Vi scrivo dal medio evo
"Baudolino" esce in Francia e l’autore svela alcuni retroscena del suo ultimo romanzo
La recensione di ’Civiltà cattolica’ che lamenta il poco credito dato alla fede ha una sua logica: sono stato anche tacciato di eresia
La Padania è una pura e semplice fantasmagoria inventata dieci anni fa dalla Lega Nord di Umberto Bossi
"Avevo pensato a una trama con alcuni giornalisti in cerca di scoop, poi ho cambiato"
di MARCELLE PADOVANI *
Milano. Un elegante palazzo milanese di fronte al castello sforzesco, costruito nel XIV secolo, del quale scorge la splendida torre medioevale dalla finestra del suo studio. Una casa in cui si respirano il gusto del benessere borghese e la passione di un grande collezionista. Ventun anni dopo Il nome della rosa, Umberto Eco ha ritrovato il suo adorato Medio Evo in un romanzo che è anche la sua opera più personale: Baudolino. In quel turbine di erudizione medioevale messo al servizio del feuilleton popolare, racconta, lungo i quaranta capitoli, ciascuno dei quali costituisce come un romanzo a sé, le avventure dell’eroe Baudolino, un contadino adottato dall’imperatore Federico Barbarossa nell’anno 1155. Scaltro, furbo, bugiardo, Baudolino segue il padrone in Europa, compie i suoi studi a Parigi, padroneggia altrettanto bene il basso latino e il greco, il tedesco e il provenzale, confonde volentieri «quel che vede e quel che vorrebbe vedere» (sarebbe bello averne una copia sottomano - e passare un paio di giorni a cercare la citazione originale). Scrive la famosa «lettera del prete Gianni», che lasciava sperare in un regno favoloso agli esploratori del suo tempo e che fece sognare Marco Polo e i viaggiatori d’Occidente. Racconto fantastico, picaresco e comico, Baudolino è un monumento di ottimismo, una celebrazione delle virtù dell’immaginazione e della menzogna.
Come Ulisse e Pinocchio, il vostro eroe Baudolino non si accontenta di mentire, ma tesse anche l’elogio della menzogna.
«Tutti i protagonisti del mio libro dicono che Baudolino è un bugiardo. Non è del tutto vero, perché i bugiardi vogliono travestire il passato. Baudolino, invece, mente sul futuro. E poi crede a quello che dice. Inventa storie che soddisfano la sua fantasia, il suo senso dell’utopia. Come Cristoforo Colombo che credeva di sbarcare nelle Indie, Baudolino si mette in testa di raggiungere le terre del mitico prete Gianni. Fabbrica quindi documenti falsi».
Che cos’è, per lei, la menzogna?
«Mentire non significa dire il falso, significa dire una cosa che si sa essere falsa. Quando Tolomeo diceva che il Sole ruota intorno alla Terra, diceva una cosa falsa ma non era un bugiardo. Il mio Baudolino affabula, ma ci crede ciecamente. Inventare è il suo modo di essere, il motore della sua esistenza».
Il Medio Evo è il motore della sua esistenza?
«La mia età dell’oro... Ho scritto Baudolino perché avevo in mente l’idea di un romanzo picaresco intellettuale, intorno a un personaggio che racconta e si racconta delle storie e che viaggia nelle enciclopedie medioevali come in un mondo reale. Cercherò di essere più concreto: come cammina uno sciapode, un essere che si regge su una gamba sola? Dove mette il piede? Prima a destra e poi a sinistra? O prima davanti e poi dietro? Dove ha il pene? Davanti? Di fianco? il genere di domande, molto pratiche, che mi ponevo scrivendo il libro. Per scovare la verità nella leggenda».
Il suo libro è profondamente ottimista. Che la menzogna sia un antidoto alla follia del mondo?
«Ma non ho voluto scrivere un elogio della menzogna. Volevo raccontare come, dal fantastico, si potesse accedere all’esistenza vera».
Baudolino, è vero, fabbrica documenti falsi, ma che fanno davvero la storia. Quanto tempo ha impiegato a scrivere questo libro?
«Cinque anni. I primi due anni ho pensato a una trama con dei giornalisti che fondavano un nuovo quotidiano e dovevano inventare degli scoop. Ma ho temuto che somigliasse troppo a Il pendolo di Foucault. Allora mi sono chiesto quale fosse stata la più grande soperchieria della storia. Risposta: la lettera del prete Gianni. Allora nella mia testa si è verificato un corto circuito, tra quell’idea del falso scoop e la leggenda della fondazione di Alessandria, la città in cui sono nato. Ecco perché ho scritto Baudolino. Sono sempre stato affascinato dalle false testimonianze e dai documenti falsi. D’altronde ho scritto dei saggi sulla nozione di falso e tenuto una conferenza sulla letteratura che si intitolava "la forza del falso". Il falso, spesso, produce storia».
