[...] I filosofi che Scalfari predilige sono frammentari, poetici: Nietzsche, Montaigne, Pascal. Thomas Bernhard, che amava solo questi, li chiamò un giorno i Lachphilosophen: i filosofi ridenti.
Eugenio è un Lachphilosoph. Fa sorridere e pensare profondo. Abita poeticamente questa terra, quest’Italia che spesso infuria. Opera per operare, come gli alberi che accolgono vite e suoni facendosi luoghi, case: «Anche noi, oltre che persone, siamo luoghi e case, ma spesso non lo sappiano e se qualcuno ce lo dice il più delle volte ci sembra un’offesa» [...]
Scalfari e il folletto scettico
di BARBARA SPINELLI (La Stampa,11/5/2008)
Tra le molte cose veritiere o acrimoniose che si sono udite nel quarantesimo anniversario del ’68, spicca una lettera inedita di Hannah Arendt, che la rivista tedesca Mittelweg ha pubblicato lo scorso febbraio. È la risposta che la scrittrice inviò a uno studente di teologia, Hans-Jürgen Benedict, il 25 novembre 1967, e le sue riserve sui tumulti europei e americani sfociano in un’asciutta sentenza: «La vera sfida, in politica, è imparare a pensare nei limiti». Il mondo è arduo cambiarlo, se prima non si scopre che a tutto c’è un limite: «Anche alle nostre responsabilità». Oltrepassarlo è follia di grandezza, Größenwahnsinn: «Anche quando essa si nasconde in sentimenti molto sublimi»; anche quando le forze avversate - l’America degli Anni 60-70 - assumono davvero la forma di un «incubo imperialista».
Fa impressione ascoltare le parole della Arendt, in questi tempi strani che stracciano con euforia il ’68. Strani perché non è la critica fredda a dominare, ma l’accalorata vendetta delle Erinni. I più aggressivi - Sarkozy in Francia, neo-conservatori in America e Italia - non hanno assorbito quell’asciutto giudizio ma sembrano immersi in analoghe manie di grandezza: anche il loro è un Sessantotto, ma di destra. Anche loro sognano sublimi esportazioni di democrazia. Anche loro incolpano un immaginario establishment culturale, stavolta di sinistra. Anche loro sono refrattari al limite.
Forse è la cosa più difficile, imparare il limite e fondarci sopra non solo la politica, ma un’esistenza. Ci vogliono ingredienti non semplici da trovare, nel mondo e in se stessi: uno sguardo distaccato su di sé, come se ci vedessimo da fuori.
Un’ironia: quella che domanda con aria fintamente credula alla maniera di Socrate. Un distacco, che protegga dalla folie de grandeur. Ci vuole un’attitudine a vivere poeticamente, come in Hölderlin: con azioni «colme di meriti», sì, ma con la coscienza che «poeticamente l’uomo abita questa terra» (Nel blu adorabile...).
Questi ingredienti li ho ritrovati quasi tutti nell’ultimo libro di un grande testimone italiano: Eugenio Scalfari li espone con pudore, come perle di una collana che ciascuno può infilare a suo modo a condizione di maneggiare gli utensili che permettono lo sguardo su di sé: lo scetticismo sulla propria grandezza, la capacità d’ascolto generata dal rivelarsi del limite, infine il distacco. Il lettore avrà singolari sensazioni: ascolterà una vita raccontata come fiaba e al contempo assaporerà un apologo sul distacco, sul metodo di raggiungerlo: non il distacco di chi abbandona le battaglie, ma di chi le continua con il sorriso dell’acrobata di Rilke, nella Quinta Elegia: Subrisio Saltat, il sorriso che spicca il salto.
Già il titolo del libro è indicativo: L’uomo che non credeva in Dio ha suono antico, intreccia il fiabesco rinascimentale al romantico. I capitoli del Gargantua di Rabelais hanno questi titoli, che uniscono romanesque e sberleffo: Come giungemmo allo Sportello abitato da Mordigraffio, oppure: Come passammo per Esagerazione. Qualche secolo dopo, le favole di Grimm propongono imperfetti che ammiccano, annunciano colpi o precipizi impensati: per esempio, la Storia di uno che voleva imparare la paura. All’uomo che non conosceva la paura, come all’uomo che non credeva in Dio, tutto può accadere: la pelle d’oca o i tifoni di Scalfari, che ti cambiano la vita e inaugurano il più esotico dei viaggi: quello dentro di sé. Quello che trasforma la vita in un dramma con due protagonisti-rivali: il pensare e l’agire. I protagonisti convivono, acrobaticamente; si illuminano a vicenda; producono infine il discostarsi del saggio.
