Il Vangelo e Confucio un incontro mancato
Perché venne dispersa l’eredità di Matteo Ricci
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 24 luglio 2012)
L’impresa fu straordinaria, ebbe quasi dell’incredibile e basterebbe da sola a testimoniare il ruolo che ha avuto nella storia la Compagnia di Gesù, fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola tra non poche complicazioni, ben descritte in un importante libro di Guido Mongini, Ad Christi similitudinem. Ignazio di Loyola e i primi gesuiti tra eresia e ortodossia, edito da Dell’Orso, che riferisce come il fondatore della Compagnia fu processato dall’Inquisizione otto volte, in Spagna, Francia e Italia.
Comunque alla fine la Compagnia di Gesù fu approvata, nel 1540, da papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese. E nel giro di pochi decenni tale struttura fu in grado di «offrire» alla Chiesa personalità che ne avrebbero radicalmente cambiato il volto. Personalità cattoliche che avrebbero guidato il mondo nella modernità.
Ed eccoci all’impresa. L’uomo che ne fu il protagonista, Matteo Ricci, era nato a Macerata nel 1552. Fu mandato dal padre, farmacista, a Roma nel 1568 perché si iscrivesse all’università, studiasse diritto e di lì spiccasse il volo per una brillante e redditizia carriera. Matteo però deluse il genitore e il 15 agosto del 1571, alla vigilia del compimento dei 19 anni, si presentò al noviziato dei gesuiti sul colle del Quirinale per chiedere di essere ammesso nella Compagnia. Ma era solo un primo passo.
All’epoca, sotto il patronato dei re e dei viceré portoghesi, i gesuiti - sulle orme di Paolo da Camerino, Antonio Criminali, Niccolò Lancellotti e successivamente Alessandro Valignano, i primi ad essersi recati in missione a Goa e sulla costa Malabarica - erano già divenuti la più potente arma spirituale della presenza lusitana in India, dove avevano fondato sei collegi e sedici, più piccole, residenze.
Nel 1577 Ricci compì il passo successivo e decise di partire, via Lisbona, alla volta dell’India. Aveva 24 anni. Ed era solo l’inizio di un’avventura che lo avrebbe portato a Pechino, addirittura nel cuore della città proibita. Talché Un gesuita nella città proibita (pp. 420, 30€) è il titolo del libro scritto da Ronnie Po-chia Hsia, storico cinese (ma insegna all’Università di Pennsylvania) già molto conosciuto per un eccellente studio sulla Controriforma. Il suo saggio, pubblicato dal Mulino, ha il pregio di essere costruito su un esame assai accurato della ricca e complessa documentazione di parte cinese sull’intera vicenda.
Ma torniamo al nostro personaggio. La Lisbona in cui Ricci giunge nel 1577 è, con i suoi centomila abitanti, una delle maggiori città europee, superata solo da metropoli come Parigi e Istanbul, anche se il Portogallo, con il suo milione e mezzo di abitanti (contro i 14, ad esempio, della Francia) è uno dei Paesi meno popolati d’Europa.
Siede sul trono Sebastiano, nipote per parte di madre (Caterina) dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e cugino di Filippo II di Spagna. Sebastiano è galvanizzato dalla vittoria di Lepanto (1571), in cui le navi spagnole, veneziane e pontificie hanno sconfitto la flotta ottomana. Guarda lontano, incoraggia perciò la missione dei gesuiti in India e, poco dopo la partenza di Ricci (23 marzo 1578), si mette alla testa un esercito di 15 mila uomini alla volta del Marocco, dove troverà prematura morte, quattro mesi dopo, nella bruciante sconfitta di Alcazarquivir.
Ma all’epoca di Alcazarquivir i nostri gesuiti era già imbarcati su tre velieri diretti verso l’India. In un viaggio nel quale alle insidie dei mari si aggiungevano le malattie (l’indice di mortalità dei religiosi nel corso di quel genere di tragitti era del 15 per cento) e altri rischi. Nel 1570, ricorda lo studioso, un’imbarcazione portoghese proveniente dal Brasile era stata intercettata da pirati francesi (ugonotti): raggiunto il veliero, i francesi lo avevano preso d’assalto e saccheggiato. Avendo poi trovato fra i passeggeri Ignacio de Azevedo, superiore della missione gesuitica in Brasile, insieme a un gruppo di missionari novizi, gli ugonotti avevano risparmiato l’equipaggio portoghese, ma avevano gettato in acqua i 40 gesuiti, divenuti da allora martiri della Compagnia.
I seguaci di Sant’Ignazio davano un carattere assai religioso alla loro navigazione: il mattino «dedicavano un’ora alle preghiere e, una volta alla settimana, alla confessione»; facevano quindi ilgiro della nave visitando gli ammalati «per portar loro sollievo spirituale e fisico»; recitavano regolarmente le litanie, «spesso più volte al giorno», e «di notte guidavano l’equipaggio nel canto degli inni e nelle preghiere per evitare le risse».
In quei giorni, per propiziare i venti (ma probabilmente lo avrebbero fatto comunque), «guidarono una processione da poppa a prua e poi di nuovo a poppa nella quale furono esposte le reliquie destinate alla loro chiesa di Goa»: la «testa di santa Gerasina, compagna di sant’Orsola, consolatrice delle undicimila vergini martiri di Colonia» e quella di San Bonifacio martire; a fine maggio su ciascun veliero «furono organizzate, per celebrare il Corpus Domini, processioni accompagnate da musica e dall’ostensione delle reliquie». Preghiere e atti di devozione coincisero - anche se sarebbe arduo stabilire un rapporto di causa ed effetto tra le due cose - con l’arrivo dei venti da ovest, che favorirono la navigazione verso il capo di Buona Speranza.
Ci vollero sei mesi per giungere a Goa. Lì i convertiti costituivano la maggioranza della popolazione. «E ciò spiega l’importanza della cristianizzazione come una delle fonti essenziali per il mantenimento del colonialismo lusitano», scrive Po-chia Hsia: «In buona sostanza i portoghesi (clero compreso) consideravano l’appartenenza alla cristianità sinonimo dell’essere portoghese, anche per ciò che concerneva la lingua parlata, il modo di vestire, il cibo e la fede».
A Goa Ricci si distinse perché entrò a far parte di quella minoranza che si batteva contro la discriminazione razziale e, anzi, per l’immissione degli indiani nella Compagnia. E in quel luogo rimase tre anni. Ancora più importante fu il passaggio successivo, quando il nostro gesuita si trasferì a Macao, sulla costa cinese. Qui i portoghesi (ottocento circa) erano apprezzati perché, a causa del divieto di rapporti commerciali tra Cina e Giappone, fungevano da indispensabili intermediari tra i due Paesi.
Anche in virtù del fatto che - a differenza degli emissari inglesi e spagnoli - avevano accettato tutti i rituali di sottomissione, come quello di genuflettersi al cospetto dei mandarini e chinare il capo fino a toccare terra. Nel 1575 papa Gregorio XIII aveva promosso Macao a diocesi (con giurisdizione su Cina, Giappone e Corea) e l’aveva affidata al vescovo Belchior Carneiro, anch’egli gesuita. Ma i religiosi della Compagnia in quel fazzoletto di terra erano solo cinque. Ed erano cinesizzati.
In un breve volgere di tempo Matteo Ricci si fece egli stesso, per così dire, cinese. Lo spagnolo Alonso Sanchez, uno dei suoi compagni nella missione in Cina, così lo ritrasse: «È simile in tutto e per tutto ai cinesi e sembra uno di loro per la bellezza dell’ingegno, per la delicatezza, gentilezza, soavità e specialmente per la grande intelligenza e memoria, tutte doti che loro tengono in grande considerazione; difatti, oltre a essere un ottimo teologo e astronomo, cosa che loro tanto apprezzano, egli ha imparato in brevissimo tempo la loro lingua e così tanti caratteri da essere in grado di parlare con i mandarini senza bisogno di un interprete, un fatto che essi apprezzano e ammirano enormemente».
