Per "Dio" - quanto interesse, e quanto "entusiasmo"!!!
Ma di quale "Dio" tutti sono "pieni"?!
Un omaggio ad Alessandro Baricco e Leonard Boff
di Federico La Sala *
Oggi, e finalmente, abbiamo un’Iliade (quella riscritta da Baricco: bravissimo, ha colto perfettamente nel segno), all’altezza del nostro tempo e della nostra civiltà. Un’iliade senza più gli Dei e senza più le Dee: è proprio quella che dice bene di noi stessi e di noi stesse - quella del tempo che viviamo e che meritiamo, non quella dei Greci e dei Troiani.
Dice della nostra vita e del nostro tempo - di noi, vivi-morti o morti-vivi, senza nessuna più differenza e senza più senso alcuno. In un presente senza passato e senza futuro, abbiamo dimenticato tutto - e non sappiamo più né distinguere, né meravigliarci, e né interrogarci sulle parole che usiamo o meglio ci usano (e non solo le parole!). Tutti gli dei sono morti: c’è un solo dio - e tutto è fatto uguale a tutto, dalla teleologia e dalla teologia del dio-denaro e del dio-capitale. Ancora più di ieri, Marx ha miliardi e miliardi di ragioni: egli conosceva bene i greci ..... e anche Dante!
Gli antichi greci, quando parlavano del "dio" o degli "dei", sapevano di chi parlavano: e, quando in modo particolare erano guidati da loro o cadevano sotto il loro potere o erano da loro ispirati, sapevano di Chi si trattava - ne conoscevano vita, storie, e miracoli: Apollo, Atena, Zeus, Era, Afrodite, Ares, Poseidone, Demetra, Eros ... Con la parola "entusiasmo", essi ci dicono di più di un trattato di antropologia, di teologia, e di filosofia messi insieme: per loro, tutto era "pieno di dei" - e dappertutto c’erano dei e dee! "Entusiasmo" vuol dire propriamente - e significativamente - "ispirato dal dio", "dominato dal dio", "preso dal dio". E i greci, quando venivano a trovarsi in tale situazione e stato, sapevano di quale "dio" in persona erano "pieni" e lo dichiaravano - senza alcun problema!
Gesù, quando insegnò il "Padre Nostro", sapeva - in spirito di verità (e non di menzogna!) - "Chi" era il "Padre": non il dio Mammona o il dio Moloch o il dio Baal. Gesù (che significa "il dio che salva") ci ha svelato "Chi" è questo "dio che salva" e ci ha detto il Suo nome: Amore ("Dio è Amore"). E, questo nome, è lo stesso di quello del "dio" del Cantico dei cantici - e non altri (prima di tutti gli altri): il dio dei nostri padri e delle nostre madri: è Amore-Ahavah, il dio che è "più forte di Morte" e la vince (su questo, cfr. il prezioso lavoro di Giovanni Garbini, Cantico dei cantici: Testo, traduzione, note e commento, Paideia Editrice, Brescia 1992). Ricordiamo: teniamo presente (forse questo Nome - non altri - è la Stella, che può portare tutti gli esseri umani a casa, dai propri genitori - ’Maria’ e ’Giuseppe’ - e ritrovare il nostro Padre e il Nostro dio, quello della Resurrezione dalla Morte, della Vita e della Verità).
Oggi, di nuovo e ancora tutti lo gridano, tutti ne parlano: Dio, Dio lo vuole, Dio è con noi...... Tutti lo hanno arruolato nelle proprie forze armate - soprattutto. Ma quanti "Dio" ci sono?! La parola"Dio" è tornata di gran moda - e di grande attualità. E’ tale e tanto l’ "entusiasmo" che anche i cavalli, se avessero la parola, griderebbero: "Avanti, all’attacco, Dio lo vuole, Dio è con noi"!
Ma di che si parla, di chi parlano? E di chi sono "pieni" o vogliono essere "pieni"? Al di là delle apparenze, è tutto come sempre: ognuno per sé (e contro tutti), e "Dio" con tutti. Il "quadro" ha già la sua moderna didascalia: l’uomo è un lupo per l’altro uomo - e la guerra di tutti contro tutti continua, alla grande! Questo è il nostro "Dio": "allegria", "allegria"! Non c’è da meravigliarsi (da un certo punto di vista): il concetto di Dio dopo Auschwitz non è affatto chiaro ...e il Nome stesso di Dio non si sa ancora quale sia. Si fa finta e si continua come prima, ancora come se la buona-notizia non ci fosse mai stata data - come se il messaggio a duemila anni e più dopo il suo "invio" non ci fosse mai stato portato.
O diversamente, come molti hanno detto e creduto, "Dio non esiste" o "Dio è morto"... che nessun messaggio mai è arrivato o arriverà. La "notte" è eterna - non finisce mai: è inutile svegliarsi - continuiamo a dormire! A che domandare? Nella notte tutte le vacche sono nere: essere e non-essere sono la stessa cosa! Zero, sotto zero, zero assoluto: un inferno - come Dante aveva ben capito - e ben denuciato, fin dal primo Giubileo!
Ricordiamo, ricordiamo.... Chissà? Forse, se riuscissimo a ricordarci di tutti gli dei e tutte le dee, riusciremmo a ricordarci anche del Nostro grande Amore.... Il politeismo non è affatto in contraddizione con il monoteismo - con il dio dei nostri padri e delle nostre madri. E, a ricordare e a ben pensarci, nemmeno con la critica dell’economia politica di Marx!
* Il Dialogo, Mercoledì, 08 dicembre 2004 - Archivio.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!!: IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E "UN FALSO MITO"... *
Pàllade, la dèa del Tritone, aveva seguito con attenzione il racconto. Elogiò il canto delle dee d’Aònia, e trovò giusta la loro ira. Ma poi, tra sé: “Lodare va bene, ma anche io voglio essere lodata, nemmeno io permetterò che si disprezzi la mia divinità impunemente!” E decise di rovinare Aracne della Meònia, la quale - le era giunta voce - non intendeva considerarsi inferiore a lei nell’arte di lavorare la lana. Costei, non per ceto o lignaggio era famosa, ma perché era un’artista. Suo padre, Idomone di Colofonie, tingeva la lana spugnosa con porpora di Focèa; la madre era morta, ma anch’essa era una popolana, della stessa condizione del marito. Malgrado ciò, Aracne con la sua attività si era fatta n gran nome per le città della Lidia, benché, nata appunto da umile famiglia, abitasse nell’umile Ipèpe.
Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timolo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pàllade. Ma Aracne sosteneva di no, e invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: “Che gareggi con me! Se mi vince potrà fare di me quello che vorrà”.
Pàllade si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone che sorregga le membra piene di acciacchi. Poi comincia a parlare così: “Non tutto è male nell’età avanzata. Più si invecchia più cresce l’esperienza. Dài retta a me: ambisci pure ad essere la più grande tessitrice, tra i mortali; ma non voler competere con la dèa,e chiedile con voce supplichevole di perdonarti per quello che hai detto, o temeraria; chiediglielo, e non ti rifiuterà il perdono”.
Aracne le lancia una torva occhiata, lascia andare i fili già cominciati e a stento trattenendosi dal percuoterla, con una faccia che tradisce l’ira, così dice di rimando a Pàllade che ancora non si è palesata: “O scimunita, smidollata dalla lunga vecchiaia, vivere troppo eccome se rovina! Queste cose valle a dire a tua nuora, valle a dire a tua figlia, se ne hai una! Io mi so regolare benissimo da me, e perché tu non ti creda di aver combinato qualcosa con i tuoi ammonimenti, sappi che io la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?”
Allora la dèa: “È venuta!”, dice, e si spoglia della figura di vecchia e si rivela - Pàllade. Le ninfe e le donne della Lidia si prostrano dinnanzi alla divinità; soltanto la vergine non si spaventa. Tuttavia trasalisce, e un improvviso rossore le dipinge suo malgrado il viso e poi ridilegua, come l’aria s’imporpora al primo comparire dell’aurora e dopo breve tempo s’imbianca, quando sorge il sole. Insiste sulla via che ha preso, e per insensata bramosia di gloria corre verso la propria rovina.
E infatti la figlia di Giove non rifiuta, e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. Subito si sistemano una da una parte, l’altra dall’altra, e con gracile filo tendono ciascuna un ordito. L’ordito in alto è legato al subbio, il pettine di canna tiene distinti i fili, la spola appuntita inserisce la trama, con l’aiuto delle dita, e i denti intagliati nel pettine, dando un colpo, comprimono la trama passata tra un filo e l’altro.