Lei insegna, viaggia. Quando trova il tempo per scrivere?
«Lavoro in modo irregolare. Spesso d’estate, in campagna, durante le vacanze. Quando lavoro, o sono in viaggio, mi accontento di tappare gli interstizi. Infatti mi sposto molto tra Milano, dove vivo, Bologna, dove insegno, e il resto del mondo, dove mi chiamano per tenere conferenze e per parlare dei miei libri».
Che cosa ha pensato delle recensioni del suo libro apparse sulla stampa italiana? Per esempio di quella del giornale cattolico Civiltà cattolica, dove si lamenta che non venga dato nessun credito alla fede?
«Civiltà cattolica fa il suo mestiere. Per Il nome della rosa, ero stato addirittura accusato di empietà e di eresia. Sta di fatto che Baudolino è un romanzo décapant dal punto di vista delle religioni: le reliquie, le false teste di san Giovanni Battista, i teli che si dice abbiano asciugato il corpo di Cristo. Se Il nome della rosa raccontava il Medio Evo dei manoscritti, Baudolino mette in scena quello dei poveri, delle scimmie e dei nani. Carnascialesco».
Mi parli di Baudolino. Lo fa nascere in Padania, in Piemonte.
«La Padania è un’invenzione della Lega Nord di Umberto Bossi. La sue esistenza risale al massimo a una decina d’anni fa, è una pura e semplice fantasmagoria senza unità né geografica né linguistica. Parlare della Padania è come fare la metafisica dell’Ile-de-France. Il mio Baudolino è soprattutto un piccolo buono a nulla, un furfantello, un visionario che arriva perfino a invaghirsi di una capra».
L’Italia si è recentemente lanciata in una crociata contro gli immigrati, contro le moschee. Baudolino non milita contro quello spirito, esaltando la cooperazione tra cristiani, ebrei e musulmani?
«Il mio libro è uscito, in Italia, un anno prima dell’11 settembre. Quando sarà pubblicato negli Stati Uniti, la gente sarà sicuramente convinta che il personaggio di Aloadin sia stato ispirato da Bin Laden. Si può scrivere su qualcuno che cade da cavallo, ma il lettore penserà malgrado tutto che si tratti di un incidente aereo...».
La sua ironia è feroce.
«L’unico modo per prepararsi alla morte è convincersi che gli altri esseri umani sono dei fessi. Dall’idraulico che non riesce a riparare il lavabo, al sindaco che dispone un’illuminazione assurda sulla torre del castello sforzesco, lì davanti a lei. Se fossero intelligenti, sarebbero tutti professori di semiotica all’università di Bologna, no?».
In questo momento l’Italia sta attraversando un periodo strano...
«Certo. Tutti i giornalisti vengono a intervistarmi su Berlusconi. Rispondo loro che si occupa dei suoi interessi con successo. Il problema è quel 50% di Italiani che gli permette di farlo, e il rischio di contagio che può effettivamente colpire la Francia e la Germania. Questa maniera di considerare la politica come un’impresa pubblicitaria è un problema che riguarda tutto l’Occidente. Ma lasciamo che quest’esperienza mostri la sua nocività ed evitiamo in ogni caso di parlare di fascismo. E conserviamo il nostro sangue freddo. Le tecniche di governo del Signor Berlusconi sono delle tali mazzate che più le si critica e più si ha l’aria d’esser pazzi. Quell’uomo si adopera per dare a ciascuno di noi un’occasione al giorno per indignarci, e in questo modo finisce per far sgonfiare la protesta e la rabbia. Ma se io riuscissi a lanciare una sassata ogni mattina e a romperle ogni volta un vetro, sarebbe lei ad aver l’aria dell’imbecille. Non Berlusconi».
Copyright la Repubblica - Le Nouvel Observateur
traduzione di Elda Volterrani
* la Repubblica, 17 febbraio 2002
L’INTERVISTA.
