutture familiari molto diverse. I ruoli sociali di uomini e donne si distribuiscono in modo differente tra i Bororos dell’America o tra i Pigmei dell’Africa.
Anche se i bambini nascono sempre allo stesso modo, quest’ultimi entrano in mondi molto diversi. Ma sino ad ora abbiamo potuto, con un po’ di ingenuità e molta sufficienza, affermare che c’era un modo “naturale” di vivere la sessualità e di fondare una famiglia, che le relazioni sessuali, la cui finalità procreatrice è evidente, trovano solo nella famiglia stabile, monogamica, educante, così come la incontriamo nei nostri paesi, coerenza e quindi moralità.
In fondo è un po’ la stessa cosa di quando i teologi del passato si chiedevano quale lingua utilizzassero Adamo, Dio ed Eva nel Paradiso terrestre. Quale lingua parlerebbe un bambino se non incontrasse nessuna lingua parlata attorno a lui: il latino? l’ebraico? Facciamo fatica ad accettare questa realtà benché evidente: l’uomo non esiste allo stato naturale ma sempre e solo all’interno di una cultura. Non esiste una sessualità naturale come non esiste una lingua naturale. Non si potrà mai fondare sulla natura una morale della famiglia o della sessualità. La bibbia ci dice che l’essere umano è stato creato, uomo e donna, il che significa non solo una differenza biologica ma una struttura relazionale attorno alla quale si costruisce ogni cultura umana.
Quali che siano le leggi e i costumi di una società, la sola esigenza cristiana è il rispetto, l’uguaglianza, l’amore tra le persone senza dimenticare evidentemente il figlio frutto e posta in gioco di queste relazioni.
Si potrà dire che una certa istituzione sia la più favorevole all’amore rispetto ad altre. Ma la regola dell’amore vicendevole resta il solo criterio veramente cristiano nelle relazioni tra uomini e donne ... e figli.
So che dicendo queste cose faccio vacillare tutte le certezze che permettono di rifiutare i divorziati, di proibire l’accesso all’altare alle ragazze, di riservare il ministero agli uomini, di trattare gli omosessuali come devianti.
Non è possibile, a sostegno di quelle certezze, invocare l’autorità divina ricavabile dalla legge naturale o dal comportamento di Gesù.
Non esiste altra legge all’infuori di quella dell’Amore ed essa è inscritta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna
Lettere
Innamorata di un prete
Risponde Umberto Galimberti
Da circa due anni sto vivendo una relazione con il priore (ora ex) del monastero cistercense di S. Maria di Chiaravalle, alle porte di Milano. Si tratta innanzitutto di una bellissima storia d’amore come mi auguro ce ne siano tante ma, come Lei certamente può immaginare, non è una storia che è stato ed è possibile vivere serenamente in forma privata in quanto questo tipo di amore, come molti altri, rientra nella categoria che la gerarchia ecclesiastica ritiene fuori legge. L’iter è stato quello "canonico": vissuto i primi tempi in segreto tra le mura del monastero, è poi uscito allo scoperto ed è stato sottoposto a ogni sorta di persecuzione, di minaccia e di demonizzazione.
Il reale "crimine" di cui siamo stati accusati non è stato, infatti, quello di amarci (anche se, come è noto, secondo il Codice di Diritto Canonico per ogni amore "non lecito" è prevista la condanna come per un delitto quale un assassinio) ma di rifiutarci di vivere questo amore nell’ombra, come previsto, se non dalla legge, dalle consuetudine. "Fai quello che vuoi, ma fallo di nascosto" è stato detto ad Alberto. Ma lui ha risposto che di nascosto si ruba e si uccide, non certo si ama. Così ora è fuori dal monastero e, da sette mesi, viviamo insieme progettando il nostro presente e il nostro futuro tra una lettera di minaccia di sospensione a divinis e l’altra. Cito solo ad esempio una parte di una delle lettere a lui pervenute dai suoi attuali superiori: -"Carissimo padre Alberto... ho voluto rileggermi... gli articoli del Codice di Diritto Canonico e di conseguenza mi sento in dovere di esprimerti quanto segue: non devi abitare né stabilmente né saltuariamente (vedi CIC 1395 § 1) con la persona che ti ha distolto dalla tua vocazione. In caso contrario sarò costretto a informare i Superiori perché mettano in atto le procedure previste dal Codice. Augurandomi che non si debba giungere a tanto, concedo un lasso di tempo di trenta giorni perché tu possa impetrare dallo Spirito Santo la forza di dare un taglio netto e non calpestare il grande dono della vocazione che il Signore ti ha concesso. Pregando per te e in particolare affidandoti a Maria perché allontani il nemico e sani le ferite del tuo spirito, ti abbraccio fraternamente".
