CINA ED EUROPA. Cristianesimo e confucianesimo ....

PER CONFUCIO! I Gesuiti, Matteo Ricci e l’incontro mancato: un’eredità dispersa. Una sintesi di Paolo Mieli - a c. di Federico La Sala

(...) l’«occasione persa» di uno scambio culturale pacifico con l’Occidente che avrebbe potuto cambiare la storia della Cina, dell’Asia. E probabilmente dell’intera umanità
mercoledì 25 luglio 2012.
 

Il Vangelo e Confucio un incontro mancato

Perché venne dispersa l’eredità di Matteo Ricci

di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 24 luglio 2012)

L’impresa fu straordinaria, ebbe quasi dell’incredibile e basterebbe da sola a testimoniare il ruolo che ha avuto nella storia la Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola tra non poche complicazioni, ben descritte in un importante libro di Guido Mongini, Ad Christi similitudinem. Ignazio di Loyola e i primi gesuiti tra eresia e ortodossia, edito da Dell’Orso, che riferisce come il fondatore della Compagnia fu processato dall’Inquisizione otto volte, in Spagna, Francia e Italia.

Comunque alla fine la Compagnia di Gesù fu approvata, nel 1540, da papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese. E nel giro di pochi decenni tale struttura fu in grado di «offrire» alla Chiesa personalità che ne avrebbero radicalmente cambiato il volto. Personalità cattoliche che avrebbero guidato il mondo nella modernità.

Ed eccoci all’impresa. L’uomo che ne fu il protagonista, Matteo Ricci, era nato a Macerata nel 1552. Fu mandato dal padre, farmacista, a Roma nel 1568 perché si iscrivesse all’università, studiasse diritto e di lì spiccasse il volo per una brillante e redditizia carriera. Matteo però deluse il genitore e il 15 agosto del 1571, alla vigilia del compimento dei 19 anni, si presentò al noviziato dei gesuiti sul colle del Quirinale per chiedere di essere ammesso nella Compagnia. Ma era solo un primo passo.

All’epoca, sotto il patronato dei re e dei viceré portoghesi, i gesuiti - sulle orme di Paolo da Camerino, Antonio Criminali, Niccolò Lancellotti e successivamente Alessandro Valignano, i primi ad essersi recati in missione a Goa e sulla costa Malabarica - erano già divenuti la più potente arma spirituale della presenza lusitana in India, dove avevano fondato sei collegi e sedici, più piccole, residenze.

Nel 1577 Ricci compì il passo successivo e decise di partire, via Lisbona, alla volta dell’India. Aveva 24 anni. Ed era solo l’inizio di un’avventura che lo avrebbe portato a Pechino, addirittura nel cuore della città proibita. Talché Un gesuita nella città proibita (pp. 420, 30€) è il titolo del libro scritto da Ronnie Po-chia Hsia, storico cinese (ma insegna all’Università di Pennsylvania) già molto conosciuto per un eccellente studio sulla Controriforma. Il suo saggio, pubblicato dal Mulino, ha il pregio di essere costruito su un esame assai accurato della ricca e complessa documentazione di parte cinese sull’intera vicenda.

Ma torniamo al nostro personaggio. La Lisbona in cui Ricci giunge nel 1577 è, con i suoi centomila abitanti, una delle maggiori città europee, superata solo da metropoli come Parigi e Istanbul, anche se il Portogallo, con il suo milione e mezzo di abitanti (contro i 14, ad esempio, della Francia) è uno dei Paesi meno popolati d’Europa.

Siede sul trono Sebastiano, nipote per parte di madre (Caterina) dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e cugino di Filippo II di Spagna. Sebastiano è galvanizzato dalla vittoria di Lepanto (1571), in cui le navi spagnole, veneziane e pontificie hanno sconfitto la flotta ottomana. Guarda lontano, incoraggia perciò la missione dei gesuiti in India e, poco dopo la partenza di Ricci (23 marzo 1578), si mette alla testa un esercito di 15 mila uomini alla volta del Marocco, dove troverà prematura morte, quattro mesi dopo, nella bruciante sconfitta di Alcazarquivir.