Il viaggio dentro l’io si può compiere in molti modi: vanagloriosi o maliziosi, menzogneri o veri. Non sempre approda nel distacco ma quando riesce è perché sono stati usati tre elementi: l’ironia, il dubbio sulle assolute certezze, il candore non come punto di partenza ma di arrivo. Il distacco descritto da Scalfari è di questo tipo: avviene senza paracadute, senza certezze del futuro, senza idea d’un unico centro attorno all’io, «perché il centro è dappertutto», vivendo solo nell’occhio di chi guarda. È il distacco di un Inconsolabile, ma non tenebroso come il Desdichado di Gérard de Nerval.
Il lettore di Scalfari scoprirà quanto possa esser elegante, l’ironia. «La possibilità che dal tuo sguardo emergano visioni autocritiche e scomode è assai limitata, poiché l’io è al tempo stesso attore e giudice delle proprie azioni», dice a un certo punto. «La probabilità che il giudice-attore sia rigorosamente parziale è modesta». O quando evoca la tendenza a dividere il mondo tra buoni e cattivi, e racconta come il vizio infantile ci resti appiccicato addosso in età adulta: il buono che per forza vince, il vittorioso che si tramuta in buono.
Oppure quando parla della vecchiaia, dei trampoli smisurati su cui, secondo Proust, camminiamo nell’ultimo tratto di via e che sono il nostro passato: «Per nostra fortuna, anzi per fortuna della nostra specie, il tempo non si trasforma in spazio», la metamorfosi di Proust «resta un espediente letterario con il fascino di un incubo. Eppure...». Scalfari è amico della litote, arte rarissima e lucente: è l’arte di attenuare quel che dici per farlo risultare più forte, o che nega il contrario di quel che vuoi dire (non ti odio, invece che: ti amo). È dispositivo centrale dell’ironia, che tanto mancava al ’68 di ieri e di oggi. Anche la litote ha suono antico, secentesco.
Il distacco, come si può guadagnarlo, meritarlo? Dalle letture che l’hanno accompagnato, immagino che Scalfari vi sia approdato grazie a quel folletto scettico, quel malin génie, che a Descartes insegnò a sospendere il giudizio, a esercitarsi nel dubbio come il funambolo di Rilke: una sorta di spirito malizioso, che ci mette alla prova deridendoci, indicando l’illusorio delle cose, inducendoci a ricominciare sempre l’avvicinamento al vero. Senza il malin génie l’io diverrebbe gonfio, tronfio: la volontà di potenza che abita politici e giornalisti diverrebbe cieco scantinato. Non impareremmo i limiti.
L’uomo che non credeva confessa di non guardare spesso Dio, anche se col pensiero l’incorpora. Ma c’è un grano di mistica in lui, che trasforma il libro in lettera di un’anima: di mistica eretica trecentesca. So che lui sorriderebbe, subito opporrebbe una litote. Ma più volte mi ha fatto venire in mente il Maestro Eckhart, che credeva tanto in Dio ma non vedeva il centro nelle cose e neppure il senso. «Se qualcuno chiedesse per mille anni alla vita: “perché vivi?", ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che: "io vivo perché vivo"... e se si chiedesse a un uomo vero, che opera dal suo fondo proprio, "perché operi le tue opere?", se questi dovesse rispondere correttamente, non dovrebbe dire altro che: "io opero perché opero". E se tu gli chiedessi "perché vivi?", risponderebbe: "non lo so, ma vivo volentieri!"». (Sermone In hoc apparuit caritas dei).