L’allarme di Umberto Eco: dal futurismo
e dal fascismo in poi l’Italia è sempre stata un laboratorio
"Populismo e controllo totale dei media
rischio-Berlusconi anche in altri Paesi"
di DEBORAH SOLOMON *
SEBBENE la sua notorietà sia dovuta soprattuto al giallo letterario "Il nome della Rosa", lei è anche un prolifico commentatore in campo politico. Nei suoi saggi, recentemente raccolti sotto il titolo "A passo di gambero", ha lanciato l’allarme contro il pericolo di un "populismo mediatico". Come definirebbe questo termine?
"Il populismo mediatico consiste nel rivolgersi direttamente al popolo attraverso i media. Un politico che ha in mano i media può orientare il corso della politica al di fuori del Parlamento, e persino eliminare la mediazione parlamentare".
Il suo libro è in buona parte un attacco a Silvio Berlusconi, l’ex primo ministro italiano che ha usato il suo impero mediatico per i propri fini politici.
"Dal 1994 al 1995 e dal 2001 al 2006 Berlusconi è stato al tempo stesso l’uomo più ricco d’Italia, il presidente del Consiglio e il proprietario di tre reti televisive, avendo inoltre sotto il suo controllo le tre emittenti di Stato. È un fenomeno che potrebbe accadere, e forse è già in atto in altri Paesi, in base allo stesso meccanismo".
Ma qui in Usa abbiamo la Fcc (la Commissione Federale delle Comunicazioni , ndt) e altri organismi federali creati per impedire la formazione di monopoli che consentirebbero ai politici di controllare la stampa e i canali televisivi del Paese.
"E negli Stati Uniti esiste tuttora, almeno nei principi, una netta separazione tra i media e il potere politico".
Ma allora, perché pensa che non solo l’Italia, ma qualunque altro Paese corra il rischio di cadere sotto il dominio dei media da lei descritto?
"Se all’estero c’è tanto interesse per il caso italiano, è anche perché durante lo scorso secolo l’Italia è stata un laboratorio. A incominciare dai futuristi, che hanno lanciato il loro manifesto nel 1909, per passare al fascismo, sperimentato nel laboratorio italiano e migrato poi in Spagna, nei Balcani e in Germania"
Intende dire che l’idea della Germania nazista nasce dal fascismo italiano?
"Senza dubbio. Così dicono gli storici".
Ma forse solo quelli italiani.
"Se non le sta bene, non lo scriva; per me è indifferente".
Lei pensa dunque che l’Italia sia all’origine di entrambe le tendenze, sia in campo artistico - con la moda del futurismo - che in quello politico, col fascismo?
"Infatti. Perché no?".
Come considera il successore di Berlusconi, Romano Prodi, eletto l’anno scorso, che ha spostato l’asse del governo a sinistra?
"Prodi è un amico. Io lo apprezzo, ma penso che sia stato sopraffatto dai contrasti sorti all’interno della sua stessa maggioranza dopo la sua elezione. Berlusconi ha il vantaggio di essere un grosso attore. Prodi non è un attore; e questo non è un delitto, ma una debolezza".
È un intellettuale, cioè tutt’altro che un uomo d’affari?
"Sì. Prodi è stato docente di economia, e all’inizio degli anni 90 ha anche insegnato nell’ambito di uno dei miei programmi. Poi, all’improvviso, ha deciso di dedicarsi alla politica".
Si riferisce alla facoltà di Scienza delle comunicazioni all’università di Bologna, dove è docente di semiotica?
"Sono andato in pensione proprio questo mese. Ho 75 anni".
E non ha mai pensato di entrare in politica?
"No, perché credo che ognuno debba fare il suo mestiere."
Si considera in primo luogo uno scrittore?
"Penso di essere uno studioso che scrive romanzi, ma solo con la mano sinistra".
Mi chiedo se lei abbia letto il "Codice Da Vinci" di Dan Brown, in cui molti critici hanno visto una versione pop del suo romanzo "Il nome della rosa".
"Sono stato costretto a leggerlo, perché tutti mi facevano domande in proposito. Le rispondo che Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo "Il pendolo di Foucault", in cui si parla di gente che incomincia a credere nel ciarpame occultista".
Ma sembra che lei stesso sia interessato alla cabala, all’alchimia e ad altre pratiche occulte di cui parla nel suo libro.
"No, nel pendolo di Foucault ho rappresentato quel tipo di persone in maniera grottesca. Ecco perché Dan Brown è una delle mie creature."
Per lei è importante che i suoi romanzi continuino a essere letti di qui a cent’anni?
