L’alterità cinese, a carte scoperte
In «Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente», François Jullien ribadisce ancora una volta che il grande paese asiatico è l’unico altrove possibile per il «noi» europeo. Ma, ribatte il sinologo Jean-François Billeter, questo è un mito che può trovare legittimità solo in un contesto filosofico
di Marco Dotti (il manifesto, 06.01.2007)
A dispetto delle critiche, talvolta molto dure, che di continuo gli vengono mosse, anche nel suo ultimo libro Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente (traduzione di Massimiliano Guareschi, Laterza, pp. 102, euro 10), François Jullien non esita a ribadire l’idea guida che sta alla base della propria ricerca. Un’idea che vede rappresentati nella Cina elementi critici e di rottura a tal punto autonomi, quanto a genesi, e inclassificabili, quanto a forme e sviluppo, da farne - secondo l’ex direttore del Collège international de philosophie, oggi responsabile del Centro «Marcel Granet» dell’Università di Paris 7 - l’unico, vero altrove possibile rispetto all’ordine dell’Occidente.
Chiunque intenda realmente uscire dal solco tracciato dai modelli e dal sistema di pensiero europeo, rivolgendosi così «fuori» e non semplicemente ai margini di tale percorso e al tempo stesso decida di abbandonare i punti di riferimento che gli sono familiari, addentrandosi in una sorta di «esteriorità delle lingua», della storia e della cultura, non ha alternativa che non sia rivolgersi all’apparente oscurità della Cina.
Una riflessione di Blaise Pascal, redatta a margine dei Pensieri, offre a Jullien lo spunto per soffermarsi sul percorso storico e sulla possibilità di comprendere, lontano dagli schemi dell’esotismo che dal sedicesimo secolo a oggi si sono succeduti, questa alternativa e la sua «oscurità» per molti versi sconcertante. «Chi è più credibile», si chiedeva Pascal, «Mosè o la Cina»? Benché Pascal, al pari di Montaigne, Voltaire, Leibniz o Hegel che pure ne scrissero, non vi si sia mai recato, attraverso quella semplice opposizione egli rivela di non ignorare la grande «forza di obiezione» che la Cina costituisce nei confronti del mondo europeo.
La forza della formula di Pascal risiederebbe appunto nel fatto di presentare il rapporto fra Cina e Occidente in termini di alternativa fra «due opzioni di pensiero e nel fatto che questa stessa alternativa è del tutto asimmetrica». A proposito di questa asimmetria, Jullien invita a osservare attentamente le figure messe in gioco da Pascal che se da un lato colloca Mosè, capace di simbolizzare «l’avventura dell’Europa attraverso il monoteismo», dall’altro non gli oppone alcuna immagine di un «padre fondatore», né Confucio, quindi, né Lao Tze ma «la Cina» stessa, intesa come spazio e conseguente apertura alla possibilità di un pensiero realmente «fuori quadro», rispetto agli schemi ordinari. Pensiero che non passa per la grande filiazione che, dalla tradizione ebraico-cristiana alla Grecia, «giunge fino a "noi, il "noi" europeo».
Al Libertino, suo doppio con cui nei Pensieri talvolta instaura un immaginario dialogo, Pascal farà poi pronunciare parole altrettanto significative e «efficaci», giocando sulla polisemia di un verbo, «obscurcir», che può indicare tanto il rendere incomprensibile qualcosa, quanto il gesto con cui il giocatore dissimula intenzioni e copre le proprie carte, durante una partita. «La Cina oscura» (obscurcit), si legge, «al che io rispondo: " Sì, la Cina è oscura, ma vi si può trovare chiarezza, cercatela"».
Come cercarla, dunque, questa chiarezza? A quali fonti rivolgersi, e soprattutto dove? È all’intelligenza, osserva Jullien, che Pascal affida la risposta, attribuendole il compito di «dissipare tutto ciò che può interporsi come uno schermo nebuloso fra il pensiero cinese e il nostro». Il ragionamento di Pascal sembra a sua volta chiarirsi grazie a quella che a Jullien appare come una vera e propria formulazione di un metodo: «Bisogna considerare tutto questo nel dettaglio, bisogna mettere le carte sul tavolo». Metterle sul tavolo, giocare a carte scoperte, corrisponde allora al moderno «lavorare localmente, con pazienza» attraverso una comparazione che non fugga più la frontalità, il faccia a faccia fra due sistemi di pensiero, ma soprattutto sappia seguirne ovunque le relative, talvolta insospettate diramazioni. Una comparazione, detto altrimenti, che cerchi i punti di frattura e non solo quelli di incontro fra le due culture.
Ma, nonostante i meriti delle sue intuizioni, almeno in questo contesto Pascal non si sottrae a una prospettiva ancora, suo malgrado, utopica. Dopo averlo fatto vacillare sotto il peso dell’altrove, il sistema stesso viene rimesso al suo posto. Ci si limita dunque a constatare l’esistenza di uno spazio lontano, di un luogo critico e fuori quadro, senza che tutto questo costituisca per il retroterra del pensiero europeo una «esteriorità» capace di porlo in discussione fin dentro le «sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato».
Jullien riprende la nozione di «esteriorità» da Foucault che, nel 1966, ne Le parole e le cose, chiosando un testo di Borges parlava di una «eterotopia» della Cina da distinguere dalla sua rassicurante «utopia». Se le utopie consolano, le eterotopie, scriveva Foucault, «inquietano, probabilmente perché minano segretamente il linguaggio, perché devastano la sintassi e non soltanto quella che costruisce frasi, ma anche quella, meno manifesta, che fa "tenere assieme"le parole e le cose"».
Non c’è da stupirsi che, proprio sul tema attorno al quale da anni Jullien articola le proprie indagini, si concentri una delle critiche più dure che, negli ultimi tempi, gli sono state rivolte. Quello dell’alterità radicale della Cina appare infatti a Jean François Billeter, sinologo e professore emerito dell’Università di Ginevra, un vero e proprio «mito», che può trovare la propria legittimità in un contesto propriamente filosofico ma che, se trasferito altrove, rischia di diventare un pericoloso vizio di forma, buono per tutti i tempi e per ogni occasione. Al pari del concetto di «efficacia» che, sviluppato dapprima in due dei suoi libri più noti, La propensione delle cose e Il trattato dell’efficacia, è stato infine sottratto al discorso tecnico e trasferito da Jullien in un «contesto manageriale e aziendale», con tutte le conseguenze del caso.
È singolare, afferma Billeter in Contre François Jullien (Allia, pp. 122, euro 6,10), libro che, a dispetto del titolo un po’ brusco, ha avuto il merito di sollevare una serie di critiche su questioni per nulla secondarie, che simile impostazione sia in qualche modo riconducibile alla visione della Cina tramandata dai primi gesuiti e che quella stessa visione sia stata dapprima avallata dai loro più feroci avversari - Voltaire su tutti - poi sviluppata «nella sua forma estrema» da letterati laici di primo ordine come Victor Segalen e infine accolta dalla maggior parte degli intellettuali francesi che vi intravedono «la continuazione dell’elitarismo repubblicano che si illudono di incarnare».
Billeter ritiene che, nel corso degli anni, il suo giovane collega abbia progressivamente annacquato le proprie posizioni, smettendo di «interrogare il pensiero dell’Occidente attraverso quello cinese», facendosi invece prendere la mano da ossessioni tutte sue e da quella che, a poco a poco, è diventata la raffigurazione immaginata di una terra promessa, altrettanto mitica e utopica di quella che si vorrebbe «liberare».
Questo sarebbe testimoniato anche dall’improvvisa e alquanto singolare iperattività dell’autore: dei ventitré volumi pubblicati da Jullien, diciotto sono stati editi proprio dopo il 1989. Non soffermandosi solo su fattori esterni, più che uno scontato pamphlet, Contre François Jullien si rivela però un prezioso strumento di riflessione che, anche quando non se ne condividono finalità, stile e presupposti, non sarebbe sbagliato leggere in contrappunto a Pensare l’efficacia o al più articolato e stimolante Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità (traduzione di Mario Porro, pp. 190, euro 13,50) recentemente apparso per l’editore Cortina.
Nella convinzione che solo critiche dure e precise siano quanto di meglio un autore possa chiedere, per allargare «una di quelle fessure» che, parafrasando lo stesso Jullien, stimolando l’opera, ne rinnovano anche la vita. Purché, per tornare a Pascal, le carte siano davvero tutte sul tavolo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
François Jullien, sul vivere
di Mario Porro (Doppiozero, 27 settembre 2021)
In principio il détour, la deviazione per la Cina. Non per esotismo di maniera, per seduzione ingenua dell’Altrove, ma per fare di quell’Altro assoluto costituito dal pensiero cinese un “apriscatole” grazie al quale accedere a quel che non pensiamo più a pensare: le evidenze che diamo per scontate, gli a priori nascosti, le rive in cui scorrono i nostri pensieri o l’occhio con cui guardiamo il mondo, avrebbe detto Wittgenstein. È così che François Jullien (nato nel 1951), esperto di filosofia greca, negli anni Settanta si stacca dall’“Europa dagli antichi parapetti” (Rimbaud, Il battello ebbro) per incontrare la cultura di matrice confuciana, formatasi in totale estraneità rispetto all’Occidente. La lezione proto-strutturale di Marcel Granet - l’autore di Il pensiero cinese (1934, Adelphi, 2018) - si arricchisce del ricorso all’“eterotopia” suggerita da Michel Foucault: solo facendo incontrare ciò che non si è mai incontrato, solo ponendosi a distanza (lo spaesamento di Lévi-Strauss), una cultura ha l’occasione di riflettere su di sé e sui propri impensati. Siamo chiamati, nell’epoca dell’uniformità globalizzata, a una vera decostruzione, quella che si opera solo muovendo dall’esterno: per “uscire” da noi stessi e rendere di nuovo inventiva la filosofia occorre entrare in un altrove. In caso contrario ci rimane sfuggente proprio quel che è più difficile da cogliere: “Possa Dio provvedere il filosofo di uno sguardo acuto per ciò che sta davanti agli occhi di tutti”, suggerisce il Wittgenstein dei Pensieri diversi.
Il faccia a faccia fra le due fonti - filosofia greca e religione ebraico-cristiana - della cultura dell’Occidente e la tradizione cinese non mira a far emergere differenze, secondo l’abusato gioco del comparativismo. Sfuggendo il pigro universalismo che ritrova nell’altro sempre se stesso e che estende all’umanità intera le categorie formatesi nello sviluppo contingente dell’Occidente, l’uso filosofico della Cina proposto da Jullien si pone l’obiettivo di far emergere scarti concettuali, grazie ai quali disfare le “pieghe” già tracciate nel campo del pensabile. Gli scarti aprono una dissidenza all’interno della filosofia, fanno rinascere l’inquietudine e mettono in tensione il pensiero: sfruttando le risorse offerte da concetti nomadi, costruiti nello spazio “tra” forme diverse d’intelligibilità, diventa possibile aprire varchi su campi inesplorati.
Lungo questo percorso, scandito ormai da più di 40 testi (quasi tutti tradotti in Italia), l’opera di Jullien - docente all’Università di Parigi 7, dove dirige l’Institut de la Pensée contemporaine - restituisce un margine di manovra alla filosofia - incagliata nel riproporre le sue antiche domande -, a cui affida una vocazione nuova, trans-culturale e trans-linguistica. La cultura della Cina è passata accanto ai concetti forti del nostro pensiero: ha accantonato la riflessione sull’Essere, su Dio, non ha fatto della Verità un’ossessione, né si è affidata al potere della Parola. Il suo mondo non conosce il logos, quantomeno nelle modalità elaborate da Platone e Aristotele, forse perché è rimasta pressoché indifferente di fronte al mythos e all’epopea.
Nel cantiere sempre aperto di Jullien si è via via rarefatto il confronto tra filosofia e pensiero cinese, esemplarmente promosso in Il saggio è senza idee (Einaudi, 2004), o in Strategie del senso in Cina e in Grecia (Meltemi, 2004). La Cina continua ad agire, ma in modo sotterraneo, offrendo “risorse” per “filosofare in altro modo”, soprattutto per (tornare a) pensare quel che da noi la filosofia ha tralasciato, vale a dire il vivere stesso. Philosophie du vivre (Gallimard, 2011, il solo scritto rilevante di Jullien non tradotto in italiano) indicava fin dal titolo l’apertura di un “ciclo” relativo a ciò che ostinatamente resiste all’astrazione e al concetto: vivere e non “la vita”, nozione già astratta, che si può ritagliare e disporre lungo un segmento con inizio e fine. La filosofia, rileva Jullien, essendosi affidata all’Essere e alle sue categorie, non ha poi trovato le risorse per accostare quel che si può intendere solo in termini di processo, come ben sapeva Hegel: “das Leben als Prozess”. Come accedere dunque al vivere se questo non si lascia porre a distanza come “oggetto” di conoscenza, essendo ciò in cui ci si trova coinvolti fin dall’inizio e da sempre implicati?
Questo nuovo ambito di riflessione è in realtà l’esito di un percorso che risale lontano, già avviato in Processo o creazione, il primo libro di Jullien tradotto in italiano (1989, Pratiche, 1991). I missionari gesuiti, giunti in Cina a fine Cinquecento con l’obiettivo di convertire al Cristianesimo gli intellettuali di corte (vecchio sogno diffuso da Marco Polo), non trovarono un ideogramma per tradurre il termine “creazione”, ignoto alla lingua-pensiero della Cina. L’idea di un Assoluto trascendente, in grado di compiere il passaggio dal Nulla all’Essere, non ha fatto presa, non ha assunto consistenza: la nozione arcaica di un “Signore dell’alto” si è poi tradotta nel Cielo, che non equivale al divino, all’aldilà, ma è il partner dell’opacità materiale della Terra nel promuovere il rinnovarsi continuo del mondo, istanza regolatrice del processo che si rivela nel corso regolare della natura. Non c’è dunque posto per l’immagine del Dio benevolo della Genesi che agisce in vista di un fine, o del Demiurgo platonico che plasma il mondo in base a un modello ideale di perfezione.
La Cina non si inquieta dell’origine, dell’arché da cui hanno preso avvio l’interrogare filosofico e, prima ancora, i miti cosmogonici, come la Teogonia di Esiodo. Quelli che impropriamente chiamiamo Dialoghi di Confucio (fra il VI e il V secolo a.C.) si dichiarano indifferenti all’indagine sulla physis, e anche i due grandi classici del taoismo - il Tao the Ching, “Classico della Via e della Virtù”, che la tradizione attribuisce a Laozi, il “maestro venerabile”, e lo Zhuangzi - restano in silenzio sulla questione. La realtà è un processo continuo scandito dall’alternanza di fasi opposte e complementari - fasi e non elementi, come erano le radici di Empedocle o gli atomi dei presocratici. La dualità di forze differenti promuove la tensione reciproca che tiene costantemente in moto il mondo, seguendo la Via, il Tao: yang, il maschile, tende all’espansione, yin, il femminile, alla concentrazione, di qui l’alternarsi di inspirazione ed espirazione il cui modello è il moto del drago. La dualità, e non il dualismo, di forze in interazione si manifesta nel ciclo inesauribile delle stagioni; il corso regolare della natura è il fondo di senso, il fondo di evidenza della cultura confuciana, certo derivato dall’essere stati i Cinesi un popolo di coltivatori, attenti alla fecondità della Terra.
La tradizione ebraico-cristiana sorge fra popolazioni di pastori in cui l’intervento diretto dell’uomo, attraverso comandi e costrizioni, è determinante. Da noi la parola è azione, anche Dio “fa essere” pronunciando il “fiat”: in principio era il verbo, dice il Vangelo di Giovanni, e la stessa Rivelazione passa attraverso la parola o la parabola.
L’agricoltore invece confida che il risultato si ottenga da sé, una volta innescate le condizioni per lasciar evolvere il processo di maturazione. L’immagine più pertinente ci è fornita dalla crescita delle piante, ricorda Mencio (IV secolo a.C.), erede spirituale di Confucio: non bisogna tirare i germogli per farli crescere, nemmeno però si deve tralasciare di sarchiare per farli spuntare.
Se il pensiero della creazione valorizza l’istanza volontaria del soggetto agente, nell’intelligenza strategica della Cina l’importante è lasciar fare, agire in modo discreto, nei primi momenti, evitando la spettacolarità delle gesta eroiche o titaniche (si veda Trattato dell’efficacia, Einaudi, 1998). Ci si attende l’effetto dalla logica interna al processo stesso, dalle sue sole “propensioni”: il termine, usato da Longobardi, il gesuita siciliano che raccolse l’eredità missionaria di Matteo Ricci, viene ripreso da Leibniz e, più vicino a noi, dal Popper che riflette sulla svolta della fisica del Novecento. È questa la funzione assolta dal Classico delle mutazioni (I Ching), un testo le cui origini divinatorie risalgono probabilmente al IX secolo a.C., su cui Jullien si è soffermato in Figure dell’immanenza. Una lettura filosofica del I Ching (1993, Laterza 2005). Gli esagrammi formati da linee continue (yang) o spezzate (yin), ottenuti dal combinarsi degli steli di achillea, forniscono indizi sullo stadio germinale in cui già è presente, anche se ripiegato e latente, il futuro che sta per rendersi manifesto.
La radice ji del titolo indica appunto l’infimo inizio, l’impercettibile avvio del processo regolato da una coerenza interna (li), in cui si esprime l’energia universale (qi). Il saggio (e lo stratega) può così “sposare” la propensione contenuta nel potenziale di situazione, cogliere in ogni venatura o fibra del processo un “innesco” della trasformazione a venire. L’occasione che si offre non è il Kairos divinizzato dai Greci, l’istante fuggevole in cui il caso apre lo spazio per l’audacia dell’azione; è invece la congiuntura favorevole, il momento propizio con cui porsi in sintonia, senza le forzature dell’agire arrischiato che vuole imporre i suoi progetti al mondo. In quella sorta di dizionario che è Essere o vivere (Feltrinelli, 2016), dove Jullien pone in tensione gli “scarti”, non le differenze, che il suo cantiere ha aperto fra la cultura cinese e quella dell’Occidente, la prima delle venti coppie oppositive è appunto “Propensione (vs Causalità)”. Il sapere europeo è dominato dal regime della causalità: scire est scire per causas, diceva la scolastica sulla scia di Aristotele, rendiamo conto di qualunque ente attraverso ciò che lo determina da fuori, a partire dalla linearità del contatto o dell’urto. La causa è principio della cosa, solo grazie alla prima possiamo giungere all’esplicazione della seconda. Nel pensiero della Cina le cose non “sono”, ma “propendono”, si inclinano in avanti producendo il rinnovamento, secondo una logica interna di implicazione.