Lavorano tutte e due di lena, e liberate le spalle dalla veste muovono le braccia esperte, con tanto impegno che non sentono fatica. Mettono nel tessuto porpora che ha conosciuto la caldaia a Tiro, e sfumature delicate, distinguibili appena: così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda, tanto quelli contigui si assomigliano, sebbene gli estremi differiscano. Anche intridono i fili di duttile oro, e sulla tela si sviluppa un’antica storia.
Pàllade effigia il colle di Marte nella città della di Cècrope [ATENE] e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna i bordi con rami d’olivo, segno di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemosine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Tutto intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intreccisti a rami d’edera flessuosi.
Neppure Pàllade, neppure la Gelosia poteva trovar qualcosa da criticare in quell’opera. Ma la bionda dèa guerriera ci rimase malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dèi, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio.
Vedendola pendere, Pàllade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: “Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne riemette del filo e torna a rifare - ragno - le tele come una volta.
RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario, e, RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) "narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno" e, ANCORA, che sul tema - come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele (ARACNE, LE TARANTATE, E UN FALSO MITO - il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approfondimenti iconografici, credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del "falso mito".
CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne - una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione "familiare" e e della loro “ideologia” emergente dalle "immagini" dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le "avventure" di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso "ratto di Europa" ...
ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha "ingoiata" Zeus) ed entrambe al "servizio" dei loro "Padri", SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela - in attesa di un... Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa "variante" è da ritenersi "un falso mito"? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IN UNO "STATO" SONNAMBOLICO, IL CONTINUO RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI...
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE. Un omaggio critico (8 dicembre 2004).
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
di Ezio Mauro (la Repubblica, 12.01.2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" - e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia - della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea.
E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale - affinché nessuno si senta facilmente assolto - sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora - ognuno per la sua quota - dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica - tutta - fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura. Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere - ragiona l’uomo nuovo - non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
TRAMA E ORDITO: UNA PICCOLA "ODISSEA"...
ULISSE, POLIFEMO, PENELOPE E ... “LE PENE DEL LINO”! *
La strega e “me stessa”
di Saverio Strati *
Nei tempi molto antichi, c’erano le streghe che di solito vivevano nei valloni dei pressi del paese. Appena calava la notte, esse andavano in cerca di cristiani da stregare. Una sera, una strega, mentre passava vicino a casa, sentì che due comari facevano questo discorso:
“Cosicché domani mattina chiamatemi presto, comare, diceva l’una all’altra.”
“Sì, comare. Vi chiamerò verso le quattro. Così potremo lavare i panni prima che il sole sia troppo forte.”
La strega, sentite queste parole, si disse che aveva buona caccia da fare quella notte. Verso l’una infatti andò a chiamare la comare che aveva parlato per prima. Questa si alzò, si mise la cesta con i panni in testa e uscì.
“Andiamo, comare!” le disse la strega che sapeva far la voce precisa dell’altra comare.
S’incamminarono.
Anche la strega, si capisce, aveva la cesta piena di panni sporchi in testa.
La notte era limpida e la luna illuminava la terra come se ci fosse il sole.
“Portate molti panni da lavare?” domandò la donna alla strega.
“Molti, comare mia.”
Non si udiva alcun rumore nella vasta campagna.
“Mi pare molto presto!” osservò a un tratto la donna che già incominciava ad aver paura. Come se il cuore gliel’avvertisse.
“No, comare mia! Fra poco sarà l’alba”, disse la strega.
“Ho paura delle streghe. Dicono che laggiù al vallone ce ne sono”.
“Sono dicerie, comare mia.”
“Forse!” esclamò la donna. Ma i suoi occhi, senza volerlo, andarono ai piedi della finta comare.Vide che invece di piedi aveva zoccoli come gli asini. Si sentì gelare il sangue, la poveretta; si sentì sciogliere le ossa. “Gesù, Gesù!” si disse e si fece il segno della croce, per scongiurare il pericolo. Avrebbe voluto scappare, ma per andare dove, sola com’era a quell’ora di notte? Si affidò alla volontà di Dio.
Arrivarono al torrente giù al vallone e cominciarono a lavare i panni e a dire cose. La strega attaccò a parlare, a parlare, per incantare la donna; la quale fra sé pregava Dio che arrivasse presto l’alba. Giacché dopo l’alba le streghe non hanno più potere di stregare. Diceva sempre di sì e fingeva di non aver capito che la compagna era una strega. Si faceva coraggio, ma già la strega la stava addormentando, con quel suo cicalio fitto fitto che non terminava mai. Si scosse, la donna, si fece forza e si diede a parlare delle pene del lino.
“Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino!” diceva. “Bisogna zappare la terra e seminarvi il lino fitto fitto in modo che un seme tocchi l’altro seme. Il lino spunta e cresce. Ma bisogna mettere un pupazzo in mezzo, altrimenti i passeri se lo mangiano... Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino!...”
La strega sentiva che il suo potere diminuiva, a queste parole, e diceva:
“Oh, lasciate stare il vostro discorso e ascoltate me che voglio raccontarvi una storia...”
“... E poi bisogna pulire il lino dalle erbacce... Ah,comare, a raccontare delle pene del lino, canta il gallo e fa mattino!...” continuava a ripetere la donna, proprio col coraggio dei disperati.
Al ripetere: Canta il gallo e fa mattino, la strega fremeva e si sentiva diventare sempre più impotente. La donna lo capiva e a vele gonfie proseguiva:
“Cresce, il lino, e diventa verde e col fiorellino azzurro. A maggio quando c’è bel tempo, il lino ingiallisce e bisogna raccoglierlo... Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino...”
“Lasciatemi dire, fatemi raccontare qualcosa anche a me”, fece la strega sempre però con voce più debole.
“Dopo che lo raccogliamo, lo stendiamo, il lino, nel campo e ve lo lasciamo per giorni e giorni al sole; poi lo mettiamo ad ammollare nell’acqua corrente, quando non c’è la luna... Ché il lino, se c’è la luna, nell’acqua si sfà... Poi lo ristendiamo al sole che lo cuoce, lo matura; e infine lo maciulliamo, lo cardiamo... Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino!...”
“Oh, sentite, comare, cosa m’è successo a me ieri...”
“... E dopo che lo cardiamo, il lino, lo filiamo e incominciamo a tessere i lenzuoli e il resto della biancheria. Tutto il corredo ci tessiamo col lino... Ah, comare, a raccontare le pene del lino, canta il gallo e fa mattino...”
Ed ecco il canto del primo gallo. La donna mandò un sospiro di sollievo. Ora che l’alba era prossima, la strega non aveva più alcun potere sulla donna.
“Ora ti aggiusto io per le feste!” si disse questa che era mezza morta per lo sforzo che aveva dovuto fare a vincere l’incantesimo. Accese il fuoco per preparare la liscivia e, quando l’acqua della caldaia cominciò a bollire, disse alla strega:
“Comare, venite a vedere se è al punto giusto per versare la cenere dentro l’acqua”.
La strega che a quell’ora cominciava ad essere stolta si avvicinò alla caldaia e si curvò per guardare. La donna lesta lesta la prese dal sedere e ve la infilò dentr, dicendo:
“E se qualcuno ti chiede chi ti ha buttata dentro, digli che è stata Me Stessa. Così mi chiamo io,”
La strega urlava in modo feroce. Alle sue grida una schiera di streghe le domandarono a gran voce dall’altra parte del vallone:
“Che ti è successo che gridi così?”
“Correte, ché Me Stessa mi sta bruciando viva”
“E se tu ti stai bruciando da te stessa perché dobbiamo venire?
“Non sono io, ma Me Stessa che mi brucia. Aiuto!”
La donna intanto scappava per la salita.
“Accorrete ad ammazzare Me Stessa!” gridava la strega già mezza morta.
“Tu sei pazza stamattina!” le dissero le compagne e non si curarono più di lei che morì di lì a poco.
La donna però ebbe una fifa che le durò per tutta la vita. Figuratevi che per otto giorni ebbe un febbrone da cavallo; e che per sempre non parlò d’altro che della strega e di Me Stessa.
* Saverio Strati è uno dei grandi narratori italiani del ‘900. Nato a Sant’Agata del Bianco (RC) il 16 agosto 1924 è morto a Scandicci, Firenze il 9 aprile 2014 ("Trama e ordito").