Ma all’epoca di Alcazarquivir i nostri gesuiti era già imbarcati su tre velieri diretti verso l’India. In un viaggio nel quale alle insidie dei mari si aggiungevano le malattie (l’indice di mortalità dei religiosi nel corso di quel genere di tragitti era del 15 per cento) e altri rischi. Nel 1570, ricorda lo studioso, un’imbarcazione portoghese proveniente dal Brasile era stata intercettata da pirati francesi (ugonotti): raggiunto il veliero, i francesi lo avevano preso d’assalto e saccheggiato. Avendo poi trovato fra i passeggeri Ignacio de Azevedo, superiore della missione gesuitica in Brasile, insieme a un gruppo di missionari novizi, gli ugonotti avevano risparmiato l’equipaggio portoghese, ma avevano gettato in acqua i 40 gesuiti, divenuti da allora martiri della Compagnia.

I seguaci di Sant’Ignazio davano un carattere assai religioso alla loro navigazione: il mattino «dedicavano un’ora alle preghiere e, una volta alla settimana, alla confessione»; facevano quindi ilgiro della nave visitando gli ammalati «per portar loro sollievo spirituale e fisico»; recitavano regolarmente le litanie, «spesso più volte al giorno», e «di notte guidavano l’equipaggio nel canto degli inni e nelle preghiere per evitare le risse».

In quei giorni, per propiziare i venti (ma probabilmente lo avrebbero fatto comunque), «guidarono una processione da poppa a prua e poi di nuovo a poppa nella quale furono esposte le reliquie destinate alla loro chiesa di Goa»: la «testa di santa Gerasina, compagna di sant’Orsola, consolatrice delle undicimila vergini martiri di Colonia» e quella di San Bonifacio martire; a fine maggio su ciascun veliero «furono organizzate, per celebrare il Corpus Domini, processioni accompagnate da musica e dall’ostensione delle reliquie». Preghiere e atti di devozione coincisero - anche se sarebbe arduo stabilire un rapporto di causa ed effetto tra le due cose - con l’arrivo dei venti da ovest, che favorirono la navigazione verso il capo di Buona Speranza.

Ci vollero sei mesi per giungere a Goa. Lì i convertiti costituivano la maggioranza della popolazione. «E ciò spiega l’importanza della cristianizzazione come una delle fonti essenziali per il mantenimento del colonialismo lusitano», scrive Po-chia Hsia: «In buona sostanza i portoghesi (clero compreso) consideravano l’appartenenza alla cristianità sinonimo dell’essere portoghese, anche per ciò che concerneva la lingua parlata, il modo di vestire, il cibo e la fede».

A Goa Ricci si distinse perché entrò a far parte di quella minoranza che si batteva contro la discriminazione razziale e, anzi, per l’immissione degli indiani nella Compagnia. E in quel luogo rimase tre anni. Ancora più importante fu il passaggio successivo, quando il nostro gesuita si trasferì a Macao, sulla costa cinese. Qui i portoghesi (ottocento circa) erano apprezzati perché, a causa del divieto di rapporti commerciali tra Cina e Giappone, fungevano da indispensabili intermediari tra i due Paesi.

Anche in virtù del fatto che - a differenza degli emissari inglesi e spagnoli - avevano accettato tutti i rituali di sottomissione, come quello di genuflettersi al cospetto dei mandarini e chinare il capo fino a toccare terra. Nel 1575 papa Gregorio XIII aveva promosso Macao a diocesi (con giurisdizione su Cina, Giappone e Corea) e l’aveva affidata al vescovo Belchior Carneiro, anch’egli gesuita. Ma i religiosi della Compagnia in quel fazzoletto di terra erano solo cinque. Ed erano cinesizzati.

In un breve volgere di tempo Matteo Ricci si fece egli stesso, per così dire, cinese. Lo spagnolo Alonso Sanchez, uno dei suoi compagni nella missione in Cina, così lo ritrasse: «È simile in tutto e per tutto ai cinesi e sembra uno di loro per la bellezza dell’ingegno, per la delicatezza, gentilezza, soavità e specialmente per la grande intelligenza e memoria, tutte doti che loro tengono in grande considerazione; difatti, oltre a essere un ottimo teologo e astronomo, cosa che loro tanto apprezzano, egli ha imparato in brevissimo tempo la loro lingua e così tanti caratteri da essere in grado di parlare con i mandarini senza bisogno di un interprete, un fatto che essi apprezzano e ammirano enormemente».