Il pensiero della creazione apre il fossato tra la perfezione del Creatore e la corruzione delle creature, implica una distinzione di piani fra l’eterno e il divenire, un fossato che filosofia e teologia cercheranno in tutti i modi di colmare: servirà un “terzo uomo”, secondo la critica di Aristotele al maestro Platone, oppure il mediatore, Cristo, fra divino ed umano. Nella tradizione idealista della nostra filosofia, il dualismo fra mondo sensibile e ideale, reso esplicito in Platone (si veda L’invenzione dell’ideale e il destino dell’Europa, Medusa, 2011), si è spesso tradotto nella condanna del vivere terreno: dal mito platonico della caverna a Schopenhauer, il visibile ha finito per tradursi in apparenza e illusione, mentre la vera realtà è affidata a quanto resta invisibile ai sensi. Nel pensiero confuciano, al contrario, l’invisibile non assume connotati religiosi o meta-fisici: è il piano della latenza che contiene il dispiegarsi dei possibili a venire. Il vuoto non è ontologico non-essere, è un vuoto funzionale, l’ambito della disponibilità di cui si alimenta il processo: il vuoto al centro dell’assale permette alla ruota di girare, il vuoto all’interno del vaso permette di contenere, ricorda il Laozi.
In questo pensiero dell’immanenza non esiste evasione possibile dalla realtà materiale né condanna dei legami col mondo terreno, come sogna il buddismo (che giunge in Cina da Occidente, dall’India), nel Nirvana in cui trova termine il ciclo delle reincarnazioni.
La Cina non ha pensato l’eterno, l’Essere fuori dal tempo, bensì il costante, cioè il procedere continuo delle cose per alternanza: non coltivando il culto dell’Essere, non ha neppure immaginato di squalificare il divenire soggetto al tempo corruttore. Invece di fare del Tempo un’astrazione, un involucro omogeneo al cui interno disporre il succedersi degli eventi, la Cina, ha spiegato Jullien in Il tempo. Elementi di una filosofia del vivere (Luca Sossella, 2002), ha pensato il momento stagionale e la durata. E questo non si deve al fatto che i Cinesi avrebbero lo spirito concreto, come spesso si è detto (Hegel docet) e neppure per ragioni implicite alla loro lingua, che non coniuga e non distingue i tempi verbali. Quando hanno introdotto il termine “tempo” nel XIX secolo, a contatto con l’Occidente, si sono serviti di un ideogramma traducibile come “fra momenti”: le differenze qualitative che scandiscono, con le variazioni stagionali, il corso della natura fanno del tempo un succedersi regolato di momenti, grazie ai quali viene pensata in primo luogo la continuità della transizione e del passaggio.
Il tempo non si costituisce così in soggetto-agente indipendente, non viene astratto, cioè estratto, dal costante rinnovarsi del mondo: la personificazione del tempo, Kronos o Saturno che divora i suoi figli, è l’eredità che il pensiero mitico ha lasciato alla filosofia (residuo inconfessato di una trascendenza mai abolita). Quando gli dei si ritirano, il Tempo li rimpiazza conservando in sé lo status di un potere onnipotente, di cui subiamo l’azione distruttiva.
In opposizione alla distensione temporale tra inizio e fine, entro la quale l’Occidente ha pensato il tempo della vita, facendola precipitare verso la sua Fine, la Cina ha pensato la processualità secondo una logica della transizione e della durata. Diceva Bergson che vivere è invecchiare, ma dell’invecchiare non si danno inizio e fine, ma solo corso indistinto: la transizione avviene in ogni momento e l’evento è riassorbito nella continuità silenziosa del processo, scandito da piccole trasformazioni tanto più efficaci quando più restano inavvertite (Le trasformazioni silenziose, Cortina, 2010). La nascita non è passaggio dal nulla all’essere, ma rendersi manifesto di ciò che era latente, ed il morire non è annullamento, ma rendersi latente di ciò che prima era manifesto.
Nascendo semplicemente si diventa uomini, morendo si ridiventa Cielo-Natura, cioè si torna al fondo di latenza del processo da cui sorge ogni esistente. In questa prospettiva, vivere è dell’ordine della transizione che si dispiega nella coincidenza con ogni momento particolare, come suggerisce un aforisma di Montaigne, uno dei pochi in Occidente ad aver raccolto il lascito della saggezza: “Il nostro grande e glorioso capolavoro è quello di vivere a proposito”. Pensare la vita sotto il giogo del Tempo apre il senso del tragico, pone ogni esistenza, fin dal suo sorgere, sotto il destino dell’inevitabile annientamento; scorgendo nel Tempo una continua fuga in avanti per colmare il vuoto del presente, la questione del Senso, che assilla l’Occidente, sfocia inevitabilmente nel mistero dell’oltre o, con la modernità, nella convinzione dell’assurdità dell’esistenza.
Pensare il vivere secondo il momento ci apre invece al rinnovarsi senza fine delle differenze che costantemente si offrono, si traduce in invito ad accogliere in modo sereno il corso della realtà, restando disponibili alle sue opportunità. Credendo di afferrare qualcosa di originario ed universale, Heidegger scorge il senso del Dasein nella temporalità; ma che l’esistente umano, gettato nel mondo, sia in cammino verso qualcosa e che nel suo pro-gettare anticipi la propria fine, suona conferma dei presupposti di una tradizione, del sentimento ebraico-cristiano del peccato originale che ci fa avvertire estranei al mondo. La sua tesi affonda nella piega europea del tempo, sconta il “debito impensato” nei confronti della tradizione ebraica, secondo la formula proposta da Marlène Zarader (Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, Vita e Pensiero, 1995).
Il saggio, al contrario, non mira a costituire un soggetto “autentico” cercando risposte al senso dell’esistere: lascia l’iniziativa al “momento” del mondo, il suo vivere appartiene alla natura e non richiede giustificazioni. L’uomo saggio “respira con i talloni” (Zhuangzi), cioè fa in modo che tutto il suo essere resti disponibile al processo, si mantenga in fase con le sue incitazioni. Non sarà dunque l’angoscia il sentimento che caratterizza l’esistenza umana; il mondo non si svela come estraneo, ma come invocante, da esso siamo accolti e invitati fin dalla nascita. All’Occidente prometeico, che drammatizza il suo agire nella prospettiva heideggeriana della cura e dell’essere per la morte, il saggio confuciano risponde praticando la noncuranza, non intesa come fuga o dimenticanza, ma come de-preoccupazione, come costante e spontanea adesione al momento, serena sintonia con il vivere a cui la morte stessa è integrata.
François Jullien, pensare il vivere
Contraddizione e singolare
di Mario Porro (Doppiozero, 07.10.2019)
Nell’ambito del “Progetto Casa dei Saperi - Nuove Utopie”, la Fondazione Adolfo Pini di Milano ha promosso un ciclo di incontri in cui, grazie ad un team curatoriale under 35, potessero confrontarsi giovani provenienti da differenti ambiti professionali. Sul tema ispiratore, l’esigenza di ripensare nuove forme del vivere insieme, si sono soffermati, fra gli altri, il filosofo Federico Campagna e lo psicoanalista franco-argentino Miguel Benasayag, noto per L’epoca delle passioni tristi. Sabato 21 settembre è toccato al filosofo e sinologo François Jullien tenere un seminario dedicato a L’intimità come eutopia: sapere essere nell’incontro. Gli ultimi scritti di Jullien, Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore (Raffaello Cortina 2014), Accanto a lei. Presenza opaca, presenza intima (Mimesi, 2016), pongono a tema la minaccia che grava sulla relazione di coppia, la presenza dell’altro che si traduce in opacità e pienezza abitudinaria. Il ricchissimo e sempre innovativo cantiere filosofico di Jullien torna a interrogare questioni che la filosofia ha in genere eluso: il privilegio attribuito a categorie di pensiero connesse alla logica dell’essere e dell’identità le ha impedito di rivolgersi a quanto rimane ambiguo, alle situazioni incerte che si pongono “tra”, in cui convivono caratteri contraddittori. La filosofia ha pensato la vita, eretta a sostanza, ma non il vivere come processo, l’esistenza come continuo rinnovarsi, quell’ex-sistere che non coincide mai con se stesso, perché solo la de-coincidenza lo mantiene in sviluppo: questione al cuore del suo libro più recente, Il gioco dell’esistenza (Feltrinelli, 2019).
Al termine del seminario, François Jullien con l’abituale cortesia si è reso disponibile a rispondere ad alcune domande.
Lei aveva promesso fin dai suoi primi libri che la deviazione per la Cina serviva a preparare un ritorno alla cultura dell’Occidente. Il suo utilizzo metodico della saggezza di tradizione confuciana e taoista svolgeva funzione di spaesamento, era un modo per prendere distanza dalla filosofia al fine di svelare gli assunti impliciti della nostra razionalità, le rive in cui scorrono i nostri pensieri. Grazie a questa vera e propria riflessione, al faccia a faccia fra la Cina e l’Occidente (che abbiamo conosciuto nel Trattato dell’efficacia, in Il saggio è senza idee, entrambi tradotti da Einaudi, in Parlare senza parole. Logos e tao, Laterza, in Nutrire la vita, Cortina, e l’elenco potrebbe continuare), si aprono scarti, più che differenze, che permettono di problematizzare il pensiero e sfociare su qualcosa di impensato. In effetti, nei suoi ultimi scritti i riferimenti al pensiero cinese si riducono, come se quest’ultimo restasse soggiacente, pur continuando a sfruttarne le risorse.
In primo luogo, se penso al mio percorso in termini di deviazione (detour) e ritorno (retour), quel che mi sembra importante è che la deviazione è al tempo stesso un ritorno e quest’ultimo non avviene dopo. Se così non fosse, non si tornerebbe mai, perché non la si finirebbe mai una volta entrati nella Cina. Ma credo che il mio lavoro abbia conosciuto un secondo tempo, così come ho parlato di una “seconda vita” [titolo del libro tradotto da Feltrinelli nel 2017], e che il mio progetto sia stato un progetto da filosofo, non da sinologo, da filosofo che può prendere distanza dalla Grecia e che cerca uno scarto per rispondere, o meglio, non proprio rispondere, ma per pensare quel che chiamiamo la verità dei Greci, la loro eredità, da cui non siamo usciti. Sono dunque passato dalla Cina, dalla sua esteriorità rispetto a noi, ma avevo sempre in mente il mio progetto filosofico, progetto generale, come ogni filosofia ... Dunque, c’è in effetti un secondo tempo del mio lavoro in cui penso di avere meno bisogno di lavorare sui testi cinesi, cosa che ho già un po’ fatto, e che posso tornare a raccogliere delle sfide filosofiche. Ora, la Cina è sempre presente nel mio lavoro, costituisce un operatore teorico, ma non viene molto tematizzata in quanto tale. D’altra parte, nel mio cantiere propriamente sinologico, la questione del vivere era già all’opera. Dunque si tratta per me, in questo secondo tempo, a partire dal mio cantiere tra il pensiero cinese e quello europeo, di far lavorare tutto questo per riprendere questioni filosofiche, appoggiandomi sul lavoro precedente, in modo da lavorare il campo filosofico europeo osando più di quanto la filosofia faccia abitualmente. L’intimo è proprio questo, perché l’intimo è il concetto che più resiste al concetto. Quel che cerco di fare in questo secondo tempo del mio lavoro, che fa seguito al primo, è di aprire dei nuovi possibili.
La prima fase del suo lavoro ha mostrato come sia possibile porre a confronto culture profondamente diverse, farle dialogare, superando anche la dibattuta questione del relativismo. Al tempo stesso, Lei sostiene l’urgenza di uscire dalla retorica del “dialogo fra le culture”, sempre auspicato e raramente praticato, anche perché ci si attiene a categorie tipiche dell’Occidente, come la nozione di identità, mentre, come dice il titolo di un suo libro, l’identità culturale non esiste (Einaudi, 2018). Ed è un problema che riguarda anche l’unificazione europea, il cui sogno ha perso indubbiamente il suo slancio di fronte al prevalere delle esigenze di mercato e al risorgere dei nazionalismi.
In effetti è così. Ora, dia-logos in greco evidenzia con il dia- lo scarto e la separazione, se no non sarebbe un dialogo ma un monologo. Il dialogo è fecondo perché c’è lo scarto ed anzi tanto più fecondo quanto più vi sono degli scarti in gioco. E un dialogo richiede un percorso, non è immediato, bisogna sviluppare le condizioni di possibilità del dialogo ed è un lavoro progressivo. Per quanto riguarda l’Europa, posto che davvero si voglia fare l’Europa, è esplorando i suoi scarti culturali e rendendo tali scarti dialoganti in modo fecondo che si potrà costruirla. L’Europa può farsi solo a partire da un dialogo che è in primo luogo culturale. È una questione a cui tengo, perché vi è un’antica tradizione per la quale la cultura è ciò che viene dopo, prima c’è l’economia, la società, come voleva il marxismo. Quel che viene prima è la dimensione culturale, la dimensione economica e quella sociale vengono dopo, e questo vale anche per i rapporti con la Cina. Io credo che l’Europa si potrà fare se essa saprà apprezzare le proprie risorse culturali e trarre partito dalle proprie differenze, di lingua e di pensiero, soprattutto di lingua. Si tratta di attivare le risorse delle lingue, di quella italiana come di quella francese. Io non difendo soltanto il francese, difendo le lingue dell’Europa, le considero sullo stesso piano, come le differenze di culture. Credo che vi sia qui qualcosa di decisivo perché si possa davvero fare l’Europa.
Il processo di formazione dell’Europa si è anche bloccato sul dibattito relativo alle sue radici, nozione che Lei ritiene pericolosa perché rischia di imporre statiche identità settarie. Lei ha spiegato che sarebbe meglio parlare di risorse, che si possono sfruttare, di qui il titolo Risorse del cristianesimo (Ponte alle Grazie, 2019), un saggio in cui rilegge il Vangelo di Giovanni dalla prospettiva della vita. E la risorsa fondamentale del cristianesimo è l’ideale dell’incontro con l’altro come colui che permette di uscire da sé.
Qui mi allontano da quella che è stata la via principale di lettura critica del cristianesimo in Europa, quella di Feuerbach, per il quale il cristianesimo è interpretato a partire dal miracolo, dunque in relazione al conflitto fra razionalità e irrazionalità. Giovanni non usa il termine “miracolo”, parla di “segno” e pensa il cristianesimo come rapporto con l’altro, che egli chiama Dio. E quel che produce questo rapporto all’altro è la capacità di tenersi al di fuori di sé, cioè propriamente ex-sistere, esistere. Credo che la grande originalità, la specificità del cristianesimo stia nel pensare, in greco, l’altro in modo totalmente diverso dalla filosofia greca. Per la filosofia greca, l’Altro non è che il contrario dello Stesso, l’altro dialettico, platonico. Ma questo non è per nulla il pensiero di Giovanni. Quel che mi interessa è appunto il modo in cui Giovanni apre dei possibili in greco in senso contrario, ovviamente senza saperlo, rispetto alla filosofia greca, perché nella tradizione ebraica e cristiana l’altro è l’altro che si incontra, è l’altra persona, come nella parabola del Samaritano. E questo è legato alla possibilità o meno dell’incontro, alla sua difficoltà, al suo carattere vertiginoso; ed è qualcosa di totalmente diverso rispetto alla logica greca, dei Sofisti e di Platone. Credo che il cristianesimo, se vuole riflettere su se stesso, debba ripartire da qui, da questo possibile che esso apre, quello di pensare, in greco, l’apertura all’altro. E l’intimo è proprio questo, l’apertura ad opera del cristianesimo all’altro in quanto altro, come spiega Giovanni - “io sono nel Padre e il Padre è in me”, io sono in te: cosa significa essere nell’altro, tenersi in sé nell’altro, ed è questo propriamente e-sistere.
Lei mi chiede di questo libriccino, a cui ho dedicato molta cura e che mi ha procurato anche molte noie, che certamente ho meritato, ma ci sono stati duemila anni di cristianesimo che hanno fatto di tutto per rendere non interessante il testo di Giovanni, a partire dalla traduzione. Nel prologo del Vangelo di Giovanni troviamo scritto egheneto, che significa “avvenne”, e il traduttore si industria a variare questo termine, mentre bisogna conservarlo nella ripetizione che forma un concetto. Si tratta di pensare l’avvento, il rapporto con l’altro, pensare l’esistenza, e dunque si tratta di risorse e di risorse attive. Lo stesso vale per la distinzione fra psyché e zoé; non capisco, pur non essendo cristiano come molte altre persone, che mi si faccia leggere la frase di Giovanni “Chi ama la propria vita la perde” come una formula che non si comprende in francese. Ma se mantengo la distinzione, “chi ama la propria vita” in quanto psyché, il semplice essere in vita, “perde la sua vita”, in quanto pienezza di vita, zoé in greco, allora capisco. E quando al contrario trovo scritto che “chi rinuncia alla propria vita (nel senso di vitale, psyché) si apre alla vita (vivente, zoé)”, allora comprendo e molto bene. Trovo aberrante che si sia conservata una non intelligenza del testo biblico, in questo caso evangelico, mentre in greco la cosa è chiara, netta. È davvero qualcosa di inaccettabile.
In quel piccolo libro sostengo che la questione di credere o meno non è importante e che l’Europa si disfa perché non sa farsi carico della questione cristiana, su cui ci si spacca, in Francia e altrove. Trovo dunque che vi sia una responsabilità storica in merito a questo, una responsabilità che ha dimensione politica perché, se si vuole fare l’Europa, bisogna in primo luogo stabilire, decidere, cosa se ne vuole fare del cristianesimo. Eredità difficile, certo, scomoda, ma la questione da riprendere non è quella di credere o meno; mentre, se non si comprende il messaggio di Giovanni quando dice che vi sono psiché e zoé, cioè la vita del vitale e la vita del vivente, se ne fa qualcosa a cui si deve semplicemente credere. Dunque la fede diventa il prodotto di una incomprensione prodotta dalla lettura del testo. Ritengo che si debba farla finita con tutto questo, uscire dalle critiche antiche al cristianesimo, alla Feuerbach, alla Spinoza, e dire che il cristianesimo è qualcosa d’altro, il pensiero dell’altro, dell’altro nel suo incontro, nel suo incontro impossibile: è quel che dice il racconto evangelico. Occorre ripensare il cristianesimo come risorsa, non come sorgente [source], ma come ressource, cioè una sorgente che torna, che riemerge, che non si spegne. E trovo che questa mancata comprensione abbia conseguenze politiche disastrose, in merito alla nostra capacità di fare l’Europa.