Credo che questi fatti siano già una dura verità ma, purtroppo, non sono tutto.
L’ultimo evento che ci ha turbato è stata una comunicazione ufficiale arrivata al mio ex-marito, con cui ho mantenuto ottimi rapporti, dall’Abate Generale della Congregazione in cui viene accusato di essere responsabile degli accadimenti successi all’ex-priore di Chiaravalle in quanto, sempre secondo il Diritto Canonico, responsabile dello scioglimento, contrario alla legge, del nostro vincolo matrimoniale (tenga conto che siamo separati di fatto da 7 anni e legalmente da 3).
Tutto questo per dirle che ci sono dei momenti in cui vivo la storia che ci è capitata come un grande privilegio perché l’amore che ci unisce è davvero speciale. In altri, però, sono davvero presa dallo sconforto e dal panico perché mi rendo conto che i roghi e le persecuzioni di oggi, se pur meno cruenti, sono anche più violenti di un tempo. È accettabile che passi ancora sotto silenzio che l’Istituzione Ecclesiastica continui a trarre potere dalle ferite e dai malesseri personali, rinforzandoli e perpetuandoli, anziché essere veicolo, come sarebbe auspicabile, di strumenti di guarigione?
Elena E. - Milano
Non ho mai pensato che l’amore, anche nella sua espressione sessuale, sia un ostacolo alla fede in Dio e alla comprensione degli uomini. Anzi. Il Vangelo non ne fa cenno, il Diritto Canonico invece sì. La domanda allora è: che tipo di uomo vuole la Chiesa quando impone ai suoi sacerdoti l’astinenza, impropriamente chiamata castità? In tutte le religioni i peccati di base, segnalati come tentazione del maligno, sono il potere, il denaro e il sesso.
Ne conviene anche la psicoanalisi quando, alle tre fasi dello sviluppo della libido, assegna alla fase orale il denaro come simbolo dell’avere, alla fase anale il potere e alla fase genitale la sessualità. Questa concordanza tra religione e psicoanalisi non deve stupire. Quando si catturano le metafore di base dell’umanità, le simboliche si riprendono e, sia pure in contesti diversi, si ritrovano. Ora, come nei vasi comunicanti, quando togliamo l’acqua da un contenitore, questa si sposta negli altri due, così nell’uomo la libido sottratta alla sessualità viene investita nel denaro e nel potere.
Non voglio dire con questo che la Chiesa, attraverso l’astinenza sessuale, costruisce uomini di denaro e di potere, ma certamente la mortificazione della carne avrà, nello sviluppo della personalità, qualche risvolto negativo, magari in un’affettività sterile, in un carattere reattivo, in un’irritabilità malcontenuta, in un integralismo non dialogante, perché se è vero che Dio è sempre disposto a perdonare i peccati, la natura, di solito, non perdona mai. Ma forse alla Chiesa sta più a cuore il buon funzionamento di sé come istituzione che le condizioni psicologiche ed emotive dei suoi sacerdoti, spesso circondati da una solitudine così radicale, che non è proprio il miglior ingrediente per uno sviluppo armonico della personalità.
* la Repubblica, 5 aprile 2003
http://d.repubblica.it/dmemory/2003/04/05/rubriche/lettere/254pre232254.html
Parlare in parabole
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage chrétien” n° 3452 del 7 luglio 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Esprimiamo la nostra fede in una teologia concettuale nella quale la logica ha definito una volta per tutte i concetti, razionalizzato le dimostrazioni, e misurato le affermazioni. Nelle omelie della domenica, sentiamo questa sorveglianza permanente della teologia. Si diffida dell’eloquenza e dei sentimenti per restar fedeli a ciò che si chiama dottrina. Lo stesso popolo cristiano è abituato a questi discorsi, che gli spiegano l’inesplicabile, gli descrivono l’invisibile, e troppo spesso lo cullano e l’addormentano in un sogno mille volte visitato.
È strano che l’omelia sia per troppi preti una penitenza a cui sono contenti di sfuggire. Oppure un dovere che devono osservare. Il rituale liturgico sembra proprio diffidare del celebrante, obbligandolo a seguire determinate rubriche e a fare determinate letture. Sembra che un buon ministro sia uno che non inventa nulla, non aggiunge nulla, che scompare dietro parole eterne, misteriose oggi nella nostra lingua come lo erano ieri in latino.
