L’analisi
LA SORGENTE ANTICA DELL’INTOLLERANZA
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 06.05.2008).
La fiera internazionale del libro di Torino è una manifestazione bella, ricca di incontri tra autori, editori e lettori, una festa del libro e della lettura, una celebrazione del valore positivo del dialogo tra culture che ha trovato il suo luogo nella città e nell’edificio - il Lingotto - simboli della modernità italiana.
La proposta del boicottaggio del Salone perché l’ospite d’onore era Israele è stata la spinta decisiva per convincermi a partecipare. Anzi a considerare assolutamente obbligatoria la partecipazione, come atto di civile responsabilità. Ero stato invitato a una discussione a più voci su di una grande realizzazione editoriale dedicata alla storia della Shoah. Mi si proponeva di contribuire alla riflessione comune offrendo qualche traccia di risposta alla questione delle origini remote dell’antisemitismo nella cultura del popolo italiano.
Ho accettato senza nemmeno un attimo di incertezza. Ma non perché ritenessi di avere cose importanti da dire o aspetti inediti da rivelare. Certo, il problema non è irrilevante, non riguarda solo il passato. Anche nei fenomeni storici maggiori c’è, come nei grandi fiumi, una piccola sorgente da scoprire. Chi celebra il Po recandosi alla sua sorgente può capire questa metafora (meglio, forse, di quanto non capisca le origini e i valori storici incarnati da simboli come le camicie verdi; ma questo è un altro discorso). Risalire alle sorgenti dell’antisemitismo significa cercare di capire quando, dove e perché è affiorato il primo rivolo della fiumana nera che ha travolto la cultura e la civiltà europea nell’immane abisso che va sotto il nome di Auschwitz.
E per l’Italia in particolare si tratta di fare i conti una volta per tutte, in modo aperto e senza le consuete facili auto-assoluzioni, con una grande tragedia rimossa della nostra storia. Si pone per questo nostro Paese, dove una maggioranza di destra ha appena ammesso (un po’ a denti stretti, ma tant’è) il valore fondante della Liberazione antifascista del 25 aprile 1945, il problema di capire quale deposito nascosto di violenza, quale profondo, inconsapevole ma non incolpevole fondo di intolleranza e di antisemitismo condiviso dalla maggioranza degli italiani abbia fatto accettare a un popolo generalmente ritenuto mite e civile le leggi razziali del 1938 - punto di partenza da cui si sono via via srotolati gli anelli successivi, inclusa la grande retata degli ebrei anche nella capitale del mondo cattolico, anche sotto le finestre del Vaticano. Finché quel problema resta irrisolto, ci toccherà voltare altrove lo sguardo e fingere di non vedere le manifestazioni del risorgere dell’orrore dell’antisemitismo.
Ma non confondiamo la farsa con la tragedia. C’è chi oggi approfitta dello sciagurato protagonismo di intellettuali che si fregiano ingiustamente di un titolo che indicherebbe di per sé l’esercizio dell’intelletto; e ne approfitta abilmente per proporre una specie di scambio di prigionieri. Da una parte l’intolleranza di chi chiede da sinistra il boicottaggio della Fiera internazionale del libro di Torino, dall’altra la violenza neonazista di chi uccide per il piacere di uccidere in nome dei simboli e delle idee che hanno prodotto la Shoah.
L’intolleranza ha un volto antico. Lo si può facilmente riconoscere al di là delle giustificazioni con cui si copre e delle sue mutevoli maschere ideologiche: il rogo dei libri ordinato dall’Inquisizione che distrusse più di ventimila testi ebraici nella città di Cremona a metà Cinquecento è parente stretto degli altri roghi che nella Germania nazista inaugurarono il percorso che doveva condurre ad Auschwitz. Quando si tratta di libri, non si parli di boicottaggio: si parli di elogio dell’ignoranza, di volontà di non sapere e di non ascoltare.
Come tutte le forme di stupidità, anche questa ha trovato credito e seguaci. Si è fatta incombente, ossessiva, tanto povera di argomenti quanto intimidatoria nel tono. Se ci fosse un contesto di civile confronto sarebbe facile smontarne gli argomenti. Per esempio: si può criticare la politica dello Stato di Israele così come si può criticare quella di qualsiasi Stato. E del resto questo lo fanno molto bene alcune voci che vengono proprio dalla cultura e dalla letteratura di Israele. Tuttavia, finché la minaccia che pende sullo Stato di Israele è quella della sua distruzione, l’indiscutibile dovere primario di ogni essere umano memore della storia che ha alle spalle è quello di solidarizzare col popolo che vi ha ritrovato la sua unità e ricomposto le forme della sua esistenza dopo l’immane genocidio di cui noi, gli europei, i figli della civiltà cristiana, portiamo la responsabilità storica.
Portiamo anche qualcosa di più. Molti lo scoprono solo adesso, perché la violenza, il razzismo, l’antisemitismo come figli legittimi dell’ideologia nazifascista hanno fatto un’altra vittima. Un giovane uomo è morto per le strade di una bella e civilissima città italiana. Ma quanti anni sono che negli stadi italiani, nelle piazze e per le vie e i vicoli delle nostre città apparentemente più ricche e civili l’antisemitismo più sgangherato e il razzismo più becero hanno costituito la carta di presentazione di movimenti giovanili alimentati o addirittura appoggiati da forze politiche impegnate nel gioco del potere nazionale?
Oggi le carte del gioco sono quasi tutte nelle mani di quelle forze politiche. Dopo avere vinto, ci aspettiamo che ci convincano. E questo deve avvenire a caldo, nella lettura dei sintomi della crisi italiana e nelle decisioni necessarie e urgenti con cui quei sintomi devono essere contrastati e curati. Ci aspettiamo non l’ennesimo scaricabarile, non la finzione del non sapere, non la caricatura dell’argomento di chi ha osato opporre una ipoteticamente maggiore colpevolezza delle idee dei gruppi sedicenti di sinistra rispetto all’assassinio compiuto da giovani nazifascisti. Ben altro è quello che occorre se davvero si vuole rimuovere la cupa sindrome di imbarbarimento e di regressione che - non da oggi - grava sul nostro Paese.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA... LA TERRA PROMESSA.