Di qui, vestiti e rasati di barba e capelli alla maniera dei monaci buddisti, lui e Michele Ruggieri si trasferirono a Zaoqing dove furono presi sotto la protezione di una delle massime autorità del luogo: Wang Pan. Wang Pan desiderava un erede maschio e quando lo ebbe ritenne che fosse merito di Ricci e del suo compagno.

A Ruggieri, che secondo l’autore «fu in effetti il fondatore della missione gesuita in Cina», fu concesso di tradurre il catechismo in cinese, adattandolo al pubblico a cui era destinato. Il primo battesimo fu somministrato a un povero trovato per strada e in punto di morte. I successivi, invece, furono per degli autentici convertiti.

Ma non tutto filò liscio: in questo periodo Ricci fu «angosciato dalla latente (se non dichiarata) ostilità della popolazione locale»; si trovò «molto più a suo agio in compagnia delle élite intellettuali a cui era più affine»; presto fu chiaro che le sorti sue e di Ruggieri «dipendevano dalla benevolenza dei mandarini».

Poi, nel 1588, Ruggieri tornò a Macao, quindi a Lisbona e a Roma, per invocare l’invio di un’ambasceria papale presso la corte Ming, e Ricci rimase solo. In seguito fu raggiunto dal giovane gesuita Antonio Almeida e successivamente da Francesco de Petris.

Ma nel giro di un paio di anni (1589-1591) morirono entrambi. Gli fu mandato allora Lazzaro Cattaneo e con lui Ricci compì la «svolta confuciana»: nel 1595 decise di lasciare le vesti buddiste per indossare lunghi abiti di seta e il cappello a quattro punte tipico degli eruditi confuciani.

La meta, dopo una lunga serie di peregrinazioni in terra cinese, era a questo punto Pechino. Ma avrebbe dovuto attendere il 1600, quando ottenne il permesso di entrare nella città (che aveva già visitato nel 1598), nonostante l’ostilità dell’eunuco Ma Tang. Nelfrattempo però aveva conquistato i letterati di Nanchang (dove era rimasto tre anni) i quali erano «meravigliati dalla sua abilità nel citare interi passaggi dei classici confuciani e rimanevano senza parole quando mostrava di saper recitare anche al contrario qualsiasi brano gli venisse sottoposto».

«Più Ricci si comportava come un membro dell’élite cinese», sottolinea Po-chia Hsia, «più il suo successo cresceva». Successo che raggiunse l’apice allorché nel settembre del 1596 ci fu un’eclissi solare che lui, a differenza dell’osservatorio astronomico imperiale, aveva previsto con mesi di anticipo. Poi a Nanchino (già capitale della Cina fino al 1421 e per molti versi rimasta tale anche nei secoli successivi) era entrato nei favori del potente Wang Zhongming.

Qui inizia la parte più avvincente del libro Un gesuita nella città proibita, che riesce a raccontare - in virtù proprio della consultazione dei documenti cinesi - gli intrighi alla corte dell’imperatore Wanli con una grande quantità di particolari inediti per la letteratura occidentale.

Nei primi dieci anni del Seicento, Ricci, con l’appoggio dell’imperatore, mise radici a Pechino dove, fatto davvero eccezionale, gli fu consentito di risiedere. Fu quella, però, un’epoca tutt’altro che tranquilla.

Nel 1604 giunse nella capitale imperiale la notizia che, tra ottobre e novembre dell’anno precedente, sull’isola di Luzon gli spagnoli avevano massacrato tra i 15 e i 20 mila cinesi, quasi l’intera comunità. Nel 1605 un gruppo di mandarini, infastiditi dagli attacchi di Ricci al buddismo, presentò una petizione all’imperatore per chiedere la revoca dell’appannaggio e il rimpatrio dei gesuiti.

A peggiorare la situazione fu l’inizio dei conflitti generati dall’ingresso degli olandesi sui mari dell’area (nel 1607 l’Olanda sferrò un attacco a Macao). Si moltiplicarono le voci che davano per imminente un «complotto gesuita» per spodestare la dinastia Ming.