Di qui, vestiti e rasati di barba e capelli alla maniera dei monaci buddisti, lui e Michele Ruggieri si trasferirono a Zaoqing dove furono presi sotto la protezione di una delle massime autorità del luogo: Wang Pan. Wang Pan desiderava un erede maschio e quando lo ebbe ritenne che fosse merito di Ricci e del suo compagno.
A Ruggieri, che secondo l’autore «fu in effetti il fondatore della missione gesuita in Cina», fu concesso di tradurre il catechismo in cinese, adattandolo al pubblico a cui era destinato. Il primo battesimo fu somministrato a un povero trovato per strada e in punto di morte. I successivi, invece, furono per degli autentici convertiti.
Ma non tutto filò liscio: in questo periodo Ricci fu «angosciato dalla latente (se non dichiarata) ostilità della popolazione locale»; si trovò «molto più a suo agio in compagnia delle élite intellettuali a cui era più affine»; presto fu chiaro che le sorti sue e di Ruggieri «dipendevano dalla benevolenza dei mandarini».
Poi, nel 1588, Ruggieri tornò a Macao, quindi a Lisbona e a Roma, per invocare l’invio di un’ambasceria papale presso la corte Ming, e Ricci rimase solo. In seguito fu raggiunto dal giovane gesuita Antonio Almeida e successivamente da Francesco de Petris.
Ma nel giro di un paio di anni (1589-1591) morirono entrambi. Gli fu mandato allora Lazzaro Cattaneo e con lui Ricci compì la «svolta confuciana»: nel 1595 decise di lasciare le vesti buddiste per indossare lunghi abiti di seta e il cappello a quattro punte tipico degli eruditi confuciani.
La meta, dopo una lunga serie di peregrinazioni in terra cinese, era a questo punto Pechino. Ma avrebbe dovuto attendere il 1600, quando ottenne il permesso di entrare nella città (che aveva già visitato nel 1598), nonostante l’ostilità dell’eunuco Ma Tang. Nelfrattempo però aveva conquistato i letterati di Nanchang (dove era rimasto tre anni) i quali erano «meravigliati dalla sua abilità nel citare interi passaggi dei classici confuciani e rimanevano senza parole quando mostrava di saper recitare anche al contrario qualsiasi brano gli venisse sottoposto».
«Più Ricci si comportava come un membro dell’élite cinese», sottolinea Po-chia Hsia, «più il suo successo cresceva». Successo che raggiunse l’apice allorché nel settembre del 1596 ci fu un’eclissi solare che lui, a differenza dell’osservatorio astronomico imperiale, aveva previsto con mesi di anticipo. Poi a Nanchino (già capitale della Cina fino al 1421 e per molti versi rimasta tale anche nei secoli successivi) era entrato nei favori del potente Wang Zhongming.
Qui inizia la parte più avvincente del libro Un gesuita nella città proibita, che riesce a raccontare - in virtù proprio della consultazione dei documenti cinesi - gli intrighi alla corte dell’imperatore Wanli con una grande quantità di particolari inediti per la letteratura occidentale.
Nei primi dieci anni del Seicento, Ricci, con l’appoggio dell’imperatore, mise radici a Pechino dove, fatto davvero eccezionale, gli fu consentito di risiedere. Fu quella, però, un’epoca tutt’altro che tranquilla.
Nel 1604 giunse nella capitale imperiale la notizia che, tra ottobre e novembre dell’anno precedente, sull’isola di Luzon gli spagnoli avevano massacrato tra i 15 e i 20 mila cinesi, quasi l’intera comunità. Nel 1605 un gruppo di mandarini, infastiditi dagli attacchi di Ricci al buddismo, presentò una petizione all’imperatore per chiedere la revoca dell’appannaggio e il rimpatrio dei gesuiti.
A peggiorare la situazione fu l’inizio dei conflitti generati dall’ingresso degli olandesi sui mari dell’area (nel 1607 l’Olanda sferrò un attacco a Macao). Si moltiplicarono le voci che davano per imminente un «complotto gesuita» per spodestare la dinastia Ming.
Nel 1607 a Shaozhou fu diffusa una petizione firmata da quattrocento intellettuali in cui si chiedeva l’espulsione di Niccolò Longobardo (il gesuita destinato a succedere a Ricci) accusato di «perturbazione della pace». Ma Ricci in quei dieci anni risente relativamente dei conflitti in corso. Ha ormai il rango di un ministro al servizio dell’imperatore, riceve i mandarini e i futuri funzionari del regno senza mai mettere piede fuori dalla capitale imperiale. Il suo libro Il vero significato del Signore del Cielo (1603), redatto in forma di dialogo tra un occidentale e un erudito cinese, lo consacra come una delle più grandi personalità della Cina dei Ming. Affida a un carteggio con Yiu Chunxi i termini della sua polemica contro il buddismo.
Quando Ricci muore, all’età di 58 anni, nel maggio del 1610, trionfa «sui suoi nemici persino nella morte». Wanli concede l’onore del patrocinio imperiale alle sue esequie, a cui partecipano i mandarini Xu Guangqi e Li Zhiao. Matteo Ricci fu il primo ma non l’ultimo dei gesuiti a trovare sepoltura in terra cinese.
Dopo di lui - e prima dello scioglimento della Compagnia - di gesuiti ne giunsero in Cina circa ben cinquecento, provenienti da Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Belgio, Polonia, Austria, Germania, con l’aggiunta di un discreto numero reclutato in loco.
Se la parte gesuitica dell’eredità ricciana, scrive Po-chia Hsia, fu assicurata da una serie di missioni nei successivi centosessant’anni, «il suo impatto sulla comunità cristiana cinese diede a quest’ultima la possibilità di sopravvivere alla crisi catastrofica sopraggiunta in conseguenza del mutamento dinastico intorno a metà del Seicento».
Qu Rukui, tra i più importanti amici di Ricci in Cina, aveva accettato di essere battezzato solo nel 1607, ma quel battesimo non poté essere impartito, perché Qu non voleva rinunciare al concubinato. Dopodiché, soltanto a seguito della morte della prima moglie e del «matrimonio con la concubina», Qu Rukui era diventato a tutti gli effetti membro della Chiesa cattolica, in omaggio alla quale decise di dare al proprio figlio quindicenne il nome di Matteo (a Ricci attribuiva oltretutto il merito di avergli procurato quella paternità).
Ai tempi della scomparsa di Ricci, i convertiti in Cina erano circa 2.500 e salirono a 13 mila all’inizio del regno di Chongzhen (1628). Questo regno durò 16 anni, alla fine dei quali (1644) i cristiani cinesi erano ben 70 mila.
Tale crescita avvenne a dispetto del fatto che il successore di Ricci, Niccolò Longobardo, ne criticasse il metodo (nei confronti del quale già in anni precedenti aveva detto di sentirsi «a disagio»), ne disapprovasse pubblicamente la sintesi confuciano-cristiana e mettesse in dubbio che i principali mandarini e letterati avessero davvero capito gli insegnamenti ricciani. Longobardo, in ciò confortato dai gesuiti del Giappone, stabilì che il confucianesimo era ateo e che gli studiosi Ming erano filosofi materialisti.
Convinto che la sintesi del cattolicesimo e del confucianesimo avessero compromesso la purezza dottrinale della Chiesa, nel 1623 Longobardo scrisse un trattato dove esprimeva la tesi secondo cui «i filosofi neoconfuciani propongono un universo materialista, mentre i letterati cinesi vanno considerati fondamentalmente atei», e si opponeva energicamente alla «distinzione tra un’antica filosofia cinese intatta, naturalista e quasi cristiana e un neoconfucianesimo corrotto».
Ma nel 1627 undici preti distaccati in Cina e fedeli all’insegnamento di Ricci si riunirono per una conferenza a Jiading; successivamente la maggior parte dei gesuiti, sotto la guida del belga Nicolas Trigault, riprese a sostenere, con l’appoggio della classe dirigente dei funzionari cinesi convertiti, la strategia missionaria di Ricci.