Lettera - Salone del libro di Torino
Perchè non sono andato
di Bruno Segre
Cari compagni e care compagne,
vi rubo due minuti per cercare di spiegarvi come mai - pur avendo avuto sollecitazioni da amici torinesi - quest’anno ho deciso con vivo rammarico di non andare a Torino per il Salone del libro.
A mio avviso, nella breve storia d’Israele l’aspetto più degno in assoluto d’attenzione sta nella capacità dimostrata da una neonata, piccola ma estremamente complessa, composita e variegata società civile, di ricuperare nell’uso quotidiano l’ebraico, cioè una lingua morta o entrata in letargo da oltre duemila anni. Ma al di là di ciò, il vero ‘miracolo’ consiste nel fatto che in quella lingua - in soli sessant’anni - un numero ragguardevole di romanzieri, poeti, saggisti, storici, pedagogisti, politologi, filosofi, biblisti, talmudisti, critici del costume, donne e uomini di cultura dei più svariati orientamenti e con le più diverse competenze ha trovato ampio spazio d’espressione: a dimostrazione del fatto che, anche in un contesto profondamente precario, o forse proprio grazie a tale contesto, una società civile gelosa della propria libertà espressiva può dare vita a una singolare creatività intellettuale, con ‘prodotti’ di valore universale nei quali quella società rispecchia, spesso spietatamente, se stessa, con le sue enormi difficoltà, con le sue intime contraddizioni e lacerazioni.
Questo, secondo me, sarebbe dovuto essere il principale nucleo tematico della fiera del libro dedicata ai 60 anni di Israele: un nucleo tematico attorno al quale avrebbero potuto utilmente lavorare critici letterari, cultori di scienze religiose, antropologi culturali, sociologi, storici della cultura e così via (israeliani, italiani, arabi palestinesi e non, ebrei, cristiani, musulmani, uomini e donne religiosi e non), nell’intento di avviare a carte scoperte un fitto dialogo e rendere così un po’ più conosciuta e comprensibile per il pubblico italiano una realtà - Israele, la sua cultura e i suoi infiniti problemi - di cui molto si parla, da noi, senza che davvero si sappia di che cosa si parla.
Ma come spesso accade nel nostro Paese, le vicende del Salone del libro hanno purtroppo preso la piega che tutti conosciamo. Per l’ennesima volta, il palcoscenico è stato conquistato e saldamente occupato dai propagandisti, ossìa da coloro che, quando c’è di mezzo Israele, da sponde opposte altro non sanno fare se non osannare o scagliare anatemi o, quando càpita, ostracizzare. Tutti costoro, qualsiasi sia la loro appartenenza, sono incapaci di staccarsi dagli stereotipi e hanno in uggia la dimensione della complessità.
Per quanto mi concerne, il risultato è che ho deciso di starmene alla larga giacché ciò che da sempre e per sempre mi interessa è cercare di capire che cosa posso/possiamo fare per aiutare, da qui, le sventurate popolazioni del Medio Oriente a individuare sentieri percorribili di riconciliazione. E se lavorando in questa prospettiva, che considero prioritaria, mi piace confrontarmi civilmente con chiunque mi offra spunti di riflessione e occasioni per dare maggior vigore ed efficacia all’impegno per la pace, deploro e mi tengo scrupolosamente a distanza dalle risse. E a Torino, in questi giorni, temo che il clima prevalente sia stato proprio quello della rissa.
Bruno Segre
Il presidente fa una breve visita ai padiglioni, poi riparte per Roma
Contestazioni dei militanti filopalestinesi, poi il presidio si scioglie
Napolitano alla Fiera del Libro
"No a contese pretestuose"
E sulle recenti polemiche: "Nessun dialogo se si rifiuta la legittimità di Israele" *
TORINO - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano questa mattina ha visitato Fiera del Libro, che si inaugura oggi al Lingotto: "Si tratta di un contesto e di un clima che non possono essere turbati e deviati da contese politiche o da intrusioni pretestuose - ha dichiarato - i valori essenziali che la Fiera esprime è quella del confronto e del dialogo tra culture, posizioni di pensiero, esperienze creative". Mentre sul piano politico - ha avvertito - "non c’è dialogo se si muove dal rifiuto della legittimità dello Stato di Israele, delle ragioni della sua nascita e del suo diritto a esistere nella pace e nella sicurezza".
Una presenza, quella di Napolitano, di particolare significato, viste le polemiche e le tensioni legati alla scelta di Israele come ospite d’onore della manifestazione. E proprio l’ambasciatore israeliano in Italia, Gideon Meir, ha espresso calorosamente la sua gratitudine per il capo dello Stato: "Un ringraziamento speciale - ha detto - di vero cuore, per la sua forte presa di posizione, quest’anno, quando nei mesi passati, ci sono stati tentativi e appelli al boicottaggio".
E anche questa mattina, non sono mancate le contestazioni. Un gruppo di simpatizzanti dell’associazione Free Palestine ha cercato di esporre uno striscione davanti al Lingotto, ma le forze dell’ordine lo hanno impedito per ragioni di sicurezza. Ci sono stati attimi di tensione verbale e poi una decina di manifestanti è stata spostata in una via laterale, in via Spotorno, dove è stato possibile mostrare lo striscione. su cui c’è scritto "No al colonialismo sionista, stato unico per arabi ed ebrei in palestina. Boicotta Israele, boicotta la fiera del libro 2008". A fine mattinata, il presidio è stato sciolto.