Perché restare dove restiamo, diritti? Perché scrivere? Non c’è vero perché. Operiamo per operare, ci accostiamo agli amati e morenti con la pietà di Enea, cui è dedicato un passaggio luminoso del libro. Non mancano le cose su cui dubito, leggendo Scalfari (anch’io penso, come Citati, che non si cerca Dio solo per paura della morte). Ma il candore con cui cerca è squisito, così come l’equilibrio che trova fra pensare l’io e pensare il mondo, fra speculazione e prassi. I filosofi che Scalfari predilige sono frammentari, poetici: Nietzsche, Montaigne, Pascal. Thomas Bernhard, che amava solo questi, li chiamò un giorno i Lachphilosophen: i filosofi ridenti.
Eugenio è un Lachphilosoph. Fa sorridere e pensare profondo. Abita poeticamente questa terra, quest’Italia che spesso infuria. Opera per operare, come gli alberi che accolgono vite e suoni facendosi luoghi, case: «Anche noi, oltre che persone, siamo luoghi e case, ma spesso non lo sappiano e se qualcuno ce lo dice il più delle volte ci sembra un’offesa».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Una risposta al teologo Vito Mancuso
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, mercoledì 28 maggio 2008)
Per il mio libro L’uomo che non credeva in Dio sono stato gratificato da molte recensioni e da moltissime lettere inviatemi da lettori amici o mai incontrati. Voglio qui ringraziare tutti per l’attenzione che mi hanno dedicato, per le critiche che mi hanno rivolto e in generale per il tono di civile conversazione che ha circondato quelle pagine con un alone affettuoso, uno scambio di esperienze e di sentimenti in un’epoca dove quello scambio è ormai diventato inconsueto.
Ho imparato molto dalle recensioni, dalle lettere, dai dibattiti che hanno avuto il mio libro per oggetto. Prego di credere che non è una frase di facile e ipocrita cortesia: ho scritto parecchi altri libri e anch’essi sono stati recensiti e dibattuti ma non avevo mai sentito il bisogno d’un ringraziamento collettivo e non avevo imparato granché da quelle letture. Questa volta mi è sembrato diverso, forse invecchiando si gusta meglio e di più la gentilezza altrui e si avverte il desiderio di ricambiarla. Non è melassa, ma reciproco nutrimento sentimentale.
Tra i recensori ce n’è stato anche uno che si è concentrato sul contenuto filosofico delle mie pagine. Per ragioni stilistiche e anche filosofiche il libro è scritto in modo del tutto asistematico, procede per frammenti, riflessioni, passaggi rapidi da episodi di vita vissuta a riflessioni sul senso, sulle figure psichiche, sui fondamenti della morale, della politica, della religione.
La filosofia e la vita si sono volutamente intrecciate e così alcune domande e qualche risposta. Questo modo di procedere era una necessità imposta dal tema da me scelto e cioè una ricerca che conduco ormai da molti anni sul rapporto tra la vita e i pensieri e sulle modalità con le quali l’una interferisce e determina gli altri e viceversa. Non potevo avere più autentica e diretta autenticazione di quel rapporto se non la mia vita e i miei pensieri e questo ho fatto, ma sono stato contento di sentirmi dire da tanti lettori d’essersi identificati in molte delle mie riflessioni, delle domande che mi ponevo e delle risposte che ho cercato di dare quando ne sono stato capace. E commossi ? così mi hanno scritto in molti ? da alcuni miei ricordi, malinconie, gioie, dolori, insomma abbandoni che ti vengono quando ti confessi a te stesso e alla pagina destinata ad un pubblico al quale sei legato da affinità elettive coltivate per anni. «Quel cibo ? scriveva il Machiavelli al Vettori ? che solum è mio ed io son per lui». Parlava degli scrittori antichi, io parlo di lettori miei contemporanei ma ciò che mi lega ad essi ha la stessa qualità e intensità e mi dà una serenità e un benessere spirituale grandissimi.
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Dicevo che tra i miei recensori ce n’è stato uno che ha concentrato la sua attenzione critica sugli aspetti filosofici del mio libro. Diciamo sulla mia filosofia. Si chiama Vito Mancuso. Mi ha dedicato un lungo articolo sul Foglio del 18 maggio. E’ filosofo e teologo. Ha scritto libri pregevoli, l’ultimo dei quali s’intitola L’anima e il suo destino che ho letto con vivo interesse. E’ di cultura cattolica anche se piuttosto eterodossa. Privilegia la ragione sulla fede, ma non al modo di san Tommaso o almeno non soltanto. Usa molto le categorie ontologiche, direi ammodernando un tipo di pensiero che è più vicino ad Anselmo d’Aosta che al grande Aquinate.