La spaccatura era ormai evidente e in Cina, tra i cattolici, iniziò la fase della «controversia dei riti». Verso la metà del Seicento il gesuita francese Jean Valet, che sosteneva la posizione di Longobardo, passò una copia del suo trattato al frate francescano Antonio Caballero che la diede a sua volta al frate domenicano Domingo Navarrete: da quel momento abbracciarono le posizioni anti Ricci.
Chi vinse tra i due schieramenti? Nessuno. Nicolas Trigault che, come si è detto, era uscito vittorioso dalla conferenza di Jiading, non riuscì poi a sostenere il peso della tensione nervosa, cadde in una lunga depressione e nel novembre del 1628 si impiccò. I gesuiti nascosero quel suicidio e fecero riferimento a esso solo in codice. Ma ne furono oltremodo indeboliti, tanto più che su di loro incombeva un’altra catastrofe.
Nel marzo del 1644 i contadini ribelli espugnarono Pechino e le truppe manciù dilagarono all’interno del Paese, varcando la Grande Muraglia. Il regime Ming entrò in una lunga, inesorabile agonia, che ne avrebbe decretato l’estinzione nel giro di una quarantina di anni. Anni durante i quali morirono di morte violenta milioni di persone e non pochi missionari gesuiti.
I Ming, per resistere, accolsero gli aiuti occidentali, si presentassero come portoghesi armati o «consiglieri» gesuiti. La fede nel Dio dei cristiani sembrò essere per questi ultimi dominatori della Cina un’estrema risorsa.
Nel 1648 la corte di Yongli, l’ultimo imperatore dei Ming meridionali, annunciò tre conversioni clamorose: quella dell’imperatrice titolare e di due imperatrici vedove, che presero il nome di Anna, Elena e Maria. Lo stesso Yongli valutò per sé l’ipotesi di un’adesione alla fede cattolica, ma desistette per non essere costretto a rinunciare alla poligamia. Fece però battezzare suo figlio con il nome di Costantino. Nel 1662, però, padre e figlio furono strangolati nello Yunnan da Wu Sangui, un generale Ming che si era ammutinato per passare al servizio dei nuovi signori manciù.
Passò con i manciù, a Pechino, il gesuita tedesco Adam Schall, che strinse amicizia con l’imperatore Qing Shunzhi, ricevendone le onorificenze che spettavano ad un mandarino di massimo grado.
«Indossando gli abiti dei mandarini della nuova dinastia», scrive Po-chia Hsia, «Schall fu in grado di garantire la sopravvivenza e la prosperità della missione gesuitica». Nonostante un breve periodo di persecuzioni dopo la morte del sovrano amico, la missione cattolica riprese a prosperare sotto l’imperatore Kangxi, che regnò dal 1662 al 1723. «Un secolo dopo che Ricci si era stabilito a Pechino, il fondatore della missione cattolica avrebbe avuto tutte le ragioni per gioire nella sua tomba: nel 1701 la Cina aveva circa duecentomila convertiti e 153 ecclesiastici».
Lo stesso imperatore Kangxi si mostrò particolarmente cordiale e disponibile nei confronti dei suoi consulenti gesuiti: imparò da loro il latino, la matematica e la scienza occidentale; si fece somministrare il chinino che gli consentì di guarire dal vaiolo, malattia che aveva ucciso suo padre.
Ma i missionari continuavano a litigare tra loro su Confucio e nel 1705 l’imperatore, spazientito, vietò ai suoi sudditi di praticare il cristianesimo. Tutti i missionari occidentali che desideravano restare in Cina dovevano giurare sui «metodi di padre Ricci» e promettere che non sarebbero mai più tornati in Europa.
Domenicani, agostiniani e preti della Società per le missioni estere di Parigi abbandonarono in massa l’impero, i francescani si divisero, ma gran parte di essi rientrò, mentre i gesuiti, a eccezione di alcuni portoghesi, si piegarono al giuramento imposto da Kangxi.
Per otto anni l’editto del 1705 non fu quasi mai applicato. Poi venne l’epoca delle persecuzioni. Persecuzioni quasi incruente, però, se messe a paragone con quelle perpetrate nel Giappone dei Tokugawa. Quand’ecco che si ebbe un nuovo trauma, stavolta proveniente da Roma.
Nel 1773, per decisione di Clemente XIV, indirizzato in tal senso dalle corti borboniche, fu decretata la fine della Compagnia di Gesù (che sarebbe statariportata in vita da Pio VII nel 1814, 41 anni dopo).
Appena la Compagnia rinacque, riferisce Po-chia Hsia, i nuovi missionari gesuiti ripresero i contatti con l’impero Qing, che però era in condizioni ben più deboli, tant’è che fu sconfitto dagli inglesi nella prima guerra dell’oppio (1839-1842) e successivamente dagli attacchi congiunti anglofrancesi nella seconda guerra dell’oppio (1858-1860).
A quel punto il regime Qing fu «costretto» a spalancare le porte ai diplomatici stranieri e ai missionari cristiani. E fu grazie alla protezione diplomatica e militare della Francia che i gesuiti e altri missionari cattolici da quel momento in poi si recarono in Cina con lo status di diplomatici e con nuovi poteri. Un capovolgimento della lezione di Ricci.
Agli occhi dei cinesi «i nuovi arrivati apparvero come rappresentanti del potere occidentale e furono considerati una propaggine dell’aggressione europea». Tanto più che i gesuiti intentarono decine di processi allo scopo di reclamare le proprietà che erano state loro confiscate più di un secolo prima. I missionari proteggevano i convertiti cristiani ovunque, «intervenendo nelle dispute civili o nelle liti sulle proprietà, facendo appello ai magistrati locali, talvolta ai propri consoli, e con l’aumentare della loro influenza cresceva l’odio dei cinesi verso tutto ciò che era cristiano e occidentale».
La sintesi tra confucianesimo e cristianesimo era ormai una cosa lontana, e l’armonia tra Oriente e Occidente il ricordo di qualcosa di antico. La stragrande maggioranza delle élite confuciane della tarda epoca Qing «era fermamente anticristiana, per non dire assolutamente xenofoba». Si moltiplicavano voci e leggende che spesso traevano origine da «fantasie paranoiche»: «Missionari che pagavano per le conversioni, bambini uccisi dopo i battesimi, estrazione degli occhi dei viventi per ricavarne medicine».
Po-chia Hsia sostiene che alcune dicerie potevano avere un fondo di verità: ad esempio che i religiosi agissero come spie per i governi stranieri, che screditassero la cultura cinese descrivendola come superstiziosa e che, più in generale, non esitassero a fare appello ai loro diplomatici e ai loro soldati per proteggersi e fare pressione sul popolo cinese. Di lì alle «ritorsioni» il passo fu breve.
Nel 1870 a Tianjin una folla uccise il console francese e con lui una dozzina di missionari e convertiti. Nel 1899 nelle province di Shangdong e Hebei si ebbe un forte movimento anticristiano.
Poi nel 1900 fu la volta dei Boxer, un movimento regionale che individuò nei convertiti cristiani e nei missionari stranieri i nemici da abbattere. Con la connivenza della corte, i Boxer entrarono a Pechino e misero sotto assedio le legazioni straniere, presso cui avevano trovato rifugio molti missionari occidentali e cinesi convertiti. Fu necessaria una missione militare di otto Paesi per togliere l’assedio e domare i Boxer, che nel frattempo avevano ucciso centinaia di cristiani, violato cimiteri come quello di Zhalan dove 88 tombe erano state scoperchiate e i resti dei corpi di fedeli cattolici erano stati dati alle fiamme.
Dovevano trascorrere decenni prima che il capitolo potesse essere riaperto. Nel Novecento si sono avuti importanti studi su Ricci e sulla sua eredità. In particolare alla fine del secolo. Un libro di Jacques Gernet, Cina e cristianesimo (Marietti), ha sollevato dubbi sulla reale integrazione tra le strutture del pensiero dei gesuiti e quelle degli intellettuali cinesi. Jonathan Spence, in Il palazzo della memoria di Matteo Ricci (Adelphi), ha proposto una raffinata analisi del rapporto tra il grande gesuita e la Controriforma.