Nel 1607 a Shaozhou fu diffusa una petizione firmata da quattrocento intellettuali in cui si chiedeva l’espulsione di Niccolò Longobardo (il gesuita destinato a succedere a Ricci) accusato di «perturbazione della pace». Ma Ricci in quei dieci anni risente relativamente dei conflitti in corso. Ha ormai il rango di un ministro al servizio dell’imperatore, riceve i mandarini e i futuri funzionari del regno senza mai mettere piede fuori dalla capitale imperiale. Il suo libro Il vero significato del Signore del Cielo (1603), redatto in forma di dialogo tra un occidentale e un erudito cinese, lo consacra come una delle più grandi personalità della Cina dei Ming. Affida a un carteggio con Yiu Chunxi i termini della sua polemica contro il buddismo.

Quando Ricci muore, all’età di 58 anni, nel maggio del 1610, trionfa «sui suoi nemici persino nella morte». Wanli concede l’onore del patrocinio imperiale alle sue esequie, a cui partecipano i mandarini Xu Guangqi e Li Zhiao. Matteo Ricci fu il primo ma non l’ultimo dei gesuiti a trovare sepoltura in terra cinese.

Dopo di lui - e prima dello scioglimento della Compagnia - di gesuiti ne giunsero in Cina circa ben cinquecento, provenienti da Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Belgio, Polonia, Austria, Germania, con l’aggiunta di un discreto numero reclutato in loco.

Se la parte gesuitica dell’eredità ricciana, scrive Po-chia Hsia, fu assicurata da una serie di missioni nei successivi centosessant’anni, «il suo impatto sulla comunità cristiana cinese diede a quest’ultima la possibilità di sopravvivere alla crisi catastrofica sopraggiunta in conseguenza del mutamento dinastico intorno a metà del Seicento».

Qu Rukui, tra i più importanti amici di Ricci in Cina, aveva accettato di essere battezzato solo nel 1607, ma quel battesimo non poté essere impartito, perché Qu non voleva rinunciare al concubinato. Dopodiché, soltanto a seguito della morte della prima moglie e del «matrimonio con la concubina», Qu Rukui era diventato a tutti gli effetti membro della Chiesa cattolica, in omaggio alla quale decise di dare al proprio figlio quindicenne il nome di Matteo (a Ricci attribuiva oltretutto il merito di avergli procurato quella paternità).

Ai tempi della scomparsa di Ricci, i convertiti in Cina erano circa 2.500 e salirono a 13 mila all’inizio del regno di Chongzhen (1628). Questo regno durò 16 anni, alla fine dei quali (1644) i cristiani cinesi erano ben 70 mila.

Tale crescita avvenne a dispetto del fatto che il successore di Ricci, Niccolò Longobardo, ne criticasse il metodo (nei confronti del quale già in anni precedenti aveva detto di sentirsi «a disagio»), ne disapprovasse pubblicamente la sintesi confuciano-cristiana e mettesse in dubbio che i principali mandarini e letterati avessero davvero capito gli insegnamenti ricciani. Longobardo, in ciò confortato dai gesuiti del Giappone, stabilì che il confucianesimo era ateo e che gli studiosi Ming erano filosofi materialisti.

Convinto che la sintesi del cattolicesimo e del confucianesimo avessero compromesso la purezza dottrinale della Chiesa, nel 1623 Longobardo scrisse un trattato dove esprimeva la tesi secondo cui «i filosofi neoconfuciani propongono un universo materialista, mentre i letterati cinesi vanno considerati fondamentalmente atei», e si opponeva energicamente alla «distinzione tra un’antica filosofia cinese intatta, naturalista e quasi cristiana e un neoconfucianesimo corrotto».

Ma nel 1627 undici preti distaccati in Cina e fedeli all’insegnamento di Ricci si riunirono per una conferenza a Jiading; successivamente la maggior parte dei gesuiti, sotto la guida del belga Nicolas Trigault, riprese a sostenere, con l’appoggio della classe dirigente dei funzionari cinesi convertiti, la strategia missionaria di Ricci.

La spaccatura era ormai evidente e in Cina, tra i cattolici, iniziò la fase della «controversia dei riti». Verso la metà del Seicento il gesuita francese Jean Valet, che sosteneva la posizione di Longobardo, passò una copia del suo trattato al frate francescano Antonio Caballero che la diede a sua volta al frate domenicano Domingo Navarrete: da quel momento abbracciarono le posizioni anti Ricci.