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
Armando Polito, "Dialetti salentini: Li pene ti lu linu (Le pene del lino)", "Fondazione Terra d’Otranto", 29.07.2018.
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
IN UNO "STATO" SONNAMBOLICO, IL CONTINUO RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI. DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria".
Federico La Sala
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
IL MITO DELL’AUTONOMIA INTELLETTUALE, ROBINSON, E LE ROBINSONATE ....
DOPO 170 ANNI DALLA BRILLANTISSIMA “Introduzione del ’57”, ove Marx scrive parole assolute e definitive (“La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro”), è più che lodevole ricordare ai cittadini e alle cittadine della Repubblica non solo quello che Marx, nel 18 Brumaio e ne L’ideologia tedesca, chiama “il processo di putrefazione dello spirito assoluto”, e, quello che Lukàcs, sulle orme di Marx, chiama “la prassi dell’individuo isolato” (cfr. Mimmo Cangiano, Il mito dell’autonomia intellettuale, "Le parole e le cose", 28.11.2017), ma anche quello che gli intellettuali di "la Repubblica" si preparano a fare per festeggiare il fatto che “Robinson compie un anno (:hai tutti i numeri? Mandaci una foto della tua collezione. Domenica 10 dicembre inviteremo uno dei lettori a visitare l’Arena Robinson, lo stand del nostro settimanale a "Più libri più liberi"”).
Federico La Sala
Nobel, due parole a Baricco sul premio a Dylan
di Andrea Scanzi *
Sono in treno. Ho messo adesso Visions Of Johanna, tratto da quella smisurata epifania artistica chiamata Blonde on Blonde. E ho avuto ulteriore conferma che Alessandro Baricco, e con lui gli esegeti dell’accademismo fighetto-polveroso-stizzito, sul Nobel a Bob Dylan ha detto una cazzata che bastava la metà.
Alessandro, ho letto ogni tuo libro e non apparterrò mai ai tuoi detrattori per professione. Sai scrivere e hai firmato bei libri. Soprattutto quando, oltre a specchiarti, avevi anche una passione reale. Chi ti odia non ti ha mai letto e si è comprensibilmente fermato alla tua antipatia, che coltivi da sempre con misteriosa civetteria. Quando parli di politica hai la lucidità di un Gennaro Migliore alla moda, ma chi se ne frega. Ognuno è libero di prendere le cantonate che vuole, o quelle che più gli convengono.
Ciò detto, e vale per quasi tutti (quindi prendila con filosofia), c’è più letteratura in quel pezzo - o in altri 117 brani di Dylan - che in tutte le tue pagine. Per una volta, e lasciatelo dire da un narciso come te, guarda oltre il tuo ombelico ferito e impara dalla reazione di Don DeLillo: “Dylan lo merita. È un grande artista e ha raccontato il suo tempo come pochi altri”. Game, set and match. E lo ha detto De Lillo, mica il primo Scanzi che passa. Con affetto.
* IL FATTO QUOTIDIANO, Blog di Andrea Scanzi | 14 ottobre 2016
La guerra di Troia, tra mito e storia
Graphic Novel. Eric Snanower, "L’eta del bronzo", un attentissimo lavoro filologico, in cui le invenzioni, le variazioni sono poste al vaglio dei testi e della credibilità storica e letteraria
di Giancarlo Mancini (il manifesto, 14.05.2016)
Non sono poche le riscritture a fumetti di personaggi storici, fatti più o meno misteriosi, delitti di stato e infine anche di classici della letteratura. E se la riscrittura è una delle pratiche dominanti dell’età moderna che riprende in mano i testi del passato per plasmarli in una nuova veste, questa riscrittura di Eric Shanower, L’età del bronzo (Magic press, € 15) è interessante da più punti di vista.
L’oggetto è la guerra di Troia, un qualcosa che oggi nel nostro immaginario è in bilico tra storia e letteratura, ovvero tra quanto tramandano gli storici dell’epoca e quanto invece ne possiamo desumere attraverso la lettura dell’Iliade omerica. Shanower spiega nelle note la sua lunga passione per queste vicende e questi personaggi, avvolti per metà dal mito e per metà dalle rievocazioni.
Se nelle molte riscritture a fumetti di questi anni la dominante è sempre l’ironia e uno spirito di intromissione “goliardica” nei meandri della letteratura cosiddetta alta (ammesso che questi recinti significhino ancora qualcosa oggi), per lui la faccenda è tremendamente seria.
Filo rosso di questi sette volumi dedicati allo scontro tra troiani ed Achei è una sorta di tentativo sincretico, di trovare cioè una strada intermedia, tra le vicende raccontate da Omero e quelle invece raccontate dagli storici.
Questo ha implicato tutta una serie di scelte, da un lato volte a dare una coerenza e una compattezza narrativa al lungo racconto, dall’altro per dirimere alcune delle questioni che da sempre attanagliano sia i critici che gli scrittori.
Solo per fare un esempio, Paride, il personaggio da cui tutto, in un certo senso ha origine, essendo materialmente l’uomo che si occupa del rapimento di Elena, moglie di Menelao re di Sparta, invece di essere un pastore qui è un vaccaio e non solo perché alcune fonti come le Eroidi di Ovidio e il Ratto di Elena di Colluto, presentano altresì un Paride dedito alla cura di tori e vacche. Ma soprattutto perché nel sogno con cui incontriamo Paride nella vignetta d’apertura, l’autore preferisce dissolvere il volto della dea Afrodite sul muso di una mucca anziché su quello di una pecora “perché nell’antichità gli occhi bovini erano ritenuti simbolo di bellezza e Paride, in sogno, aveva appena eletto Afrodite come la più bella tra le dee. Ma l’idea del Giudizio interpretato come sogno iniziò a svilupparsi in maniera diversa. La mucca, però, rimase per evidenziare la familiarità di Paride con i bovini, aggiungendo credibilità alla sua decisione di riottenere il toro.”
Oppure c’è l’utilizzo del cane Argo, che nella versione omerica caratterizza uno dei passi più struggenti dell’Odissea, quando ormai vecchio e malato riconosce Ulisse al ritorno a casa travestito da mercante. Nell’opera di Shanower lo incontriamo quasi subito, per drammatizzare la scena della pazzia di Odisseo e azzannare uno di quelli venuti assieme ad Agamennone per portarlo in battaglia, cioè lontano da casa.
Insomma siamo davanti ad una delle manifestazioni più mature e consapevoli del fumetto contemporaneo, senza alcun tipo di remora o di sudditanza rispetto a nomi altisonanti come quello di Omero, o anche solo per restare sul campo storico, della guerra di Troia.
Il lavoro di Shanowe, lo dimostra la ricchissima bibliografia posta alla fine del primo volume, dimostra un attentissimo lavoro filologico, in cui le invenzioni, le variazioni sono poste al vaglio dei testi e della credibilità storica e letteraria.
Per chiarire ancora di più le ragioni da cui scaturisce questa lunga e spaventosa guerra egli fa ricorso alle ragioni poetiche quanto a quelle politiche.
Le prime fanno capo ancora una volta ad Elena, mitiche, la donna più bella del mondo, colei in cui Paride vede incarnata la premonizione fattagli tempo addietro nel bosco. Poi ci sono i motivi d’onore, il patto tra i re delle varie città stato greche, in primis Agamennone.
Poi però c’è anche la geopolitica, l’occasione serve infatti al re miceneo per forzare la mano contro quella importante città stato posta in una dislocazione geografica invidiabile, alle porte dello stretto dei Dardanelli, quello che nell’antichità era chiamato l’Ellesponto.
La scelta più radicale rispetto alla struttura dell’epica omerica riguarda gli Dei che se lì erano parte integrante dello scontro tra le due fazioni, prendendo parte per l’una o per l’altra, portandosi dietro tutte i loro bizzosi criteri, qui sono posto interamente fuori dal racconto e dal recinto dove le cose accadono.
“Ho scelto di ridimensionare l’elemento soprannaturale per aver modo di enfatizzare quello umano. I soli elementi fantastici che ho conservato sono i sogni e le visioni. Che, a ben pensarci, non sono necessariamente soprannaturali in toto. Tutti noi sogniamo. Alcuni soffrono di allucinazioni. Altri sono convinti di avere delle visioni. In ogni parte del mondo ci sono persone che ritengono di potere comunicare con gli dei attraverso le preghiere. Così sogni e visioni fanno parte dell’opera... hanno un carattere abbastanza umano, dopo tutto.”