Ma Ronnie Po-chia Hsia si rifà utilmente ad alcune riflessioni di Sun Shangyang, contenute in un importante saggio del 1994 (inedito in Italia) sul rapporto tra cristianesimo e confucianesimo, per approfondire l’«occasione persa» di uno scambio culturale pacifico con l’Occidente che avrebbe potuto cambiare la storia della Cina, dell’Asia. E probabilmente dell’intera umanità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Business model. Le fedi come le aziende aspirano al monopolio. Rec del libro di Philippe Simonnot, "Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam" (di Paolo Mieli).
Scambi di opere, convegni.
Tra Santa Sede e Cina è l’ora della diplomazia della cultura
Al percorso di riconciliazione, segnato dall’accordo del 2018, si affiancano prestiti di opere d’arte, mostre, convegni su temi comuni. Così si gettano i ponti che servono
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Il Palazzo imperiale di Pechino espone da qualche giorno importanti oggetti d’arte cinesi dei Musei Vaticani. «È la prima volta che sono stati riportati nel loro Paese d’origine manufatti cinesi provenienti dalla collezione dei Musei Vaticani, nella quale sono presenti doni che testimoniano secoli di comunicazioni tra la Cina e il Vaticano e manufatti che intrecciano arte cattolica e arte cinese». Lo scrive il ’Global Times’, quotidiano ufficioso di Pechino. Si tratta dell’ultima di una serie di ’prime volte’: il padiglione della Santa Sede all’Expo dell’Orticoltura a Pechino inaugurato il 29 aprile alla presenza del cardinal Gianfranco Ravasi; l’intervista del Segretario di Stato vaticano ancora al ’Global Times’ il 12 maggio; la partecipazione di due vescovi cinesi insieme al cardinal Pietro Parolin a un convegno dell’Università Cattolica a Milano il 14 maggio... Sono eventi con uno spiccato carattere culturale. Ed è probabile che altri seguiranno nei prossimi mesi.
Lecito chiedersi se si tratti di una sorta di ’diplomazia della cultura’ che si affianca al dialogo politico diplomatico tra Santa Sede e Cina, sul modello della ’diplomazia del pingpong’ che cinquant’anni fa preparò nuovi rapporti tra Stati Uniti e Repubblica popolare cinese. In realtà, questi eventi rispondono a una logica più profonda. Che è culturale nel senso ampio del termine, pur implicando anche eventi culturali in senso specifico e pur avendo anche effetti politici. Di questa mostra aveva parlato già un anno fa papa Francesco, collegando tra loro diversi livelli di dialogo tra Santa Sede e Cina: quello ’ufficiale’ delle delegazioni che si incontrano; quello che si sviluppa attraverso contatti personali; e «il terzo, che per me è il più importante nel [...] riavvicinamento con la Cina», appunto quello «culturale». Nel duplice senso del dialogo interculturale e degli eventi culturali. «È la strada tradizionale, quella dei grandi, come Matteo Ricci», in cui si inseriva - affermò il Papa - anche la mostra di oggetti d’arte conservati nei Musei Vaticani.
Questa strada è la più importante perché, nella visione di Francesco, un legame profondo unisce ciascun popolo alla sua cultura. Lo ha detto più volte, proprio a proposito della Cina. E, per lui, se si sviluppa un dialogo tra le diverse culture sono i popoli interi a dialogare. Il che vuol dire aprirsi all’altro, accorciare le distanze, costruire la pace. È il dialogo interculturale, che ha avuto un ruolo anche nei recenti sviluppi dei rapporti sino-vaticani. Apparentemente, il livello cruciale è stato quello politico-diplomatico e, indubbiamente, l’Accordo provvisorio del 22 settembre 2018 ha segnato una svolta. Ma la strada verso l’Accordo si è sbloccata solo grazie al superamento di incomprensioni, equivoci, fraintendimenti che hanno una radice culturale.
Le due parti si sono scontrate a lungo anche perché non si capivano l’un l’altra, mentre la situazione è cambiata quando ciascuna delle due ha rinunciato a imporre i propri princìpi, criteri e regole. Lo ha spiegato il cardinal Parolin a Milano in occasione del convegno ’1919-2019. Speranze di pace tra Oriente e Occidente’. Anche questo Accordo, insomma, si colloca all’interno di un dialogo interculturale. Tale dialogo presuppone una forte volontà di incontro. Di per sé, infatti, le culture non si parlano, sono realtà inerti che non entrano in relazione l’una con l’altra. Possono dialogare solo uomini e donne in carne ed ossa, che decidono di farlo, superando inerzie radicate, forti resistenze e grandi ostacoli. In francese li chiamano passeurs, traghettatori, coloro che si avventurano nella cultura degli altri.
L’esempio di Matteo Ricci è illuminante. Il gesuita italiano è giunto in Cina con una nutrita biblioteca di testi occidentali classici, medievali e rinascimentali. Ma ha poi iniziato un percorso di evangelizzazione che lo ha portato da Macao a Pechino e che è stato anche di dialogo interculturale. Dapprima ha individuato nei monaci buddisti i più vicini all’annuncio religioso di cui era portatore e ha indossato i loro abiti. Successivamente, prima a Nanchino e poi a Pechino, ha stretto amicizia con i mandarini-letterati e ha individuato nella cultura confuciana del tempo il miglior veicolo per parlare loro del «Signore del Cielo». Perché ci sia dialogo interculturale, insomma, ci vuole un incontro umano e quello che si realizza all’interno di un’amicizia è certamente tra i più ricchi e profondi. Non è la cultura che conduce all’incontro, insomma, ma è la «cultura dell’incontro» - per usare un’espressione cara a papa Francesco - a spingere verso il dialogo senza cui non sono possibili comprensione, intesa, accordo.
È un percorso tutt’altro che astrattamente accademico. Che però può essere aiutato dalla cultura in senso stretto: studi storici e ricerche linguistiche, seminari e convegni, traduzioni e pubblicazioni, come pure mostre d’arte ed esposizioni archeologiche, musica e teatro ecc. Uomini e donne di cultura infatti - e, potenzialmente, tutti lo siamo - fanno parte di una comunità che non può essere limitata da barriere e confini. La disciplina del confronto culturale aiuta a imparare la lingua dell’altro e a ricomprendere sé stessi attraverso i suoi occhi, insomma a decentrarsi da sé e a gustare il sapore dell’alterità. Gli eventi culturali predispongono al dialogo interculturale. Nel rapporto sino-vaticano questo dialogo ha indotto gli uni ad accogliere un approccio pragmatico e fattuale e gli altri ad accettare una modalità astratta e generalista o, per dirla, con Francois Jullien, la «cultura del vivere», propria degli orientali, e quella «dell’essere», propria degli occidentali. Tra l’assolutezza del principio occidentale di sovranità territoriale e la tradizione cinese del controllo politico sulla società, i negoziatori hanno trovato uno spazio di convergenza che costituisce anche una novità culturale. E così via. Pure i nodi ancora insoluti nei rapporti tra Santa Sede e Cina possono essere sciolti solo affrontandone anche lo spessore culturale.
Tutto ciò è anche politica. Ha ragione papa Francesco: se uno stretto legame unisce ciascun popolo alla sua cultura, dove c’è dialogo interculturale ci sono anche rapporti tra popoli. Mentre, dove non c’è dialogo, prevale il confitto. Nel mondo di oggi le identità culturali vengono evocate sempre più spesso per costruire muri. Contemporaneamente, però, in tante parti del mondo il dialogo interculturale costruisce ponti. Oggi, in Cina, il disegno di una progressiva sinizzazione delle religioni si sta esprimendo anche sotto forma di crescente insistenza sulla tradizione confuciana, come si è visto nel recente incontro dei responsabili delle diverse comunità religiose cinesi convocati a Qufu, dove è nato Confucio. Bisogna avere paura di Confucio? Da questa paura è nata la lunga querelle dei riti, chiusa definitivamente da Pio XII nel 1939 dopo tre lunghi secoli di dolorose controversie. Matteo Ricci, invece, non ha avuta paura di Confucio e ha trasformato la tradizione confuciana in un ponte tra Oriente e Occidente sul quale ha camminato anche l’annuncio del Vangelo. Per papa Francesco, Matteo Ricci è anche oggi un modello da seguire: la strada più importante, dice infatti, è quella della cultura, «la strada tradizionale, quella dei grandi».