Chi vinse tra i due schieramenti? Nessuno. Nicolas Trigault che, come si è detto, era uscito vittorioso dalla conferenza di Jiading, non riuscì poi a sostenere il peso della tensione nervosa, cadde in una lunga depressione e nel novembre del 1628 si impiccò. I gesuiti nascosero quel suicidio e fecero riferimento a esso solo in codice. Ma ne furono oltremodo indeboliti, tanto più che su di loro incombeva un’altra catastrofe.

Nel marzo del 1644 i contadini ribelli espugnarono Pechino e le truppe manciù dilagarono all’interno del Paese, varcando la Grande Muraglia. Il regime Ming entrò in una lunga, inesorabile agonia, che ne avrebbe decretato l’estinzione nel giro di una quarantina di anni. Anni durante i quali morirono di morte violenta milioni di persone e non pochi missionari gesuiti.

I Ming, per resistere, accolsero gli aiuti occidentali, si presentassero come portoghesi armati o «consiglieri» gesuiti. La fede nel Dio dei cristiani sembrò essere per questi ultimi dominatori della Cina un’estrema risorsa.

Nel 1648 la corte di Yongli, l’ultimo imperatore dei Ming meridionali, annunciò tre conversioni clamorose: quella dell’imperatrice titolare e di due imperatrici vedove, che presero il nome di Anna, Elena e Maria. Lo stesso Yongli valutò per sé l’ipotesi di un’adesione alla fede cattolica, ma desistette per non essere costretto a rinunciare alla poligamia. Fece però battezzare suo figlio con il nome di Costantino. Nel 1662, però, padre e figlio furono strangolati nello Yunnan da Wu Sangui, un generale Ming che si era ammutinato per passare al servizio dei nuovi signori manciù.

Passò con i manciù, a Pechino, il gesuita tedesco Adam Schall, che strinse amicizia con l’imperatore Qing Shunzhi, ricevendone le onorificenze che spettavano ad un mandarino di massimo grado.

«Indossando gli abiti dei mandarini della nuova dinastia», scrive Po-chia Hsia, «Schall fu in grado di garantire la sopravvivenza e la prosperità della missione gesuitica». Nonostante un breve periodo di persecuzioni dopo la morte del sovrano amico, la missione cattolica riprese a prosperare sotto l’imperatore Kangxi, che regnò dal 1662 al 1723. «Un secolo dopo che Ricci si era stabilito a Pechino, il fondatore della missione cattolica avrebbe avuto tutte le ragioni per gioire nella sua tomba: nel 1701 la Cina aveva circa duecentomila convertiti e 153 ecclesiastici».

Lo stesso imperatore Kangxi si mostrò particolarmente cordiale e disponibile nei confronti dei suoi consulenti gesuiti: imparò da loro il latino, la matematica e la scienza occidentale; si fece somministrare il chinino che gli consentì di guarire dal vaiolo, malattia che aveva ucciso suo padre.

Ma i missionari continuavano a litigare tra loro su Confucio e nel 1705 l’imperatore, spazientito, vietò ai suoi sudditi di praticare il cristianesimo. Tutti i missionari occidentali che desideravano restare in Cina dovevano giurare sui «metodi di padre Ricci» e promettere che non sarebbero mai più tornati in Europa.

Domenicani, agostiniani e preti della Società per le missioni estere di Parigi abbandonarono in massa l’impero, i francescani si divisero, ma gran parte di essi rientrò, mentre i gesuiti, a eccezione di alcuni portoghesi, si piegarono al giuramento imposto da Kangxi.

Per otto anni l’editto del 1705 non fu quasi mai applicato. Poi venne l’epoca delle persecuzioni. Persecuzioni quasi incruente, però, se messe a paragone con quelle perpetrate nel Giappone dei Tokugawa. Quand’ecco che si ebbe un nuovo trauma, stavolta proveniente da Roma.

Nel 1773, per decisione di Clemente XIV, indirizzato in tal senso dalle corti borboniche, fu decretata la fine della Compagnia di Gesù (che sarebbe statariportata in vita da Pio VII nel 1814, 41 anni dopo).

Appena la Compagnia rinacque, riferisce Po-chia Hsia, i nuovi missionari gesuiti ripresero i contatti con l’impero Qing, che però era in condizioni ben più deboli, tant’è che fu sconfitto dagli inglesi nella prima guerra dell’oppio (1839-1842) e successivamente dagli attacchi congiunti anglofrancesi nella seconda guerra dell’oppio (1858-1860).