A lui desidero rispondere non da scrittore ma piuttosto da filosofo a teologo perché questo tipo di confronto mi interessa e spero interessi anche i miei lettori.
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Mancuso concorda con me su parecchie questioni. Per esempio sul mio modo di intendere la morale come un istinto biologico mirato alla sopravvivenza della specie. E ancora sulla mia visione dell’amore come elemento dominante della vita alla pari con la volontà di potenza. Infine sulla mia ricerca dei «fondamenti» che determinano le forze primarie e vitali. Ma dissente, Vito Mancuso, su alcuni punti essenziali e mi coglie in difetto di coerenza. Anzitutto su Nietzsche.
Secondo lui l’autore di Zarathustra ha demolito la Ragione come grembo primordiale del creato, mettendo al suo posto il corpo il «soma», l’irrazionale-istintuale. Scalfari - scrive Mancuso - è intriso di pensiero illuminista e tutte le sue pagine sono un onesto e cauto esercizio di razionalità, ma d’improvviso abbandona Diderot e Voltaire per Nietzsche. Non è incoerenza questa inattesa giustapposizione di due tesi completamente opposte tra loro? Rispondo con una delle frasi che meglio rappresentano il pensiero nietzschiano: «Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante». Nietzsche parlava per aforismi e metafore e questa è una delle più profonde e poetiche tra le tante da lui usate. Egli non pensa l’essere alla maniera di Parmenide e delle religioni induiste. Tanto meno lo pensa come Logos. Per lui il grembo primordiale ? se posso usare l’immagine di Mancuso ? è il caos, il ribollente informe che sfugge alle categorie del tempo e dello spazio. Il caos non è l’essere ma piuttosto un perenne divenire che erutta forme. La stella è già una forma, dotata d’una sua figura, d’una proporzione tra gli elementi chimici e le forze elettromagnetiche che la compongono; una forma in evoluzione, soggetta a regole e leggi proprie; misurabile sia nello spazio sia nel tempo. Volete conoscere la prima di tali regole? E’ l’entropia, la degradazione dell’energia potenziale che si traduce in luce e calore secondo i principi della termodinamica.
Il caos non è pensabile dalla ragione. Come il nulla. La stella invece è pensabile, misurabile, degradabile, ha un tempo di nascita e un tempo di morte, soggetto alle leggi imposte dalla sua stessa natura, conoscibile attraverso i processi propri del pensiero razionale. Questa del resto è una visione tipicamente spinoziana e Mancuso ricorderà che Nietzsche riconobbe Spinoza come suo maestro e anticipatore del suo pensiero. L’irrazionalismo nietzschiano coincide con la visione caotica dell’informe originario ma cessa nel momento in cui entrano in scena le forme e le leggi che regolano il loro divenire.
In questa concezione non c’è posto per il «logos primordiale». Le religioni monoteiste lo trasmettono ai loro fedeli come verità certa mentre si tratta di una verità di fede. Dal punto di vista della ragione vale appunto come un vento di fede, valida soltanto per chi ne sia vivificato e ne derivi tutte le conseguenze induttive e deduttive. Togliete la fede e l’intera costruzione logica che poggia su quella premessa crolla come un castello di carta. Il suo guaio, caro Mancuso, è di scambiare quel vento di fede per verità di ragione.
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Ci sono nel suo articolo altri punti di dissenso con me: il tema della libertà, il tema dell’anima (che le sta particolarmente a cuore), quello dell’amore in contraddizione (secondo lei) con la volontà di potenza, quello della Trinità di Dio.
Fossi in lei, teologo cristiano e anzi cattolico, starei molto attento a infilarmi in quest’ultimo argomento: lei sa meglio di me a quali dispute ha dato luogo il Dio uno e trino. Dispute da Concilio, votazioni su Dio, scomuniche, scissioni, papi e antipapi, episodi cruenti, quanto di più lontano da una teologia libera e feconda di pensiero e di carità. Il tema della libertà, come lei lo pone attraverso le equazioni tra Io e Mondo, è per me assai poco ricevibile.