Sappiamo che il concilio, molto timidamente, aveva aperto qualche spazio di improvvisazione, di iniziativa, di adattamento alle situazioni concrete. Sono bastate alcune audacie discutibili o innovazioni di cattivo gusto perché ci si affrettasse a ricordare la sottomissione alla consuetudine. Non si gioca con la Parola. La si è scritta. La si è messa in scena in una liturgia. La si è congelata in un sapere. La Chiesa che è nata dalla forza vitale della Parola ne è diventata troppo spesso la guardiana diffidente. Succede che alcune persone pensino che rinchiudere in un tabernacolo il corpo offerto e nel reliquiario della teologia il fuoco del Vangelo sia la condizione primaria della nuova evangelizzazione.
Certo questa descrizione è caricaturale. Ovunque ci sono ancora preti insoddisfatti di questo ruolo di “degni esecutori”. Sarebbe disonesto dimenticarli. Ma sarebbe disonesto anche tacere il sospetto di cui troppo spesso l’istituzione li circonda. Non è necessario far riferimento ai preti operai di ieri o alla teologia della liberazione. Non solo Roma sta all’erta!
Il contrasto è particolarmente forte con le parabole di Gesù. Raccontava delle storie, e possiamo immaginare che la folla venuta ad ascoltarlo non cercasse un corso di teologia. I piccoli riassunti che gli ascoltatori hanno conservato di questi racconti ci lasciano intravedere la prossimità della Parola con le parole e le esperienze di tutti i giorni. Talvolta sfuggono al quotidiano per entrare nell’universo dei “C’era una volta un re”... ma restano sempre accessibili all’immaginazione della gente semplice che li ascolta. È impossibile costruire un mondo coerente con queste briciole di discorso.
Lo scopo manifesto e il risultato evidente delle parabole è far smuovere un pochettino lo sguardo e il cuore di coloro che le ascoltano. Aprire le folle alla sorpresa e alla novità di una Buona Novella che salva invece di giudicare, che apre alla speranza in un orizzonte chiuso, che fa saltare i confini e i pregiudizi, che dà a Dio un volto di Padre, questa è la missione delle parabole.
Sono diventate troppo rare nelle prediche delle nostre chiese. Capita che dei film, dei reportage, dei romanzi, delle biografie riescano meglio delle nostre omelie a far sentire la novità e la meraviglia del Vangelo. Il Seminatore deve uscire per seminare!
E invece abbiamo detto sì
di Pax Christi (www.paxchristi.it, 13 giugno 2011)
Ci avevano detto “non serve votare, non è un vostro dovere”. Invece il segnale di controtendenza è stato confermato oltre ogni previsione e gli italiani si sono espressi chiaramente. Abbiamo detto sì alla partecipazione popolare.
Ci avevano detto che ogni cosa, dall’acqua, alla salute, alla giustizia è mercificabile nell’interesse di pochi. Invece abbiamo cominciato a riflettere sulla “salvaguardia del creato”, che ogni uomo è tenuto a preservare, e sull’umanità con i suoi bisogni e i suoi sogni di vita dignitosa. Abbiamo detto sì al bene comune.
Ci avevano che la giustizia è uguale per tutti, a parte qualcuno. Invece abbiamo ricordato che ogni cittadino, a cominciare dal presidente del consiglio, deve presentarsi in tribunale se indagato. Abbiamo detto sì all’uguaglianza tra tutte le persone.
Abbiamo detto quattro volte sì. Ed ora ci devono ascoltare. Per il bene di tutti, anche il loro.
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO". (Federico La Sala)
«Un no al governo»
I cattolici di base trainano le gerarchie
di Luca Kocci (il manifesto, 14 giugno 2011)
Ci sono molti cattolici in quel 57% di votanti che hanno consentito di raggiungere il quorum e vincere i referendum. Non decisivi come quando nel 2005, obbedendo agli ordini dell’allora presidente della Cei cardinale Ruini e alla militaresca mobilitazione per l’astensione delle associazioni ecclesiali, fecero fallire il referendum per abrogare la legge sulla procreazione assistita portando la percentuale delle astensioni al 74,1%, ma sicuramente sono stati importanti.
I vescovi non hanno remato contro, anzi più di qualcuno, da Morosini di Locri a Tettamanzi di Milano a Caprioli di Reggio Emilia, ha suggerito di andare a votare. Il papa stesso, correggendo la posizione vaticana favorevole «all’uso pacifico del nucleare» più volte espressa dall’ex presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace cardinale Martino, alla vigilia del voto, ha tirato la volata al referendum invitando ad usare «energie pulite» non pericolose per l’uomo.
La grande maggioranza dei 189 settimanali diocesani, nonostante molti l’anno scorso avessero pubblicato l’opuscolo pronucleare Energia per il futuro (realizzato dalla concessionaria pubblicitaria di Radio Vaticana che, non a caso, annovera fra i suoi inserzionisti a pagamento l’Enel, in prima fila a fare il tifo per la riapertura delle centrali atomiche in Italia), si sono schierati per il Sì, così come diverse riviste cattoliche, da Famiglia Cristiana al mensile dei gesuiti Aggiornamenti sociali.