François Jullien, pensare il vivere
Contraddizione e singolare
di Mario Porro (Doppiozero, 07.10.2019)
La riflessione sul Vangelo di Giovanni si connette a quell’oggetto nuovo che Lei propone alla filosofia, anche per suggestione del pensiero cinese, che è il vivere, non tanto la vita, elevata a sostanza, ma il vivere come processo, ciò che da noi si è faticato a pensare. Da dove sorge tale difficoltà?
Credo che vi sia una ragione di fondo ed è che, a partire dai Greci, pensiamo il vivere in termini di essere e che l’Essere implica una doppia scelta, la scelta del concetto, e quindi l’eliminazione del singolare, e la scelta della non-contraddizione. Ora, vivere è questione che attiene al singolo, non si può pensare che al singolare, e vivere è nella contraddizione, vivere attiene al contraddittorio, all’ambiguo, a tutto ciò che sconvolge il pensiero della separazione essere non-essere, ecc. Il pensiero dell’Essere ha imposto delle scelte, bisogna andare in cerca di ciò che è identico, stabile - la bebaiotès di Platone, la stabilità dell’Essere. E poiché i Greci hanno pensato in termini di Essere, hanno lasciato cadere il vivere, propriamente lasciato cadere a vantaggio dell’Essere. Essi in effetti non hanno assunto, fatto propria, la vertigine del pensiero della contraddizione e del singolare. Penso allora che vi siano delle condizioni, non dico delle ragioni, per cui la tradizione europea non ha pensato il vivere... Ed oggi, di fronte al ritrarsi del religioso, vivere non è più pensato, se ne fa carico la pubblicistica della “crescita personale”, il mercato della felicità, ecc., che invade le librerie, in Italia come in Francia.
E tale difficoltà permane nella filosofia dell’esistenzialismo, a suo parere, sia Heidegger che Sartre riflettono sull’esistenza a partire dall’Essere?
Certamente, perché si resta nell’ontologia e finché si resta nell’ontologia, finché si assumono le categorie dell’Essere non ci si può accostare al vivere. Ora l’esistenzialismo lo ha affrontato nei termini del patetico, del drammatico, che conosciamo bene, ma direi che tutto quanto sostengo a proposito del concetto di esistenza è del tutto lontano dall’esistenzialismo. Dunque la questione è come uscire dai termini dell’essere per pensare il vivere, cioè il singolare, il contraddittorio, l’ambiguo e tutto quanto ne consegue...
Mi chiedo però se Heidegger non fosse presente nella sua rilettura della tradizione confuciana, in particolare in merito al tema del Fondo da cui il processo della natura si genera di continuo. Mi chiedo se certe nozioni heideggeriane, apertura, svelamento, ecc., non abbiano influito sulla sua pre-comprensione della realtà intesa come processo, propria della cultura cinese, ma che appartiene anche alla natura, physis, dei pre-socratici. Me lo chiedo anche in base a quanto Lei scrive in Philosophie du vivre, (Gallimard, 2011): “Ho seguito il suo [di Heidegger] pensiero per un certo periodo, ma qui [cioè, a proposito del vivere] debbo abbandonarlo”.
Credo di poter dire di no, Heidegger non ha influito sulla mia lettura dei Greci, anche se effettivamente egli ha recuperato la tradizione pre-socratica e l’ha tolta dalla rimozione prodotta da Socrate e da Platone. Dico di no perché se si tratta di uscire dai termini dell’Essere, questo è proprio quel che Heidegger non ha fatto. La scelta in fondo è fra il ripensare il pensiero dell’Essere, ed è quel che lui ha fatto, senza uscirne, e l’uscirne, che è poi la mia prospettiva. Penso che Heidegger sia certamente importante per lo sforzo che ha compiuto per far uscire il pensiero dell’essere dalla banalità, dalla trivialità in cui era caduto, e ritrovarvi un’aspirazione, un’esigenza mai affrontata fino ad allora... Ma è comunque rimasto nel solco dell’Essere, mentre il mio sforzo era di uscirne e c’era la Cina come supporto teorico.
Lei può legittimamente pensare che Heidegger abbia influito sulla mia lettura della physis e dell’apertura, ma io ero sensibile al tema della physis perché negli Stoici essa è pensata staccandosi dal pensiero dell’Essere. Gli Stoici hanno suscitato il mio interesse perché sono stati i primi pensatori greci a staccarsi dal pensiero dell’essere, in merito alla physis come capacità generante. Non a caso già in Processo e creazione (Pratiche, 1991) un capitolo è dedicato allo stoicismo, in quanto presenta analogie con la cultura cinese. Posso dirlo perché ne ho avuto conferma dai sinologi (con cui mi sono formato), dunque qui non c’è nulla di heideggeriano. Uscire dai termini dell’Essere pone una difficoltà radicale, così come pensare il tempo e quel che mi dava problema era come fare intendere a un Francese, a un Europeo, quel che leggo in cinese, che è semplice in cinese, ma che non appena lo riporto in una lingua europea presuppone l’essere, in un modo o nell’altro. Dunque, posso dire serenamente che Heidegger non mi è servito di appoggio ed anzi, nel mio lavoro, mi è stato necessario decostruire Heidegger per poter cominciare a sviluppare quel che era il mio pensiero.
Accanto alla questione del vivere, i suoi ultimi scritti si soffermano sul tema dell’intimo, anch’esso inaudito in filosofia e su cui si è svolto oggi il suo seminario. La filosofia ha pensato l’amore e la passione, ma non quella condizione ambigua, paradossale, dell’interiorità più profonda che si apre al rapporto con l’Altro. Le chiedo se questa sua riflessione sull’intimità sia anche conseguenza delle difficoltà a pensare quel che è comune, ai modi in cui può costituirsi una comunità (problematica centrale del pensiero contemporaneo, in Francia come in Italia) che eviti le forme risorgenti di neo-tribalismo identitario.
Se mi interesso dell’intimo è in primo luogo per sviluppare un pensiero, un concetto, in relazione a ciò che più resiste al concetto. Si tratta in ogni modo di comprendere l’ambiguità, non l’equivoco, perché quest’ultimo bisogna tralasciarlo semplicemente, mentre l’ambiguo occorre affrontarlo, ed è appunto il caso dell’intimità. In effetti, si tratta per me anche di prendere le distanze dal tema della comunità, perché non credo che l’intimo sia portatore di qualcosa di comune al di là del due, del tre. Ci tengo a distinguere in tal senso fra intimo e connivenza, e il primo è qualcosa di specifico, di inaudito che non rientra nel pensiero della comunità. Ed è per questo che ho pensato ciò che è comune non a partire dall’intimo, ma a partire dal diverso, dallo scarto, dal “tra”, ecc., e non di identità culturale [si veda L’universale e il comune, Laterza, 2008]. L’intimo mi appare qualcosa di simile a un concetto di lotta, per dirla in tedesco Kampbegriff. Intendo intimo in opposizione all’inazione, al sentirsi alienato, anonimo, senza faccia a faccia, in seguito al mercato e ai danni della globalizzazione. L’intimo iscrive di nuovo il faccia a faccia, l’altro, ma l’altro in quanto interno a me. L’altra cosa per me rilevante è che l’intimo non dipende da una prescrizione - non si può imporre l’intimo -, ma da una descrizione, etica, ed è per questo che qui si gioca qualcosa di molto importante per me, cioè il rapporto con il letterario. Non è che la letteratura venga ad illustrare la filosofia, ma letteratura e filosofia cooperano sul pensiero dell’intimo.
Michel Serres ha scritto che “solo la filosofia può andare tanto in profondità da dimostrare che la letteratura va ancora più in profondità di lei”. Nei suoi libri, professor Jullien, e direi in maniera crescente negli ultimi, si moltiplicano i riferimenti alla narrativa e alla poesia, Proust, Stendhal, Simenon, con cui apre Sull’intimità. È nella letteratura che la filosofia deve cercare il pensiero di quelle situazioni ambigue che per lungo tempo ha rimosso?
Per una volta sono d’accordo con Serres che, purtroppo, è progressivamente scivolato verso una sotto-filosofia, da nonno che stravede per i nipoti; ha venduto molto, ha ceduto a quel che concedono i media. Direi che nell’età moderna, la letteratura, come l’arte e la pittura, pensa e la filosofia non ha l’esclusiva del pensiero; direi anzi che pensa più radicalmente della filosofia, non concepisce, pensa. La letteratura e l’arte colgono, captano in profondità, talora a una profondità abissale, e dunque compito della filosofia è riflettere su ciò che esse colgono, mettere in concetti quel che la letteratura esplora nel modo più profondo possibile. E questo vale in particolare per la poesia, per Rimbaud, o per il romanzo. Questo significa da un lato una cooperazione fra i due ambiti, ad esempio nel mio libro tornano spesso Proust, Stendhal, Rimbaud; cooperare, non illustrare; non si tratta di distrarre il lettore. Dall’altro, a proposito dell’intimo, dell’ambiguo, ecc., la filosofia deve cercare di tradurre in concetti questi temi e di consentire di leggere Stendhal con il beneficio di un chiarimento concettuale. Tanto più che quando Stendhal parla dell’intimo ne parla male, e infatti, nel capitolo di De l’amour che ha per titolo “L’intimità”, parla di tutt’altro in realtà, dell’artificialità della relazione amorosa e resta appunto sotto la luce dell’amore. -Mentre il mio lavoro sta appunto nel far uscire l’intimo dalle questioni dell’amore. Dunque si tratta di riconfigurare quel che attiene alla filosofia. La filosofia è nell’avvenire, non tanto per riportare sulla scena i soliti famosi problemi, anche se la filosofia è un fatto singolare, che può anche morire... Mi sembra che proprio da questa cooperazione con la letteratura e l’arte possa risorgere una vocazione della filosofia. Quale vocazione? Proprio quella di pensare il vivere, e infatti il mio prossimo libro ha per titolo De la vraie vie, La vera vita. Ho la sensazione che, essendosi la filosofia sbarazzata del vivere per averlo pensato in termini di essere, essendo in fase di arretramento il religioso, che se ne è fatto carico in ambito europeo - come scrive Giovanni “io sono la via, la verità, la vita” -, il vivere sia lasciato al mercato della felicità e di tutte le sciocchezze che porta con sé. È tempo che la filosofia si faccia nuovamente carico della questione del vivere per chiarirla sulla base dei suoi concetti. E “vera vita” è appunto questo, ed è un tema che rileggo in Platone, in Proust, in Adorno che utilizza in esergo ai suoi Minima Moralia la formula Das Leben nicht lebt, “la vita non vive”. Dunque, c’è secondo me la necessità che la filosofia si impossessi di nuovo di questo tema, prendendo distanza dall’essere e cercando di concettualizzare il “vero vivere”.
Scarto/Jullien, L’identità culturale non esiste
di Mario Porro (Doppiozero, 27 Agosto 2018)
L’Occidente ha scoperto l’esigenza di dialogare con le altre civiltà da quando non è stato più in grado d’imporre con la forza la propria ragione. Ha giustificato il suo predominio con il possesso di valori assoluti come i diritti umani, che pretende di incarnare e che si sente in obbligo di diffondere. Crede che questi principi universali debbano venire accolti da ogni essere dotato di ragione, ma questa ragione è in realtà lo specifico risultato della sola storia intellettuale europea, come lo è la nozione stessa di universale. Il filosofo e sinologo François Jullien ha mostrato ne L’universale e il comune (Laterza) come allo sguardo genealogico tale nozione riveli una stratigrafia composita ed eterogenea. Il pensiero filosofico greco affida al logos la conquista di una verità stabile; con Socrate si cerca attraverso il dialogo una definizione su cui tutti possano concordare, l’autentico sapere che coglie la realtà “secondo il tutto” (kath’olou). Abbandonando il singolare della sensazione, lo spirito insegue il concetto che restituisca il quid che si ritrova identico in tutti gli esempi di Virtù o di Bellezza, l’essenza invariabile sotto la variazione empirica. Per compensazione, spetterà alla letteratura (o alla filosofia che si modella su di essa, in Kierkegaard o in Nietzsche) recuperare l’individuale che l’universale ha tralasciato, evocando un’emozione e raccontando l’ambiguo che è inerente alla vita e che sfugge all’astrazione del concetto.
Al precetto logico greco si è aggiunta l’istanza giuridica; la cittadinanza della Roma antica non deriva né dal suolo né dal sangue, non dipende dalla patria geografica, naturale, dove cioè si è nati, ma dall’istituzione politica cui si partecipa. Alla religione cristiana dobbiamo il terzo strato su cui si é sedimentata la nozione di universale. “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna”, scrive san Paolo, le differenze si dissolvono nell’abbraccio dell’amore divino, nella fratellanza in Cristo. La modernità ha sviluppato l’istanza dell’universale prendendo come riferimento primario la scienza; alla verità conquistata dalla dimostrazione matematica, ereditata dai Greci, si è aggiunta la conoscenza oggettiva della fisica.
Alla legislazione che governa il mondo naturale Kant fa corrispondere l’universalità e necessità dell’imperativo categorico: considerare ogni uomo come fine e non come mezzo è una massima che ogni soggetto razionale è chiamato ad accogliere e mettere in pratica in qualsiasi circostanza. Delle pretese di universalità dei propri valori l’Occidente ha fatto un’arma ideologica per imporre la propria egemonia: il locale, come la rana dell’apologo, si è gonfiato fino a saturare e cancellare le differenze, ma il frutto avvelenato nel mondo globalizzato (la Cina lo testimonia) non è stata la diffusione dei diritti umani, ma quella perversione dell’universale che è l’uniforme. Quest’ultimo non dipende dalla ragione, ma dai meccanismi della tecnologia applicati alla produzione e al consumo, è soltanto lo standard che si produce a costi minori e conquista il mercato.
In realtà, non esistono concetti che siano immediatamente universali, a priori fondativi sotto i quali si potrebbe disporre tutta la varietà delle culture e del pensiero. Kant, a compimento della Ratio illuministica, poteva ancora classificare nella tavola delle “categorie” le nozioni (sostanza, causalità, ecc.) senza le quali non sarebbe possibile pensare e conoscere. Ma quei concetti non trovano rispondenza nella lingua-pensiero cinese, come Jullien ha mostrato nei suoi scritti, a partire da Processo o creazione (Pratiche, 1991), fino ai più recenti Parlare senza parole. Logos e Tao (Laterza) e Essere o vivere (Feltrinelli). -L’etnocentrismo ci porta a immaginare che tutte le culture siano chiamate ad accogliere la nostra Verità (nozione anche questa che la Cina ha ignorato), come un tempo credevamo - lo illustra l’Agnello mistico dei Van Eyck nella cattedrale di san Bavone a Gand - che i rappresentanti delle altre religioni accorrono per onorare il mistero cristiano. Più che universali, ricorda Jullien, esistono universalizzanti, cioè ideali mai appagati, ribelli, regolatori (nel senso dell’idea kantiana) che inducono a spingere sempre più in là l’orizzonte, a non soddisfarsi di quanto raggiunto.
Proprio questo tipo universale, ideale mai raggiunto, bisogna rivendicare perché si possa promuovere la condivisione di quanto è comune fra le civiltà. È questa la condizione che rende possibile alle culture di rimanere aperte, pronte a rielaborarsi e disponibili a cambiare, cioè a restare vive. In caso contrario, quando si ripiegano sulle proprie “differenze” e si compiacciono di quella che ritengono la propria “essenza”, le civiltà trasformano i propri valori in frontiere, pronte a escludere gli altri.
Forse ispirandosi al principio confuciano per cui prima regola di un pensatore è “rettificare i nomi”, Jullien segnala nel recente L’identità culturale non esiste (Einaudi) che per porre le basi di un possibile dialogo fra le civiltà occorre in primo luogo affrontare la loro varietà in termini di scarto e non di differenza. La sorte della differenza è strettamente legata all’identità all’interno della quale opera una distinzione: è grazie alla differenza, spiega Aristotele, che possiamo definire e identificare; per determinare l’essenza dell’uomo dovrò indicare il genere prossimo cui appartiene (animale), e poi la differenza specifica (razionalità).
Lo scarto, invece, opera nell’ambito della distanza e così ci fa uscire dalle tipologie, dalle consolatorie caselle definitorie. Se nella differenza, una volta fatta la distinzione, ognuno dei due termini dimentica l’altro e resta chiuso nel proprio specifico, nello scarto la distanza mantiene i due termini in tensione lasciando aperta la ricchezza del confronto. Lo scarto è una figura avventurosa, disturba e ridà slancio al pensiero, consente di esplorare e di far emergere squarci su possibilità inattese; questo perché rende visibile il tra che si apre fra termini che, invece di ripiegarsi su se stessi, restano rivolti verso l’altro. L’orrore del pensiero greco e cristiano per l’indeterminato ha impedito di considerare il non-luogo che si stende fra, dove ciascun termine è spossessato del suo in sé e delle sue “proprietà”.
Non sapendo pensare il “tra”, metaxu, l’Occidente ha pensato l’“al di là”, ha inventato l’altro piano della realtà, “il mondo vero” (Nietzsche), il meta della metafisica. Per lo stesso motivo, ha pensato la relazione fra i due termini sotto forma di conflitto e ne ha prospettato, in Hegel, il superamento dialettico solo in vista della conciliazione degli opposti, dove il terzo sintetizza entrambi in una nuova determinazione. Lo scarto ci porta a uscire dalla prospettiva identitaria, non dà luogo alla conoscenza tramite classificazione, ma fa emergere risorse insospettate.
Siamo eredi del mito di un’unità culturale originaria a cui sarebbe seguita la diversificazione: la maledizione divina ha punito la presunzione umana facendo sorgere la proliferazione babelica delle lingue. Ma solo Babele è l’opportunità del pensiero, ricorda Jullien. Se fossimo costretti a parlare tutti un unico idioma, il globish dell’inglese mondializzato, perderemmo gli scarti fecondi che si aprono tra le lingue, diremmo addio alle loro rispettive risorse; finiremmo per pensare con gli stessi concetti standardizzati, scambiando per principi universali sterili stereotipi. Sfuggire alla logica della differenza significa riconoscere che non esiste l’identità di una cultura, un insieme di proprietà che ne fissi per sempre l’essenza; ogni cultura è sempre eterogenea al proprio interno, include dissensi e divergenze, si modifica singolarmente in base alle scelte dei partecipanti.
Abbiamo smarrito l’ideale dell’unione europea sognando di poterne definire l’identità, in cerca di “radici” cristiane o greche: ma ciò che fa l’Europa è proprio il fatto di essere al tempo stesso cristiana e laica, di essersi sviluppata nello scarto tra la ragione e la religione, tra la fede e i Lumi, nella tensione che ha ravvivato entrambi. Le risorse si alimentano vicendevolmente e non si escludono. Non sono da esaltare o predicare, sono a disposizione ma non ci appartengono e l’unico modo per difenderle è attivarle e promuoverle, non proclamarsene sostenitori. Come il guardiano alla porta della Legge nella parabola di Kafka, al massimo si può essere custodi della verità, mai possessori. Conosciamo bene, nell’Europa dell’Est come a casa nostra, i tanti difensori della civiltà cristiana pronti a cancellare il tratto saliente della religione di cui ostentano i simboli, la pietà verso gli ultimi e la misericordia.