A quel punto il regime Qing fu «costretto» a spalancare le porte ai diplomatici stranieri e ai missionari cristiani. E fu grazie alla protezione diplomatica e militare della Francia che i gesuiti e altri missionari cattolici da quel momento in poi si recarono in Cina con lo status di diplomatici e con nuovi poteri. Un capovolgimento della lezione di Ricci.

Agli occhi dei cinesi «i nuovi arrivati apparvero come rappresentanti del potere occidentale e furono considerati una propaggine dell’aggressione europea». Tanto più che i gesuiti intentarono decine di processi allo scopo di reclamare le proprietà che erano state loro confiscate più di un secolo prima. I missionari proteggevano i convertiti cristiani ovunque, «intervenendo nelle dispute civili o nelle liti sulle proprietà, facendo appello ai magistrati locali, talvolta ai propri consoli, e con l’aumentare della loro influenza cresceva l’odio dei cinesi verso tutto ciò che era cristiano e occidentale».

La sintesi tra confucianesimo e cristianesimo era ormai una cosa lontana, e l’armonia tra Oriente e Occidente il ricordo di qualcosa di antico. La stragrande maggioranza delle élite confuciane della tarda epoca Qing «era fermamente anticristiana, per non dire assolutamente xenofoba». Si moltiplicavano voci e leggende che spesso traevano origine da «fantasie paranoiche»: «Missionari che pagavano per le conversioni, bambini uccisi dopo i battesimi, estrazione degli occhi dei viventi per ricavarne medicine».

Po-chia Hsia sostiene che alcune dicerie potevano avere un fondo di verità: ad esempio che i religiosi agissero come spie per i governi stranieri, che screditassero la cultura cinese descrivendola come superstiziosa e che, più in generale, non esitassero a fare appello ai loro diplomatici e ai loro soldati per proteggersi e fare pressione sul popolo cinese. Di lì alle «ritorsioni» il passo fu breve.

Nel 1870 a Tianjin una folla uccise il console francese e con lui una dozzina di missionari e convertiti. Nel 1899 nelle province di Shangdong e Hebei si ebbe un forte movimento anticristiano.

Poi nel 1900 fu la volta dei Boxer, un movimento regionale che individuò nei convertiti cristiani e nei missionari stranieri i nemici da abbattere. Con la connivenza della corte, i Boxer entrarono a Pechino e misero sotto assedio le legazioni straniere, presso cui avevano trovato rifugio molti missionari occidentali e cinesi convertiti. Fu necessaria una missione militare di otto Paesi per togliere l’assedio e domare i Boxer, che nel frattempo avevano ucciso centinaia di cristiani, violato cimiteri come quello di Zhalan dove 88 tombe erano state scoperchiate e i resti dei corpi di fedeli cattolici erano stati dati alle fiamme.

Dovevano trascorrere decenni prima che il capitolo potesse essere riaperto. Nel Novecento si sono avuti importanti studi su Ricci e sulla sua eredità. In particolare alla fine del secolo. Un libro di Jacques Gernet, Cina e cristianesimo (Marietti), ha sollevato dubbi sulla reale integrazione tra le strutture del pensiero dei gesuiti e quelle degli intellettuali cinesi. Jonathan Spence, in Il palazzo della memoria di Matteo Ricci (Adelphi), ha proposto una raffinata analisi del rapporto tra il grande gesuita e la Controriforma.

Ma Ronnie Po-chia Hsia si rifà utilmente ad alcune riflessioni di Sun Shangyang, contenute in un importante saggio del 1994 (inedito in Italia) sul rapporto tra cristianesimo e confucianesimo, per approfondire l’«occasione persa» di uno scambio culturale pacifico con l’Occidente che avrebbe potuto cambiare la storia della Cina, dell’Asia. E probabilmente dell’intera umanità.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  Business model. Le fedi come le aziende aspirano al monopolio. Rec del libro di Philippe Simonnot, "Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam" (di Paolo Mieli).

-  DIO, IL GRANDE BANCHIERE, E BENEDETTO XVI IL SUO PIU’ GRANDE SACERDOTE, FEDELE E COERENTE NEI SECOLI DEI SECOLI. Materiali per riflettere


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