Nel frattempo, ad accogliere il capo dello Stato sono stati il ministro uscente alle Politiche giovanili Giovanna Melandri e le autorità locali: il sindaco Sergio Chiamparino e i presidenti di Provincia e Regione Antonio Saitta e Mercedes Bresso, insieme al presidente della Fiera Rolando Picchioni. All’arrivo di Napolitano, sono state sveltolate tre bandiere di Israele e una italiana: a farlo alcuni esponenti della comunità ebraica, tra cui il presidente di quella romana, Riccardo Pacifici.
Nel gruppo c’erano, tra gli altri, Fiamma Nirenstein, neo deputata del Pdl, e Agostino Ghiglia, presidente provinciale di An. "E’ un momento di grande gioia - ha detto la Nirenstein - non dobbiamo lasciare che ombre di dissenso violento e insensato turbino una festa di libertà e cultura".
Il presidente della Repubblica dopo la cerimonia di inaugurazione ha fatto un breve giro tra gli stand della Fiera, e poi, poco dopo le 11,30, la lasciato il Lingotto, per ritornare a Roma.
* la Repubblica, 8 maggio 2008.
Abraham B. Yehoshua: «In noi, colpite l’Israele che vuole la pace»
di Maria Serena Palieri *
Della cosiddetta «triade» dei grandi scrittori israeliani - Yehoshua, Oz, Grossman - è il più anziano. E, della triade, sarà il solo presente alla Fiera del Libro di Torino. Sarà lui, domani mattina alle dieci, a inaugurare con l’ambasciatore Gideon Meir il padiglione di Israele ospite d’onore. Abraham B. Yehoshua arriva in Italia per un soggiorno toccata e fuga, con una missione doppia: a Roma assisterà stasera alle prove di Viaggio alla fine del millennio, il melodramma tratto, su suo libretto, dal suo omonimo romanzo del 1999, e domani sera all’unica rappresentazione al Teatro dell’Opera, mentre a Torino al Lingotto, lui scrittore impegnato da decenni nel processo di pace, simboleggerà, a quel taglio del nastro, la cultura israeliana. Quella contro la quale - di fatto - prende in queste ore la mira il boicottaggio contro le celebrazioni del sessantennale dello Stato d’Israele. «E per questo boicottaggio sono molto triste» commenta Yehoshua, che alla vigilia raggiungiamo telefonicamente ad Haifa. «Noi abbiamo relazioni pacifiche con la Giordania e l’Egitto, noi siamo impegnati in negoziati serissimi con la Palestina. Noi scrittori, poi, in maggioranza ci battiamo da quarant’anni per la pace. Se l’anno prossimo, come spero, ci sarà uno Stato palestinese, sarà con grande gioia che lo vedrò ospite d’onore della Fiera».
Parliamo di libri, allora. Qual è lo stato di salute della narrativa israeliana, così come si affaccia in questo maggio 2008 al Lingotto?
«È in corso una rinascita. Non solo della letteratura, ma di tutte le arti, musica, cinema, danza. Israele è un Paese piccolo, siamo solo sei milioni di abitanti, ma la nostra vita culturale è intensa ed è ben accetta nel mondo intero. Questo, però, non è un termometro dello stato di salute della società israeliana: la cultura è vitale, ma non vuol dire che la società stia bene. D’altronde, pensi all’Europa tra le due guerre, dove i fascismi nascenti convivevano con un’esplosione delle arti. Forse è il malessere - la crisi d’identità, la confusione, il pessimismo - che favorisce l’attività creativa. Nel primo dopoguerra dal male della guerra trassero linfa Kafka, Joyce, Thomas Mann».
Quante sono, a oggi, le generazioni di scrittori israeliani, e, se c’è, cosa le accomuna?
«Ci sono i vecchi signori della prima, quella detta “della Guerra di Indipendenza” e della creazione dello Stato, ultraottantenni come Aharon Meged tuttora all’opera, o come S.Yzhar scomparso due anni fa, poco tradotti all’estero; poi ci siamo noi, io, Oz, Appelfeld, Kenatz, nati negli anni Trenta e della generazione detta “dello Stato”; alla “generazione della Guerra del ‘67” fanno capo David Grossman, Meir Shalev, Haim Be’er; poi c’è quella senza nome, diciamo post-modernista, di Etgar Keret e Orly Castel Bloom e, ancora, i giovanissimi».
È un caso che i trentenni non abbiano un’etichetta? O questo indica una crisi di identità?
«Non è un caso. La loro è un’esperienza che non ha più un centro, sia ideologico, sia politico, sia culturale».
Per loro si è parlato di «disimpegno»: per esempio a proposito di Alona Kimhi, autrice di un romanzo circense e scatenato, «Lily la tigre». Lei condivide questa etichetta?
«No, la questione non è questa. Ci sono sfumature diverse. E bisogna vedere sempre il nesso tra ciò che avviene in Israele e ciò che avviene fuori. I nostri scrittori sono molto legati alla cultura dell’Occidente. Quando ho cominciato a scrivere io, nell’aria regnava l’assurdo di Kafka e di Camus...»
Non crede che un romanzo come «Lily la tigre» lanci un proprio messaggio: ora basta parlare di identità, di guerra e di pace, anche in Israele ci sono altri poteri da mettere in crisi, per esempio il maschilismo?
«Appunto. C’è una generazione, oggi, più impegnata sul piano dei “generi”, il femminismo come i diritti dei gay. D’altronde, se lei guarda alla narrativa italiana degli anni Cinquanta non trova queste tematiche. Il femminismo, come l’ecologismo, sono affiorati da non molto».
In tre romanzi israeliani tradotti in questo 2008, il suo «Fuoco amico», «La vita fa rima con la morte» di Amos Oz e «Le donne di mio padre» di Savyon Liebrecht, l’erotismo ha un posto esplicito. E, per la nostra esperienza di lettrici, inusuale nella narrativa israeliana. È un sensore da interpretare?