Fra le risorse che l’Europa ha attivato, Jullien ricorda in primo luogo la promozione del Soggetto: non dell’individuo ripiegato sull’io, ma del soggetto che introduce la sua iniziativa nel mondo, vi porta un progetto che mira a forzare gli ostacoli che la realtà oppone. In tal modo, l’io si strappa dalla condizione presente, prende distanza dal mondo, comincia propriamente a “esistere” (ex-sistere). La cultura mira a promuovere il soggetto portandolo a debordare dalla chiusura del suo io e nel contempo a evitare l’integrazione in un mondo; a tirarsi, di conseguenza, “fuori” (ex) da un asservimento per sbloccare una libertà. Anche il cristianesimo ha contribuito alla promozione esistenziale dell’umano, per aver imposto il superamento della Legge attraverso l’amore e per aver dispiegato la coscienza come istanza intima del soggetto. È l’Occidente ad aver promosso quella risorsa, etica e politica, che è la libertà del soggetto, da cui la democrazia ha tratto la sua legittimità: la democrazia consiste innanzitutto nel trattare gli altri come soggetti o, meglio, nel promuovere una comunità di soggetti. Analogamente, dobbiamo ai Greci, a Platone in particolare, quell’altra risorsa, ignota alla tradizione cinese, che Jullien ha indicato come “l’invenzione dell’ideale” (L’invenzione dell’ideale e il destino dell’Europa, Medusa, 2011): la mente si pone in scarto rispetto al dato, immagina possibilità nuove, promuove un “ideale” che diventa l’oggetto a cui si aspira. Questa vocazione a modificare il presente, quella che ha promosso l’impulso alla rivoluzione, in arte come in politica, appare oggi una risorsa esaurita, nei tempi che diciamo post-ideologici ma che appaiono semplicemente post-ideali.
All’opposto del “narcisismo delle piccole differenze” che si richiude gelosamente su identità immaginarie, gli scarti fanno uscire le culture dal solco della tradizione, impegnano il pensiero nell’avventura, lo costringono a evitare le strade battute per tracciare possibili accessi all’impensato. Se la differenza isola le culture e le “essenzializza”, rinchiudendoci nel vicolo cieco dell’universalismo o del relativismo, soltanto lo scarto, tenendo in tensione ciò che ha separato, può produrre il comune. Nel tra aperto dallo scarto ognuno dei due elementi smette di bastare a se stesso, oltrepassa il muro che teneva a distanza, senza lasciarsi assorbire: il comune non è il simile, integrazione non significa assimilazione. La ricchezza di una comunità si misura dalla capacità di compiere degli scarti al proprio interno e di mantenere un comune condiviso, non in nome di un’“identità multipla”, né in nome della tolleranza, dove ognuno insiste sui propri valori e sulle proprie convinzioni. Com-munis indica nel suo etimo ciò che viene condiviso, ma rimanda al dono e al munus (obbligo), implica cioè una reciprocità nel dono. Jullien ritrova per altre vie quella corrente del pensiero contemporaneo (in cui possiamo iscrivere Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Roberto Esposito) che, dall’originaria reciprocità del dono-debito, intende demolire l’immagine di soggetti compiuti che vivono la comunità in termini di ripiegamento identitario, pronti ad escludere e s-comunicare.
Il comune dell’umanità non è un elemento dato, ma un’operazione mai conclusa; consiste, suggerisce Jullien, nella possibilità di comunicare e condividere, di circolare attraverso intelligibilità diverse per fare emergere una co-erenza (non una verità), cioè letteralmente quel che si tiene insieme nel pensiero. Il comune non dipende da regole o da un fondamento, non procede da vincoli normativi, è una risorsa inesauribile, un capitale da sfruttare, muovendo dal presupposto per cui qualsiasi cultura è intelligibile. Apel e Habermas hanno indicato il comune fra culture nel trascendentale della comunicazione, nelle condizioni che rendono possibile un discorso argomentato fra interlocutori. Ma in realtà questa comunità che si affida alle regole implicite alla discussione sorge sui presupposti tipici dell’Occidente, che la parola abbia senso (dica qualcosa), che si rispettino le modalità logiche ed etiche dell’argomentazione (filosofica). La parola confuciana però non ha pretesa di verità, mira a incitare, fornisce indizi per mettere sulla via; le parole del maestro possono variare, fino alla contraddizione, a seconda del momento e delle opportunità.
Il protocollo dialogico non si ritrova in quelli che impropriamente chiamiamo Dialoghi di Confucio, dove fin dall’inizio è scartata l’idea di una reciprocità fra interlocutori come quella simulata in Platone. L’etica della comunicazione proposta da Habermas mira a generare un consenso, inducendo l’ascoltatore ad accettare l’istanza di verità di quanto è detto. Di nuovo, Confucio e ancor più i testi taoisti ci liberano dalla morsa delle regole dell’argomentazione, mostrando come ci si possa comprendere senza dirsi niente (“parlare senza parole”) e come l’obiettivo non sia con-vincere l’altro, nella speranza di vincere insieme.
Anche il dialogo, ha spiegato Jullien, è una risorsa promossa dall’Occidente. Si modella sullo scontro degli opposti, sulla battaglia campale che vede gli avversari porsi faccia a faccia, duello eroico di parole in vista della decisione, in assemblea o nel tribunale. La Cina, al contrario, privilegia il procedere obliquo, il discorso che non dice in modo esplicito ma suggerisce, così come in battaglia evita lo scontro frontale a favore dell’azione indiretta. Il termine dialogo non è storicamente senza macchia. E non solo perché oggi l’Occidente lo rivendica dopo aver perduto la forza per imporre i suoi valori “universali”, ma anche perché cela l’aspirazione a un (falso) irenismo o l’ipocrisia di un falso egualitarismo.
Dia, in greco, esprime al tempo stesso lo scarto e l’attraversamento, mentre logos indica il comune dell’intelligibile che è, paradossalmente, la condizione e al contempo lo scopo del dialogo stesso. Un dialogo è una lenta avanzata in cui, con tempo e pazienza, le rispettive posizioni si scoprono reciprocamente e lentamente elaborano le condizioni che renderanno possibile un incontro effettivo. Il dia-logo fa emergere progressivamente un ambito di intelligenza condivisa in cui ognuno può cominciare a comprendere l’altro. Ma il dialogo può svolgersi soltanto nella lingua di entrambi, ovvero nel tra aperto dalla traduzione: la traduzione deve essere la lingua del mondo per poter attivare le risorse delle diverse lingue-pensieri. La traduzione lascia infatti emergere la difficoltà, il carattere non definitivo, sempre in fieri e mai compiuto del dialogo, ma permette anche di vedere un comune della comprensione che si elabora tra le civiltà. Solo così il soggetto a venire potrà non essere più assoggettato: prigioniero di una verità particolare, che si enuncia in modo dogmatico e, in quanto tale, esclusivo. Non sarà neppure un soggetto de-territorializzato, cioè tagliato fuori dal locale e dal singolare, di una lingua, di una cultura e di un paesaggio. Sarà un soggetto agile e nomade, pronto, partendo da una lingua e da un determinato ambiente, a circolare tra altre lingue e altri ambienti, attingendo alle risorse delle une e degli altri.
Una versione più breve di questa recensione è apparsa su Alias, l’inserto domenicale de il Manifesto, il 15 luglio 2018
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Filosofia.
Jullien: Vivere di coincidenze? Questo è il dilemma...
In “L’identità culturale non esiste” mostra che proprio quando non ci si chiude in se stessi si va avanti: e per farlo serve fare spazio alla “de-coincidenza” Cioè mettersi in gioco
di Simone Paliaga (Avvenire, sabato 18 maggio 2019)
«Per far accadere costantemente il nuovo è necessario distaccarsi dallo stato anteriore, desolidarizzare rispetto alla sua coerenza, e non perpetuarla. Vivere è de-coincidere’ scrive François Jullien, il filosofo e sinologo francese, che in Il gioco dell’esistenza. De-coincidenza e libertà (Feltrinelli, pagine 128, euro 15) affronta un argomento cruciale. «Se de-coincidere - annota il filosofo - implica l’uscire dall’adeguamento a un sé, dal proprio adattamento a un mondo allora significa propriamente esistere ». La de-coincidenza crea così un gap fertile, una lacuna in cui la vita spazia, si completa e si rinnova. Ecco che per Jullien la più alta definizione di vita non è rappresentata dalla coincidenza con se stessa come spesso si crede. E lo stesso avviene per la coscienza che viene a essere solo grazie a uno scarto, a de-coincidenza.
È il divario tra la mente e il mondo che consente alla coscienza di esprimersi. Questo è così naturale che spesso viene dimenticato. Senza questo spostamento, l’uomo sarebbe trasparente, permeabile al mondo esterno e agli altri. La de-coincidenza è la rottura con se stessi e con il mondo, è il disadattamento che si apre sull’inalienabile ambiguità dell’esistenza. Crea disagio, dunque, perché ci posiziona all’esterno e ci lascia orfani di ogni attaccamento, stabilità e sicurezza. Così, nel momento di un tanto atteso risultato raggiunto, uno si sente già spinto fuori da esso, di nuovo insoddisfatto, pronto a uno slancio per rinnovare la vita. Tuttavia la de-coincidenza è considerata negativa, un allontanamento da un’assoluta armonia con se stessi e con il mondo, come un tempo auspicavano gli stoici.
Perciò François Jullien sfida disegni convenzionali e inverte la gerarchia che ha a lungo dominato la filosofia: il primato della coincidenza sulla de-coincidenza, dello stabile sull’accadere, del razionale sul fortuito. Ma se fosse invece la coincidenza a essere negativa perché immobile e senza via d’uscita? E se il de-coincidere fosse la condizione necessaria della coscienza, dell’esistenza, dell’arte e di tutto ciò che è giusto per l’umano?
La coincidenza è l’adeguatezza, certo, ma è anche la paralisi, la conformità, l’impasse: la morte di ogni iniziativa e di ogni accenno di cambiamento. Sotto la sua ombra c’è saturazione, ma ma nella saturazione si genera un malessere che proietta al di fuori dell’adattamento. Per Jullien già Lucrezio era in grado di discernere un vuoto, una minima de-coincidenza nella caduta degli atomi. Solo lo scarto dalla traiettoria predefinita permette a loro di scontrarsi, invece di cadere per sempre, coincidere e iniziare una nuova aggregazione. Uno scarto vitale non solo per le esistenze individuali ma anche per quelle collettive.
Jullien lo dimostra in L’identità culturale non esiste (Einaudi, pagine 96, euro 12) dove avverte come lo scarto da sé stesse permette di non isolarsi, come accadrebbe parlando di differenza, ma le mantiene «una di fronte all’altra promuovendo un terreno comune». Pertanto, nell’individuale come nel collettivo, per Jullien «in principio era la De-coincidenza», la sola a portare a eterne ricombinazioni, come tanti tentativi di creazione, senza piani prestabiliti o a priori immutabili.
Jullien fa leva qui sull’etimologia. Esistere da ex-sistere, tenersi fuori. L’esistenza già dal nome appare l’opposto dell’aderenza al mondo e alla sua logica. È distinguendo che l’umano diventa consapevole, perché la coscienza accade «tramite un’operazione di uscita dall’adeguamento ». Se facciamo caso alla vita di tutti i giorni cerchiamo spesso di de- coincidere per vivere meglio: fare un viaggio per fuggire dal solito ambiente, per cambiare rituali e abitudini, per allontanarsi da una situazione compiendo magari un passo indietro.
Porre la de-coincidenza al principio della vita significa squadernare una nuova etica lontana da una morale che cerchi di irretire in schemi prestabiliti. «Quella che ci serve - scrive Jullien - è un’etica che non sia rinuncia ascetica alla vita ma che, invece, sia in grado di dispiegare la vita in esistenza». Adottare questa etica significa abbandonare l’idea di un sé stabile e immutabile. Perché stagnare in un sé prevedibile, senza essere malleabile al cambiamento e quindi al miglioramento, equivale a perdere la vita.
«La “follia della Croce” - continua il sinologo e filosofo francese - opposta alla sophia dei greci in quanto, come dice Giovanni, “chi vuole salvare la propria vita” - chi vuole coincidere con essa e aderirvi - “la perde”». La valenza de-coincidente della Parola di Cristo emerge proprio dal quarto Vangelo come François Jullien fa emergere in particolare in Risorse del cristianesimo (Ponte alle Grazie, pagine 118, euro 14). In questa riflessione lo studioso francese, «senza passare per la via della fede», mette in risalto come «la de-coincidenza propria della vita sia al cuore dell’insegnamento di Gesù secondo Giovanni». «Gesù non apre un’altra via, non apporta un altro insegnamento - ricorda Jullien - bensì insegna a passare dall’aderenza con l’essere- in-vita a ciò che fa in modo che la vita sia vita».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI. Una nota di Federico La Sala
AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA: PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
Federico La Sala
CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico....
L’universale alle prese con l’identità
Storia delle idee. «Gli Universali» di Etienne Balibar (Bollati Boringhieri) e «L’identità culturale non esiste» di François Jullien (Einaudi). Un percorso per riflettere sui nuovi nazionalismi e le sedimentazioni dei saperi
di Marco Bascetta (il manifesto, 03.08.2018)
Max Stirner sosteneva, torcendo ruvidamente la lezione hegeliana, che anche l’Umanità è egoista poiché antepone il suo interesse particolare a quello dei singoli. Sarebbe l’egoismo, dunque, il solo principio che realmente pervade il tutto. Gli fa eco l’economia politica che pretende di equiparare le sue leggi, fondate sull’interazione degli interessi particolari, a quelle di natura che dell’universale incarnano, fin dalle origini, l’espressione più ferma, rigorosa e generalmente riconosciuta. Traendone così l’illusione, e il relativo prestigio, di aver realizzato una sintesi pratica tra universale e particolare. Qualcosa di più di quella estensione planetaria della ripetizione dell’«uniforme» che domina il regno delle merci e degli scambi, poiché alla «naturalità» dell’agire economico si ricollega la vigenza di un intero sistema di valori investito del compito di garantire nientemeno che il «progresso della civiltà».
È A QUESTA SINTESI che Marx oppone quella antagonista e contraria, fondata sulla classe e la sua potenzialità di emancipazione generale dalla «preistoria dell’umanità» e dall’universalismo predatorio e mendace della borghesia. Sul piano storico è qui che le disavventure concettuali e politiche dell’Universale entrano nella fase più critica e scottante. Ed è da qui che il discorso identitario, non certo scevro a sua volta da pretese universalistiche, muove alla riscossa.
Dei paradossi, degli equivoci e delle derive che intorbidano e corrodono gli «universali», dei quali, tuttavia, neanche il più deciso difensore del particolare riesce del tutto a liberarsi, Etienne Balibar tenta una accurata ricognizione nella raccolta di saggi e conferenze ora tradotta per i tipi di Bollati Boringhieri (Gli Universali, pp.160, euro 20).
Il nucleo del problema, già messo a fuoco dalla filosofia classica tedesca, è il fatto che l’universale può «realizzarsi soltanto nella forma di una identificazione discriminatoria che contraddice il suo stesso principio». Cosicché è destinato, come nella formula provocatoria adottata da Stirner, a funzionare come «una particolarità contro altre». Da questa contraddizione originaria discendono le esclusioni, le discriminazioni, le gerarchie, i rapporti di potere che costellano il cammino storico e teorico degli «universali» e che Balibar affronta appunto in quella pluralità che ne invalida le pretese totalizzanti e ne determina il conflitto.
La conseguenza più diretta che si deve trarre sul piano politico da questa constatazione è che l’Universale non può essere ascritto interamente né a una strategia di liberazione, né a una strategia di dominio. Dalle teorie della differenza al cosmopolitismo di matrice illuminista, tutti devono fare i conti con questa ambivalenza, con la possibilità sempre incombente che il concetto si rovesci nel suo contrario. Anzi, che inevitabilmente lo contenga.
A PARTIRE DA QUI muovono le diverse strategie che si propongono di salvare gli «universali» da sé stessi, più o meno direttamente discendenti da quella matrice hegeliana che proietta la contraddizione nel processo dialettico dello spirito. Rinunciando però ad ogni tentazione hegeliana di compimento, queste strategie preferiscono interpretare gli universali come un confine mobile, un «tendere a», un campo di tensioni, una «cosa in sé» mai interamente attingibile, un processo mai definito. Tutti elementi che poggiano sulla distinzione tra l’Universale che si staglia come un fine e le prepotenti «verità» affermate dai diversi universalismi.
Il discorso del filosofo francese sugli «universali» mostra gli stessi caratteri erratici, mobili e inconclusi (ma tutt’altro che politicamente inconcludenti) di quello che dedica alla democrazia intesa come un continuo spostamento della sua estensione, della sua intensità e della sua articolazione. Laddove l’analisi critica delle diverse interpretazioni si apre su campi di ricerca inesplorati e ulteriori interrogativi. Dunque universali e particolarità funzionerebbero come reciproci strumenti di critica utili a mettere in luce ambivalenze e contraddizioni che segnano gli uni e le altre. Non sempre, tuttavia, conviene attenersi al prudente equilibrio di un’analisi critica attenta alle ragioni di tutti. È infatti il campo delle «particolarità» confliggenti quello che desta nel tempo presente le maggiori preoccupazioni.
Il particolare, soprattutto nelle versioni identitarie, nazionaliste o comunitarie, oggi in espansione, si mostra ben più feroce nel reprimere le diverse singolarità che lo abitano degli «universali» accusati di astrattezza e lontananza. Omogeneità, purezza, e imposizione di una tavola indiscutibile dei «valori» costituiscono la cifra dominante e oppressiva di quella «totalità» identitaria che il popolo dei populismi viene incaricato di rappresentare e nel cui corpo la libertà dei singoli tende a scomparire. Cosmopolitismo assume così i tratti di una bestemmia se non quelli dell’ideologia che maschera gli appetiti inestinguibili della finanza globale, contrapposta sbrigativamente all’interesse nazionale.