Nato a key West, in Florida, nel 1963, Eric Shanower inizia a dedicarsi al disegno e alla scrittura delle storie a soli 6 anni, per proseguire, a modo suo I libri di Oz di Frank Baum.
Con l’età del bronzo, iniziato nel 1991 ha vinto l’Eisner Award come miglior scrittore e miglior sceneggiatore nel 2001 e nel 2003.
Nell’età del bronzo Shanower dimostra non solo le sue qualità di sceneggiatore e di disegnatore ma anche, su una prospettiva più ampia, quanto in questi ultimi anni il fumetto sia diventato, o tornato ad essere dipende dai punti di vista, una delle forme espressive più pregnanti di quest’epoca.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO (...)
Oggi, e finalmente, abbiamo un’Iliade (quella riscritta da Baricco: bravissimo, ha colto perfettamente nel segno), all’altezza del nostro tempo e della nostra civiltà. Un’iliade senza più gli Dei e senza più le Dee: è proprio quella che dice bene di noi stessi e di noi stesse - quella del tempo che viviamo e che meritiamo, non quella dei Greci e dei Troiani
Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA. COMMENTO APOCALYPTICO DI SCUOLA GIOACHIMITA, DANTESCA, KANTIANA, E MARXIANA
Sfidare Apollo, splendida follia
Giulio Guidorizzi racconta l’«Iliade» dal punto di vista di quel borioso di Agamennone. Un esperimento ardito ma perfettamente riuscito
di Piero Boitani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
Quando arrivai sotto le mura di Micene, cinquant’anni fa, il cielo era nero e solcato da lampi. La Porta dei Leoni si apriva bassa e squadrata tra enormi pietre grigie. Il vento soffiava furibondo e faceva freddo. Immaginavo le fiaccole accese che, da Troia, di monte in monte, avevano segnalato la partenza del Re per il ritorno. Mi domandavo dove si fosse fermato il carro che portava Cassandra dopo che lui ne era sceso per camminare verso casa sul tappeto purpureo.
Qualche giorno prima, ad Atene, avevo contemplato a lungo la maschera funebre sbalzata in oro: dopo averla ritrovata, Schliemann aveva telegrafato al re di Grecia: «Ho visto il volto di Agamennone». Mostra un «un uomo dal naso sottile, con una piega altezzosa sulle labbra, un viso che esprime fierezza, disdegno, regalità». Sì, doveva essere proprio Agamennone, quello lì: anche se era impossibile che lo fosse. Schliemann sapeva benissimo che il mito è molto più forte dell’evidenza materiale, che l’ Iliade e l’ Orestea vinceranno sempre l’archeologia e la storia.
Lo sa anche Giulio Guidorizzi, che pure è grecista serio e agguerrito, il quale s’è occupato a fondo del mito greco (ha curato sull’argomento due splendidi Meridiani), di Edipo, di sogno nella Grecia classica, di magia nell’antichità, e che sta traducendo proprio l’Iliade, e dirigendo una squadra internazionale di studiosi per l’edizione Valla in sei volumi del poema. A tale chiara manifestazione di follia (del resto, ha studiato anche questa in un bel libro di qualche anno fa) Giulio Guidorizzi ne aggiunge ora un’altra: quella, in sostanza, di riscrivere l’Iliade, con qualche frammento di Eschilo e dell’Odissea per sfidare Apollo e le Muse sino in fondo.
Ogni anno, da almeno dieci, tengo ben due serie di lezioni sull’Iliade e l’Odissea. Perciò, ho cominciato a leggere il libro con qualche scetticismo: per esser passato anch’io tra questi furori, per l’oggettiva difficoltà di gareggiare con Omero, per scarsa considerazione nei confronti di Agamennone. Ma come, pensavo, proprio quell’antipatico, insopportabile borioso che ruba Briseide ad Achille e si considera a tutti superiore non si sa bene perché?
Ma Io, Agamennone vale come la Cassandra di Christa Wolf. Dopo due pagine, il tempo di passare dal Prologo al primo capitolo, Mýthos, non riuscivo più a metterlo giù. Perché Guidorizzi sa raccontare bene: come Ulisse, al quale Alcinoo dice che narra con sapienza e con arte, come un aedo. E sa, al momento giusto inserire nel discorso i concetti fondamentali che lo guidano e danno il titolo a ciascuno dei suoi capitoli: mýthos, appunto, e poi timé (l’onore), eros, dóra (dono), dólos (l’inganno), pólemos (guerra), psyché (anima), móira (fato), nóstos (ritorno).
Quando, nel primo capitolo, narra la vicenda di Enomao, Ippodamia e Pelope - gli antenati di Agamennone - rende la storia così avvincente che sino alla sua consumazione il lettore non riesce a distaccarsene. Ma al tempo stesso quel lettore viene messo nella posizione di cogliere le complicazioni intricate e le sfumature del mito, le sue diramazioni e i suoi salti improvvisi: insomma di capire cosa significhino la memoria e il canto per una civiltà giovane.
L’Iliade consiste per buona parte di battaglie e duelli: lunghi e lenti, in Omero. Ma se si comprende che combattere per l’onore e la gloria significa, nell’ethos greco di tremila anni fa, scegliere tra il lasciare una sia pur minima traccia di sé e affondare irrimediabilmente nel nulla, allora si capisce l’estrema urgenza personale che sta dietro agli scontri infiniti del poema. L’Iliade è tutta “agonistica”, diceva l’anonimo del Sublime: è il poema della forza, scriveva Simone Weil. È polemos, lotta, lance spade scudi elmi frecce, cavalli e carri, sangue, vittorie e sconfitte.
Soltanto leggendo Io, Agamennone mi sono reso conto di quanto avesse ragione William Golding, l’autore de Il Signore delle mosche, quando, molti anni fa, mi disse che il carattere “virile” del poema - per lui, una delle sue virtù supreme - sta nel suo essere una guerra di ciascuno contro la moira, pur nella coscienza che contro di essa non si può nulla.
Quando Guidorizzi si tuffa nella mischia e racconta l’avanzata dei Troiani - l’incursione di Diomede e Ulisse, e poi, in crescendo di ritmo, l’attacco e la ritirata di Agamennone, Diomede ferito, Ettore che comincia ad appiccare il fuoco alle navi e sfonda il muro greco, Aiace che si ritira, Patroclo che, rivestito delle armi di Achille, esce sul campo di battaglia e viene ucciso da Ettore, poi il duello di quest’ultimo con Achille, lo scempio furibondo - la sequenza che costruisce è di una rapidità sconvolgente. Dominano, in essa, il thymós e l’ombra della psyché: l’uno, «l’energia sempre in movimento» degli eroi, il «groppo di impulsi ed emozioni» che li trascina; e lo stagliarsi perenne dell’altra, la psyché, «l’ultimo respiro di vita che abbandona un uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte»: «Il gran lottare, amare, odiare, soffrire che accompagna la vita degli esseri umani istante dopo istante si risolve dunque in questo: un soffio che svapora dell’aria».
Tuttavia, ci sono anche nel libro l’ammaliante cintura di Afrodite e lo scambio di doni: Elena che tesse la guerra che si sta combattendo per lei e stupisce gli anziani di Troia per la sua bellezza tremenda - una di quelle pause straordinarie nelle quali, secondo Rachel Bespaloff, il divenire tumultuoso della guerra si coagula in essere -, il deflagrare dell’eros negli incontri di lei e Paride e di Zeus ed Era, l’affetto doloroso di Ettore e Andromaca, la philía tra Achille e Patroclo, l’incontro civile di Glauco e Diomede. E infine l’ingresso di Priamo nella tenda di Achille, la preghiera in nome del padre, la grande pietà dell’eroe dell’ira, la cena, lo sguardo d’ammirazione che il vecchio e il giovane si scambiano: «il gran dolore del mondo» che sempre ti prende.
Al contrario che nell’Iliade, qui la guerra termina: Achille, per amore di Polissena, si fa cogliere scoperto dalla freccia di Paride, la città è presa con l’inganno, saccheggiata, incendiata, gli uomini uccisi, le donne deportate in schiavitù dai vincitori. Agamennone parte, naviga sull’Egeo con la propria preda, la figlia di Priamo, la veggente Cassandra. Di nuovo, il ritmo si fa incalzante: Cassandra ricorda Edipo, Evadne, Tiresia, Otrioneo; Clitennestra pensa a Ifigenia e si dà a Egisto, nel quale rivive l’inimicizia del padre Tieste per il padre di Agamennone, Atreo. Le fiaccole segnalano l’arrivo di Agamennone a Micene.