«Non saprei. Ma sta a lei tendere fili e interpretare...»
Ci dica del sentimento con cui affronta la messinscena a Roma dell’opera tratta dal suo romanzo. «È, per me, un grande avvenimento. Sono un amante dell’opera, amo Verdi, Puccini, Rossini, da trent’anni ne sono un fedele spettatore e ho letto decine di libretti. Perciò quando mi hanno offerto di trarne uno da Viaggio alla fine del millennio ho accettato subito. E l’ho scritto con facilità e felicità. Ora venire nella Mecca dell’opera, in Italia, è un onore e una prova».
* l’Unità, Pubblicato il: 07.05.08, Modificato il: 07.05.08 alle ore 12.54
Quando l’autore israeliano aveva sette anni scoppiò la guerra che travolse la sua famiglia.
Affrontò il dolore con il silenzio. Poi scelse di scrivere
Un passato che scotta
La Shoah e il potere della parola
"Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all’altro, tutti carichi di un’immensa paura che non sapevano dove lasciare"
"Una sera ero così sperso che mi misi a scrivere su un pezzo di cartone i nomi dei miei genitori: come per miracolo li riportai alla vita"
di Aharon Appelfeld *
Comincerò da me stesso. Sono nato nel 1932 nell’Europa dell’Est.Avevo sette anni quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre fu assassinata, fui separato da mio padre e, dopo essere fuggito dal campo, trascorsi gli anni di guerra nel sottobosco della malavita ucraina. Provengo da una famiglia abbiente e di larghe vedute, fedele ai principi della civiltà. Brusco fu il passaggio dal mondo del diritto e della legalità a quello opposto, e richiese un rapido adattamento. Una tale esperienza biografica non può certo dirsi unica: i bambini sopravvissuti alla Shoah hanno storie simili alla mia. La questione che si pose allora e che tale è rimasta, sta in questi termini: come si fa ad affrontare un’infanzia del genere? E ad un altro livello: quale potrà mai essere il significato di un’esperienza tanto terribile?
Come si fa a condurre una vita degna, dopo un’esperienza di questo tipo? O, come mi ha detto una volta un amico, anch’egli un sopravvissuto: chi è stato in campo di concentramento non riesce ad accomodarsi in poltrona e sorseggiare il tè del pomeriggio come se niente fosse, come se non fosse stato laggiù.
Nel 1945, alla fine della guerra, avevo tredici anni. Che fare? Dove dirigermi? Ero attorniato da un mare di profughi che fluiva da un luogo all’altro, tutti carichi di un’immensa paura che non sapevano dove abbandonare, come liberarsene. Le grandi catastrofi ci lasciano pesanti e ammutoliti. Come si fa a dire alcunché di fronte alla morte di un uomo, e a maggior ragione davanti a un cumulo di cadaveri? Nulla di che stupire, se allora le parole mancassero, quasi non se ne dicessero. La parola, in fin dei conti, è destinata a colmare le nostre necessità esistenziali; eppure tace quando si avvicina agli abissi dell’animo, e a maggior ragione se si tratta di immensità metafisiche. Erano colmi, sì, quegli abissi: ma nessuno aveva ancora inventato gli strumenti capaci di far risalire quel che si era annidato laggiù, in fondo. Di quei tempi di marce interminabili, ricordo volti indecifrabili e passi pesanti, ma non una domanda, non un interrogativo su ciò che era appena successo: come se il silenzio fosse la sostanza del mondo. Del resto, che cosa può esserci da dire di fronte alle forze irrazionali e irrefrenabili, del terrore? Era tutto così inconcepibile, da zittire non solo la parola ma anche il dolore.
Mi ritrovai orfano, e non solo di papà e mamma. Valori e convinzioni sembravano tutt’a un tratto avventati, quasi ridicoli di fronte ai mostri umani che ci avevano tormentato. Quale potrà essere il tuo mondo, d’ora in poi? Sprofonderai nel pozzo del pessimismo, in quello del cinismo, tradirai i principi dei tuoi genitori, che coltivavano l’umanesimo liberale, tradirai la fede dei tuoi nonni, vissuti con una religiosità tollerante e moderata, tradirai anche gli zii comunisti che avevano dato la vita per il riscatto dell’uomo?
In una di quelle cupe sere in cui mi sembrava che il ghetto e il campo non mi avrebbero abbandonato mai più, che avrei continuato per sempre a trascinarmi dietro quella solitudine di orfano, smarrito in un mondo che aveva smarrito i propri valori, ebbene quella sera mi misi a scrivere su un pezzetto di cartone i nomi dei miei genitori, quelli dei nonni e degli zii e dei cugini. Ero così sperso che volevo, attraverso la scrittura, accertare che quei nomi fossero esistiti, che la famiglia da cui provenivo non fosse una finzione, parto della fantasia.
Allora, come per miracolo, scrivendo i loro nomi li riportai alla vita: me li ritrovai davanti, proprio come li rammentavo. Per un attimo non fui più un orfano ma un ragazzino circondato da persone che gli volevano bene. Ero talmente felice che nascosi il pezzo di cartone dentro la fodera del mio cappotto, come fosse stato la chiave di uno scrigno pieno di preziosi segreti. Da quel momento, ogni volta che la solitudine o l’angoscia mi mordevano, tiravo fuori quel pezzo di cartone, leggevo ciò che vi stava scritto e rivedevo i genitori che avevo perduto.