L’argine correntemente chiamato a contrastare il potere uniformante del mercato è l’«identità culturale», che un breve testo di François Jullien, recentemente tradotto, si dedica a smontare (L’identità culturale non esiste, Einaudi, pp. 87, euro 12). La tesi del sinologo e grecista francese (un connubio che ha sempre prodotto risultati sorprendenti) è abbastanza lineare. Anche Jullien muove dalla condizione di difficoltà in cui versa quel concetto di universale che ha fatto da motore allo sviluppo culturale d’Europa nelle espressioni che si sono storicamente succedute e fuse (l’universale greco del concetto, quello romano del diritto e quello cristiano della fede) e che hanno reso il Vecchio continente, anche in quanto preteso depositario e custode dell’universale, un potere egemonico che si riteneva legittimato a imporre con la forza i suoi propri «valori».
QUESTA EGEMONIA è andata evidentemente perduta negli attuali assetti planetari e con essa la forma dell’universale che si voleva totalizzante e compiuta. Come nell’argomentazione di Balibar, anche qui l’invito è a pensare l’universale in contrapposizione all’universalismo, come processo aperto e mai appagato. Come un campo nel quale il «Comune», inteso come sfera politico-culturale della libera condivisione, possa allargarsi. Anche il «Comune», infatti, non è indenne, come il particolare e l’universale, dalla patologia dell’esclusione, dalla chiusura nei confronti di un fuori ritenuto minaccioso e alieno. Dal rischio, insomma, di precipitare nella dimensione oppressiva e delimitante del comunitarismo. Esso implica e coltiva tuttavia un elemento di soggettività operosa, di costruzione politica collettiva, non sempre e necessariamente sotto il segno dell’armonia, che lo mette in attrito tanto con lo spirito ereditario e proprietario dell’«identità» quanto con l’imperativo categorico dell’Universale.
Ma non vi è dubbio che è solo in quest’ultimo campo, appunto, quello dell’Universale incompiuto, che la costruzione del Comune può trovare uno spazio politico condiviso ed espansivo che rispetti l’autonomia delle singolarità. Per dirla in termini politici la costruzione del comune non può che avere caratteri antinazionali in quanto rottura della falsa unitarietà della nazione.
PER ACCEDERE A QUESTA dimensione Jullien propone un riposizionamento concettuale nella contrapposizione tra «differenza» e «identità», riconducendo la prima alla nozione di «scarto» (distanza invece di distinzione, esplorazione invece di identificazione) e la seconda a quella di «risorsa», intendendo con questo l’insieme di elementi culturali e concettuali che si sono prodotti in un determinato luogo e nella storia, fitta a sua volta di scarti e contaminazioni, di una determinata collettività. Ma di quest’ultima essi non costituiscono il possesso o il segno di distinzione in una qualche gerarchia delle culture, bensì una sedimentazione di saperi e di esperienze alla quale, in tutto o in parte, chiunque può fare ricorso, attivandola e mettendone in movimento le potenzialità. Come nel caso della conoscenza si esce qui dal campo dell’appropriazione per entrare in quello dell’apprendimento, dell’uso comune.
L’INTERPRETAZIONE della pluralità culturale nei termini di uno scarto o di una distanza mira ad istituire quella dimensione del «tra» che mette in tensione e in movimento le diverse prospettive culturali impedendone il ripiegamento e inducendo una relazione nei confronti dell’altro. In questo Jullien ravvisa la vocazione etica e politica dello scarto. Questo spazio del «tra» può essere facilmente ricondotto a quell’Universale aperto, incompiuto e dinamico, nel quale il Comune può espandere la sua sfera di condivisione.
MA IN UN TEMPO dominato dal ripristino delle identità nella forma più vanagloriosa, aggressiva e impermeabile ad ogni argomentazione razionale, quale quello che stiamo vivendo, questo allargamento non può che compiersi nella forma di una dissidenza radicale. Di un punto di vista che, in nome della comprensione, non può però comprendere tutto. François Jullien conclude il suo pamphlet invitando a tenersi fuori «dalla sottomissione e, in primo luogo, dalla sottomissione alla Storia». Resistere all’uniformazione e all’identitario che ci minacciano. Ma «tenersi fuori» non è mossa sempre pacificamente concessa. La porta della gabbia non è aperta e per uscirne può essere necessario passar sopra la «particolarità» dei guardiani che la sorvegliano.
QUELLA DELLE CULTURE non è solo una storia di scarti, ma anche di violenze e sopraffazioni. Tra le «risorse» che esse hanno prodotto nel corso della storia vi sono anche numerose armi letali, materiali e immateriali, alle quali oggi vediamo fare abbondante e spregiudicato ricorso. Forse non basterà a combattere questa violenza, ma la demistificazione dell’ideologia identitaria resta un punto di partenza decisivo per contrastarne la diffusione tra quanti credono di trovarvi protezione. E il testo di Jullien vi riesce davvero egregiamente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’Occidente impari dalla Cina come vivere in modo sensato
L’Europa punta alla conoscenza snobbando l’unica cosa che in Oriente è basilare: la saggezza
di Gianfranco Marrone (La Stampa, TuttoLibri. 22.10.2016)
Chi è il saggio? Come ci è diventato? E perché? Certo, giornalmente di persone sagge ne incontriamo pochine, e anche noi, dinnanzi allo specchio, facciamo parecchia fatica a considerarci tali. Se saggio è chi sa interloquire con cose come la Verità, Dio, l’Essere o la Libertà, stiamo freschi. Dopo duemila e passa anni i filosofi non sono affatto d’accordo nel definire queste strane entità. Anzi, uno come Agostino, alla domanda «cos’è il Tempo?», rispondeva al modo di Jovanotti: «Boh!».
Il fatto è che, come prova a spiegare il lavoro del filosofo e sinologo francese François Jullien, Essere o vivere, l’Occidente non ha - non ha mai avuto - alcuna idea di cosa sia la Saggezza: preferisce parlare di Conoscenza, Scienza, Intelligenza e simili, interrogandosi appunto sulla Verità o la Libertà, ma di fatto schivando l’unica cosa che in Oriente, invece, è basilare: come comportarsi nella vita di tutti i giorni con se stessi, con gli altri, con le cose che ci circondano? Come vivere sensatamente piuttosto che essere oggettivamente?
Il saggio insomma, per gli antichi cinesi, non è né filosofo né scienziato né artista, meno che mai economista o politico. È semmai uno che, ha osservato Jullien, è tutte queste cose insieme senza esserne però nessuna. Con lo sguardo fisso, comunque, all’esperienza comune, a quel quotidiano che è ripetitivo solo per chi, come noi, non sa apprezzarne le sfumature trasformative, i dettagli nascosti di novità, i piccoli segnali evolutivi.
Vivendo piuttosto che essendo, il saggio non prende iniziative: lascia che le cose accadano, favorendone lo scorrere, senza né rivendicazioni personali né ossessioni ontologiche. La realtà è quel che accade, l’eventualità della vita, non quel che è sempre e comunque allo stesso modo. Lo sapeva bene uno stratega come Sun Tzu, celebre autore di una straordinaria Arte della guerra, che in battaglia non attaccava mai senza comunque ritirarsi: lasciando l’iniziativa al nemico, aspettava che si distruggesse da solo.
Dopo testi fondamentali come Trattato dell’efficacia, Elogio dell’insapore, Figure dell’immanenza, Nutrire la vita e molti altri, tutti dedicati a un serrato confronto fra le forme del pensiero occidentale e quelle della filosofia cinese classica, Jullien pubblica adesso una bellissima sintesi del suo ventennale lavoro di ricerca, Essere o vivere, dove ripercorre in una ventina di opposizioni concettuali i tratti fondamentali che distinguono l’Europa dalla Cina, la conoscenza della saggezza, l’essere occidentale - appunto - dal vivere orientale.
Sembra una tabella da dispensa universitaria, ma di grandissima chiarezza e utilità. Così, i cinesi apprezzano la propensione piuttosto che la causalità, l’affidabilità anziché la sincerità, la tenacia invece della volontà, la regolazione alla rivelazione, l’allusivo all’allegorico, l’ambiguità all’equivoco, l’obliquità alla frontalità e così via.
Prendiamo l’ultimo caso: laddove il conflitto occidentale si risolve nella battaglia campale, con gli eserciti schierati uno di fronte all’altro, in quella cinese sono i lati che contano, le incursioni trasversali. Cosa che si ritrova tale e quale nel campo della tecnica retorica: da noi gli argomenti si affrontano direttamente, in Cina vale l’arte dell’indiretto, del dire una cosa attraverso un’altra. «Fare rumore a Est per attaccare a Ovest», diceva ancora Mao Zedong.
Nella paziente ricostruzione di queste opposizioni, semantiche più che dialettiche (come i celebri yin e yang), Jullien mette in gioco molteplici elementi - la riflessione filosofica, l’articolazione linguistica, l’organizzazione antropologica -, mostrandone l’intima correlazione. I concetti sono anche e soprattutto parole, e dunque al tempo stesso forme di comportamento, prassi esistenziali. Cosa che rende pressoché unico, e di grande interesse, il lavoro di Jullien - saggio, perciò, che studia la saggezza. E al tempo stesso segnala, con un problema delicato, un’opportunità conseguente. Mettere a confronto il pensiero occidentale con quello cinese, difatti, vuol dire capire più a fondo il primo attraverso il secondo e all’inverso.
A far da molla rivelatrice, sostiene Jullien, sono proprio le incompatibilità compatibili, le indicibilità dette, le intraducibilità a monte tradotte a valle. L’impensato europeo è (parzialmente) pensato in Cina e viceversa: cosa che non colma la lacuna fra i due universi culturali e filosofici, ma che tuttavia riesce a metterli in correlazione. Dal confronto nasce il nuovo, che non sta né qui né là ma a metà strada. Un originale esercizio di pensiero: tenace, affidabile, allusivo. Per vivere un po’ meglio. Ed essere molto meno.
Psicoanalisi, Storia, Politica.... e Civiltà.
NARCISIMO, PULSIONE DI MORTE, E LAVORO STORIOGRAFICO. Una notazione molto illuminante dal lavoro di H. A Rosenfeld ("Il narcisismo distruttivo e la pulsione di morte", in : "Comunicazione e interpretazione", Bollati-Boringhieri, Torino 1989) di Cristopher Bollas: *
"Herbert Rosenfeld è stato uno dei più eminenti teorici clinici d’Inghilterra. Nei suoi studi sui disturbi di personalità narcisistica egli si è imbattuto in una metafora che, molto tempo dopo la sua morte, ha influenzato generazioni di clinici in tutto il mondo.
Rosenfeld ha paragonato la mente del narcisista a una gang mafiosa, governata da un potente leader - un Don mafioso - che è il distillato di tutte le parti distruttive di una personalità. Manipolatorio, cinico, privo di sensi di colpa, feroce, costringe al silenzio tutte le parti buone della personalità con mere intimidazioni. Liquida le azioni distruttive attraverso un’imposizione di lealtà e fedeltà di gruppo alla parte dominante dfella personalità e crea un senso interiore di coesione basato sull’odio. Il lavoro di Rosenfeld è il culmine della visione crerativa offerta dalla "psicoanalisi delle relazioni oggettuali". Esso mostra come nel nostro mondo interno noi esistiamo come un insieme di sé diversi legati a oggetti (rappresentazioni mentali di altri e aspetti della realtà esterna) all’interno della mente. Se siamo equilibrati, allora le rappresentazioni distruttive verranno bilanciate da parte amorevoli, premurose, costruttive ed etiche della personalità.
Con gli analizzandi talvolta parlo della mente come di un "organo rappresentativo". Se lavoro con americani utilizzo il Congresso come metafora, con europei e altri utilizzo il Parlamento. L’idea è abbastanza semplice: la nostra mente può essere pensata come un’oggettivazione di molti diversi stati del sé, sentimenti e condizioni. Se siamo dei democratici psichici allora tutte le idee, comprese quelle distruttive, saranno rappresentate e verrà loro permesso di passare nella mente, sia che ci ripugnino e alienino, sia che ci ispirino o ci conferiscano potere [...]
E’ possibile che la visione di Rosenfeld della mente come come gruppo ci possa aiutare con il problema dell’integrazione tra l’individuo e la massa. Bion e altri teorici kleiniani sicuramente hanno lavorato sul presupposto che la psicologia individuale e quella di gruppo condividono gli stessi assiomi mentali. Ma è stato Rosenfeld che ha messo insieme questa visione in un oggetto trasformativo. Cioè, una volta che le parti e i pezzi della psicologia individuale e di gruppo che si trovano nel pensiero kleiniano sono stati integrati nella metafora di Rosenfeld, una nuova forma di psicoanalisi è divenuta possibile [...]
Sto suggerendo di ripensare il lavoro della storia (le narrazioni costruite del nostro passato), considerandola meno come un compito di ricapitolazione e più come uno sforzo di selezione.
Attraverso la selezione di storie del passato, il lavoro dello storico nella sua riflessione è inevitabilmente futuristico. Questa naturalmente è una verità lapalissiana. Detti come "la storia giudicherà" o "coloro che non possono ricordare il passato sono condannati a ripeterlo" (Santayana) si riferisconoalla storia come a una funzione del futuro. Il lavoro inconscio di trasferire i risultati da una generazione a quella successiva, con il suo sforzo di comprendere ed espandere la mente umana, mira a costruire una mente di gruppo che può pensare i pensieri richiesti dal futuro. In effetti la ricerca per comprendere la mente e lo sviluppo embricato della mente nel processo sono inseparabili. Pensare alla nostra mente significa sviluppare la vita psichica.
Ogni generazione lavora a un ritmo diverso e contribuirà in maggiore o minore misura allo sviluppo di una mente transgenerazionale. Questa è una progressione discontinua, controllata inevitabilmente dal narcisismo della giovinezza, dall’ansia depressiva dell’invecchiamento, e dalla regressione a stati mentali primitivi causati dall’odio collettivo che possono portare alla guerra o al genocidio e, interiormente, a una perdita di capacità mentale.
Quando una generazione "passa il testimone" a quella successiva, sostenendo che adesso "il futuro è a loro", questo processo è simile a un abbandono generazionale del compito collettivo. Una trasmissione generazionale ben riuscita consisterebbe nel trasmettere un’idea o un processo sociale di successo che potrebbero venire inclusi nella mente futura [...]
Stiamo quindi parlando di una "mentalità del mondo", una mente che può consentire al mondo di pensare se stesso? (pp. 161-167)
* Cristopher Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 161-167, senza le note.
di Luciana Sica (la Repubblica, 15 settembre 2013)
Dice molto della stoffa dell’autore, delle sue escursioni intellettuali nel segno di un rigore sempre coniugato all’originalità, quest’ultimo libro di Christopher Bollas pieno di suggestioni così diverse, di digressioni dal sapore spesso personale, che certo si presenta anche come una singolare ricognizione di natura letteraria e filosofica su “La mente orientale” (è “China on the Mind” il titolo originale).
Non è però un sinologo Bollas, che a dicembre festeggerà settant’anni, ma una delle teste più brillanti della psicoanalisi contemporanea, un battitore libero che mai si è lasciato chiudere nei recinti di una certa psicoanalisi autocompiaciuta e ripetitiva. La riflessione anche eccentrica sull’Oriente che interessa Bollas - e vistosamente lo coinvolge su un piano non solo intellettuale - si basa su un’ipotesi ardita, ma non azzardata, strettamente correlata alla tradizione psicoanalitica britannica da cui senz’altro l’autore deriva senza esserne rimasto prigioniero. Non a caso sono soprattutto due i grandi nomi che ricorrono nelle pagine di questo libro: Donald Winnicott e il suo geniale e controverso allievo Masud Khan.
La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud. Soprattutto la poesia, dove la forma prevale sul contenuto, fa da sfondo alla tesi di Bollas secondo cui «il processo analitico ha una sua poetica della forma che si collega al modo di essere orientale».
Leggendo queste pagine e tentando di riassumerle senza tradire il pensiero di un autore che già negli anni Ottanta ha scritto libri folgoranti come L’ombra dell’oggetto e Forze del destino (usciti in Italia da Borla),si comprende anche come Bollas sia sempre stato allergico alle pigrizie culturali e alle ritualità politiche di un certo establishment. Non ha mai amato le istituzioni psicoanalitiche e naturalmente non ne è stato particolarmente riamato. Da noi ci sono analisti che lo conoscono e lo ammirano (come Vincenzo Bonaminio, che ha curato Il momento freudiano, Franco Angeli), ma il più delle volte Bollas viene citato qua e là, senza che gli venga riconosciuto il suo ruolo che è invece indiscutibilmente quello di un fuoriclasse.
Eppure è stato un analista a volte idolatrato come André Green, l’allievo di Lacan scomparso all’inizio dello scorso anno, a dire di Bollas: «È uno psicoanalista, ma non scrive come uno psicoanalista, cioè evita miracolosamente di essere noioso, pedante, dogmatico. Non è sufficiente dire che è umano perché la sua sensibilità non è solo commovente, ma riflessiva. Non solo la sua scrittura è vivace e brillante, è anche profonda. Le persone di cui scrive - le persone, non i pazienti - non solo sono come noi, ma sembrano quasi la nostra ombra...».
È vero: Bollas scrive in modo magnifico, a tratti può ricordare Hillman, e non a caso è anche l’autore di tre romanzi psicoanalitici di un certo successo: il terzo uscirà da noi all’inizio del prossimo anno con il titolo Scompiglio, da Antigone. Di tempo per scrivere ne avrà ancora Bollas, ora che vive prevalentemente in un casolare di campagna in California e anzi fa sapere con tutta tranquillità che ormai lui l’analisi la fa solo al telefono o via Skype. C’è chi se lo può permettere.
Di fronte a un io diviso. Christopher Bollas, la psicoanalisi, la schizofrenia
di Francesca Borrelli *
Tutti i grandi filosofi, e tra questi gli psicoanalisti che meritano di venirvi inclusi, manifestano una sorta di distacco dall’eredità nella quale si sono a loro tempo formati, e questo distacco è in effetti una forma di costruttiva insoddisfazione per il già dato, una rispettosa venatura di dissenso che segnerà i loro scritti come una impronta generativa. È chiara, nel loro pensiero, una revisione del rapporto tra volontà, autorità e uso della ragione, una sorta di ribellione illuministica a quello stato di minorità che consiste nell’abdicare alla propria capacità di ragionamento sostituendole una supposta autorità esterna.
Smaccata e inequivocabile, la subalternità di molti adepti alle varie scuole di turno, assume negli psicoanalisti espressioni a volte imbarazzanti, forse perché la fede si rende necessaria laddove il dogma sfugge alla comprensione (da qui il calco del verbo lacaniano da parte dei suoi allievi, di solito più confusi dell’originale, fatte salve le dovute eccezioni, per esempio il Recalcati interprete di Lacan). Tanto più dunque è rincuorante l’assertività (negli psicoanalisti sempre attraversata da una coloratura affettiva) di un individuo pensante che, grato alle proprie fonti, le alimenta, le discute e le rinnova alla luce della sua esperienza, e della felicità o del dolore che il confronto con altre menti gli ha procurato: figura esemplare di questo preambolo, Christopher Bollas ha dimostrato con molti dei suoi testi di essere uno dei più grandi psicoanalisti dell’ultimo secolo.