Rilanciare la chiesa in Cina l’obiettivo di papa Francesco
Il Pontefice sta chiudendo l’annosa questione dei cattolici di Pechino aperta con l’inizio della Repubblica popolare. Entro l’anno l’accordo
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 10. 03.2018)
Francesco è stato percepito, cinque anni fa, come un Papa carismatico, esterno però alla diplomazia vaticana (considerata non così decisiva ai tempi di Benedetto XVI, tanto che i governi s’interrogavano sull’utilità delle ambasciate in Vaticano). Invece gli anni di Francesco hanno visto un’intensa attività diplomatica, come nel 2014 con la mediazione nelle trattative tra Cuba e Stati Uniti. Ora Francesco sta per chiudere l’annosa questione dei cattolici in Cina, aperta dall’avvento della Repubblica popolare, disinteressata al rapporto con il Vaticano (nel 1951 fu espulso il nunzio Riberi, spostatosi poi a Taiwan presso il presidente Chiang Kai-shek, sconfitto dai comunisti). La crisi, dopo intense pressioni governative su cattolici e vescovi, cominciò soprattutto con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica nel 1957, espressione del controllo governativo sulla Chiesa.
La Chiesa cinese si divise allora in due segmenti: i cattolici «ufficiali» e quelli «sotterranei», entrambi con propri vescovi. La vicenda ha un precedente nella Rivoluzione francese, quando la Costituzione civile del clero nel 1791 dette origine alla Chiesa ufficiale, respinta dai cattolici fedeli a Roma. La questione fu chiusa nel 1801 dal concordato tra Bonaparte e Pio VII, che depose tutti i vescovi (patriottici e fedeli al Papa), per avviare una nuova procedura di nomina. La divisione in Francia durò dieci anni. In Cina, la Chiesa è divisa da settant’anni in due mondi, seppur con sovrapposizioni specie negli ultimi anni.
Se si guarda la storia della Chiesa, sorprendono i tanti decenni passati per arrivare a ricomporre i cattolici in Cina. Molto dipende da Pechino, ma non solo. Per il Papato, risolvere gli scismi è una priorità, come s’è visto dal grande impegno con i tradizionalisti di Lefèvre. Il protrarsi delle divisioni crea fossati duri da superare e soprattutto rende la Chiesa inabile a compiere la sua missione, come mostra la relativa crescita dei cattolici in Cina, pur in un terreno di mobilità religiosa. I cattolici sono oggi appena attorno ai dieci milioni, mentre gli evangelici (specie neoprotestanti) sarebbero circa settanta milioni con una grande crescita.
La questione sino-vaticana ha suscitato un dibattito quasi superiore alle dimensioni del problema. È considerata l’ultimo dossier dell’Ostpolitik, iniziata dal cardinal Casaroli. Infatti tornano le critiche fatte allora al Vaticano: svendere il martirio dei cristiani e accettare un ambiguo controllo statale. Così ha scritto George Weigel, biografo di Wojtyla, criticando la «cedevolezza» vaticana all’unisono con tante voci anglosassoni. L’accordo è percepito come smarcamento della Santa Sede dall’Occidente e dagli Stati Uniti, come faceva notare Massimo Franco. Si chiedono alla Chiesa posizioni che però i Paesi occidentali non hanno con la Cina.
Il disallineamento dall’Occidente è avvenuto pure con Giovanni Paolo II, Papa delle ragioni del Sud, ma pure dagli intensi legami (anche politici) con l’Europa e gli Stati Uniti. Che il cattolicesimo non debba essere un’agenzia religiosa dell’Occidente è linea costante dei Papi del Novecento, anche se non sempre di facile attuazione. È una realtà, prima che politica, inerente la missione della Chiesa tra culture, civiltà e regimi diversi. Non sorprende, allora, che Francesco cerchi un accordo con Pechino per dare stabilità alla Chiesa e rilanciarla, anche se un negoziato ha sempre un prezzo.
La questione ha un valore simbolico. Suscita aspre critiche tra cattolici (spiccano quelle del card. Zen di Hong Kong), severe sull’approccio «diplomatico» alla questione cattolica in Cina: vi si legge una continuità tra Casaroli e l’attuale Segretario di Stato, Parolin. Ma la diplomazia di Parolin in un mondo multipolare è per forza diversa da quella della Guerra fredda, anche se resta lo strumento negoziale (a fini pastorali però).
Si parla d’intesa sino-vaticana dal 1980, quando la via fu aperta dal cardinal Etchegaray (salutato a Pechino come «un grande funzionario di una grande religione occidentale»). Allora i cinesi - diceva il cardinale - offrivano condizioni migliori di oggi. Il negoziato procedette a salti. Si bloccò con la canonizzazione dei martiri cinesi il 1° ottobre 2000, festa della Repubblica popolare, vista dai cinesi come atto ostile. Poi nel 2009 ci fu un’altra interruzione, fino alla ripresa del negoziato nel 2013 con Francesco.
Quasi quarant’anni d’incontri e crisi insegnano che, con il tempo, il quadro negoziale s’indurisce da parte cinese. Anche perché la Cina di Xi Jinping ha un’altra dimensione rispetto al passato.
È significativo però che la Cina tratti su affari religiosi interni con un soggetto non nazionale. Mai l’ha fatto l’Urss. Mao Tse Dong, nel 1962, rispose male a Giancarlo Pajetta, che intercedeva per i cattolici: «ognuno ha gli dei del cielo del proprio paese».
L’accordo (forse entro il 2018) è una novità, ma non una clamorosa «Conciliazione» tra il Papa e Xi. Non riguarderà i rapporti diplomatici. Verterà soprattutto sul meccanismo di nomina dei vescovi (ci sarà un rappresentante vaticano non fisso a Pechino per studiare le nomine). L’intesa non verrà sbandierata, ma sarà il primo passo di un negoziato su altre problematiche. Il fatto decisivo è che consentirà, con la formazione di un unico episcopato in Cina, la ricomposizione della Chiesa, essenziale per rilanciare la presenza cattolica in un Paese che cambia. Questo è, per ora, il «modesto «obiettivo di papa Francesco.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è alcuna traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA", LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Matteo Ricci
Il gesuita che insegnò ai cinesi l’arte di ricordare
di Simone Paliaga (Avvenire, 4 agosto 2016)
«Nell’impatto con i più svariati fenomeni l’anima è pienamente in grado di registrarli e riconoscerli; li sa inoltre differenziare per poi immagazzinarli, a guisa di beni che si conservino in un magazzino. Ogniqualvolta se ne voglia far uso, ciascuna categoria di oggetti riemergerà in base all’occasione in successione ordinata, senza confusione alcuna» scrive Matteo Ricci tra il 1595 e il 1596. E forse ora è il momento di riprendere a studiare gli aspetti mnemotecnici del lavoro del gesuita maceratese alla pari di tutta la tradizione europea dell’arte della memoria.
Oggi questa facoltà umana non è più sulla breccia. Nemmeno a scuola si mandano più a mente poesie, capoluoghi, fiumi, paradigmi verbali. Tanto non serve più. Ormai registriamo tutto sui nostri device esterni. Smartphone, cloud, server raccolgono le informazioni che ci potrebbero servire evitandoci lo sforzo della memorizzazione. E glissiamo così sull’importanza della memoria e del suo esercizio per la conoscenza e la libertà dell’uomo. Ecco allora diventare un’opportunità di riflessione la prima traduzione italiana dal cinese, data ora alle stampe da Guerini e Associati, di Il castello della memoria (pp. 168; euro 16,50) di Matteo Ricci, il gesuita che tra Cinque e Seicento va alla scoperta del Celeste Impero del tempo dei Ming.