"Scrivere un libro senza preoccuparsi della sua sopravvivenza sarebbe da imbecilli".
da The New York Times Magazine
copyright 2007 Deborah Solomon
(distribuito da New York Times Syndicate)
Traduzione di Elisabetta Horvat
* la Repubblica, 25 novembre 2007.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
La Repubblica della "penisola dei famosi" e un Parlamento che canta: "Forza Italia"!?
BERLUSCONI E LA "MEZZA" DIAGNOSI DEL PROF. CANCRINI.
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
Degli scritti che,
quasi
contemporaneamente
al mio, si occuparono
dello stessa argomento
[5], solo due sono, degni
di
nota:
Napoléon le Petit
di
Victor Hugo
e il
Coup d’Etat
di Proudhon
[6].
Victor Hugò si limita a un’invettiva
amara e piena di sarcasmo,
contro l’autore
responsabile del
colpo di stato.
L’avvenimento
in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno.
Egli non vede
in esso altro che
l’atto di violenza di un
individuo. Non si accorge che ingrandisc
e questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli
attribuisce
una
potenza di iniziativa personale
che non avrebbe
esempi nella storia del
mondo.
Proudhon, dal canto
suo, cerca
di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una
precedente
evoluzione storica;
ma la ricostruzione storica dei colpo
di stato si trasforma
in lui in una
apologia
storica dell’eroe del colpo di stato. Egli
cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici
oggettivi.
Io mostro, invece,
come in Francia la
lotta d
i classe
creò delle
circostanze
e una situazione che
resero possibile a un personaggio mediocre
e grottesco
di far la parte
dell’eroe.
* K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869].
Il promesso sposo: Umberto Eco a Casa Manzoni
Una visita che fino a oggi era rimasta segreta: quella di Umberto Eco alla casa di Alessandro Manzoni, del quale ricorrono i 150 anni dalla morte. A muoverlo, una folgorazione giovanile: «Ho letto il romanzo prima che la scuola mi obbligasse a farlo. E per questo lo amo»
DI STEFANO BARTEZZAGHI (OGGI, 20 MAGGIO 2023)
Chissà se, mentre stava posando per il suo servizio fotografico a casa Manzoni, Umberto Eco avrà ripensato a quella volta in cui si travestì da fra Galdino. L’umile fraticello nei Promessi sposi è incaricato della “cerca delle noci” e, per interpretare compiutamente il suo ruolo, Eco, oltre a indossare un regolare saio francescano di cui era in possesso, teneva al braccio il cestello delle “noci”: copie di libri del filosofo Augusto Del Noce, della politica Teresa Noce, dei fumetti Peanuts. Il professore aveva dettato di persona il dress code manzoniano: tutti gli invitati dovevano esibire almeno un orpello che rimandasse a un personaggio del gran romanzo. Uno sberleffo rivolto dall’intellettuale tanto arguto e poco ortodosso verso un nume delle lettere patrie austero e incline tutt’al più a un’ironia di proverbiale fiacchezza? Non proprio.
LECTIO MAGISTRALIS - L’anno prima era caduto il centenario dalla morte di Alessandro Manzoni ed Eco aveva organizzato un ciclo di lezioni e seminari all’Università di Bologna dove insegnava semiotica. Aveva invitato studiosi di tutt’Italia, perché ognuno di essi compisse un’analisi di un capitolo o di un episodio dei Promessi sposi.
Per sé Eco aveva serbato un argomento di grande fascino: il confronto tra il modo in cui i personaggi manzoniani usano la parola (per esempio: il “latinorum” con cui don Abbondio frastorna Renzo o la battuta non riferita che rende la Monaca di Monza “sventurata” per il solo fatto che rispose) e la lingua dei gesti, delle pose, delle azioni. Pochi anni dopo uscì il libro Leggere I Promessi sposi, che raccoglieva quella di Eco e una quindicina di altre lezioni, volume curato dal semiologo Giovanni Manetti, il quale alla cena aveva impersonato Renzo Tramaglino. La cena celebrava en travesti la fine del ciclo di lezioni, faceva insomma parte dell’omaggio che Eco tributava a Manzoni, a cui lo legava non solo ammirazione ma anche vera e propria affezione.
LETTO PRIMA CHE A SCUOLA - Pochi anni dopo, durante un ciclo di conferenze all’università di Harvard, Eco presentava I promessi sposi a una platea americana che, pur essendo di livello universitario, ignorava il romanzo. Lo proclamò capolavoro dell’Ottocento italiano e aggiunse: «Tutti gli italiani, meno pochi, lo odiano, perché sono stati obbligati a leggerlo a scuola. Io debbo ringraziare mio padre, che mi ha incoraggiato a leggere questo romanzo prima che la scuola mi obbligasse, e per questo lo amo».