Non a caso, sebbene la esibisca meno di André Green - altro grande protagonista della psicoanalisi morto nel 2012, che ha destinato tanti saggi a argomenti letterari - anche in Bollas è evidente la prospettiva umanistica, giustificata non solo dai suoi studi - ha scritto la tesi di dottorato su Herman Melville - ma da una concezione dell’uomo che problematizza il disagio psichico dei singoli proiettandolo su uno sfondo antropologico che mette in risalto il prolungato infantilismo della nostra specie, il disorientamento dell’animale umano di fronte alla mancanza di una nicchia ambientale che lo preveda, la sua esposizione a un profluvio di stimoli non correlati a comportamenti biologicamente vantaggiosi, e dunque il suo incarnare un compito rivolto a garantire le condizioni della propria sopravvivenza, un compito a sé medesimo, sempre esposto al fallimento.
Fin dall’inizio del suo interesse per la sofferenza mentale, Bollas cominciò a lavorare con bambini autistici, i più impossibilitati a tradurre in parola la loro patologia psichica, e con giovanissimi schizofrenici, i veri protagonisti del suo ultimo libro, appena pubblicato da Cortina, Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia (traduzione di Paola Merlin Baretter, pp. 184, euro 21.00), dove racconta, a partire dalla sua esperienza clinica, le più ricorrenti strategie che questi giovani pazienti elaborano per tenere a bada la loro angoscia, affannandosi a costruire un mondo pecrcepito attraverso i sensi e non mediato dalla mente.
Quasi sempre l’esordio della schizofrenia avviene nell’adolescenza, quando qualcosa di cruciale impedisce il transito dall’infanzia all’età adulta, ciò che rende fondamentale, a volte salvifico, trovare ascolto in un terapeuta disposto a una lunga, paziente accoglienza: esattamente l’opposto di quanto si verifica nella stragrande maggioranza dei casi, dove l’isolamento e altri interventi disumanizzanti favoriscono lo sprofondamento nella psicosi, dalla quale sarà difficile, poi, rimergere.
Eppure, la terapia fondata sulla parola, incoraggiando la ricapitolazione di quanto è avvenuto nel recente passato del paziente, ripristina in lui l’egemonia narrativa dell’Io, e funzionando da collante per le parti del Sé scisse, lo aiuta a ricomporre il suo scompenso psicotico. Nel denunciare la fretta di sbarazzarsi dei sintomi schizofrenici trasferendoli sui farmaci, Bollas parla di «incarcerazione psicotropa», identificando nella medicalizzazione vigente una minaccia alla dimensione umana, se è vero che per molti aspetti sintomo e persona sono tutt’uno. «Di fatto - scrive - l’idea che i disturbi mentali possano essere risolti tramite un intervento neurologico è un errore categoriale ridicolo quanto lo è confondere un programma radiofonico con la radio stessa».
Fra i vari luoghi nei quali Bollas ha lavorato, l’Istituto di Neuropsichiatria dell’Università di Roma, dove per vent’anni ha supervisionato casi presi in carico da bravissimi terapeuti, torna nei suoi ricordi come «il migliore ospedale psichiatrico per bambini che abbia mai visto», un paradigma della buona psichiatria, ora in stato di drammatica disfunzionalità. In compenso, da quando le teorie cognitiviste sono penetrate nel senso comune, generazioni di giovani psichiatri allo sbando, allenati a ignorare la ricorsività intrinseca di giochi linguistici che, se interpretati, potrebbero aiutare sensibilmente molti di questi pazienti, semplicemente scambiano la mente per il cervello e dunque proiettano l’esistenza del senso fuori dall’orizzonte dei loro interventi.
Tanto più preziosa, quindi, la testimonianza di Christopher Bollas, che nel corso della sua esperienza ha fra l’altro imparato quanto sia importante che il terapeuta si presti a farsi usare «come oggetto», lasciando libero il paziente di «installarsi» nella sua mente con i silenzi, con il pianto, con i vissuti emotivi riattivati nel ricordo delle sue prime esperienze di relazione.
Influenzato principalmente da Winnicott, poi da Marion Milner, e da Masud Khan, Bollas non perde di vista la lezione di Lacan sull’importanza della parola, né la teoria classica che lo rimanda alla logica della sequenza narrativa seguita dai racconti degli analizzandi; e tuttavia, tiene sempre al centro della sua attenzione anche la parte della psiche ancorata al mondo non verbale, sia nei bambini che negli adulti, esponendosi a quella esperienza drammatica che consiste nel restare presi nell’idioma del paziente, tollerando di non sapersi orientare, di non sapere dire chi si sia, e dove nella mente dell’altro.
Convivere con questa incertezza, dare valore alla propria capacità di perdersi nell’ambiente creato dal paziente, e dunque cedere il proprio senso di identità via via che la situazione clinica lo richiede, può essere un aiuto prezioso alla scoperta che l’analizzando fa di se stesso, mentre procede verso una coesione del senso di sé.
Per svolgere questo compito, l’analista deve riprendere la funzione trasformativa che ogni madre esercita nei confronti del suo bambino: mentre soddisfa i bisogni o li frustra, mentre attiva continui negoziati tra il mondo interno e quello esterno al bambino, la madre coincide non tanto con un oggetto esterno quanto con una trasformazione dell’essere del neonato, che intanto matura le capacità del suo Io, rendendosi capace di manipolare gli oggetti, di distinguerli, di ricordarli quando sono lontani, via via guadagnando l’approdo più significativo, quello al linguaggio. Ora, di fronte a una persona che chiede aiuto all’analisi, che sa di sapere qualcosa ma non l’ha ancora elaborata così da poterla pensare, l’analista dovrà funzionare da traccia mnestica, dovrà cioè riallacciarsi a quei ricordi che rimangono nell’Io anche se non sono cognitivamente registrati, per riprendere la funzione trasformativa della madre, là dove essa era stata disturbata o traumaticamente interrotta.
La struttura dell’Io - dice Bollas - «è una forma di memoria profonda». Alla sua organizzazione, alla sua grammatica, concorrono sia gli elementi ereditari che quelli ambientali, i processi istintuali insieme alle cure e alle regole che vengono dai genitori, in una dialettica costantemente rivolta alla realizzazione di un compromesso. Così, via via, l’esperienza di questi negoziati si trasforma in sapere, si iscrive nell’Io come una sua traccia costitutiva; ma questo non equivale a dire che il bambino sia del tutto capace di darsene una rappresentazione mentale, ovvero di pensarlo.
La lezione di Winnicott e quella di Freud sono determinanti, ma Bollas va oltre e formula un concetto, quello del «conosciuto non pensato», che dà notizie di qualcosa che neppure i sogni riportano, né le fantasie, sebbene possa permeare significativamente l’essere di una persona: la vita mentale, infatti, non si limita a quel che è traducibile nell’ordine del simbolico, ma accoglie esperienze profonde del Sé, che pur non avendo accesso a una rappresentazione psichica, vengono conservate e concorrono, così, a formare il senso della propria identità. Succede spesso - ricorda Bollas - che un bambino venga lasciato solo a confrontarsi con un problema per lui vitale, che esorbita le sue capacità di elaborazione.
L’allontanamento di un genitore, per esempio, se supera il tempo in cui il piccolo è capace di conservarne l’immagine mentale, scatena uno stato di angosciosa confusione, che rompe il senso di continuità della propria esistenza. Il trauma subìto diventerà, allora, non tanto un passaggio nel corso della vita, ma un evento che la definisce.
Le parole di Winnicott informano, come una traccia segnaletica, il pensiero di Bollas, che su questa base si dispone a consegnare una nuova centralità a processi psichici che chiama «conservativi»: un bambino troppo piccolo per avere accesso a capacità di elaborazione, o all’esperienza del tempo come fattore potenzialmente risolutivo, vivrà ogni trauma come qualcosa che entra a fare parte costitutiva del suo senso identitario. Per quanto questi stati mentali siano preoccupanti, per quanto attivino processi insostenibili al pensiero, devono essere trattenuti - dal bambino prima e dall’adulto poi - allo scopo di «mantenere intatta la vita». E andranno, infatti, a formare un stato del Sé. Una delle finalità della alleanza terapeutica sarà dunque quella di fare emergere in superficie quel che già si sa, senza mai averlo potuto pensare. Mondi che a lungo sono sembrati imperscrutabili anche dalla psicoanalisi classica, si aprono se non altro a una provvisoria mappatura tra le pagine di Bollas, che testimonia la sua passione fornendo, in coda al suo libro, una bibliografia ragionata di radicale utilità.
Il primo caso di cui lo psicoanalista inglese riferisce nel suo nuovo libro riguarda un bambino di nome Nick, che si presentò come «classicamente autistico», ma dopo alcuni anni cominciò a parlare; e mentre si schiudeva il suo «guscio» cresceva in lui l’aggressività indotta dal non sapere come mettersi in relazione con gli altri. Alle angosce di Nick, Bollas prestava lunghi tempi di ascolto, semplicemente accogliendole senza pretendere di interpretarle.
Nella seconda metà del XX secolo era pressoché scontato, in ambito psichiatrico, il fatto che si dovesse evitare categoricamente di chiedere a un paziente schizofrenico o maniaco-depressivo di associare liberamente i suoi pensieri, perché era anzi necessaro favorire in lui saldi ancoraggi alla realtà e puntellamenti delle sue difese, rinunciando a occuparsi dei significati inconsci nascosti nelle sue parole. Ma l’esperienza del lavoro con giovani schizofrenici, unita alla lezione di psicoanalisti tra i quali Harold Searles, Wilfred Bion, Herber Rosenfeld, Hanna Segal, convinsero Bollas del contrario, e l’entusiasmo manifestato da Nick quando partecipava al racconto di una storia gli suggerì che se un bambino psicotico era in grado di fargli capire come aiutarlo, favorendo nell’ascolto delle sue parole l’accesso a contenuti inconsci, una simile opportunità andava offerta anche a pazienti psicotici adulti.
Quasi tutti gli schizofrenici prima o poi sperimentano vocazioni animistiche: tendono a animare il mondo degli oggetti, e fra questi si muovono con cautela, temendo di risvegliarli. Inizialmente, le voci che sentono sembrano provenire da questo universo di oggetti inanimati, un albero, una roccia, un nascondiglio; ma con l’andare del tempo le voci, in genere, si scollegano dagli oggetti e si installano nelle mente. È dall’interno della mente che ora parlano: hanno origine da parti distinte del sé bambino, probabilmente in conseguenza del fatto che una qualche contingenza della sua vita lo ha costretto a respingere dalla sua psiche eventi troppo dolorosi per essere pensati. Dunque, questi accadimenti espulsi, che non rientrano perciò nella coscienza che egli ha della propria storia, quando si ripresentano sotto forma di voci, sembrano parlare dall’esterno. Accogliere e tributare di rispetto queste voci aiuta lo schizofrenico a riprendere possesso dei propri pensieri, e lui stesso - persona spesso evoluta e acculturata - finisce per trovare noiosa e prevedibile la ripetitività di questi che, a volte diventano veri e propri imperativi, finché a poco a poco non li destituisce di credibilità.
«Quando il sole è esploso», l’espressione che dà il titolo al libro, non è una metafora d’accatto inventata per smaltare di lirismo gli effetti di una tragedia psichica, ma è la risposta che un giovane venticinquenne diede a Bollas quando gli venne chiesto di descrivere come avesse percepito il cambiamento che si era verificato in lui quando qualcosa nella sua mente aveva cominciato a alterarsi. Diversamente da quanto accade in altre psicosi, la schizofrenia conosce quasi sempre momenti apocalittici, che cambiano la vita del soggetto per sempre e trasformano gli altri in potenziali nemici: perché inspiegabilmente non partecipano, anzi ostentano indifferenza, a quella minaccia che ha rischiato di annientarlo.
Diventando schizofrenica, una persona può trasformare le memorie del proprio passato in una sorta di narrazione mitologica, nella quale la propria famiglia, gli individui più vicini, la sua stessa infanzia si caricano di significati nascosti che solo lei può svelare: così, il peso del dolore può venire spostato dalle esperienze vissute a un nuovo grandioso mondo inventato, di cui solo lo schizofrenico possiede la chiave. Ma quando si verifica uno scompenso psicotico, il Sé perde la capacità di trasformare il passato in una narrazione, sia perché la mente schizofrenica smarrisce la possibilità di storicizzare e dunque di integrare le sue rappresentazioni mentali, sia perché diventa intollerabilmente dolorosa la frattura della relazione che il proprio Sé intratteneva con il passato, facendo avvertire quella relazione come per sempre perduta. Che tutto ciò possa venire «curato» avendo come riferimento gli ingranaggi del cervello e ignorando il senso profondo del dolore psichico dovrebbe essere materia per un teatro dell’assurdo; invece è prassi quotidiana.
* Questo articolo è uscito su «il manifesto»: Le parole e le cose, 21 giugno 2016
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente difare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
Stesi sul lettino nei Paesi dell’Islam
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, o5.10.2012)
Lo scorso 26 settembre, di fronte al numeroso corpo consolare insediato a Milano, Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera», sottolineava l’urgenza di «progredire nella pace e nel dialogo in una società multietnica». Per una coincidenza tanto casuale quanto indicativa dell’attualità di questi propositi, domani si terrà all’Università di Pavia, nella storica sede del Collegio Ghislieri, un seminario internazionale dal titolo «Geografie della psicoanalisi». La metafora rinvia al confronto e al dialogo tra le molte psicoanalisi operanti oggi nel mondo. Una prospettiva coraggiosa per un sapere nato all’inizio del Novecento, nell’ambito della minoranza ebraica viennese in cerca d’identità e integrazione.
Come spesso accade nella storia del pensiero scientifico, dallo scandaglio del particolare sono emersi paradigmi ritenuti universali. Il primato dell’Inconscio, il complesso di Edipo, il disagio della civiltà e la pulsione di morte, insieme alle regole per lo svolgimento della cura, hanno costituito, sotto la tutela dell’IPA, la Società internazionale di Psicoanalisi, un corpus teorico e clinico sostanzialmente stabile e omogeneo. Ma ora l’intensificarsi di relazioni multietniche induce a chiedersi: «Che cosa sopravvive della psicoanalisi, una volta messa a dimora in culture estranee e lontane?
Dalla rivista «Psiche», cui il seminario s’ispira, sono state anticipate alcune questioni. Ad esempio, si può trasferire la prassi del lettino in contesti, come quello islamico, caratterizzati dalla intransigente affermazione della superiorità maschile? Per lo psicoanalista Gehad Mazarweh dell’Università di Teheran, intervistato da Daniela Scotto di Fasano, la posizione frontale è preferibile soprattutto per la paziente donna, che ne trae una conferma della sua emancipazione. A una conclusione analoga giunge la psicoanalista Gohar Homayounpour osservando che, in Iran, un uomo non si sdraierebbe mai dinnanzi a un’analista donna.
Anche il fine della terapia è diverso: nel mondo occidentale si tratta di ricomporre un individuo frammentato rimettendolo in contatto con le parti rimosse della sua identità e con i rapporti sociali spezzati dall’affermazione narcisistica di sé. In società ad alto indice di collettività si chiede invece alla psicoanalisi di sostenere l’emancipazione dai condizionamenti familiari e ambientali, l’acquisizione di spazi di libertà personale.
Nei nuovi rapporti culturali e professionali Lorena Preta teme possano emergere atteggiamenti neocolonialisti, improntati a una presunta superiorità della cultura occidentale. Una tentazione evitabile privilegiando la psicoanalisi della domanda, cogliendo le provocazioni dell’alterità, sopportando l’ansia del dubbio e la fatica della ricerca, accettando la reciprocità e il cambiamento.
Non dimentichiamo che l’esilio impronta la storia e la teoria della psicoanalisi, fondata sul decentramento dell’Io e l’interpretazione dell’Inconscio. Il seminario si svolgerà attraverso colloqui tra psicoanalisti italiani e stranieri che studiano e lavorano in paesi islamici, mentre Livio Boni, dell’Università di Tolosa, affronterà il contatto con l’India, un subcontinente che suscita in noi contrastanti fantasie di «origine assoluta e irriducibile alterità».
Perché questa straordinaria avventura di traduzioni e ibridazioni reciproche s’inaugura a Pavia? Perché in quell’ateneo gli studi psicoanalitici sono sempre stati aperti alla storia e al confronto con le altre discipline, tra cui una intensa collaborazione con la psichiatria e l’antropologia.
In linea generale, dalla geografia della psicoanalisi ci si attende un contributo alla comprensione di chi, proveniente da paesi lontani, pur vivendo accanto a noi, ci rimane estraneo.
E, in modo specifico, una riflessione su tecniche e saperi minacciati, come sempre accade, dall’irrigidimento delle tradizioni e dal conservatorismo delle istituzioni.
Le “geografie della psicoanalisi”
sabato alla Luiss
la Repubblica, 01.10.2015
ROMA. Si intitola Geografie della psicoanalisi (Psychoanalysis in the world - Crosses between cultures) il convegno che si terrà sabato 3 ottobre a Roma, nell’Aula Chiesa dell’Università Luiss “Guido Carli”, in Viale Romania.
Un incontro che intende affrontare la problematica delle interconnessioni tra la psicoanalisi e le varie culture del mondo. Tra i temi della discussione, il modo in cui culture lontane - Asia, paesi arabi e dell’Est Europa - rispetto a quella occidentale dove la psicoanalisi è nata e si è sviluppata possano portare nuovi apporti alla disciplina. E se, tramite le loro specifiche mitologie, siano in grado di dare una nuova e diversa visione dell’uomo proposta finora dalla psicoanalisi.
Ci si interrogherà, poi, sul fatto se ci siano o meno dei principi universali sui quali si basa la visione della mente che la psicoanalisi propone. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti.