Sono scesi in campo i religiosi, dai domenicani ai francescani, i missionari, suore e preti di base, che il 9 giugno hanno chiuso la campagna elettorale digiunando in piazza San Pietro, guardati a vista dalla gendarmeria vaticana. E gran parte dei movimenti e delle associazioni laicali, con la solitaria eccezione dei privatizzatori incalliti e non pentiti di Comunione e Liberazione, hanno invitato i loro iscritti al voto - dall’Azione cattolica alle Acli fino agli scout dell’Agesci - o si sono impegnati direttamente nei comitati per il Sì, come Pax Christi, la Rete interdiocesana nuovi stili di vita e le Comunità di base.
Anzi sono stati proprio loro, religiosi, associazioni e gruppi di base, a trascinare le gerarchie ecclesiastiche, costringendole a rivedere le proprie posizioni e a schierarsi. «Il responso del referendum, e prima delle elezioni amministrative - legge il voto dei cattolici Giovanni Avena, direttore editoriale dell’agenzia di informazione Adista, espressione del mondo cattolico di base -, dice basta a Berlusconi e ricorda ai vescovi le loro responsabilità, e qualche volta complicità, nelle scelte politiche del governo, in cambio di privilegi non a vantaggio dei poveri ma a beneficio delle scuole cattoliche e degli enti ecclesiastici. Se la gerarchia saprà finalmente rinunciare a questo enorme piatto di lenticchie dovrà dire grazie al popolo del referendum».
L’agenzia ufficiale della Cei non si sofferma sui cattolici ma interpreta comunque il risultato come un nuovo «messaggio diretto al governo», perché «il quorum superato di slancio va ben al di là del merito dei quesiti» e apre «una fase di cambiamento».
Un voto politico insomma, che alla vigilia del referendum il quotidiano dei vescovi Avvenire invece negava. E voto politico anche per Famiglia Cristiana: «Un altro no al governo», titola l’edizione online del settimanale diretto da don Sciortino, che segnala che «c’è molto mondo cattolico nel raggiungimento del quorum».
Tre potenti No di Michela Murgia (il Fatto, 15.06.2011)
Questo referendum verrà ricordato come quello dei quattro “sì”, ma in realtà quello che è emerso dalle urne fa risuonare per le strade il suono cristallino di tre potenti “no”, ciascuno da leggere su un piano diverso. Il più evidente è la conseguenza dei quesiti: ora nessuno potrà contestare la volontà popolare di riprendersi il diritto all’acqua come bene pubblico non mercifica-bile, avere un futuro energetico senza nucleare e soprattutto stare sotto una legge che non consideri nessun cittadino più uguale degli altri, meno che mai quello che li rappresenta tutti.
Il secondo piano di lettura è altrettanto chiaro: questo risultato è l’ennesimo segnale di insofferenza popolare verso il governo in carica e in particolar modo verso la persona di Silvio Berlusconi, che aveva cercato con ogni mezzo di liberarsi in corsa della patata bollente nucleare nella speranza di far fallire il quorum all’unico quesito che gli stava davvero a cuore: quello sul legittimo impedimento. Infine - ed è un dato con il quale sarà bene che impari a fare i conti tutta la casta politica di questo Paese, sinistra compresa - dopo anni di assenteismo elettorale e schede bianche brilla la ritrovata voglia delle persone di dire la propria democraticamente. L’affluenza festosa a questo referendum è una vittoria popolare contro il tentativo di demotivare i cittadini alla partecipazione politica diretta, sia ostacolando il loro accesso al voto con una informazione scarsa e confusa, sia con il furbo dribbling legislativo per far apparire “inutile” il quesito sul nucleare.
La gente è andata alle urne nonostante gli ostacoli e abbiamo assistito, come già alle recenti amministrative, a una commovente liturgia laica, dove prima si è andati a votare e poi si è scesi in piazza a trasformare il singolo voto segreto in un atto di giubilo collettivo. C’è voglia di amicizia civica. Inutile che Berlusconi ripeta ossessivamente che questo referendum non cambia niente: per uno che si è sempre fatto forte di un consenso “imbarazzante” questo voto cambia tutto. Mostra che sul piano politico il presidente del Consiglio è ormai un morto che cammina, tanto che i suoi servi già temono che la parabola si chiuda con una piazzale Loreto giudiziaria. Esagerati: gli abbiamo dimostrato che per farla finita ci basta andare a votare.