Cartografo, matematico, astronomo oltreché lessicografo e fondatore della sinologia, Ricci nasce a Macerata nel 1552 e non ha certo bisogno di grandi presentazioni. Da quando, nel 1582, Alessandro Valignano lo chiama a Macao in una piccola comunità di gesuiti comincia il suo lungo viaggio verso Pechino.
Matteo Ricci si adatta al nuovo contesto assumendo i costumi dei bonzi e dei saggi confuciani, studia il cinese, scritto e parlato, al punto da maneggiarlo alla perfezione. Traduce testi della tradizione europea e compone addirittura dei trattati direttamente in cinese, come quello bellissimo sull’amicizia, al fine di portare alla luce le similitudini tra culture entrambe millenarie ma profondamente diverse.
Si tratta, il suo, di un imponente lavoro di mediazione culturale all’interno del quale si incastona Il castello della memoria. L’arte della memoria è un filone antico della cultura europea. Secondo la vulgata troverebbe origine tra il VI e V secolo prima di Cristo. «Un poeta occidentale - riporta Ricci nel trattato -, il nobile Simonide, un giorno si trovò a pranzo con parenti e amici in una sala. Gli ospiti vennero in gran numero. Uscito brevemente dalla sala, questa fu investita da un vento impetuoso e crollò. Tutti i commensali morirono schiacciati e i loro corpi furono talmente polverizzati che nessuno dei parenti fu in grado di riconoscerli. Ma Simonide si ri- cordò dell’ordine in cui erano seduti e in tal modo riuscì a ricordarli e a identificarli. Egli intuì così la mnemotecnica, che creò e lasciò in eredità ai posteri».
La tradizione verrebbe poi rilanciata da Aristotele e risale, attraverso il mondo latino fino a sant’Agostino, a san Tommaso e a Raimondo Lullo. Da lì, come ha raccontato splendidamente nel secolo scorso Frances Yates, riprende vigore in epoca rinascimentale con il Theatro di Giulio Camillo e Giordano Bruno.
A tale percorso carsico, seppure distaccandosi dagli afflati ermetici e magici, si accosta Ignazio di Loyola che nei suoi Esercizi spirituali fa riferimento alle “tre potenze dell’anima”, che nella tradizione scolastica sono la memoria, l’intelletto e la volontà. Il loro addestramento «costituisce - scrive la curatrice Chiara Piccinini - il metodo generale della meditazione ignaziana, in cui la memoria stimola l’intelletto perché induca al ragionamento e questo muova la volontà».
Ecco la prospettiva lungo la quale si muove il gesuita di Macerata. Scritto per favorire i cinesi nell’apprendimento delle migliaia di ideogrammi della loro lingua il trattato serve anche da veicolo per farli avvicinarli al mondo cristiano. Ma il potenziamento della memoria, che deve essere quotidiano per non perderne la familiarità, non vale unicamente a favorire l’accumulo delle conoscenze. Esso diventa uno strumento per promuovere crescita e maturazione spirituale spingendo l’uomo a essere libero.
Per consolidarsi «l’apprendimento della mnemotecnica - ammonisce Ricci - consiste nell’attribuire l’immagine di una data cosa o di uno stato di cose dato a un preciso luogo in una successione ordinata». Da qui la denominazione di mnemotecnica per immagini. «Il suo segreto - continua il maceratese - non è null’altro se non l’immaginazione creativa stessa, che inizialmente si può praticare con un certo diletto e godimento, la creazione di luoghi per metà reali e per metà immaginari è per così dire il segreto dei segreti». Si devono così creare con la mente palazzi, castelli, pagode, progettarne gli interni in maniera adeguata per poi inserirci, associate ad immagini, le idee che vogliamo fare nostre.
Solo così, depositandole in noi, sarà possibile richiamarle alla mente alle bisogna per alimentare la potenza del ragionamento e sferzare la nostra volontà.
Il disgelo tra Santa Sede e Pechino
Svolta nei rapporti Vaticano-Cina Francesco nominerà 3 vescovi
Sarà il Pontefice e non il governo a nominare i prelati delle sedi vacanti
E’ la prima volta dalla rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Stati
di Paolo Salom (Corriere della Sera, 31.01.2016)
L’annuncio è pronto, probabilmente già sulla scrivania del Papa. In Vaticano non nascondono la soddisfazione. Perché, per la prima volta dalla rottura delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Repubblica Popolare, sarà il Pontefice a nominare i nuovi vescovi (probabilmente tre) di sedi vacanti in Cina.
Questo il frutto di un intenso, quanto discreto lavoro diplomatico iniziato tra grandi diffidenze e difficoltà sotto Benedetto XVI e proseguito con passo più spedito dall’elezione di Francesco. Più volte nel corso degli ultimi anni, delegazioni pontificie sono state accolte a Pechino e inviati dell’Impero Celeste hanno fatto la loro comparsa al di là delle mura vaticane.
L’ultima trattativa risale alla scorsa settimana. Due giorni in cui i rappresentanti delle due parti hanno affrontato con un pragmatismo condiviso dalla tradizione gesuita e da quella cinese le questioni aperte: dalla più semplice a quella più complessa. Per ora, fanno sapere in Vaticano, è stato convenuto di risolvere un’annosa questione riguardo la nomina dei vescovi, come noto prerogativa del Papa cui i nuovi pastori devono obbedienza. Il risultato convenuto sarebbe questo: Pechino sottopone al Vaticano una lista di nomi «graditi» e tra questi il Pontefice identifica e annuncia il nome prescelto.
La Chiesa Patriottica
Il passaggio, al di là delle apparenze, è decisivo. Perché quando i rapporti erano più freddi, se non ostili, era la Chiesa Patriottica, ovvero l’organizzazione ufficiale dei fedeli cattolici dipendente dal governo di Pechino, a scegliere e nominare i vescovi senza nemmeno consultare la Sante Sede. A suo tempo, Giovanni Paolo II aveva ricordato come i pastori così scelti si sarebbero dovuti considerare automaticamente scomunicati.
Più di recente, il riavvicinamento tra Vaticano e Impero Celeste aveva portato a un meccanismo (tacito) più accettabile per Roma: la Chiesa Patriottica avrebbe scelto i nuovi vescovi da una rosa gradita in San Pietro. Un processo che aveva portato Benedetto XVI, dopo alcune asperità, a dichiarare che la «quasi totalità» dei vescovi nominati in Cina «sono ormai in comunione piena con la Santa Sede».
Ora il meccanismo si ribalta. E, punto nodale, non è qualcosa di semplicemente «tollerato» (perché male minore) ma il frutto di un accordo raggiunto e accettato da entrambe le parti in causa. Inoltre non è che il primo di una serie di passi (aperture?) che i più ottimisti inseriscono in un percorso che si concluderà entro la fine di quest’anno con l’annuncio della ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche, sessanta e più anni dopo la fuga da Pechino (1952) del Nunzio Apostolico.
Il «nodo» Taiwan
Contemporaneamente, il Vaticano dovrà ritirare il suo riconoscimento a Taiwan, «conditio sine qua non» imposta da Pechino a chiunque voglia inviare un ambasciatore sotto la Grande Muraglia (sono 23, al momento, compresa la Santa Sede, i Paesi che hanno relazioni con l’«isola ribelle» e non con la Madre Patria).
In Cina nel 2017?
Dunque non è impossibile immaginare, forse nel 2017, un viaggio di papa Francesco in Cina, un viaggio che cambierebbe la Storia della Chiesa e dell’Asia: mai un Pontefice ha potuto mettere piede sul suolo del Paese di Mezzo. Ad attendere questo momento, i 4 milioni di cattolici iscritti nell’Associazione patriottica cinese (insomma, la Chiesa di regime) e, soprattutto, i 16 milioni di seguaci della Chiesa clandestina, fuori legge e ufficialmente «sovversiva» perché da sempre fedele a Roma.