Cassandra, come in Eschilo, pre-vede tutto ciò che sta per accadere. E che, inesorabilmente, accade: Agamennone incede sotto la Porta dei Leoni, entra nel palazzo, è ucciso come un bue alla greppia. Disceso all’Ade, racconta che la moglie Clitennestra, sgozzata Cassandra, non gli ha neppure chiuso la bocca e gli occhi. Lo racconta a Ulisse: l’eroe del ragionare, del pazientare, dell’errare: del sopravvivere e del narrare.
Oltre il mito.
Giulio Guidorizzi riscrive la vita di Odisseo e squarcia la classica tela narrativa fatta di tempeste, ciclopi, sirene e perfide maghe. L’avventuriero è raccontato «da fuori», visto dai comprimari dell’epica vicenda
Ulisse, ora sappiamo chi sei
di Piero Boitani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.09.2018)
L’imperatore Adriano, pare, domandò una volta all’oracolo di Delfi quale fosse l’origine di Omero e di chi fosse figlio. La Pizia rispose con un vaticinio in esametri che diceva: «Sconosciuta è la stirpe e la patria che mi domandi / della divina sirena. Ma sua sede è Itaca, / Telemaco il padre ed Epicaste di Nestore figlia / la madre, che lo generò tra i mortali di gran lunga in tutto sapiente (pánsophon)». Ulisse, secondo questi quattro versi, sarebbe insomma il nonno di Omero, Omero il nipote di Ulisse «onnisapiente». Ne deriverebbe, dopo l’uscita di questo libro, che Giulio Guidorizzi, in quanto discendente di Omero, è (n volte) pronipote di Ulisse. È divertente immaginarlo. Senonché Guidorizzi stesso dedica il libro a suo figlio ... Ulisse. E allora tra nonni, padri e figli non si capisce più nulla, e sembra di trovarsi in un racconto di Borges come L’immortale, che proprio di Omero e Ulisse tratta.
L’apologo, però, contiene un nocciolo di verità. In primo luogo perché Giulio Guidorizzi ha già pubblicato Io, Agamennone (Einaudi, 2016: Sfidare Apollo, splendida follia, «Domenica» dell’8 maggio 2016), e sta per pubblicare Il grande racconto della guerra di Troia (Il Mulino). Con quest’ultimo verrà così a comporsi una (prima?) trilogia mitica che forse anche l’antenato di Guidorizzi, Omero, avrebbe invidiato. In secondo luogo, perché Guidorizzi condivide col padre o con il figlio, Ulisse, la straordinaria abilità di narrare. Quella che incanta i Feaci quando lo straniero che si è appena rivelato comincia a raccontare le sue avventure: «Troia era caduta per l’astuzia di quell’uomo che stava insieme a loro, questo era vero, lo dicevano tutti. Ma molto meglio che ascoltare i racconti del cantore era sentire le parole dello straniero; e vederlo mentre parlava e si guardava intorno con i suoi occhi acuminati come una spada. Nessuno fiatava, le loro menti erano prese in una rete. Le parole uscivano dalla bocca dello straniero come da una cascata; sapeva raccontare, sapeva alternare i silenzi con le parole e la sua voce era bellissima». Parola di Nausicaa. Le tue storie le racconti come uno che sa, come un aedo, dice il padre, il re dei Feaci Alcinoo, a Ulisse, nell’Odissea.
Nessuno può resistergli, quando racconta: non Circe, non Calipso, che devono aver trascorso parte degli otto anni ad Eea e a Ogigia stando a sentirlo; non Eumeo, non Penelope. E neppure, nei tremila anni che ci separano da lui, un Virgilio, un Ovidio, un Dante. No: non Tennyson, Conrad, Joyce, Giono, e tutti quelli che hanno provato a narrarlo di nuovo.
L’Odissea, questo primo romanzo del mondo, Guidorizzi la srotola, la stende e la riavvolge come la tela che Penelope tesse di giorno e disfa di notte. Una tela che copre tutta una parete. Sottile, lavorata ad arte, piena di mostri, uccelli, piante; un polipo che circonda i pesci con i suoi tentacoli; guerrieri sui carri; il mare viola, una barca che si avvicina a un’isola. Penelope «ci ha messo la sua anima, tessendo d’istinto quello che le veniva in mente di giorno in giorno; poi la notte, quando la disfaceva, vedeva le forme annullarsi e svanire come ingoiate dall’aria; e il giorno dopo ritessendola ne creava di nuove». A Penelope piace fare e disfare e rifare, e vorrebbe continuare la tela anche dopo il ritorno di Ulisse.
Allo stesso modo procede il racconto di Ulisse: come la sabbia increspata dal mare, che disegna sulla riva un’esile, scura linea appena percettibile, cancellata a ogni respiro delle onde e subito rifatta. Così, per esempio, l’incontro con Polifemo si trova, insieme alla tela, in un capitolo non per nulla intitolato Diéghesis: cioè racconto. Che, sin dall’inizio, sembra immerso in un sogno, come quello che avvolge le notti di Penelope.
Ma è un sogno vividissimo, quasi fossimo ne Il mondo come meditazione di Wallace Stevens, dove Penelope, nel dormiveglia del mattino, sente una forma di fuoco che si avvicina alle sue cretonne e dubita e medita, e la meditazione è il mondo: «È forse Ulisse che sopraggiunge dall’oriente, / interminabile avventuriero?». Un sogno creatore, dalle partiture perfettamente cadenzate: Onéirata, Xenía, Aoidé, Eschatiá, Kóre, Diéghesis, Nóstos, Mégaron: le parole greche non appaiono vezzi di studioso, ma danno struttura e forma alla narrazione, come i titoli dall’Odissea negli schemi dell’Ulisse che Joyce distribuiva agli amici. Costruiscono impalcature narrative, segnando progressi, scarti, regressi, pause, sorprese e suspense: perché allo stesso tempo riscrivono e interpretano la narrazione originaria, l’Odissea. Perciò, il lettore che conosce l’originale omerico si gode Ulisse doppiamente, come chi, osservava il filosofo, ascolti musica che già conosce: la prima volta, infatti, si trattava di «acquisire conoscenza», ma la seconda di «riconoscerla».
Nella sequenza cangiante di Ulisse c’è polifonia da contrappunto: il racconto è molto spesso fatto dai, o dalle, protagoniste, in prima persona, ma queste voci hanno il medesimo ritmo incantatorio: attorno al sogno, unificano. Conferiscono urgenza interiore, danno l’impressione di rivelare i motivi che muovono i personaggi, al punto che Ulisse avvince come un romanzo psicologico moderno.
Irresistibile, per esempio, la voce di Nausicaa, la kóre al centro del libro. In quella voce vediamo per la prima volta Ulisse da fuori, quale lo vede lei - e lei invece come riverbero: «Ha cominciato a parlare da lontano, appena fuori dal canneto, tendeva le mani a supplicare e ho capito che non mi avrebbe fatto del male. Aveva una voce profonda e armoniosa, non ho mai sentito una voce così bella, e sceglieva le parole giuste...Mi ha pregato; ha detto che ero bellissima, come una giovane palma: così ha detto, una palma, e mi ha stupita perché da noi nessuno paragonerebbe una persona a un albero. Ha lodato i miei capelli biondi e i miei occhi celesti come acqua chiara, dicendo che solo le dee li hanno così... Ho sentito qualcosa d’insolito nel cuore, mai nessuno li aveva paragonati a un cielo così bello».
La morte che s’agita sul fondo di Ulisse con le misteriose Sirene e l’incontro con la madre all’Ade non riesce a turbare né la felicità che Ulisse e Penelope tenacemente perseguono per vent’anni né quella di Guidorizzi narratore: il quale assomiglia sempre di più a quel che Aristotele dice di se stesso: più invecchio, più mi scopro amante del mito. Nell’ultima pagina di questa bellissima riscrittura Ulisse e Penelope sono finalmente a letto insieme. Allora, dopo l’amore e i racconti, Penelope prende la spada del suo uomo e squarcia, infine, la tela.