In particolare, Eco era affascinato dal famoso incipit del romanzo, con l’ampia romanza di “Quel ramo del lago di Como” che prima descrive dall’alto il panorama e poi giunge alla scala umana con campi, vigne, casali. Il paesaggio reale - dal lago ai monti alla città di Lecco - diviene materia letteraria “costruita” da Manzoni, romanziere “geografico” ancor prima che storico. Eco ci vedeva un che di metafisico: prima il punto di vista divino, e della Provvidenza; poi quello umano. Ma ci vedeva anche un che di cinematografico, di ripresa fatta da un elicottero. Certamente oggi aggiornerebbe l’analogia e attribuirebbe quel piano-sequenza a un drone.
IL DIALETTO MILANESE - In una delle fotografie scattate da Massimo Zingardi a casa Manzoni, a Milano, si vede Eco sfogliare un volume appartenuto a don Lisander, con l’interesse rispettoso del bibliofilo. Zingardi si ricorda che, dopo aver consultato il libro, Eco lamentò scherzosamente la mancanza di due parole: “ciola” e “gandola”. Con tutta evidenza si trattava del Vocabolario milanese - italiano di Francesco Cherubini, uscito in prima edizione nel 1814, di cui Manzoni si era servito per pulire la lingua del suo romanzo dai lombardismi. Era come l’Arno in cui sciacquare i panni, secondo il suo famoso detto. “Ciola” e “gandola” (le “O” qui si pronunciano quasi come “U”) costituiscono la rima di una specie di proverbio milanese che proclama la maggiore astuzia dei brevilinei: “Grand, gross e ciòla. / Piscinìn e gandòla”: grande, grosso e tonto; piccolo e sagace (“gandola” è la nocciola: piccola ma piena di nutrimento). Chissà perché Eco era andato a cercare proprio quelle due parole. I motivi per cui non le ha trovate sono invece di schietto interesse semiologico.
L’aneddoto ricordato dal fotografo dopo anni mostra quanto volentieri Eco scherzava. Tanto più volentieri lo faceva a proposito di chi e di quel che amava. Aveva partecipato a un gioco collettivo in cui si è riscritto tutto Il 5 maggio come se fosse una catena di indovinelli enigmistici (Senti. Manchu: “Ei Fu”; Grande come una casa: “siccome immobile”; alito assassino: “Dato il mortal sospiro”).
Ai Promessi sposi aveva invece dedicato due parodie memorabili. Nella prima fingeva di aver letto il manoscritto inedito dei Promessi sposi e di dover dare un parere da consulente editoriale. Ovviamente lo bocciava: «Il Manzoni anzitutto ambienta il suo romanzo nel Seicento, secolo che notoriamente non vende. In secondo luogo elabora una sorta di milanese-fiorentino che non è né carne né pesce e che non consiglierei di certo ai giovani come modello di composizioni scolastiche».Molto più raffinato ed esclusivo un saggio in cui Eco impersona un critico letterario che attribuisce I promessi sposi a James Joyce e lo legge come un romanzo di avanguardia ancor più avanzato dell’Ulysses e di FinnegansWake.
IL 5 MAGGIO - Proprio nella data celebrata dall’ode manzoniana a Napoleone, il 5 maggio dell’anno scorso, la Biblioteca Braidense di Milano inaugurava una mostra di libri antichi della collezione di Eco. Venuto egli a mancare nel febbraio del 2016, la sua collezione era stata acquisita dallo Stato e destinata alla Biblioteca pubblica, una delle più amate e frequentate dal professore. Gli studiosi ora possono consultare i suoi libri più preziosi, conservati in un ambiente che riproduce con ottima approssimazione lo studio che era nell’appartamento milanese di Eco, a Piazza Castello. La sala con la collezione è contigua proprio alla storica Sala Manzoniana, quella che conserva la biblioteca di don Lisander. E chissà se Eco, mentre Massimo Zingardi lo teneva nel mirino a casa Manzoni, se lo sarebbe immaginato.
La mafia, Falcone, Sciascia. L’Italia di Marcelle Padovani: "Siete un grande laboratorio e non lo sapete"
Trastevere e Trentin, il Pci e l’amore per la Sicilia. La giornalista francese racconta il rapporto lungo quasi 50 anni con il nostro Paese: "Draghi deve restare a palazzo Chigi".
di Concetto Vecchio (la Repubblica, 14 Agosto 2021).