È proprio questo il nodo più difficile da sciogliere: la questione della fedeltà a un «governo straniero», considerata cosa empia nella Repubblica Popolare, fondata da Mao sulle ceneri di un Paese che era stato preda per secoli delle mire colonialiste delle Potenze Occidentali e non solo. Ma, se è corretto quanto trapela, e cioè che entro fine anno tutto sarà sistemato, è lecito ritenere che anche questa (spinosa) questione è stata affrontata. E qualcuno ha suggerito come superarla.
Da Matteo Ricci a Francesco, il filo che lega due imperi
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 31.01.2016)
CITTÀ DEL VATICANO Isola di Sanciano, 3 dicembre 1552, poco dopo mezzanotte: in una capanna, vegliato da un amico cinese, padre Francesco Saverio, primo missionario gesuita, muore guardando a un paio di miglia il «Regno di Mezzo». Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, lo aveva inviato in Oriente nel 1540 e lui aveva capito che per diffondere il Vangelo bisognava ad ogni costo raggiungere quel Paese immenso per dimensioni, storia e cultura, arrivare al cuore dell’Asia: un sogno compiuto trent’anni più tardi da Matteo Ricci, il confratello che conquistò la stima dei cinesi scrivendo nella loro lingua il trattato Dell’amicizia e disegnando un mappamondo che, nel 1584, metteva al centro la Cina, non l’Europa.
Bisogna partire da qui, per capire la portata del dialogo in corso tra due realtà millenarie. Il primo Papa gesuita della storia sa come Francesco Saverio che «il futuro della Chiesa è l’Asia» e la Cina ne è il centro, «se ci andrei? Domani!».
Non è stato facile arrivare fino a questo punto, come dimostrano le vicende degli ultimi sessant’anni, ed ora è il momento più delicato. Le persecuzioni e l’espulsione di vescovi e missionari risalgono agli anni Cinquanta, sotto il regime di Mao: la nascita dell’Ufficio per gli Affari Religiosi e della «Associazione patriottica » controllata dal Partito, nel ‘58 le prime due ordinazioni senza mandato episcopale, vescovi e sacerdoti arrestati.
Eppure «la Santa sede non ha mai usato la parola “scisma”», ricordava poche settimane fa l’arcivescovo Claudio Maria Celli, uno dei massimo esperti di Cina in Vaticano. La diplomazia della Santa Sede non chiude mai la porta. Già allora vescovi «di regime» scrivevano in segreto al Papa.
Le cose hanno iniziato a cambiare negli anni Ottanta, con le riforme di Deng Xiaoping. Riaprirono chiese, seminari e case religiose. E cominciarono pure le prime resistenze, sia nella burocrazia cinese sia in quella ecclesiastica.
Anche nella Chiesa si sono confrontate un’anima più «agonistica», guidata dall’anziano cardinale Joseph Zen, ed una più dialogante. Chi proseguiva la polemica contro il regime e marcava la differenza con la «Chiesa ufficiale» e chi, come osserva l’arcivescovo Celli, insisteva sul fatto che «in Cina esiste una sola Chiesa cattolica con una comunità ufficiale ed una clandestina». Oggi i confini sono sfumati, e la Radio Vaticana diffonde ogni giorno in cinese le parole del Papa, senza censure.
Un punto di svolta è stata la lettera del 2007 nella quale Benedetto XVI si rivolgeva «a tutta la Chiesa che è in Cina» auspicando «un accordo con il governo» sulla nomina dei vescovi. Pietro Parolin, che con Francesco sarebbe divenuto Segretario di Stato, ebbe già allora un ruolo fondamentale e per due volte guidò trattative riservate a Pechino. Poi nel 2009 fu trasferito come nunzio in Venezuela. Allora i vescovi in comunione con Roma erano arrivati a 110 su 115. Dal 2010 ricominciarono le ordinazioni illegittime, quattro in tutto.
Nel 2013 Francesco ha nominato il cardinale Parolin alla guida della diplomazia vaticana e le trattative sono riprese. Il resto è la telefonata del Papa al presidente cinese XI appena eletto, il permesso di attraversare lo spazio aereo della Cina nel volo di Francesco verso Seul, nel 2104, con relativo scambio di telegrammi, gli incontri tra delegazioni ed il consenso della Santa Sede ad una nomina episcopale, in autunno. La storia dirà se a Bergoglio toccherà la sorte di Francesco Saverio o di Ricci, ma l’accordo non è mai stato così vicino.
Il Papa gesuita e la primavera cinese
E se Matteo Ricci fosse beatificato?
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 22 maggio 2013)
La scorsa settimana la dirigenza cinese ha dato grandi segnali alle Chiese cristiane. Il 10 maggio il presidente Xi Jinping ha incontrato Kyril, patriarca di Mosca e di tutte le russie. Il 12 Josef Clemens, vero amico e collaboratore di Ratzinger, ha dato la cresima a Pechino nella chiesa di San Giuseppe, riconosciuta dal governo. Da dieci giorni era in mostra prima a Shanghai e poi all’università di BeiDa la «Bibbia di Marco Polo»: un manoscritto giunto in Oriente nel Duecento, tornato in Europa a fine Seicento, e che ora - dopo una complessa operazione scientifica sostenuta da Regione Toscana, governo italiano, Arcus ed Fscire - incontrava la Cina di oggi.
Eventi significativi che documentano il (secolare) rapporto di amore e incomprensione fra il cristianesimo e il Paese di Mezzo. Un rapporto nel quale la Chiesa cattolica, per bocca del cardinal Filoni, ha chiesto una svolta, con un dialogo diretto ad alto livello.
Questo momento di avvio della nuova dirigenza cinese è propizio per l’ortodossia, ma potrebbe diventarlo anche per la Chiesa cattolica. Come Mosca ha giocato la carta di Vladimir Putin, Roma aveva la sua carta vincente in Romano Prodi: l’ha sciupata ora cedendo a veti preteschi in Italia accontentandosi di mosche cocchiere che girano la Cina parlando - chissà a che titolo - come fossero messi papali.
L’elezione di Francesco e questo maggio fiorito aprono uno spiraglio nuovo. Ai seminari di Pechino, infatti, studenti e funzionari ascoltano con fierezza chi racconta che uno dei candidati importanti del pre-conclave era Luis Antonio Tagle, di madre cinese. E sono convinti che il Papa gesuita è amico della Cina ex opere operato , perché confratello di quel Matteo Ricci, di cui Bergoglio potrebbe celebrare la beatificazione, con un atto gravido di conseguenze rispetto alle astuzie e alle prudenze che hanno fatto perdere tempo.
Perché (la storia della Bibbia di Marco Polo lo insegna) non c’è un tempo infinito per risolvere i problemi di questa che è la questione del domani cristiano. Roma e Pechino sanno che una parte di quel tempo è stato consumato. In quel che resta bisognerà far sul serio.
La rete cinese dall’India fino ai Caraibi
di Guido Santevecchi (Corriere della Sera, 22.05.2013)
PECHINO - C’è un nuovo «consenso strategico» tra la Cina e l’India, come annuncia il premier Li Keqiang di fronte al suo collega di New Delhi Manmohan Singh? Di fatto, il capo del governo cinese ha scelto il vicino-rivale per la sua prima missione all’estero; il tradizionale alleato Pakistan è solo la seconda tappa del viaggio. E i due Paesi sono già partner nel club dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che riunisce il gruppo di economie che crescono più rapidamente in un mondo ancora investito dalla crisi globalizzata.
Però i rapporti per decenni sono stati tesi. Ancora all’inizio di maggio, i militari cinesi e indiani si sono sfidati per tre settimane nella regione himalayana, dove nel 1962 i due Paesi si fecero guerra. Reparti dell’Esercito di Liberazione Popolare si sono spinti per 18 km in territorio controllato dagli indiani. Poi c’è il disappunto di Pechino perché New Delhi ospita il Dalai Lama, leader tibetano in esilio.