Scuola
Se a scuola non sei Baricco sei out
Videoscuola. Epifenomenologia dei cantori della Videoscuola: Alessandro Baricco e lo "storytelling" di Renzi
di Anna Angelucci (il manifesto, 11.06.2015)
Intellettuale à la page, affabulatore multimediale, variamente scrittore-saggista-critico musicale-conduttore televisivo-pianista-sceneggiatore-regista, proprietario, animatore e docente di una scuola privata per aspiranti neo Salinger 2.0: non mancano le credenziali ad Alessandro Baricco - teorico del barbarico che avanza - per parlare di scuola, insegnanti e disegno di legge del suo amico Matteo Renzi. Dal pulpito radical chic di Repubblica delle Idee 2015, ça va sans dire.
La premessa epistemologica del ragionamento di Baricco è questa: essendo i paradigmi dell’esperienza profondamente mutati - multitasking e surfing i nuovi modelli - i giovani privilegiano gesti e modalità conoscitive in continuo movimento e affastellamento, il cui fine non è una meta da raggiungere, dentro o fuori di noi, ma il movimento stesso.
E la scuola pubblica italiana contemporanea, lungi dall’essere capace di cavalcare in superficie l’onda della barbarica modernità - governandola - si ostina a voler infilare gli studenti nella profondità del lavoro di scavo e della ricerca di senso, poco utile e per nulla dilettevole.
Metaforicamente, ci dice, un crepaccio. Mortifero. Che va evitato percorrendo nuove strade. Più orizzontali che verticali, più accessibili che profonde, più facili, stimolanti, originali, veloci, divertenti che faticose e complesse.
Lo strumento perfetto cui la scuola dovrebbe ispirarsi, suggerisce il professor Baricco, è il videogioco, più utilmente articolato e impegnativo sotto il profilo formativo delle tradizionali operazioni con mele e con pere, come sa per esperienza di padre.
Il modello è quello anglosassone in cui, ci spiega, il docente registra una lezione perfetta, che i ragazzi guardano a casa. L’esempio, aggiungerei per completezza del ragionamento, potrebbe essere quello di Renzi e Orfini inebetiti davanti a un videogame con il pad della playstation in mano, nell’attesa dei risultati delle ultime elezioni regionali.
La scuola ideale, secondo Baricco e i cantori delle magnifiche sorti e progressive del digitale, è quella che elimina l’insegnante e, insieme, altre cose inutili e superate, come la divisione in materie e classi. Baricco è in buona compagnia: anche la senatrice Puglisi, responsabile Istruzione del Pd, dal suo blog invoca il superamento della logica additiva delle discipline al grido di basta lamentismo, e addirittura Luigi Berlinguer, meritocraticamente titolato a discettare vita natural durante di teoria e prassi dell’istruzione in Italia proprio in virtù delle sue leggi, responsabili del declino di scuola e università nell’ultimo quindicennio, ci rimprovera per le nostre lezioni ex cathedra, i programmi, le materie, i percorsi, e finanche, dalle pagine del Corriere, per l’arcaicità della motivazione educativa.
Che dire? Da Gramsci, Calamandrei, don Milani e dall’idea di una scuola in cui proprio attraverso la fatica dell’impegno collettivo e cooperativo si diventa cittadini istruiti, a Baricco, Berlinguer, Puglisi, portatori di un’idea di scuola che promuove - divertendo beninteso - l’autismo.
Gli epifenomeni della società dello spettacolo colpiscono anche qui, a scuola, ultima trincea delle forme di sapere logico-critiche complesse che si stanno perdendo, estrema difesa dall’iperstimolazione sinestetica superficiale digitale assurta a totem dei nostri tempi, che aggrega informazione e nega la conoscenza, la profondità, l’empatia, la compassione, la contemplazione, il tempo.
Se fai una lezione in corpore vili ma non proponi un ‘evento’ sei out. Se parli e leggi un libro ma non sfoderi un tablet o un iPad sei out. Se guardi negli occhi e ascolti i tuoi studenti ma non sei connesso sei out. Se stai in classe ma non sei sui social sei out. Perché, come ci spiegano gli epifenomeni, se hai gli attributi ma non hai l’accessorio sei out.
Pennac, Baricco e la scuola
di Alain Goussot*
Interessante paragonare le recenti riflessioni dello scrittore francese Daniel Pennac (leggi l’intervista di lejdd.fr) con quelle dello scrittore italiano Alessandro Baricco sulla scuola (tra i diversi interventi recenti leggi qui): il primo punta sull’importanza del desiderio di apprendere, anzi sul piacere di apprendere, addirittura consiglia di non fare entrare gli alunni in classe con ipad, cellulare e pc poiché questi mezzi (da non demomizzare) favoriscono la fuga dall’esperienza relazionale che costituisce il fondamento dell’esperienza educativa, invece Baricco propone quasi il contrario con una scuola che dovrebbe rinnovarsi partendo dal digitale. Pennac si preoccupa della formazione come cittadino consapevole e autonomo, dell’apprendimento possibilità di fare emergere una soggettività critica per combattere la trasformazione dell’alunno in consumatore asservito ad un sistema alienante che uccide ogni capacità di essere per davvero libero.
Baricco afferma che digitale e linguaggio scolastico non s’incontrano evitando tuttavia di ragionare, come fa Pennac, sugli effetti del digitale sullo sviluppo psico-emozionale e neuro-cerebrale del bambino. Non si pone minimamente la questione del rapporto da consumatore che ha il bambino con questi oggetti. Pennac, dalla sua esperienza d’insegnante e anche di alunno “difficile” (vedi Chagrin d’école), vede nella relazione l’essenza del processo educativo - in questo la presenza pervasiva dell’oggetto digitale rappresenta un ostacolo che spinga all’autoisolamento e non all’apertura all’altro -, considera anche l’importanza dell’incontro con l’adulto consapevole e attento pedagogicamente.
Questioni che non sembrano preoccupare Baricco che sembra, alla differenza di Pennac, ignorare i lavori dei neuroscienziati come Lamberto Maffei e Nicholas Carr sull’impatto dell’invasione del digitale nella vita dell’infanzia e della pre-dolescenza: impoverimento emotivo e relazionale, restringimento della sfera cerebrale che gestisce le funzioni del linguaggio e del pensiero, quindi di tutta la sfera cognitiva, una perdita progressiva della capacità di fantasticare e, come hanno scritto il filosofo Bernard Stiegler sui fenomeni di “captazione mentale” e il pedagogista Philippe Meirieu sull’emergere di “nuovi poteri ascendenti” quali sono i media informatici, una incapacità di sublimare e una ipertrofia del volere tutto subito senza riuscire a gestire il tempo dell’attesa e quindi a strutturare quel linguaggio intrapsichico che permette di fornire un senso e un significato a quello che si prova nella relazione con l’altro.
Ci sembra che l’approccio di Daniel Pennac sia molto più profondo e attento all’importanza dell’esperienza relazionale come spazio della crescita soggettiva e come base della formazione di un cittadino consapevole, Baricco affronta una questione importante come quella della presenza del digitale senza tuttavia porsi veramente la domanda del come educare all’uso di questa tecnologia e del come la ricerca di senso, rispetto alla condizione umana e alla propria esistenza in un mondo fatto di diseguaglianze, non possa avvenire a scapito del senso di appartenenza al genere umano e quindi dell’importanza di vivere questa dimensione nel rapporto con l’altro e l’esperienza educativa reale e non virtuale.
Per di più mentre Pennac assume esplicitamente una posizione critica verso i progetti neoliberisti di riforma della scuola che emergono in Francia, sembra che quest’aspetto non interessi più di tanto lo scrittore italiano. Sono due modi di concepire la funzione dello scrittore e dell’intellettuale nella società: quella di Pennac che prende posizione sul piano etico-politico e quella di Baricco che rimane nella sua funzione di specialista della letteratura e basta.
Come lo sappiamo sono due visioni che storicamente (come l’ha ben descritta Gramsci nei suoi scritti sugli intellettuali) caratterizzano l’atteggiamento degli intellettuali francesi che intervengono nella sfera pubblica rispetto alla gestione della polis e gli intellettuali italiani che curano la propria estetica senza sporcarsi più di tanto le mani.
* Comune.Info, 6 giugno 2015 (ripresa parziale)
La missione di Telemaco
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 03.07.2014)
LA POLITICA della rottamazione ha avuto il senso di introdurre una discontinuità necessaria in un mondo politico che nel suo insieme si è rivelato inadeguato a governare la vita della Comunità. Ma la figura di Telemaco - citata ieri da Renzi - va oltre la rottamazione.