Marcelle Padovani, cosa ricorda del suo impatto con Roma?
“Erano i primi anni Settanta ma il modo di vivere era, per molti versi, ancora simile a quello di fine Ottocento: nelle sere d’estate gli abitanti di Trastevere piazzavano i tavolini davanti agli usci per cenare al fresco”.
E l’Italia, che impressione le fece?
“Presi il treno per raggiungere la sede del mio primo servizio e mi ritrovai a viaggiare con un gruppo di operai che andavano a Taranto a non so più quale manifestazione. Discutevano della loro condizione con coscienza di classe: sapevano tutto di salari, produzione, sistemi industriali. "Uao, che Paese!", pensai”.
Quale fu il primo servizio?
“Intervistare il leader sindacale Bruno Trentin”.
L’uomo che sarebbe diventato suo marito?
“E’ la vita”
Quanti anni aveva?
“Ventotto”.
E lui?
“Quarantaquattro. Andammo a cena e rimasi ipnotizzata dal suo sguardo”
Era sposato?
“Separato. Lasciò la sua compagna di allora. Ci sposammo nel 1975”.
Perché scelse di fare la corrispondente di Nouvel Observateur proprio in Italia?
“Sono corsa e l’italiano ce lo insegnavano sin dalle elementari. Quando mi sono iscritta alla Sorbona per studiare scienze politiche ho continuato a studiare la vostra lingua. Mi sono laureata con una tesi sulle sinistre francesi e italiane negli anni 1944-47. Poi per il giornale ho cominciato a seguire Mitterrand. Il Pci rappresentava un mondo che interessava i lettori francesi. Fu naturale occuparsene”.
Quando iniziò come corrispondente?
“Nel 1974. Volevo vivere con Bruno e chiesi di essere trasferita a Roma. Il giornale non era interessato. Solo dopo le mie insistenze mi accontentò riducendomi però lo stipendio a 50mila lire al mese: era un ventesimo della mia retribuzione di allora. Accettai. Lavorai instancabilmente e soltanto l’anno dopo tornai al mio stipendio originario”.
Dove andaste a vivere?
"A Trastevere. E qui accadde un episodio incredibile. Un giorno, dopo pranzo, Bruno uscì per andare in ufficio e subito rientrò: "Mi hanno rubato il borsello dalla macchina!". Mentre stavamo cercando di capire cosa esattamente gli avevano portato via squillò il telefono: era il segretario della sezione del Pci di vicolo del Cinque. "Compagno Trentin, i ladri si scusano per averti sottratto il portafogli. Le pipe però le hanno già vendute".
Cosa rivela questo episodio?
"Che il Pci era un partito votato da più di un terzo degli italiani, vicino al popolo, finanche al popolino dei furtarelli".
Cosa l’affascinava dell’Italia degli anni Settanta?
“Il fatto che fosse un laboratorio. Nel senso che qui le cose avvenivano prima che nel resto d’Europa, dal terrorismo alla mafia. Lo Stato era alle prese con fenomeni senza eguali e doveva capire come venirne a capo. Tutto questo era terribile, ma anche affascinante per un giornalista. Gli italiani dimenticano troppo in fretta questa loro natura di laboratorio: un luogo cioè dove si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse. Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo”.
Il populismo è sconfitto?
“Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è un soltanto demagogo opportunista che ricorre al populismo quando gli serve".
Che populismo è quello del M5S?
"Originale e creativo, che una volta al governo è stato capace di evolversi, di affrancarsi dalla demagogia, perché al potere la demagogia rende impotenti. In Francia è accaduto esattamente il contrario: il populismo ha finito per pervadere i partiti al governo, con istinti diversissimi tra loro, che arrivano fino ai no vax e all’antisemitismo".
I no vax sono rumorosi pure in Italia.
"Sì, ma nel complesso gli italiani si sono vaccinati con più disciplina. In Francia ai vaccinati hanno dato un braccialetto rosso per renderli subito riconoscibili nei locali pubblici. Può essere una buona idea, ma è anche la riprova che lo Stato deve controllare di più".
Come nacque "La Sicilia come metafora", il libro intervista di Leonardo Sciascia?
"In Francia i suoi libri suscitavano sempre un grande interesse e lo intervistai lungamente per il giornale. Un editore mi propose di farne un libro. Fino a quel momento Sciascia aveva detto di no a tutti".
Che tipo era Sciascia?