E soprattutto, c’è la rivalità economica. Il Prodotto interno lordo della Cina è sei volte più grande di quello indiano, l’interscambio commerciale vale oltre 66 miliardi di dollari l’anno, ma è sbilanciato a favore dei cinesi, che hanno un surplus di 28 miliardi. La Cina è il secondo partner dell’India, che rappresenta per Pechino solo il 12°. Ma i due giganti non si possono ignorare, i loro sistemi produttivi hanno bisogno l’uno dell’altro per bilanciare la crisi dell’Europa e la lentezza della ripresa Usa.
Così Li Keqiang ha giocato la carta dell’umiltà, tattica preferita della Cina che ama ancora definirsi «Paese in via di sviluppo». Il premier si è presentato portando «a un popolo di 1,2 miliardi di persone il saluto di un popolo di 1,3 miliardi di persone» e ha insistito che l’obiettivo di Pechino «è sempre di soddisfare le sette necessità di base quotidiane dei cinesi che sono: legna, riso, olio per cucinare, sale, salsa di soia, aceto e tè». Poi ha detto di capire le preoccupazioni indiane per lo squilibrio nella bilancia commerciale e ha promesso che l’accesso delle merci di New Delhi sarà facilitato, per raggiungere quota 100 miliardi di dollari di scambi nel 2015. Sono seguiti accordi sull’agricoltura, le risorse idriche, per lo sviluppo di zone industriali e la costruzione di infrastrutture. Si è discusso del progetto di aprire un corridoio commerciale attraverso Birmania e Bangladesh.
Non sembra un caso che proprio nel corso di queste cerimonie da Washington sia arrivato l’annuncio che il 7 e l’8 giugno Obama incontrerà il presidente Xi Jinping in California per un vertice tra la prima e la seconda economia del mondo.
Ma intanto Pechino continua ad allargare la sua rete, fino ai Caraibi: gli inviati (e i miliardi) cinesi sono arrivati in quello che George Bush chiamava «il terzo confine» degli Stati Uniti. Hanno stretto accordi con Grenada, Barbados, Giamaica. Il primo ministro di Grenada ha detto al Financial Times che «Pechino aiuta i Caraibi perché ha colto la frustrazione della regione per il disinteresse Usa». Colpisce questa avanzata cinese a Grenada: nel 1983 Ronald Reagan spedì nell’isola i Rangers dopo aver accusato il governo (golpista) locale di essersi venduto a cubani e sovietici. Ora la Cina compra tutto in blocco.
Alle Bahamas i cinesi stanno costruendo un resort da diversi miliardi di dollari; alla Giamaica hanno concesso 300 milioni per strade e ponti; ad Antigua hanno costruito uno stadio per il cricket. Questi investimenti non hanno significato economico per la Cina, perché i Caraibi non sono un gran mercato e non hanno particolari risorse naturali: si tratta di espansione politica.
La partita è appena all’inizio e la Cina conosce l’arte dell’attesa.
Matteo Ricci. Il primo «mandarino» d’Occidente
Nella Cina vide il Paese che aveva eletto la scrittura, la letteratura, la filosofia e le sue «sterminate antichità» a mezzi di un buon governo
di Michela Catto (Il Sole-24 Ore Domenica, 26.10.2014)
Vestire, mangiare, parlare «alla cinese». Questa l’intuizione avuta da Matteo Ricci a Macao, alle porte della Cina, nell’unico luogo in cui gli stranieri erano autorizzati a risiedere. Lì maturò la convinzione che mai si sarebbe «entrati nella Cina» senza indossare la seta cinese, far crescere lunghe barbe e mettere sul capo il cappello da mandarino. Non più la tonaca buddista, non più accostarsi a quei monaci che per abitudini di vita - il celibato - e tipologie di culto erano parsi all’inizio così simili ai religiosi venuti dall’Occidente, mossi dal desiderio di fare una breccia nell’Impero di mezzo.
Ancora una volta l’intuizione; questa volta quella dell’inesorabile decadenza che il buddismo stava vivendo in Cina. Non era appaiandosi in esso che il cristianesimo poteva acquisire quell’autorità, e autorevolezza, necessaria per convertire. Da questo momento le critiche non furono risparmiate ai bonzi cinesi: rozzi, ignoranti, simulatori di pratiche sistematicamente violate nel privato, astinenze e digiuni in pubblico, abbuffate e ricche bevute nel privato dei loro templi in mezzo ai loro idoli. I bonzi e la loro dottrina furono sistematizzati nel pensiero degli occidentali e inseriti tra le innumerevoli idolatrie e superstizioni che già i missionari avevano incontrato nel mondo, tutto ricondotto ai culti malvagi che il demonio aveva riservato per sé e che i missionari erano impegnati a estirpare. Ma non proprio tutto poteva essere disprezzato, sostituito e conquistato.
In quella terra meravigliosa, destinata a diventare per alcuni il modello di società perfetta, qualcosa e qualcuno sembrava sottrarsi ai canoni universali della superstizione e dell’idolatria.
Erano quei mandarini e letterati che governavano la Cina, il Paese che aveva eletto la scrittura, la letteratura, la filosofia e le sue «sterminate antichità» a mezzi di un buon governo e di una società civilizzata, come mai prima, scrivevano i gesuiti, si erano incontrati.
Erano strani e bizzarri questi mandarini, con le loro cortesie, i loro codici comportamentali, le loro mille maniere dai significati spesso esattamente speculari agli usi europei, ma sembravano reggere il loro governare su principi morali e questi erano contenuti nei loro antichi testi filosofici, dalla dottrina del loro santo, il venerato Confucio.
E a ben guardare il santo uomo era venuto dall’Est, come il Messia, e il suo pensiero «nel suo essentiale non contiene niente contra l’essentia della fede catholica», scriveva Ricci. Così iniziava l’avventura del cristianesimo in terra cinese ma anche il viaggio a ritroso: la Cina giungeva in Occidente.
Tratteggiata dalle penne dei gesuiti essa pareva riproporre all’Europa i medesimi nessi e le stesse questioni insite nell’eredità del suo passato pagano, ritornato di grande attualità dopo la rottura del mondo cristiano, quando ogni confessione rivendicò per sé il titolo di autentica erede del vero cristianesimo.
L’interpretazione che Matteo Ricci aveva fornito della Cina, dei suoi costumi e delle sue religioni infatti non ebbe solo l’effetto di dare inizio, quasi subito dopo la sua morte (1610), a una delle più grandi querelle, quella sul significato e la legittimità dei riti cinesi, che - insieme a giansenismo e a molto altro - contribuì a gettare le premesse per la soppressione della Compagnia di Gesù (1773).
Discutere sui riti cinesi, sostenere la natura religiosa o politica delle cerimonie agli antenati e di Confucio, voleva dire parlare dell’esistenza di una morale, quella che reggeva e governava la società cinese e che si rinnovava continuamente con la pratica dei suoi riti, indipendente dalla religione e dalla Rivelazione, porre dubbi sul messaggio di salvezza portato da Cristo.
O almeno così fu fatto da alcuni. Sfuggì di mano alla Compagnia di Gesù il mito gesuitico della Cina. Matteo Ricci, il primo codificatore, non poteva certamente immaginare che le sue descrizioni sarebbero state usate da libertini e illuministi per tentare di rompere l’indissolubile legame tra morale e religione.
Da Matteo Ricci in poi, la Cina divenne protagonista per lungo tempo della cultura europea e le notizie provenienti dal l’Estremo Oriente furono la più grande importazione culturale di cui fu protagonista l’Europa di età moderna: comparare le antichità cinesi per riconciliarle con l’autorità della Bibbia e delle storia sacra; conciliare il modello della società cinese con le teorie politiche elaborate dagli intellettuali europei; ravvivare il dibattito sulla relazione tra religione e morale che da allora non si sarebbe più spento.