Geografie
Un incontro internazionale alla Fondazione Cini. Sulle tracce di Matteo Ricci
Cina, la rivoluzione silenziosa
Il sinologo François Jullien: il Tao ha creato la superpotenza
di François Jullien (Corriere della Sera, 26.05.2009)
Che cosa s’intende per «trasformazione silenziosa»? L’eroe del modo di narrare europeo non si pone soltanto dei fini, deve ugualmente agire per far sì che la forma ideale che ha tracciato accada. Sappiamo che uno dei temi più importanti del pensiero cinese, di qualsiasi scuola esso sia, ma particolarmente ricorrente nel taoismo, è il «non-agire» ( wu wei), che non può essere inteso come disimpegno, e ancor meno come rinuncia o passività. Se il saggio o lo stratega non agiscono, essi «trasformano» ( hua): cioè fanno in modo che a poco a poco, con il loro influsso, la situazione evolva nel senso desiderato. La trasformazione si manifesta precisamente come il contrario dell’azione. L’azione, per il fatto d’essere locale, momentanea e riferita a un soggetto (agisco «qui e adesso»), si smarca dal corso delle cose e si fa rimarcare, divenendo in tal modo oggetto di un racconto (l’epopea). La trasformazione è invece troppo globale e progressiva, fondandosi sul corso delle cose, per lasciarsi reperire nel proprio processo. In questo è «silenziosa». E solo a cose fatte se ne constata il risultato.
Prendiamo ad esempio le «trasformazioni silenziose» che tutti noi viviamo, quelle del riscaldamento climatico o dell’invecchiamento. Le chiamo «silenziose », perché non le percepiamo. L’azione, ci dicono i cinesi, è tanto più visibile in quanto forza la situazione ma, riguardo ai suoi effetti, resta un epifenomeno. La trasformazione è invece effettiva, e addirittura è tanto più effettiva in quanto non la vediamo all’opera e non fa evento.
In che cosa tali nozioni possono chiarire il presente della Cina? Non mi pare che la Cina, ancora oggi, progetti un piano per l’avvenire, persegua un fine preciso o una finalità, anche imperialistica; ma che sfrutti al meglio i fattori favorevoli - in qualunque campo: economico, politico, internazionale, e in qualunque occasione - per rafforzare la propria potenza. È soltanto adesso che cominciamo, un po’ sbalorditi, a constatarne i risultati: in qualche decennio, la Cina è diventata la grande fabbrica del mondo e crescerà ancora. E questo senza grandi avvenimenti di rottura.
Deng Xiaoping, il «Piccolo timoniere», è stato il grande trasformatore silenzioso della Cina. Ha fatto passare gradualmente la società cinese, alternando liberalizzazione e repressione, da un regime socialista a un regime ipercapitalista, senza mai dover dichiarare una vera e propria spaccatura fra i due regimi.
Prendiamo l’immigrazione cinese: si estende da un quartiere all’altro, ogni nuovo arrivato fa venire pian piano anche i propri cugini; le celebrazioni cinesi assumono da un anno all’altro maggiore importanza, e così via. Ma la transizione è talmente continua che non ce ne rendiamo conto e di conseguenza restiamo senza appigli per arginarla. Tale trasformazione, insomma, è così progressiva e silenziosa, che non la vediamo. Ma ecco che, d’improvviso, un giorno ci accorgiamo che nella nostra strada tanti negozi sono cinesi...
Se osserviamo la storia della Cina contemporanea, constatiamo che in questo Paese non è accaduto quel che si è verificato nell’Unione sovietica che ridiventava la Russia: il XX congresso, la destalinizzazione, la perestroika, eccetera. In Cina, cioè, non c’è stato un taglio con il passato; e per questo lo stesso partito è potuto restare al potere. C’è stata una demaoizzazione in nome di Mao, ricorrendo ad altre sue citazioni che incitavano a un maggior realismo.
Ricordo il mio stupore di studente in sinologia quando un bel giorno mi accorsi che la citazione di Mao, riportata in un riquadro nella parte superiore del giornale, non era più in grassetto: ma le citazioni abbondavano nel resto della pagina. Poi le citazioni di Mao hanno cominciato a cambiare, se ne sono preferite altre; poi sono diventate più rare. Poi, poi...
Questo modo di guidare il cambiamento ha un duplice effetto: da un lato, evita che si verifichi una rottura che mette in questione la legittimità del potere; dall’altro, obbliga a vivere nella connivenza, obbliga a una lettura in diagonale, e crea complicità con la trasformazione avviata. In effetti, lo scarto è ogni volta troppo piccolo, o troppo sfumato, perché ci si possa ribellare.
Mi trovavo in Cina quando Deng Xiaoping tornò in politica. Come fu riabilitato? Dopo la morte di Mao, nel settembre 1976, si continuò la linea della «critica di Deng». Semplicemente, le formule annesse, che sostenevano quella linea-guida, divennero progressivamente più rare. Poi, un bel giorno, è apparsa l’espressione: «Errori di Deng Xiaoping ». E tutti hanno capito che era stato riabilitato, o piuttosto che era già tornato al potere. Infine, ecco riapparire l’espressione: «Compagno Deng Xiaoping».
Questo genere di strumenti teorici è necessario per capire il caso unico che la Cina odierna rappresenta: quello di un regime ipercapitalista che si nasconde sotto un coperchio comunista, in ogni caso quello di una struttura gerarchica burocratizzata. Lo stesso Partito comunista si è molto trasformato.
La Cina ha saputo rinnovare la propria élite, da una generazione all’altra, grazie anche ai soggiorni all’estero dei propri dirigenti. Attualmente, alla direzione del Partito c’è una generazione di manager. Ma il Partito è rimasto la struttura del potere, continua a comandare e a richiamare all’ordine coloro che protestano.
L’incontro del pensiero cinese e del pensiero europeo dovrebbe indurci a pensare questo: che l’universale non nasce spontaneamente, insieme alla «natura umana», ma non è altro che un orizzonte che conduce a mettere le culture una di fronte all’altra, e soprattutto fornisce l’esigenza di tale confronto. Poiché, oltre a questo universale, vanno anche prese in conto le categorie dell’uniforme e del comune. Il comune è quello che condividiamo. Sta nella categoria dell’intellegibile; è il motivo per cui, fra cinesi e europei, possiamo capirci e dialogare. Quanto all’uniforme, esso è il contrario dell’universale, o la sua perversione: non si basa su una necessità della ragione, ma su una comodità della produzione (come lo standard, lo stereotipo). È da questa dittatura discreta dell’uniforme che oggi siamo minacciati.
Dobbiamo quindi smettere, in Europa, di utilizzare l’«Estremo Oriente» come se fosse un rovescio mistico della ragione europea: farne un rovescio, significa ancora rimanere chiusi in noi stessi; o di utilizzarlo come una semplice variazione della ragione europea di cui il pensiero cinese, se si proiettano su di esso le evidenze razionali dell’Europa, non sarebbe più che un facsimile?
Andando incontro al pensiero cinese e al pensiero europeo, sarà bene adoperarsi insieme per far di nuovo lavorare la ragione, aprendo per essa nuovi cantieri. (traduzione di Daniela Maggioni)
La mostra
Matteo Ricci. Incontro di civiltà nella Cina dei Ming promossa e realizzata dalla Regione Marche, terra natale del gesuita, si è aperta ieri al Capital Museum di Pechino e toccherà anche Shanghai, Nanchino e Macao.
Matteo Ricci, eroe dell’altro mondo
Pechino s’inchina alla memoria del mitico gesuita che alla fine del ‘500 aprì la via del dialogo tra la cultura cinese e quella europea, con un’esposizione che ripercorre tutte le tappe della sua avventura
di Stefania Scateni (l’Unità, 07.02.2010)
Il giardino è spoglio e silenzioso, bassi mucchietti grigi di neve ghiacciata decorano gli angoli dei sentieri, lasciando la strada si cammina tra due siepi in uno stretto viottolo che si apre su un piccolo spiazzo che accoglie due alberi e una tomba. Fuori dalla calma del giardino, la città è in fibrillazione: questo è l’ultimo weekend utile per comprare i doni di capodanno, i clacson sbraitano, il traffico intasa le strade decorate di luci e girandole cangianti agitate dal vento freddo, centinaia di persone camminano veloci sotto le insegne luminose dei negozi e di centri commerciali addobbati come profani templi pop. Pechino si muove veloce e rumorosa.
Ma qui, appena fuori le mura della città vecchia, c’è un po’ di pace. Una piccola delegazione di italiani e cinesi rende omaggio alla tomba di Li Madou, il primo straniero che nel 1610 ebbe l’onore di essere sepolto in terra cinese per decreto dell’imperatore. Li Madou è Matteo Ricci, il gesuita che alla fine del ’500 riuscì ad aprire un dialogo tra la cultura cinese e quella europea al quale l’Italia ha dedicato una mostra itinerante. E la cerimonia di ieri mattina sulla tomba di Matteo Ricci è l’inizio di una storia che i cinesi conoscono forse meglio di noi. Anche se Ricci era italiano, nato a Macerata nel 1552: poco noto agli italiani, per i cinesi un «maestro occidentale» la cui opera viene ricordata e studiata.
Matteo Ricci Incontro di civiltà nella Cina dei Ming promossa e realizzata dalla Regione Marche, terra natale del gesuita, si è aperta ieri al Capital Museum di Pechino e toccherà anche Shanghai, Nanchino e Macao.
L’esposizione racconta una storia, l’avventura di un uomo che ha raggiunto un altro mondo con il coraggio, la curiosità e l’apertura mentale di un grande esploratore di terre e saperi. Matteo Ricci era uno scienziato in missione per conto del suo Dio. Un gesuita dalla memoria prodigiosa, che sapeva costruire orologi e maneggiava con naturalezza la teologia, la giurisprudenza, la geometria, le lettere, l’astronomia, la geografia e la cartografia. Un intellettuale del Rinascimento, il suo tempo, per il quale la conoscenza non ha steccati, così come non ha ostacoli il piacere di imparare. Ricci affrontò la sua missione con prudenza e nello spirito dell’incontro e dell’amicizia: era consapevole che la Cina fosse un «altro mondo», con una forte identità di civiltà e cultura. Non aveva intenzione né possibilità di «occupare» o «imporre». E non aveva paura dell’«altro».
Nel suo avvicinamento lento e graduale da Macao a Pechino (ci mise 18 anni) decise di attenersi scrupolosamente ai costumi e ai cerimoniali, stabilì che ci fossero due padri stranieri in ogni residenza per non suscitare sospetti, si rasò il capo e vestì come i monaci buddisti, perché a Zhaoqing la condizione per avere un terreno su cui costruire una casa e una cappella era quella di accettare di equipararsi ai bonzi, e soprattutto mise a disposizione il suo sapere umanistico e scientifico, insegnando matematica, l’uso della dialettica, l’arte della memoria.
Nei suoi incontri con i letterati confuciani e le personalità importanti mostrò la carta geografica del globo e un orologio automatico; introdusse i cinesi alla filosofia greca, sostenendo che Confucio aveva delle grandi affinità con Seneca, tradusse in cinese i primi libri degli Elementi di Euclide e realizzò un atlante mondiale in cinese, la Grande Mappa dei Diecimila Paesi sulla Terra. Donò e ricevette, lontano dalla Santa Sede e dalla politica vaticana fu più libero e meno dogmatico.
La mostra, curata da Filippo Mignini, direttore dell’Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l’Oriente, ripercorre tutte le tappe di questa avventura. Ci introduce al paese di origine del gesuita, la nascita nelle Marche, gli studi a Roma, e alla cultura rinascimentale nella quale visse fino a ventisei anni: una sala è dedicata agli artisti rinascimentali dell’Italia centrale e propone due arazzi disegnati da Raffaello, il Ritratto di Filippo II di Tiziano, Battesimo e La forza che sconfigge la Fortuna di Lotto, opere di Giulio Romano, Simone de Magistris, Barocci.
Il lungo viaggio, compiuto per lo più a bordo di galeoni portoghesi, inizia nel 1577: dopo le Marche e Roma, continua per La Spezia, Genova, Cartagena, Coimbra, Lisbona, Mozambico, Goa, Cochin, Malacca, Macao. Il percorso da Macao a Pechino occupa la parte più corposa della mostra, che descrive non solo il percorso fisico di Matteo Ricci, ma anche il suo viaggio intellettuale attraverso stampe, rotoli dipinti, oggetti dell’epoca, carte geografiche.
AMBASCIATORE D’EUROPA
Cinque le tappe che segnano il lento e deciso avvicinamento all’imperatore: Zhaoqing, Shaozhou, Nanchang, Nanchino e Pechino, dove vivrà nove anni fino alla morte sotto la protezione dell’imperatore Wanli, che però non incontrerà mai personalmente. Tra i doni che il missionario gli fece recapitare come «ambasciatore d’Europa», una Madonna con Bambino e S. Giovannino del Sermoneta e una copia cinquecentesca della Madonna di S. Maria Maggiore. Pare che l’estremo realismo delle figure e i loro occhi grandi avessero spaventato l’imperatore, che li affidò alla madre, buddista, la quale li chiuse in un armadio. Questo, naturalmente, non ebbe alcun ricasco sul successo della missione di Matteo Ricci. Pochi anni dopo la sua morte l’imperatore decretò la possibilità per i cristiani di praticare la loro religione.
La mostra si chiude con il celebre ritratto a olio di Ricci dipinto a Pechino dal pittore cinese Yu Wen-Hui, detto il Pereira, il giorno dopo la morte del «maestro occidentale» (conservato nella Chiesa del Gesù a Roma). A guardarlo attentamente, si nota che la veste nera del gesuita ha una sfasatura: il bianco del collare «taglia» a metà la linea di un collo a scialle, come se il disegno originale fosse stato coperto col colore. Forse Matteo Ricci indossava un abito da mandarino?●
Dalla “conquista” all’integrazione
di Nuccio Ordine (Corriere della sera, 7 febbraio 2010)
Pistole e archibugi da una parte, manoscritti e teoremi dall’altra; la certezza di essere a contatto con esseri bestiali degni di schiavitù o la convinzione di avere a che fare con uomini degni di rispetto? Voler imporre la propria lingua e la propria cultura o parlare la loro lingua e adeguarsi ai loro costumi? Rapinare ricchezze o condividere la geometria euclidea e fare tesoro dei loro classici? Due concezioni diametralmente opposte di rapporto con l’«altro» si incarnano nelle esperienze compiute dai conquistadores nel Nuovo Mondo (1492) e da Matteo Ricci in Cina (1583).
Si tratta di realtà culturali profondamente diverse, è vero. Si tratta di spedizioni effettuate in momenti distinti (l’ultimo decennio del Quattrocento e l’ultimo ventennio del Cinquecento), certamente. Si tratta di popoli che avevano un’organizzazione sociale incomparabilmente differente, non c’è dubbio. Si tratta di una «conquista» con un esercito alle spalle e di un tentativo («fallito») di evangelizzazione dall’altra, non si discute. Restano evidenti, però, due strategie così distanti che hanno finito per disegnare modelli incompatibili di relazione con civiltà lontane da quelle occidentali.
La scoperta del Nuovo Mondo suscitò immediatamente un vasto dibattito in Europa sulla diversità dei popoli, sulla schiavitù, sui rapporti tra «bestialità» e «umanità», tra cultura e barbarie, tra natura e civiltà. In che maniera il vecchio continente avrebbe dovuto comportarsi di fronte all’«altro»? Le risposte furono molteplici e contraddittorie.
Le tesi dell’umanista Juan Ginés de Sepúlveda - che considerava gli indios schiavi per natura a causa della loro barbarie - giustificavano, di fatto, la violenza dei conquistadores contro gli indigeni che, mostrandosi ostili alla conversione, meritavano di essere «presi et fatti schiavi, abbruciati et ammazzati, facendo ogni stratio delle lor carni e della vita». Poche voci si levarono in Europa a difesa della dignità umana e del diritto delle popolazioni americane a vivere in pace.
«Tra questi agnelli mansueti - scriveva nel 1542 Bartolomé de Las Casas nella sua celebre Brevissima relazione della distruzione delle Indie - entrarono gli spagnoli, come lupi, come tigri e leoni crudelissimi. Altro non han fatto da quarant’anni a questa parte che straziarli, ammazzarli, tribolarli, affliggerli, tormentarli e distruggerli con crudeltà straordinarie di cui non si è mai saputo, né udito, né letto prima».
La sua testimonianza diretta, per quanto enfatica in alcuni passaggi, rappresentava comunque una delle rare voci di denuncia del genocidio che la macchina coloniale stava compiendo nel Nuovo Mondo. E - lungo la sottile linea del dissenso - Montaigne insisteva sulla relatività delle culture («ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi»), mentre Giordano Bruno denunciava la brama del profitto mostrando come dietro presunti marinai animati dal desiderio di conoscenza si nascondessero «solleciti predatori» («primi pirati») assetati d’oro e d’argento.
Facendo tesoro degli insegnamenti dei Gesuiti, Matteo Ricci varca la frontiera cinese nel settembre del 1583 e, senza ritornare più in Europa, muore a Pechino l’11 maggio del 1610. I suoi ambiziosi progetti di evangelizzazione lo spinsero immediatamente a imparare la lingua mandarina, a leggere i classici, a conoscere i costumi locali.
Sin dall’inizio, Xitai (anche così veniva chiamato, con nome onorifico che significa «Maestro dell’estremo Occidente») capisce che in quella lontana civiltà bisogna rivolgersi immediatamente ai letterati. E così pubblica in cinese nel 1595 il «Dell’amicizia» (si veda l’edizione, con a fronte la traduzione cinese, a cura di Filippo Mignini apparsa da Quodlibet nel 2005: una nuova ristampa è annunciata per marzo 2010), la sua prima opera che diventa straordinario biglietto da visita per promuovere un dialogo tra le due culture.
Ricci - come ha ben spiegato Mignini nella sua ricca introduzione - seleziona le celebri massime dei classici occidentali sull’amicizia tenendo presente alcune riflessioni sullo stesso tema del confucianesimo: un’elegante strategia, che in seguito lo spingerà a rendere Deus con il termine cinese Tianzhu (Signore del Cielo), per mostrare come estremo Oriente e Occidente potessero trovare sul piano morale un linguaggio comune. Anche la traduzione dei primi sei libri della Geometria di Euclide (1607), compiuta con l’aiuto del suo amico Xu Guangqi, servì ad accreditarlo con prestigio presso le più alte autorità dell’Impero.
Xitai, ormai diventato Mandarino, sperimenta di persona che in Cina scrivere libri vale più di ogni altra cosa («Questa Amicizia mi ha dato più credito a me e alla nostra Europa di quanto abbiamo fatto»). Non a caso Feng Yingjing mostrerà, nella sua prefazione al Dell’Amicizia, di aver percepito a pieno le intenzioni dell’autore, ricordando che Ricci «dopo aver fatto un difficile viaggio verso Oriente è venuto in Cina per farsi degli amici».