Se Io è eguale a Mondo (lei dice) il risultato dell’equazione è zero nel senso che non c’è residuo; se invece Io è qualche cosa in più di Mondo, da quella sottrazione resta un x e quell’x è la libertà. Debbo dire che pensare la libertà come un elemento residuale, un sovrappiù dell’Io depurato dalle influenze esterne (Mondo) mi suscita un sentimento di sgradevolezza. Nell’immagine corrente la libertà è una forza potente, una «anima mundi» che pervade la vita di ogni persona e di ogni società. O è questo o non è. La libertà come un residuo mi sembra impensabile ed anche mi sembra impensabile un Io depurato dalle interferenze del Mondo, cioè dalla realtà esterna.
Non è lei stesso a sostenere (ed io convengo con lei) che una delle caratteristiche fondative della nostra specie è la socievolezza che lei chiama «legge relazionale»? E dunque se la relazione con gli altri è elemento fondativo della specie come è mai possibile concepire l’Io sottraendolo ad uno dei suoi elementi fondativi? Significherebbe snaturarlo non depurarlo; significherebbe distruggerlo e quindi privare l’equazione da lei formulata di uno dei suoi due elementi.
E poi: mi sembra strano che un teologo cattolico concepisca la libertà come un residuo quando tutta la dottrina cattolica indica nel libero arbitrio la pietra angolare della sua costruzione. Qui ? mi permetta di dirlo ? è lei in contraddizione con la sua Chiesa. Ma torniamo alla libertà. Io ritengo che l’istinto fondamentale di ogni entità vivente sia quello della sopravvivenza cioè della forma di ciascun vivente e della durata della sua organizzazione. Tutto il resto ne deriva.
In questa visione la libertà è il modo con cui il soggetto utilizza la realtà esterna e le occasioni che essa gli offre per poter sopravvivere. La libertà comporta il rischio di sbagliare, l’errore di scegliere un’occasione che sembra utile alla sopravvivenza e invece non lo è. Quante specie sono perite anzitempo per aver imboccato strade cieche, prive di evoluzione ulteriore? Quanti individui hanno compromesso la loro felicità e la loro fortuna scegliendo «liberamente» l’occasione negativa anziché quella per loro positiva? Il margine di libertà così concepito è molto piccolo, ma comunque è molto maggiore di quanto non sia quello di altre specie viventi. Noi siamo dotati di mente riflessiva e quindi di capacità comparative, cioè di giudizio.
Non solo ci sentiamo soggetti ma aggiungiamo al soggetto il predicato. La nostra libertà ha la sua radice proprio in quel punto, situato nel rapporto tra vivere e pensare, tra soggetto e giudizio.
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Concluderò parlando dell’amore, un tema che mi è molto caro in tutte le sue declinazioni. L’amore, come tutti gli altri nostri sentimenti, deriva dall’istinto di sopravvivenza. C’è l’amore di sé e l’amore per l’altro. Gli animali non hanno questa duplice declinazione; non avendo una mente adeguata a costruire l’Io agiscono soltanto per sopravvivere. Per noi umani è diverso: noi amiamo noi stessi ma amiamo anche gli altri la cui esistenza è necessaria alla nostra sopravvivenza. Di qui nascono la morale e l’egoismo come istinti separati ma alimentati entrambi da quello della sopravvivenza. Non ci sono in questa visione atti morali che possano danneggiare la specie, come lei caro Mancuso sostiene.
Intendo: che possano danneggiare l’umanità della specie. Ci possono invece essere e purtroppo ci sono atti egoistici che possono danneggiare l’umanità della specie. L’istinto morale interviene a correggerli, alle volte ci riesce, altre volte no. La nostra vita è fornita di due pedali come una macchina che abbia un acceleratore ed un freno.
Tra le tante buone letture in materia, consiglio le massime di La Rochefoucauld: fu un uomo per tanti aspetti detestabile ma aveva un cervello e capacità di giudizio fuori dal comune. Se per caso non le avesse lette le legga ora, caro Mancuso: imparerà o si rinfrescherà con molte cose che la teologia non include nel suo sapere.
Non ho bisogno di ripetere che apprezzo molto i suoi scritti. Del resto non avrei dedicato tanto spazio a contestarne alcuni aspetti.