La scrittura non è magia ma, evidentemente, può diventare la porta d’ingresso per quel mondo che sta nascosto dentro di noi. La parola scritta ha la forza di accendere la fantasia e illuminare l’interiorità. Ma una lunga strada separava quel brandello spiegazzato di cartone sul quale avevo annotato i nomi dei miei familiari, dalla scrittura vera e propria. Tutto quello che avevo scoperto lungo gli anni di guerra stava chiuso dentro di me, era un macigno scuro: ogni volta che ripensavo a ciò che avevo passato nel ghetto, nel campo e nei boschi, le immagini che affioravano in me non erano meno terrificanti di quanto non lo fosse stata la realtà. Per non affrontare quegli incubi scappavo via di corsa, cercando di staccarmene. Ma questo metodo funzionava solo in parte. Il passato, anche il più tremendo, non si congeda mai facilmente.
In termini generali, diciamo che la letteratura racconta delle storie. Ma quelle degli scampati ai campo e ai boschi, non erano storie. Piuttosto, un cumulo di braci crepitanti che al solo toccarle ustionavano. Che cosa c’è da raccontare, qui? Forse, raccontare quel terrore è una profanazione.
Quanto tempo è durata, quell’angoscia. Le peregrinazioni per l’Europa terminarono nel 1946, quando arrivai in Palestina. Nella Palestina del 1946 c’era un’atmosfera pionieristica. Questo slancio mirava a costruire un ebreo nuovo, spogliato delle paure del passato e rivolto al presente, al futuro. Il passato ebraico era considerato una sorta di maledizione, da cui affrancarsi: sullo sfondo di questi ideali pionieristici, l’esperienza del passato - i ghetti e i campi - , era carica di un’onta che andava cancellata, e il più in fretta possibile. All’atto pratico, come si fa a estirpare dall’anima tutto quello che si è attraversato durante cinque lunghi anni, ed innestarvi al suo posto un idillio pastorale? Come si fa a dimenticare una parte importante della propria vita? Alcuni lo fecero, ma quella rimozione costò loro un caro prezzo. Una persona senza passato, foss’anche un passato terribile e infame come quello, è una persona menomata. Senza contatto con i genitori e gli avi, senza i valori che le generazioni precedenti trasmettono, si è solo un corpo vivo, ma senza un’anima.
La mia giovane vita incontrò però anche delle luci. Lavoravo nei campi, imparai ad amare le piante e gli alberi, e c’erano momenti in cui avevo il presentimento che la terra avrebbe guarito le mie ferite, che sarei diventato un vero e proprio contadino, come tutti gli altri che non avevano conosciuto la guerra.
Di notte, solo con me stesso, scrivevo delle lettere a mia madre. Sapevo che era stata trucidata, e tuttavia mi crogiolavo in quest’affetto. Le lettere erano una serie di minuzie insignificanti, dettate dalla mia quotidianità. Avevo l’impressione che se per chissà quali vie le mie lettere le fossero arrivate, ne sarebbe stata felice. Notte dopo notte, quella mia frenetica attività di scrittura mi riportava al mondo che un tempo era stato il mio. (Traduzione di Elena Loewenthal)
* la Repubblica, 07.05.08.
Stasera, alla Reggia di Venaria di Torino, serata in onore degli ospiti della Fiera del Libro dove lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld terrà, alle 20, una lectio magistralis che qui anticipiamo in parte. Domani, invece, alle dieci di mattina, inaugurazione ufficiale della Fiera alla presenza del Presidente della Repubblica.
LA FIERA DEL LIBRO
Israele i libri e la libertà
di ARRIGO LEVI (La Stampa, 8/5/2008).
La maggior parte degli scrittori israeliani, certo i più famosi tradotti in tutto il mondo, diversi dei quali saranno da oggi a Torino per la Fiera del Libro, sono uomini di pace. Quasi tutti - romanzieri, storici, giornalisti - sono fautori di una politica di più audace apertura al negoziato e di più generosa disponibilità alle concessioni da farsi ai palestinesi per arrivare alla pace, di quanto non sia il governo oggi in carica a Gerusalemme. L’idea di boicottare la Fiera, che celebrerà gli scrittori israeliani insieme con tanti altri scrittori d’ogni parte del mondo, che celebrerà insomma, come tutti gli anni, l’idea stessa del «Libro» come strumento di civiltà, quale è per sua natura, è quindi un’idea non soltanto incivile ma stupida. Dispiace dirlo: ma gli stupidi fautori del boicottaggio (anche i «grandi intellettuali» possono essere stupidi) combattono quello che dicono di volere, cioè la nascita, accanto allo Stato d’Israele, creato 60 anni fa per volontà delle Nazioni Unite, di uno Stato palestinese: sola vera garanzia, secondo la maggioranza degli stessi israeliani, dell’esistenza e sopravvivenza d’Israele.
Lo Stato d’Israele, e il faticoso cammino intrapreso verso la meta sognata della pace, possono certo sopravvivere a tanta manifestazione di insipienza. Così come possono fare a meno di alcune manifestazioni non necessarie e fin troppo zelanti di solidarietà, che, non so perché, suscitano in me un certo, forse immotivato fastidio: lo stesso che provo quando incontro quelli che mi dicono che gli ebrei sono più bravi, più intelligenti, più più di tutti gli altri. Troppe lodi mi fanno correre sotto pelle un brivido, come fossero una conferma che mi si considera, in quanto ebreo, un «diverso». Grazie della solidarietà: ma Israele non è sopravvissuto, fino ad oggi, in virtù del sostegno altrui. È sopravvissuto al testardo, controproducente e ancor vivo rifiuto di fare la pace da parte di chi si oppone alla sopravvivenza stessa d’Israele, grazie, fondamentalmente, alla sua altrettanto testarda volontà di vivere, di sopravvivere.
Fra pochi giorni, il 15 maggio, Israele potrà celebrare il sessantesimo anniversario della sua nascita perché sessant’anni fa vinse la sua prima guerra, e poi diverse altre. E vinse quella prima guerra, contro uno schieramento di eserciti apparentemente imbattibile, proprio perché personaggi come l’allora Segretario Generale della Lega Araba, che si chiamava Abd al Rahman Pascià, l’avevano annunciata come «una guerra di sterminio, un terribile massacro, paragonabile alle stragi mongole e alle Crociate». Questa non ci parve una buona idea.
Accade che io sia ormai uno dei pochi ancora in vita fra i giovani ebrei italiani che decisero allora di partire per quella guerra, anche se non erano programmaticamente «sionisti», perché francamente, dopo la Shoah, ci sembrava un po’ troppo che si pensasse di massacrare anche quei seicentomila ebrei che stavano mettendo in piedi una specie di Stato ebraico in Palestina, dopo duemila anni di esodo e di persecuzioni. Ci sembrò, d’istinto, che se davvero anche loro fossero stati «gettati a mare», come promettevano a gran voce tutti gli Stati arabi, non sarebbe valsa la pena di continuare a vivere: già ci sentivamo quasi in colpa per esserci salvati dalla Shoah.
I ricordi di quell’anno di guerra, e di come e quando finì, sono ancora molto nitidi nella mia mente. E dà quasi una stretta al cuore ricordare l’entusiasmo di quella notte di fine anno del ’48, quando ebbe inizio l’ultima tregua, e noi della «Brigata del Negev», che ci eravamo appena ritirati dal territorio egiziano, al di qua del confine segnato dall’Onu, ci lasciammo andare a eccessive manifestazioni d’entusiasmo, abbracciandoci e brindando con succo d’arancia, perché era arrivata, finalmente, la pace! Come eravamo ingenui! Ma pensavamo davvero che fatta la guerra, e visto che l’avevamo miracolosamente vinta, ci sarebbe stata, come di solito si usa dopo le guerre, la pace, che avrebbe permesso a tutti i miei compagni israeliani di tornarsene a casa ai loro lavori, e a me, come poi accadde, di seguire la mia stella di giornalista italiano in giro per il mondo. Purtroppo (anche per loro), i palestinesi, che avrebbero potuto mettere subito in piedi un loro Stato, e gli arabi in generale, dissero no e no e no, no al negoziato, no al riconoscimento d’Israele, no alla pace.
E qui ci ritroviamo, sessant’anni dopo, ancora senza la pace, e alla mia età comincio a disperare di vederla mai. Penso al giorno del novembre ’92 in cui, a Roma, mi toccò con gioia di presentare il libro dell’israeliano Mark Heller e di quel grande intellettuale palestinese che era ed è Sari Nusseibeh, che da allora fu mio amico, oggi presidente dell’Università araba di Gerusalemme, che s’intitolava: Israele e Palestina - Il piano per la pace fra due Stati sovrani. Condividevo il loro piano e le loro speranze. Di Nusseibeh ho letto da poco, con stringimento di cuore, e con spirito di piena solidarietà, il suo ultimo, bellissimo libro di memorie, uscito in America col titolo Once upon a country (C’era una volta un Paese). Come vorrei che ci fosse, come vorrei che nascesse un Paese chiamato Palestina, accanto a quell’altro Paese chiamato Israele.
Ma il Signore Iddio, che è poi lo stesso degli uni come degli altri, non potrebbe, una volta tanto, provare a usare un po’ della sua presunta onnipotenza, non per punire i malvagi (e talvolta anche gli innocenti), che sembra sia la Sua specialità, ma per incoraggiare e premiare gli uomini di pace, che ci sono di qua come di là? O forse aveva ragione Giovanni Paolo II quando diceva che, concedendo agli uomini il libero arbitrio, Nostro Signore aveva rinunciato all’onnipotenza. E se non confidiamo in Dio, che cosa ci resta? Confidiamo nella forza dei Libri: uno che appartiene al «popolo del Libro» non può abbandonare anche quest’ultima speranza.
Fiera di Torino, la destra soffia sul fuoco della contestazione
Il Pdl: repressione come a Genova
di Paola Zanca *
Si mangiano le mani, a destra. Solo per una questione di pochi giorni non toccherà a loro gestire l’ordine pubblico a Torino, durante questa contestatissima edizione della Fiera del Libro. Il neo presidente della Camera Gianfranco Fini, lunedì, ha dettato la linea: tra le bandiere israeliane bruciate a Torino e il pestaggio naziskin che ha ucciso Nicola Tommasoli, «l’episodio di Torino è molto più grave perché non è la prima volta che frange della sinistra radicale danno vita ad azioni contro Israele che cercano di giustificare con una politica antisionista». E anche alcune dichiarazioni rilasciate da uno stuolo di senatori del Pdl lascia intendere che a destra la strategia preferita sarebbe quella di un’altra Genova.
In un’interrogazione parlamentare si chiede infatti al governo di «prevenire e reprimere l’antisemitismo e non il sionismo». L’interrogazione è firmata, tra gli altri, da Luigi Compagna, Enzo Ghigo, Gianpiero Cantoni, Lucio Malan, Guido Possa, Sandro Bondi, Marcello Pera, Domenico Nania, Diana De Feo. Questore e prefetto, e di conseguenza governo e ministero dell’Interno, secondo i senatori del Pdl, sono già colpevoli di aver lasciato ai manifestanti del forum Free Palestine «il più ampio diritto alla piazza e alla esibizione di ogni simbolo, vessillo, stendardo di esplicito antisemitismo».
In realtà, salvo i deprecabili episodi delle fiamme alle bandiere, i «vessilli antisemiti» sarebbero le bandiere palestinesi. Il divieto, più che politico, è “d’immagine”: ad ogni edizione della Fiera viene esposta solo la bandiera del paese ospite, quest’anno appunto Israele. L’assemblea Free Palestine avrebbe voluto aprire dei banchetti all’interno della Fiera per «informare i visitatori di quelle che sono le politiche e i crimini di Israele in Palestina, e per illustrare le ragioni che hanno condotto moltissimi scrittori di tutto il mondo - tra cui molti palestinesi e alcuni israeliani - a rifiutare la partecipazione all’edizione di quest’anno». Il presidente della Fiera, Rolando Picchioni, aveva mostrato segnali di apertura, dicendosi disposto a dare ai contestatori uno stand all’interno del Lingotto, ma senza esporre bandiere diverse da quella ufficiale. E dal Forum è così arrivato il no.
Per loro, infatti, Israele non può essere «ospite d’onore». Più che il sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato di Israele, il 2008, dicono, è «il 60° anniversario della Nakba, della “catastrofe”: 850.000 profughi dovettero abbandonare le loro case sotto l’attacco dell’esercito israeliano, 531 villaggi vennero incendiati e distrutti, migliaia di persone persero la vita in una guerra che non avevano chiesto, uccisi da un nemico che non avevano scelto, resi vittime di decisioni politiche di cui non portavano responsabilità alcuna». Per il forum Free Palestine, insomma, quella di dedicare la Fiera a Israele «è una scelta politica, e come tale va valutata e affrontata».
Effettivamente, ciò che caratterizza la Fiera che si sta per aprire è proprio il taglio politico. Anche al Salone del Libro di Parigi, infatti, ospite d’onore era Israele ma il tono della contestazione è stato decisamente più basso. La differenza è che a Torino non ci sono solo libri e scrittori. Ci sono anche i politici. C’è il presidente Napolitano, appunto, ma anche una delegazione di parlamentari del Pdl e del Pd. E poi ci sono le parole dell’ambasciatore israeliano in Italia, Gideon Meir, secondo il quale «gli estremisti di destra o di sinistra» che vengono a Torino «per boicottare» la manifestazione letteraria, «vogliono delegittimare lo stato di Israele».
Sabato 10 maggio i fautori del boicottaggio alla Fiera si sono dati appuntamento per le strade di Torino. Il percorso della manifestazione, come precisato dagli organizzatori, è stato deciso «senza trattativa»: la protesta sfilerà per corso Marconi, via Madama Cristina, via Genova, corso Caduti del Lavoro, via Nizza, fino al Lingotto, sede del Salone. Ad oggi, il percorso ha il placet della Questura, ma le tensioni della vigilia potrebbero far ripensare la strategie di tutela dell’ordine pubblico. Tra i primi ad aderire al corteo, infatti, ci sono il Vittoria di Milano, l’Askatasuna e i Murazzi di Torino, mentre sul fronte partitico hanno aderito l’area de L’Ernesto, Sinistra Critica, il partito di Lavoratori di Ferrando e una parte del Pdci, ora divisa sulla linea del capogruppo alla Regione Piemonte, Luca Robotti, convinto che sia meglio non partecipare.
In attesa che il Salone si apra, lunedì e martedì gli oppositori si sono incontrati nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, dove si è tenuto un seminario. È proprio da lì che lo scrittore palestinese Tariq Ramadan - che l’anno scorso partecipò alla Fiera - ha criticato il presidente Napolitano, colpevole di aver commesso un duplice errore partecipando all’inaugurazione della Fiera del Libro di Torino dedicata a Israele e «tacciando di antisemitismo chi critica lo Stato di Israele».
Napolitano gli ha già risposto, respingendo ogni accusa e convinto del fatto che «la critica delle politiche del governo di Israele è del tutto legittima, innanzitutto all’interno di Israele; quel che è inammissibile - ha aggiunto - è qualsiasi posizione tendente a negare la legittimità dello Stato di Israele, quale nacque per volontà delle Nazioni Unite nel 1948, e il suo diritto all’esistenza nella pace e nella sicurezza».
E sul fronte dell’ordine pubblico, da Torino arrivano notizie rassicuranti. Prefetto e questore concentrano l’attenzione sui due momenti più a rischio: la cerimonia di inaugurazione con Napolitano e la manifestazione di sabato. Ma, precisano, niente zone rosse: «nessuna visita blindata - spiega il prefetto di Torino, Paolo Padoin - né Fiera chiusa». Vietato però ogni presidio di contestazione nei pressi del Lingotto, dove in realtà il forum Free Palestine vorrebbe chiudere il suo corteo. «Valuteremo di giorno in giorno - spiega ancora il prefetto - siamo sereni, sappiamo che alla manifestazione del 10 arriveranno anche partecipanti da altre città italiane e siamo in stretto contatto con le Questure interessate per avere un panorama preciso dei soggetti interessati».
* l’Unità, Pubblicato il: 06.05.08, Modificato il: 06.05.08 alle ore 19.24
FIERA DEL LIBRO
Torino, è il giorno della protesta:
alla Fiera la marcia contro Israele
Città blindata e serrande abbassate
per il corteo a favore della Palestina.
.Attese in piazza circa 7mila persone. .Berlusconi: sono lo 0,00% dell’Italia
di MARCO NEIROTTI (La Stampa, 10/5/2008)
TORINO.Porta Nuova è sempre la solita. La Stazione monumentale, il viavai del lavoro e quello degli affari più o meno limpidi, delle mani leste, di fronte i portici di via Nizza con la loro umanità varia. Da qui al Lingotto ci sono più o meno otto chilometri. Ma non lo si respira, è lontano. Ieri pomeriggio e sera, nella routine di qui, non passavano le polemiche sullo Stato di Israele alla Fiera del Libro. Incamminarsi verso l’antica fabbrica è anticipare un viaggio nella Torino un po’ infastidita e un po’ ironica, un po’ preoccupata e un po’ sabaudamente distaccata per il corteo di oggi.
Non partiranno da Porta Nuova i settemila (secondo i commercianti, ma più probabilmente tre o quattromila). Partiranno da corso Marconi. C’è già qui la prima ironia: ci si incammina dai due palazzi simbolo della «testa» della Fiat, i due centri di comando ora deserti, destinati secondo i progetti, alla Regione, alla Sanità. Ora sono una memoria e la destinazione - ideale perché chiusa dalle forze dell’ordine - è il Lingotto, l’archeologia industriale, la fabbrica con la pista di prova sul tetto, ora centro di fiere e sede del cervello Fiat, con l’ufficio del vecchio senatore Agnelli tornato a pulsare.
Quella della vigilia è una passeggiata tra torinesi che considerano le manifestazioni una scadenza da pagare che incrina un po’ la serenità. Anzi, liquidano il corteo come una brutta escrescenza che ogni tanto spunta e s’infiamma. Certo, le apprensioni ci sono. Basta andare al bar davanti ai due edifici abbandonati di corso Marconi: «Va detto che partendo da qui, da un gran cantiere, hanno un’armeria a disposizione, lì trovano di tutto, spranghe e ogni oggetto utile». Reazione: «Chiudiamo un po’ prima e apriamo quando se ne sono andati».
Appena partiti, i manifestanti svolteranno a destra, via Madama Cristina. E’ la lunga strada commerciale, con le fermate dei mezzi pubblici in mezzo alla carreggiata. Alimentari, acconciature, tabacchi, supermercati, un teatro. E poi quelli che sarebbero gli obiettivi sensibili. Alle spalle della partenza c’è la sinagoga, ancora ieri protetta da una sola pattuglia. Avanti per il percorso: banche, un’agenzia di viaggi, ma oggi chiuse comunque, al di là del corteo. Le oreficerie: «Abbasseremo le saracinesche per qualche ora. Ogni tanto capita».
Più avanti, via Genova, quella che sta tra il Lingotto e il fiume e porta verso la cintura, è la stessa cosa. Ma qui le blindature di negozi, vetrine, portoni si allargheranno a raggera. Perché qui è dove si rischia la bravata di sfondare i blocchi e raggiungere questo palazzo, questo simbolo operaio ora simbolo di cultura che dovrebbe essere pace. Qui si teme uno scontro che generi la dispersione tra le vie di gente «disordinata e senza un perché». Il presidente dei commercianti di via Madama Cristina, Claudio Albera, getta acqua sulle fiamme della paura: «Non è la prima volta che vediamo sfilate di questo tipo, a volte violente e sfuggenti. Non capisco come non abbiano voluto studiare un itinerario alternativo, scegliendo invece una via di commercio proprio il sabato pomeriggio».
In panetteria sembrano informatissimi: «Chiuderemo, certamente.. Lei capirà, arrivano settemila persone armate di spranghe». Dicono che saranno meno, signora. «Non si può mai dire. Ma l’assurdo è che quelli se non riescono a fare quello che gli pare si sfogano con noi». I residenti di via Genova pensano a dove andare a piazzare le auto. Pur continuando a dire che sono «pustole impazzite», più coloriti di Silvio Berlusconi che invece parla di «frange assurde, irrilevanti, che fanno trambusto ma rappresentano lo 0,00 del popolo italiano, che è il più vicino a Israele».
Chi di un corteo fa le spese maggiori è proprio la Fiera, che fino a ieri aveva registrato un calo di presenze del due per cento. E tutto ciò è surreale. Là dentro c’è un clima tranquillo, da famiglie, scuole, coppiette, dibattiti, panini, bibite, libri e libri e libri. Il Lingotto, che sarà lambito dalla protesta, come Porta Nuova, dove arriveranno i contestatori di fuori. Estranei e sereni nei loro universi.
Fiera del libro a Torino, in 6 mila al corteo per la Palestina *
Una grande bandiera palestinese lunga circa dieci metri e larga quattro, sostenuta da una quindicina di persone, apre il corteo organizzato contro la presenza di Israele come ospite d’onore alla Fiera del Libro, in corso a Torino. Al corteo, organizzato da "Free Palestine", a cui aderiscono un centinaio di organizzazioni antagoniste, secondo gli organizzatori partecipano sei mila persone (ma la polizia ne conta 2500).
In testa al corteo, subito dopo il vessillo palestinese, un grande striscione, sostenuto da alcuni giovanissimi, mostra le immagini del conflitto israelo-palestinese, con scene di distruzione dai Territori occupati, con la scritta «Boicotta Israele, sostieni la Palestina». Subito dietro una giovane ragazza con la kefiah issa un cartello con le foto dei bambini palestinesi feriti nel conflitto: «Musaab di un anno, Salah di tre anni, Rudeina di sei anni, e la data: Gaza, 28 aprile».
Dietro ancora un primo cordone di giovani dei centri sociali, seguito da uno stuolo di bandiere rosse, dallo striscione del Partito comunista dei lavoratori e dei centri sociali.
L’atmosfera sembra comunque tranquilla. Per ora non si sono viste bandiere israeliane né si sono notati segnali di intolleranza. L’arrivo è previsto intorno alle 17.30 a un paio di centinaia di metri dal Lingotto, dove è in corso la Fiera del Libro.
Alla manifestazione partecipa anche un gruppo di dissidenti ebrei con lo striscione «Jews against occupation». Tra loro c’è Giorgio Forti, professore emerito di Scienza all’Università di Milano, secondo il quale euella della Fiera del Libro «non è un’operazione culturale, ma politica». «Sono favorevole alla cultura dei libri - spiega - ma non dovevano invitare alcuni israeliani favorevoli al governo scordandone altri. Soprattutto dovevano invitare anche gli scrittori palestinesi. Ce ne sono tanti e bravi».
A Torino non c’è invece Fausto Bertinotti che proprio sabato avrebbe dovuto partecipare ad un convegno alla Fiera. Il leader di Rifondazione Comunista ha deciso di annullare l’appuntamento, considerando che già il 1 maggio era stato duramente contestato dagli organizzatori del corteo Free Palestine. L’ex presidente della Camera parteciperà comunque agli incontri della Fiera dove è stato invitato per domenica.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.05.08, Modificato il: 10.05.08 alle ore 17.15