INTANTO perché Telemaco - o il suo complesso come ho titolato un mio libro di due anni fa -, diversamente da Edipo, non vive nell’antagonismo mortale e sterile nei confronti dei padri come è accaduto per le generazioni del ‘68 e del ‘77. Telemaco si configura piuttosto come l’immagine del figlio giusto, cioè del giusto erede. Essere figli giusti, essere giusti eredi, significa riconoscere il debito simbolico con chi è venuto prima di noi. È entrare in una relazione generativa con i nostri avi. Questo ha fatto Renzi nei confronti dei padri costituenti dell’Unione Europea.
Il riconoscimento del debito è la condizione necessaria per essere giusti eredi. Ma Telemaco e con lui le nuove generazioni, sa bene che l’eredità non è acquisizione passiva di rendite, di beni o di geni. Piuttosto - come ricordava nell’ultima frase scritta di suo pugno il padre della psicoanalisi citando Goethe - per possedere davvero quello che i padri hanno lasciato devi riconquistarlo. È questo il movimento più autentico dell’ereditare. Ecco perché Telemaco non è solo una figura della nostalgia.
Egli non si limita ad attendere dal mare il ritorno glorioso del padre per riportare la Legge ad Itaca offesa dai Proci. Non assomiglia per nulla ai personaggi beckettiani di Aspettando Godot che restano paralizzati nell’attesa di essere salvati. È necessario invece che il figlio si cimenti nel suo proprio viaggio e che corra il pericolo più grande, è necessario che sfidi il mare.
È con il viaggio di Telemaco e non con quello di Ulisse che si apre l’Odissea di Omero. I Proci attentano la vita del figlio che vuole ristabilire la Legge nella sua città. Eppure i nostri figli - Matteo Renzi compreso - , diversamente da Telemaco, non sono figli di re, non ereditano regni. Piuttosto viene lasciato loro un mondo incerto, senza futuro e senza speranza. Ma il figlio giusto, il giusto erede, è anche colui che sa assumere fino in fondo la propria responsabilità. L’etimologia del termine erede - come ha mostrato bene Massimo Cacciari - viene infatti dal greco cheros che significa spoglio, deserto, mancante e che rinvia a orphanos, orfano. Questo significa che è solo il viaggio del figlio che rende possibile la fondazione di una nuova alleanza tra le generazioni.
Il nostro tempo non è il tempo degli adulti che non esistono più e di cui la crisi della politica è stata una delle manifestazioni più acute. I padri si sono persi nella maschera paradossale di una giovinezza che non vorrebbe mai finire confondendosi coi loro figli.
La notte dei Proci che ha caratterizzato i nostri ultimi venti anni è anche la notte di una caduta della differenza simbolica tra le generazioni. Oggi è il tempo dei figli e del loro viaggio: Telemaco, diversamente da Edipo non vuole la pelle del padre, non rifiuta la filiazione, non entra in un conflitto mortale con i suoi avi. Sa che per riportare la Legge ad Itaca bisogna unire le forze, bisogna rifondare un patto tra le generazioni.
Telemaco, l’Erede che forse non Fu mai Re
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 03.07.2014)
Di Telemaco si parla poco, ha detto Renzi. È vero, se ne parla poco. E non a caso, con un padre come quello che aveva. Se il confronto con un genitore celebre è spesso molto difficile, come non pensare con simpatia al figlio di un eroe assolutamente speciale qual era Ulisse, l’ «uomo dalle molte astuzie» capace di compiere imprese che neppure il più forte degli Achei, Achille, sarebbe mai riuscito a compiere? E come se questo non bastasse quel padre era partito per la guerra lasciando Telemaco ancora bambino e la moglie Penelope alle prese con ben cento otto pretendenti, che volevano sposarla per conquistare il potere su Itaca. Povero Telemaco.
All’inizio dell’Odissea lo incontriamo quando ha raggiunto l’età adulta. Esortato dalla dea Atena convoca l’assemblea degli itacesi, ai quali chiede di dargli una nave per andare a cercare notizie del padre, come ben noto assente da vent’anni. Gli itacesi non ci pensano neppure. È solo per intervento di Atena che Telemaco riesce a partire per interrogare Nestore e Menelao: non per colpa sua, un viaggio del tutto vano.
Per ritrovarlo in azione dobbiamo aspettare che Ulisse, tornato finalmente a Itaca, lo incontri di nascosto e gli esponga il suo piano di battaglia. L’operazione scatta durante la celebre gara con l’arco, indetta da Penelope per decidere a quale dei proci concederà la sua mano. Affiancato da Telemaco, Ulisse stermina i pretendenti. Il potere regale è di nuovo nelle sue mani. E Telemaco? Quale sarà il suo ruolo? A Itaca non esistevamo regole dinastiche. Il potere regale passava ai figli solo se questi lo avevano meritato. Telemaco lo meritò? Non lo sappiamo.
Telemaco senza fili
di Massimo Gramellini (La Stampa, 03.07.2014)
Hai venti minuti per parlare davanti a una platea di europarlamentari gentilmente offerti da un’azienda di surgelati. Puoi berlusconeggiare, ribadendo lo stereotipo dell’italiano simpatico, furbo e un po’ cafone. Oppure mariomonteggiare, ipnotizzando con dei mantra numerici un pubblico che non chiede di meglio per continuare a dormire in pace. Potresti persino enricoletteggiare e produrti in una lista di promesse di buon senso che qualunque presidente di turno dell’Unione Europea ripete senza sosta da vent’anni.
Invece, essendo Renzi e non facendoti difetto l’autostima, decidi di renzeggiare. Evochi lo spirito dei tuoi idoli Blair e Obama - nessuno dei due, guarda caso, centroeuropeo - e ti produci in un monologo carico di valori, passioni, riferimenti storici e letterari. Avendo letto il libro omonimo dello psicanalista Recalcati, attingi a «Il complesso di Telemaco» ed elevi il figlio di Ulisse che cerca di meritarsi l’eredità a simbolo della tua idea di Europa.
Il problema è che lo stai dicendo proprio all’assemblea dei Proci, che oggi non sono i principi di Itaca e neppure i politici italiani che ogni giorno costringono Penelope Boschi a fare e disfare la tela delle riforme. Sono i burocrati di Strasburgo, i ragionieri di Berlino e gli eurofobi di Farage e Le Pen: tutta gente molto prosaica e prevenuta, che da te vorrebbe sapere soltanto una cosa: quando pagherai i debiti, affamando sempre di più quegli scansafatiche baciati dal sole dei tuoi connazionali.
Per fare fuori i Proci che il destino ti ha dato in sorte un bel discorso purtroppo non basta. Come Telemaco, avresti bisogno dell’esperienza di Ulisse. Invece hai solo D’Alema.
Telemaco, mille geniali metafore
di Silvia Ronchey (La Stampa, 03.07.2014)
Transfert geniale questo di Matteo Renzi con Telemaco, che l’ispirazione sia stata mediata dalla musa di uno psicanalista lacaniano, come qualcuno ha ipotizzato su twitter, o gli sia venuta direttamente da Omero, come si direbbe dalle altre citazioni classiche intessute nel discorso preparato per iscritto, ma tenuto a braccio, in cui ha esposto i suoi e nostri problemi all’assemblea dell’europarlamento un po’ come Telemaco nel palazzo di Nestore a Pilo nel terzo libro dell’Odissea.
Alto e squadrato, eloquente e conciso, come figlio di Ulisse e rappresentante dell’evocata «generazione Telemaco» Renzi funziona nell’immagine anche meglio dell’efebico Telemaco televisivo della nostra, se non sua, infanzia.
Soprattutto funziona diabolicamente l’immagine di un’Italia-Itaca in cui anche il locale parlamento, che Telemaco presiede all’inizio del secondo libro, è sopraffatto dai Proci, dialettici e scostumati divoratori dell’erario cittadino; di un’Italia-Penelope che tesse e stesse la sua tela, disperata e paziente, pur di non cedere a nessuno di loro la mano e la corona dello sposo Ulisse; il quale però è da vent’anni assente, latitante, morto o disperso in mare, e non sa o forse non vuole tornare.
Ma Atena, dea della ragione, affianca Telemaco e lo rassicura, gli dice di darsi da fare, di muoversi, di viaggiare. E’ quella che gli antichisti conoscono come la Telemachia. E fatto sta che al suo termine il dinamismo del figlio e i rischi che da ogni parte si attira convincono gli dèi dell’Olimpo a far sì che il padre lontano lasci Calipso e intraprenda davvero il ritorno in patria.