"Piccolo di statura, aveva un’espressione scettica e ironica che affascinava. Andai a trovarlo Racalmuto e sua moglie Maria ci preparò la pasta con le sarde. Sciascia parlava della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Non parlava mai dell’Italia. Una cosa che mi colpì moltissimo".
Come lo spiega?
"Non gli interessava. Lo avvertiva come un mondo ostile. Alla fine di ogni estate andava a Parigi in treno, alloggiando sempre nello stesso albergo, l’Hotel du Pont Royal in rue de Montalembert: faceva tappa a Roma, scendeva dal treno, dormiva una notte in albergo e ripartiva subito".
Cosa l’affascina della Sicilia?
"L’essere un’isola. Ha una sua aspirazione all’illuminismo, come metodo e meta per rispondere al disordine. E’ un mondo complesso. Sciascia mi spiegò subito che il vero siciliano non ama il mare, perché dal mare, da sempre, sono giunti gli invasori. E infatti, in molti paesi siciliani, le case danno le spalle al mare. In Corsica è lo stesso".
Quando ha conosciuto Giovanni Falcone?
"Nell’autunno del 1983 si cominciò a parlare di un capomafia, che detenuto in Brasile aveva deciso di collaborare con Falcone. Il suo numero me lo diede Luciano Violante. Era novembre e volai a Palermo. Le sette di sera. Buio pesto, poca gente per le strade. La Procura deserta. Salii al secondo piano, e superai due porte blindate, davanti alla seconda Falcone aveva fatto piazzare una telecamera. Entrai e mi gelò: "Il nostro incontro salta, devo correre con urgenza all’Ucciardone". "Possiamo cenare insieme?", obiettai. "Non mi sembra molto igienico", rispose".
E lei?
"Bel cafone", pensai. Disse: "Domani mattina alle sette vado a Roma, si faccia trovare a Punta Raisi, così viaggiamo insieme e facciamo l’intervista in volo". Trovai in fretta e furia un biglietto e mi presentai in aeroporto. Sull’aereo ci misero accanto, ma sfortuna volle che vicino a noi era seduto anche Marco Pannella, che, mi disse Falcone, era venuto a consegnare la tessera radicale al boss Michele Greco. "Non mi sembra il caso di farla qui", taglio cortò Falcone".
Rido.
"Arrivati a Roma Falcone mi disse: "Vada a casa, che all’ora di pranzo la mando a prendere". Ero definitivamente furibonda. Intorno alle tredici arrivò davvero un ufficiale della Guardia di Finanza, che mi condusse in una caserma di periferia. Entrai e trovai la tavola imbandita e il fuoco del camino acceso. Parlammo per due ore. L’intervista uscì il 30 dicembre col titolo: "Il piccolo giudice e la mafia".
Che uomo era Falcone?
"Parlava solo di mafia. Non mostrò mai il minimo interesse per la mia vita. Non mi chiese mai da dove venissi, che studi avessi fatto, niente di niente. Era monotematico, da cui è derivata la sua proverbiale efficienza, il suo professionismo. Come tutti i siciliani colti aveva il gusto per il racconto, era pieno di dettagli, ma inseriti dentro concetti più vasti. Per scrivere Cose di cosa nostra ci vedevamo in un ristorante a Roma, lui mangiava con gusto e io prendevo appunti, perché mi chiese di non registrare. Alla fine ero distrutta, e Falcone ordinava, anche col caldo, una vodka".
Che anno era?
"La primavera del 1991. Quando terminai di scriverlo, a luglio, gli telefonai da San Candido dove mi trovavo in ferie con Bruno, per chiedergli come procedere. "Vengo io", disse. Arrivò all’indomani a Sesto di Pusteria, ritirò il dattiloscritto in francese, lingua che Falcone padroneggiava perfettamente, e me lo restituì con pochissime correzioni".
E ripartì subito?
"Bruno mi disse: "Invitiamo Giovanni a cena, dobbiamo festeggiare". Accettò. Parlammo dell’attualità politica, dell’irredentismo altoatesino, di Mahler che aveva avuto lì una casa, e la figura di Giovanni si rimpiccioliva nella sedia: si annoiava. A un certo punto feci riferimento a una notizia di cronaca che riguardava il figlio di Stefano Bontate e in quel momento si ridestò di colpo, raddrizzandosi sulla sedia".
Era già al ministero, e la sinistra lo criticava per la sua collaborazione con il ministro Martelli. E’ stato un grave errore contestarlo?