Cinese in esilio, il premio Nobel per la Letteratura risale alle fonti della sua ispirazione. Dove si fondono Oriente e Occidente
Gao Xingjian. Le mie parole d’acqua e fuoco
«Così gli elementi naturali plasmano i romanzi e la pittura»
«Per sopravvivere in patria ho dovuto imparare a controllare la collera, che spesso - quando ero giovane - era furiosa ed esplosiva»
«L’aria possiamo definirla anima, senza significato religioso: l’anima è uno stato dello "spirito", che evoca e dal quale si emanano le sensazioni»
di Gao Xingjian (Corriere della Sera, 29.06.2008)
Scegliere uno dei quattro elementi, Aria, Acqua, Fuoco, Terra. Scegliere uno dei quattro elementi, identificando in esso la mia predominante interiore e riconducendo a esso la mia opera artistica, per me è molto difficile. La concezione dei quattro elementi, che secondo le teorie dell’antichità occidentale componevano il mondo, corrisponde alla visione del mondo che si aveva nell’antichità in Cina, anche se con alcune differenze. Gli elementi, nella visione cinese, sono cinque e non coincidono perfettamente con quelli occidentali. Abbiamo l’acqua, il fuoco, la terra, ma anche il metallo e il legno. Non c’è invece l’aria. Prima di questa concezione del mondo, in Cina ne esisteva un’altra, alla base dello yin e yang, secondo la quale al contrario tutto proveniva dall’elemento aria. La pratica esoterica di interpretare un individuo a partire da un elemento esisteva in Occidente come in Cina ed esiste tuttora.
Sia rimanendo all’interno del pensiero occidentale sia aderendo a quello cinese, sceglierne uno, ripeto, per me è difficile. In me c’è l’elemento fuoco, non come forza distruttrice, ma come permanenza di uno stato costante di energia. Mi sento molto vicino però anche all’elemento acqua, che più rappresenta per me la vita. L’acqua scorre in molte delle mie opere. E’ il corso del fiume Yangzi al centro del romanzo La montagna dell’anima, è il mare profondo e tenebroso sotto la luna in cui nuota l’uomo nel racconto Il crampo, la pozza di acqua fangosa, come una palude che invade lo spazio del magazzino dove si sono rifugiati i tre protagonisti del testo teatrale La fuga, il fiume dell’oblio nell’altro testo teatrale L’altra riva, l’inchiostro di china che uso per dipingere i miei quadri e che si allarga come una macchia liquida nel film La silhouette sinon l’ombre. L’acqua è forse una dominante, ma nello stesso tempo mi sento profondamente radicato anche alla terra, piantato con radici profonde. È il mio essere realista. Ma la mente spesso si libra, vola senza ostacoli, ecco l’aria.
In me, sento che gli elementi aria e terra sono inoltre strettamente legati così come lo sono l’altro polo di opposti, fuoco e acqua. È per questo motivo che mi è assolutamente difficile, se non impossibile, prendere delle distanze da un elemento piuttosto che da un altro. La compresenza dei quattro elementi crea un equilibrio nei contrasti. Tale equilibrio è stato una conquista del tempo. Se lascio sfuggire il mio fuoco, tutto viene messo in crisi. Nel passato, quando ero giovane, accadeva che il fuoco eruttasse come un vulcano. La collera era furiosa ed esplosiva. Ma sotto il regime politico che c’era in Cina, non riuscire a contenere la propria collera era pericolosissimo e mi sono trovato in situazioni davvero problematiche. Ho dovuto imparare, per sopravvivere e non ammalarmi, a controllare il fuoco e a metterlo in armonia con gli altri elementi. Regolare questi elementi contraddittori è veramente un’arte per la vita, è l’arte della vita.
Legarmi e legare i quattro elementi mi hanno «destinato » ad amare la natura, la grande natura fisica e la natura umana. E a non pormi in una posizione di giudizio. Non serve a niente dire questo è buono, questo è cattivo. Tutto ciò che esiste ha caratteristiche determinate dalla natura, deve e può essere così e non altrimenti. Sta a noi accettarlo, come parte necessaria della vita. È questo trovare l’equilibrio e provare a non essere infelici. Se parliamo però di natura, nel mondo fisico, non possiamo non parlare anche di scienza e conoscenza scientifica. Essa avanza a velocità impensabili un tempo. La conoscenze e la lettura che diamo di certi fenomeni fisici sono sottoposte rapidamente all’usura del tempo. Ciò che era valido venti anni fa adesso è già superato.
Al contrario, nell’arte e nella letteratura, i quattro elementi che vengono applicati alla natura e alla lettura dell’interiorità dell’uomo, di cui sono il riflesso, conservano sempre il loro valore, poiché toccano le sensazioni e sensi: la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto. Tutto può essere direttamente captato attraverso i sensi dell’essere umano. L’arte e la letteratura hanno così un linguaggio proprio e diverso rispetto a quello della scienza. Mentre la razionalità e l’analisi, a partire dai mezzi tecnici che vengono adoperati per sperimentare e verificare, sono alla base della scienza, nell’arte tutto deve essere legato dalle sensazioni. Parlando di arte figurativa, trovo che l’arte contemporanea sia diventata molto concettuale, perfino molto «tecnica».
Mi sembra che manchi proprio del linguaggio delle sensazioni e che l’influenza del linguaggio scientifico sia eccessiva. Ma la scienza non può sostituire l’arte e il suo linguaggio non può essere quello della creazione artistica. Dovremmo ritornare al linguaggio dell’arte come linguaggio delle sensazioni umane. Abbiamo avuto il culto del meccanicismo all’inizio del XX secolo. È ciò che ha dato impulso alla nascita dell’arte moderna. Ma ormai è il passato. Il culto del linguaggio scientifico adesso è come un gioco da bambini, porta a un paradosso. Ciò che sembrava aderente al proprio tempo e all’avanguardia dal punto di vista scientifico venti anni fa, adesso, con i passi da gigante che fa la scienza, diventa ridicolo. Così, un’opera d’arte che porti in sé quel linguaggio è immediatamente superata e viene meno al carattere di eternità e di valore nel tempo che dovrebbe avere, di cui invece sono testimonianze bellissime molte opere dell’arte romana e greca. Ma l’arte per sopravvivere al proprio tempo deve avere fare appello alle sensazioni umane. E questo perché l’essere umano in fondo è immutabile.
Pensiamo di cambiare, ma i principi di fondo che ci governano sono gli stessi da sempre. I quattro elementi, evocando le sensazioni umane, sono alla base del linguaggio dell’arte e della creazioni artistica. Se poi pensiamo in particolare all’elemento aria, noi parliamo dello «spirito». Quando nella teoria dei quattro elementi applicata all’interiorità dell’uomo diciamo «aria», non pensiamo certo alla composizione chimica dell’aria, ma facciamo appello allo «spirito », che è quanto c’è di più profondamente legato alla natura umana dal punto di vista psichico. L’aria, allora, possiamo definirla «anima», non alludendo al concetto religioso. L’anima è uno stato dello «spirito», che evoca e dal quale si emanano le sensazioni. Il linguaggio della creazione artistica è quindi legato all’anima. Noi sentiamo in un’opera se quest’anima esiste e nell’osservatore spettatore questo provoca un’eco. Anche una volta che l’artista è morto, se l’opera ha un’anima, riuscirà a trasmettere delle emozioni, a veicolare la propria anima a chi si troverà a contemplarla, godendo di una proprietà transitiva. I quattro elementi costituiscono un linguaggio per la creazione artistica poiché si basano sullo studio dei sensi e delle sensazioni. E in questo modo, si trasformano da elementi materiali in spirituali.
(Testo tradotto e curato da Simona Polvani)
Riflessione L’Oriente che non c’è
Riflessione su visioni esotiche e pregiudizi di un immaginario comune.
di Adel Jabbar
Ringraziamo il carissimo amico Adel Jabbar per averci inviato la sintesi di un suo intervento in un recente convegno. Adel Jabbar, di origine irachena, è sociologo, ricercatore del RES di Trento, insegna "Sociologia delle culture e delle migrazioni" presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. *
“L’Oriente che non c’è” è un titolo che sembra fumoso e ambiguo e di fatto lo è. Un episodio accadutomi qualche anno fa dimostra la nebulosità di tale accezione, quando un giorno, ad un corso all’università, si facevano delle riflessioni sulla razionalità come caratteristica dell’Occidente, a differenza della emotività che era perlopiù caratteristica dell’Oriente. A quel punto mi sono posto e ho posto questa domanda: “dove iniziano e dove finiscono Oriente e Occidente?”
Quando si disquisisce di Oriente e Occidente, ci si riferisce a entità che non esistono e che non hanno un’effettiva consistenza, quasi fossero delle amebe. Poi se per capire guardiamo la geografia, le cose si complicano ancora: ad esempio si pensa al Marocco come fosse parte dell’Oriente, mentre si trova più ad occidente dell’Italia.
Quando si parla di grandi contenitori (come Oriente e Occidente), sovente si trascura il fatto che dentro tali spazi ci sono le persone. E nella storia le persone non hanno fatto altro che camminare. Da sempre l’uomo cammina verso l’opportunità e in questo cammino si intrecciano esperienze, credenze, scienze, tecniche, saperi e sapori.
Di fronte alla complessità della storia, è necessario oggi decostruire il proprio immaginario al fine di ripristinare una vera memoria capace di incrementare il proprio campo visivo. Si pensi alla Divina Commedia, riferimento fondamentale della letteratura italiana, che è stata in qualche modo ispirata dalla letteratura arabo-musulmana del periodo andaluso in Spagna. Fino al Rinascimento era normale, nei luoghi di studio europei, trovare libri scritti da pensatori arabo-musulmani. Ma l’Europa, a seguito del Rinascimento, ha cercato di farsi un’autarchica identità, togliendo dalla propria memoria i riferimenti positivi ad altri mondi, in particolare al mondo musulmano. La volontà era quella di rompere con la propria storia, come se l’Europa non avesse più avuto bisogno degli altri.
Quando oggi si rivendicano le radici cristiane dell’Europa, si dimentica che Cristo, Maria, i discepoli, molti dei grandi santi europei non lo erano. Le culture, tutte, sono il prodotto di scambi ed intrecci, conseguenza del camminare delle persone, per cui anche i musulmani fanno parte della medesima storia, quella delle relazioni. I musulmani, a loro volta, hanno attinto dalla cultura ebraica, cristiana, greca, romana, indiana, cinese, etc. I musulmani, sono a modo loro “occidentali”, per il fatto di aver dovuto confrontarsi con la matrice cristiana, greca, romana. Non si può ignorare che per lunghi secoli i musulmani siano stati mediatori tra culture lontane (Africa nera, Cina ed Europa). Quindi gli arabi sono stati capaci di trasformare la loro terra arida in una piattaforma girevole, mettendo in contatto l’Europa con le terre ricche dell’Africa, dell’India e della Cina. Tali contatti hanno fatto sì che la cultura araba potesse interloquire con altri modelli culturali e l’erede di ciò è stata l’Europa, che nel Rinascimento ha saputo fondere diversi saperi e tradizioni.
Questa circolazione, oggi, si esprime attraverso quattro dimensioni, che incidono sulle diverse identità territoriali, producendo trasformazioni sociali e cambiamenti culturali:
dimensione finanziario-economica: lo spostarsi dei capitali implica impatti sulle diverse popolazioni che attraversano, producendo il fenomeno della delocalizzazione degli investimenti e delle merci;
dimensione informativo-mediatica: essa rappresenta oggi una delle fonti che produce le maggiori pratiche di connessione tra i luoghi: velocità e simultaneità dell’informazione, formazione dell’opinione pubblica, in cui alcune agenzie fanno la parte da leone (Reuters, Associeted Press e France Press);
dimensione relativa agli stili di vita: grandi città, collocate in diversi contesti geografici, culturali, religiosi, sono attraversate da tendenze, mode, prodotti che le rendono spesso arredate dalle medesime insegne pubblicitarie e costruite con i medesimi stili urbanistici;
dimensione politica: a livello mondiale si assiste ad un attivismo di un unico attore politico, in grado di determinare la vita politica di quasi la totalità del pianeta.
Queste quattro dimensioni possono essere sintetizzate nella globalizzazione, in cui il centro del mondo esercita una quasi indiscussa egemonia sulla vasta periferia del sistema.
I musulmani, oggi, sono gli abitanti di un’area geografica priva di unità politica, con scarsa sovranità, economicamente subalterna, culturalmente soggiogata, militarmente inesistente. Quindi abitanti delle periferie del mondo. Sono accomunati ad altre popolazioni che non sono musulmane dagli stessi problemi: disagio economico, instabilità politica, conflitti, etc. Il profilo del musulmano generalmente trasmesso dai mezzi di informazione, aggressivo, minaccioso, misogino, con forte identità, portatore di un progetto contrario alla democrazia e alla libertà, nella realtà è molto diverso. I musulmani vivono in 56 Stati, diversi per tradizioni culturali, sistemi politici, condizioni economiche, alleanze internazionali. L’unica caratteristica che li accomuna, in modo differenziato, è la scarsissima autonomia politica.
Le sfide di oggi sono comuni. Pensiamo alla questione ambientale (inquinamento dei mari, dell’aria, le scorie industriali, la qualità del cibo, etc.), alla questione della giustizia sociale (redistribuzione della ricchezza), alla questione della dignità e della libertà della persona: sono temi trasversali, problemi dell’umanità. L’invito che Giovanni Paolo II ha rivolto, il 27 ottobre 1986, ai diversi rappresentanti delle religioni è stato lungimirante e consapevole della comunanza delle problematiche mondiali.
Dibattito finale
Perché c’è il terrorismo? Da dove nasce?
Le motivazione che stanno alla base del sorgere del terrorismo possono essere sinteticamente elencate:
il fallimento dei processi di modernizzazione, che non hanno dato i risultati sperati in termini di sovranità politica, modelli economici corrispondenti ai bisogni della società e soprattutto il venire meno del riconoscimento del pluralismo culturale e politico nella società;
tale fallimento ha trasformato le classi dirigenti, spesso moderniste e secolarizzate, in élite che gestiscono gli affari dello Stato quasi che si trattasse di affari privati;
l’ingerenza straniera e il neocolonialismo;
la caduta delle vecchie ideologie, socialista, comunista e anticoloniale, ha aperto un vuoto politico, riempito da “nuovi” attori che utilizzano la religione politicamente in modo spregiudicato.
Il pensiero riformista islamico si trova circondato da fondamentalismo, modernismo e neocolonialismo violenti, cosa che rende la sua azione decisamente limitata e con difficoltà di accesso allo spazio pubblico. Contro il terrorismo è, invece, necessario un pensiero riformista, capace di elaborare un progetto che attinga alla tradizione musulmana, capace di aprirsi alle questioni mondiali e di vivere lo spazio riconoscendo la pluralità che lo caratterizza. A tale proposito va ricordata una grande figura del riformismo islamico dell’inizio del novecento, Badashah Khan, soprannominato il Ghandi musulmano, che è stato fautore dell’indipendenza dell’India, sostenitore della laicità e fondatore di un esercito non-violento (i Servitori di Dio). Le azioni degli appartenenti a questa organizzazione sono state la diffusione dell’istruzione, la tutela della salute e la giustizia sociale.
Questione dei Sunniti e degli Sciiti.
Entrambi rivendicano di essere interpreti del pensiero musulmano ortodosso. La differenza nasce attorno ad una questione politica: chi è il successore del Profeta? Gli Sciiti sostengono che il successore dovrebbe essere appartenente alla discendenza del Profeta, mentre i Sunniti allargano la possibilità della successione anche ai suoi compagni. Con l’andar del tempo, questa diatriba è divenuta una controversia di tipo teologico, quando gli Sciiti sostennero che il motivo per cui avevano ristretto la successione ai soli discendenti del Profeta derivasse dal fatto che i discendenti erano anche i veri possessori della fede. Oggi questo non c’entra con la problematica in Iraq, non esistendo più né discendenti né compagni del Profeta; si tratta, al contrario, di competizione politica e di conquista del potere tra vari gruppi, all’interno di una situazione a tal punto complessa, piena di insidie e contraddizioni, da rendere quasi inutile lo schema che vuol dimostrare che il conflitto odierno è tra sunniti e sciiti.
Perché i musulmani odiano gli USA?
Più che di odio si tratta di critica e contrarietà. La politica estera statunitense ha spesso sostenuto e sostiene regimi dispotici o illiberali, in Paesi musulmani e non.
Nei primi non è successo come in Italia, dove l’immagine degli americani è ancora quella di liberatori. Tutt’altro. Esiste la consapevolezza che essi sono stati responsabili dell’appoggio di regimi dispotici come nel Cile di Pinochet, nell’Iran dello Scià, nelle Filippine di Marcos e in altri Stati del mondo. Agli occhi di molti popoli musulmani la politica statunitense è una politica contraria ai loro interessi e alle loro aspirazioni, proprio perché molti governi dispotici o illiberali, arabi e musulmani, godono del sostegno statunitense. Senza dimenticare che la nascita degli Stati Uniti si è basata sulla schiavizzazione della popolazione nera e sulla distruzione della componente indigena e questo molti popoli lo sanno.
Perché le donne devono portare il velo?
Innanzitutto indossare il velo rappresenta una scelta personale. Infatti, in molti Paesi musulmani, alcune donne lo portano, altre no. Tra coloro che lo indossano vi è chi lo fa per tradizione, chi per scelta sociale, chi per scelta politica. Non a caso, anche all’interno della medesima famiglia alcune donne lo portano, altre no. In pochi Paesi indossarlo è obbligatorio (come in Arabia Saudita e Iran), in altri è persino proibito (Tunisia e Turchia). Senza dimenticare che esiste anche un approccio maschilista, che vuole esercitare il controllo sul corpo della donna, coprendola, a differenza di un’altra forma di controllo maschile, prevalente nella società europea, che vuole il corpo femminile giovane e scoperto. Entrambe le forme di controllo rispondono alle esigenze di una certa cultura maschilista.
Utilizzo delle categorie Oriente-Occidente
Si tratta di un uso strumentale per mettere l’uno contro l’altro, mentre si hanno questioni comuni, che necessitano di mettere in campo energie comuni. Il muro contro muro è un approccio fuorviante, che non risponde alla realtà concreta. Si è europei e arabi, musulmani e cristiani, indiani e cinesi, statunitensi e latinoamericano, tutti sono dentro un mondo globale, dentro un sistema politico-economico mondiale, in cui esistono svantaggiati e avvantaggiati al di là delle loro appartenenze religiose, linguistiche, statuali.
Come favorire l’inserimento da noi dei musulmani?
Bisogna trasformare la coabitazione in convivenza. Se consideriamo l’aspetto economico e le aspirazioni ad un certo stile di vita sono pressocché integrati. Ma si deve pensare alla partecipazione, al coinvolgimento e chiedersi “dove si vuole andare?”. Serve un tavolo civico di dialogo. E’ necessario il passaggio alla coesistenza, alla corresponsabilità e alla condivisione.
* www.ildialogo.org, Lunedì, 08 gennaio 2007