Siamo nel quinto libro e ce ne vorranno altri diciannove prima che Ulisse torni, uccida i Proci e riconquisti Itaca. Se Renzi si propone come Telemaco, il percorso che propone al Parlamento europeo non è certo breve né tanto meno facile - è un’odissea - e il messaggio che lancia all’inizio del semestre di presidenza italiana non è né superficiale né ottimistico, ma volutamente intriso di antica, dolente e anche umile lucidità mediterranea.
Generazione Telemaco (in attesa di crescita)
di Franco Venturini (Corriere della Sera, 03.07.2014)
Se Matteo Renzi voleva contrapporre la passione della «generazione Telemaco» al banale burocratese di una Europa stanca, il suo debutto al Parlamento di Strasburgo è stato un successo e l’intervento di José Manuel Barroso gli ha dato ragione a tempo di record. Ma se il premier si proponeva di coinvolgere l’Aula in una svolta programmatica, se intendeva spiegare in concreto quali cambiamenti favorevoli alla crescita l’Italia sosterrà nel semestre, allora il discorso tenuto ieri difficilmente troverà posto tra i momenti decisivi della storia europea.
Sarebbe ingenuo pensare che Renzi non abbia calcolato le sue scelte: a lui interessava scuotere un albero che tutti considerano malridotto, stimolare valori comuni spesso dimenticati, ricordare con orgoglio radici di civiltà lontane (guarda caso greche e romane), e poi passare al moderno indicando genericamente nella crescita l’unico futuro possibile per l’Europa. Non voleva, il presidente del Consiglio, mettersi a parlare di parametri cifrati o di «flessibilità» molto annunciate in Italia ma in concreto tutte da definire. E così ha fatto, almeno fino a quando la parola è passata ai deputati e il capogruppo del Ppe, il tedesco Manfred Weber, gli ha rovinato il tragitto previsto.
Come se non avesse ascoltato le vaghezze economiche contenute nel discorso di Renzi, Weber ha preso di petto «l’idea di tempi più lunghi per rispettare i parametri del deficit e del debito» . Allora, nella replica, si è visto un altro Renzi. Se Weber parlava a nome del Ppe, non è aggiornato. Se parlava a nome della Germania, provi a ricordare quando si dovette concedere flessibilità alla Germania che era fuori dai parametri. E poi niente pregiudizi e niente lezioni all’Italia, da nessuno. Insomma, l’esibizione prevista soft è diventata aspra all’improvviso, come se una misteriosa sirena avesse suonato l’allarme per passare dai voli pindarici alla assai più difficile realtà europea.
Il ghiaccio sotto i piedi di Renzi è dunque piuttosto sottile, ma va detto che prima dell’incidente con Manfred Weber il presidente del Consiglio ha seguito con abilità la traccia che si era proposto. Un giovanile selfie , ha detto parlando a braccio, ci mostrerebbe una Europa stanca, annoiata, forse rassegnata. Bisogna avere il coraggio di reagire, di ritrovare la sua anima e la sua identità che non si esauriscono nella lotta alla crisi finanziaria. Attenzione: sulla crisi finanziaria e le questioni economiche in generale «ci faremo sentire con forza». Ma non qui e non oggi, per ora basterà ribadire che l’Italia non chiede di cambiare le regole, è decisa ad osservare come priorità l’attuazione delle riforme a casa propria, e «non si rivolge all’Europa per avere, bensì per dare». In parole meno roboanti, la nostra presidenza si batterà per ricordare che il patto di stabilità si chiama anche «di crescita», e che risiede appunto nell’incoraggiamento della crescita l’unica speranza di riscatto dell’Italia e dell’Europa intera.
Renzi ha insistito molto sulla politica estera, forse per incoraggiare la candidatura di Federica Mogherini, che sedeva al suo fianco come vuole il protocollo, alla carica di Alto rappresentante. Il premier ha citato la Libia, collegata al dramma dell’immigrazione che l’Europa dovrà alleviare. Il Medio Oriente, dove «i ragazzi devono poter crescere», i palestinesi hanno diritto a una patria e Israele non ha soltanto il diritto ma anche il dovere di esistere «per ricordare a tutti noi i valori della memoria e del futuro». Le donne cristiane vittime di violenza, dal Pakistan al Sudan alla Nigeria. E poi l’Ucraina con il suo desiderio di libertà e di Europa, ma «non possiamo costruire l’Europa contro il nostro più grande vicino» (la Russia, ndr). E ancora mano tesa alla Gran Bretagna in tema di semplificazione delle istituzioni, l’Europa come «faro di civiltà», la «generazione Telemaco» che deve anche lei cercare, viaggiare, meritarsi l’eredità di Ulisse cioè dei fondatori.
Un Renzi doc, che nella foga ha anche commesso qualche errore: nulla sui marò nemmeno nella replica, il punto stampa saltato perché una serata tv lo attendeva a Roma. Poco male, se il Premier vincerà la partita che conta e che dopo ieri resta apertissima. Quella della crescita che deciderà tutto, per usare le sue parole.
Telemaco
La parola che diventa mito
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 05.07.2014)
QUANDO Diomede, l’eroe dell’Iliade, si alza in assemblea per contrastare le parole di Agamennone, prima di esprimere la propria opinione, è costretto a recitare, per intero, la propria genealogia. Perché? Eppure ciò che ha da dire è saggio, tant’è vero che gli Achei seguiranno poi il suo consiglio, ed egli è sicuramente un guerriero forte e temibile. Solo che Diomede è il più giovane di tutti, come lui stesso dichiara prima di cominciare a parlare, e per questo ha paura che i presenti disprezzino il suo discorso - anzi, il suo mùthos, come lo chiama il poeta.
In Omero infatti questo termine non indica ancora il racconto favoloso, la parola seducente ma infondata, così come sarà nella cultura greca successiva e come è ancora per noi, che usiamo “mito” in questo senso.
Tutto al contrario, nell’epica antica si definisce mùthos il discorso pronunziato da uno speaker autorevole, come può esserlo un re scettrato che parla in assemblea o una divinità irata. Il mùthos indica insomma la parola tanto autorevole quanto efficace, capace di influire concretamente sul contesto che la riceve: ed è proprio la capacità di pronunziare mùthoi che, in Omero, viene negata ai giovani. Non ci si aspetta che l’abbia Diomede, così come non ci si aspetta che l’abbia Telemaco. Salvo che, nel suo caso, capita qualcosa di imprevisto.
Dopo l’incontro con Mente (in realtà Atena in sembianze umane), il figlio di Ulisse ha infatti assunto un piglio diverso: la dea “gli ha infuso nel petto forza ed audacia”. Ecco perché, con grande stupore di sua madre Penelope, dopo un breve scambio di battute Telemaco le dirà seccamente di lasciare a lui il mùthos, perché è lui che ha «il potere in questa casa»; così come rivolgerà ai Proci un mùthos il cui contenuto è molto esplicito: che lascino la reggia, cessino di divorare le sue sostanze, o invocherà su di loro la punizione degli dèi. Il ragazzo di casa ha ricevuto l’investitura del mùthos, da questo momento in poi la sua parola è divenuta autorevole e dovrà essere ascoltata con rispetto.
Credo sia questo il Telemaco che, meglio di altri, si presta a simboleggiare la generazione di giovani che Renzi ha rappresentato a Strasburgo. Non solo i “giusti eredi” evocati da Massimo Recalcati, ma tutti coloro che, Renzi per primo, si sono finalmente guadagnati il diritto di pronunziare mùthoi, parole autorevoli che debbono essere ascoltate con rispetto e sono anzi destinate a produrre effetti sul contesto che le riceve. Fino a questo momento, nelle rare occasioni in cui li si lasciava parlare, i giovani potevano al massimo aspirare alla posizione di Diomede - quella di chi, per farsi ascoltare, deve come minimo recitare la propria genealogia. Adesso non è più così, Atena sembra aver suscitato nel loro petto “forza ed audacia” e la loro parola è divenuta mùthos. Speriamo solo che la dea continui a ispirarli.
ADDIO ALLA VERITA’ - DEL MITO E DELLA STORIA. L’"IMMAGINAZIONE" AL POTERE: "I GRECI HANNO CREDUTO AI LORO MITI?"(PAUL VEYNE, iL MULINO 1984).
(...) Quel che «i libri perduti» dell’Odissea ci ricordano è che il racconto omerico del ritorno di Ulisse è solo uno dei tanti modi di scegliere e organizzare la materia mitica, che i primi a reinventare i miti furono i greci stessi, e che è stata questa continua reinvenzione a renderli immortali. Ben venga dunque, anche per questo, questa nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea.