ESSERE CHIAMATO “SACCO DI MERDA” E NON SENTIRNE IL PESO
Piccole storie di persone disabili
sabato 9 marzo 2013.
A.(in questo breve articolo, per ragioni di privacy, scriverò solo le iniziale dei nomi) è stato uno dei primi ragazzi che ho incontrato quando ho cominciato, alcuni anni fa, il mio lavoro di operatore sociale in una scuola superiore. Ero, per la precisione, un “assistente educatore”, affiancavo, cioè, un insegnante di sostegno, che era ufficialmente il responsabile del percorso educativo e formativo dei ragazzi con disabilità. Io non mi occupavo direttamente di A., stavo con lui solo un’ora a settimana, il resto del mio magro monte orario si divideva fra H. e N.. H., una ragazzina straniera, dolcissima, timida, silenziosa, aveva un deficit cognitivo così come N., un dinoccolato adolescente tutto preso dal calcio, dai videogiochi e dalle prime e inevitabili tempeste ormonali. C’era un bel drappello di questi ragazzi, di questi ragazzi particolari, ma su tutti svettava A., per la sua simpatia travolgente, il suo sorriso guascone, perché quando si trovava in classe, nel corridoio, nell’aula computer, teneva sempre la scena, perché rideva sempre, era sempre allegro, pronto a fare battute, a scherzare. Non si può raccontare A., bisognerebbe vederlo districarsi felicemente nella sua quotidianità. Ricordo quando passava davanti alla grande chiesa costruita di fronte la scuola e con le mani rivolte verso l’alto, in posa mistica, si fermava a contemplarla e pregava, una preghiera tutta sua, quasi fosse abbacinato da una forza misteriosa. La scena si ripeteva, puntuale, tutti i giorni, ogniqualvolta il grande edificio si parava innanzi la sua vista. E tutti i giorni erano risate, risate grasse: assolutamente comico! irresistibilmente esilarante! Quattro anni fa ho cambiato servizio per occuparmi di disagio psichico adulto, e ogni tanto mi capita di ricontrarlo A., questo ragazzo speciale, contento di vivere, di frequentare la scuola, stare con gli altri, prendere dagli altri, da tutti gli altri, quanto di meglio può prendere anche se da alcuni, sinceramente, c’è davvero poco di cui arricchirsi. A. è un ragazzo con la sindrome di Down, è uno di quelli che, come scrive Pontiggia in “Nati due volte”, lotta non per diventare normale ma se stesso, e ci riesce, ci riesce molto bene. In questa schiera di persone straordinarie mi piace ricordare anche D., colonna portante della comunità in cui, all’inizio del 2000, ho fatto il servizio civile, l’esperienza che, per usare un’espressione banale quanto rivoluzionaria, mi ha cambiato la vita aprendomi le porte al mondo del disagio, della sofferenza, del dolore, ma anche della forza, della tenacia, della speranza. Il mondo della marginalità “dove -scrive Fofi- ci sono i marginali, la follia, il dolore, l’isolamento, ci sono cose delle quali sono costretto a tenere conto, ma con le quali cerco di non identificarmi troppo perché, so che poi ti risucchiano e ti trascinano con sé, se non hai una grande forza o una grande struttura, una grande organizzazione alle spalle”. Quando giunsi in questa comunità, che accoglieva disabili fisici e psichici, D. era morto ormai già da alcuni anni, ma il suo ricordo era vivo. Ne era testimonianza tangibile la motoretta rossa a tre ruote, che utilizzava per andare in città, parcheggiata all’ingresso del bellissimo convento in cui si trovava la comunità, e che nessuno aveva osato spostare. D. era arrivato in quel luogo per ricevere aiuto (non poteva camminare) e ne diventerà un leader: si era attrezzato, quando ancora il convento era tutto uno sfascio, un laboratorio nel quale esercitare con somma maestria il mestiere di legatore di libri, ma il suo sogno era quello di fare il meccanico. Fra i tanti ricordi di D., che ascoltavo tra l’ammirato e l’incuriosito, uno mi colpì profondamente : un giorno, mi dissero, rientrò in comunità agitato, teso, preso da una strana euforia. “Cosa è successo?” qualcuno gli chiese e D., soddisfatto, rispose “M’hanno chiamato buzzo de merda!”. Era stato apostrofato appunto con l’espressione “sacco di merda” e chi l’aveva usata, per richiamare non troppo gentilmente D., non si era certo fatto irretire dal pietismo mieloso surrogato di una certa morale cattolica, falsa e appiccicaticcia. D. aveva fatto ciò che non doveva fare( e sinceramente non ho chiesto cosa mai avesse combinato quel giorno) ed era stato ripreso, giustamente, in malo modo. Era stato trattato come un uomo, un uomo come tanti altri. Per D. fu una vittoria durante quel percorso accidentato che è stata la sua vita, la vita di una persona disabile.
domenico barberio
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> ESSERE CHIAMATO “SACCO DI MERDA” E NON SENTIRNE IL PESO
16 giugno 2014
Ti auguro di rimanere ancora per tanti anni nel sociale, si capisce quanto ami la sofferenza e il dolore, il disagio fisico e l’insanità mentale ed è giusto tu prosegua nella tua lieta missione.
Ma se è "missione" perché mai ti lamenti delle poche ore malpagate ? Dovresti farlo gratis e ringraziare la coop. sociale o l’ente presso il quale sacrifichi la tua vuota vita per perseguire un ideale puro, alto, incomprensibilmente schifato dai più : pensa alla preziosa opportunità che ti è concessa !
Io credo manchi in te la spinta a "dare" di più, a sottometterti completamente al dolore e alla sofferenza, a donare e ri-donare completamente te stesso fino all’annullamento (anche fisico) che preclude alla pace interiore (o eterna).
D’altronde quello che fai non è un volgare lavoro e nemmeno una noiosa professione : è un piacere gioioso e come tale devi considerarlo pur con i necessari ma nobili sacrifici.