"L’errore è doppio. Nel non avere capito l’importanza decisiva del suo codice antimafia e nel non avere mai fatto autocritica. Falcone viene incensato, senza essere studiato. Chiunque parli di mafia lo cita, spesso a sproposito. Da vivo fu molto solo, si contavano sulle dite di una mano i magistrati che lo sostenevano, i più lo criticavano per il suo presunto protagonismo mediatico".
Non era vero?
"Per niente. Falcone non amava i giornalisti. In vita sua rilasciò pochissime interviste".
Cosa pensa del sottosegretario Durigon che ha chiesto di intitolare al fratello di Mussolini invece che a Falcone e Borsellino il parco di Latina?
"E’ la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no".
Perché sostiene che la mafia è stata sconfitta?
"L’Europa dovrebbe prendere esempio dall’Italia per come ha saputo reprimere Cosa nostra, che ormai da vent’anni non riesce a eleggere un nuovo capo, e che si è tramutata in una mafia economica che ha deciso di partecipare al capitalismo. E’ la conferma che la criminalità organizzata non è retrograda, ma un’avanguardia, purtroppo".
E non è una minaccia altrettanto grave per una società?
“Oggi l’impresa mafiosa, come la non mafiosa, finiscono col praticare gli stessi metodi di sviluppo, che vanno dall’evasione fiscale all’offerta di servizi illegali, dalla proposta di costi di produzione astutamente ridotti alle scorciatoie amministrative a colpi di tangenti. Bisognerebbe rivedere tutti i meccanismi di finanziamento dell’impresa così come gli articoli del codice penale destinati a combattere i metodi illegali”.
La destra vincerà le prossime elezioni?
"La trovo grottesca e pericolosa allo stesso tempo. Cosa vogliono veramente? Quali sono i programmi? Il populismo l’ha svuotata e intrisa di demagogia. Infatti la più popolare è Giorgia Meloni, anche perché serba un minimo ricordo di ideologia".
Il suo libro, La lunga marcia del Pci, uscito nel 1979, si apre con un capitolo sulla scuola delle Frattocchie, frequentata da giovani operai. Oggi cos’è diventata la sinistra italiana?
"La sinistra come bisogno, e come scelta di campo, esiste ancora. Ma i partiti esistenti non sono all’altezza né delle tradizioni né del bisogno di eguaglianza e giustizia sociale. Però sono ottimista, a lungo andare, il laboratorio italiano riuscirà ad esprimere una forza che sappia parlare di nuovo alle masse".
Draghi l’ha convinta?
"In Italia lo considerate un grande tecnico. Invece è un grande politico. E’ riuscito a tenere tutti buoni facendo passare provvedimenti anche drastici. E’ il prossimo leader dell’Europa, e come tale è visto dalle cancellerie".
Deve restare a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale?
“Non ho dubbi: rimanere a Palazzo Chigi. Perché essendo il più competente in materia economico-finanziaria deve gestire lui i soldi del Recovery Fund. Ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo. Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato.”
Cosa ha capito di noi italiani?
"Siete un popolo che si sottovaluta, al contrario di noi francesi che ci sopravvalutiamo. L’Italia è un Paese di enorme interesse e vitalità. Anche se a volte sorrido della vostra capacità di autoesaltazione. Alle Olimpiadi avete conquistato dieci medaglie d’oro, come Germania, Francia, Olanda, arrivando decimi nel medagliere, ma avete esultato come se foste arrivati primi".
Lavora ancora?
“Continuo a scrivere per Nouvel Observateur, purtroppo più per il web che per il magazine. E cerco anche di mettere in piedi un libro: il mio decimo dedicato all’Italia”.
Si sente ormai italiana?
"Né italiana, né francese. Sono una corso-trasteverina".
19 febbraio 2016 - 19 febbraio 2021 /
Umberto Eco: ridere con la verità
di Gianfranco Marrone (Doppiozero, 19.02.2021).
Che cos’è la filosofia? Semplice: leggere e rileggere il Parmenide di Platone, non capirci granché, e rileggerlo ancora. In questo celeberrimo dialogo il grande filosofo greco enuncia nove ipotesi sull’essere, tutte diverse fra loro, tutte convincenti. Di modo che, dopo averne terminato la lettura, si entra in crisi profonda, superabile in un solo modo: ricominciare daccapo. Così, “non ho mai smesso di leggere quel testo e chiedo di leggerlo a tutti i miei studenti”. Perché? “Credo che non riuscire mai a capirlo completamente sia la più grande lezione di filosofia possibile. E non c’è bisogno di scoraggiarsi se non lo si comprende appieno. Bisogna continuare a leggerlo e più volte”.
Questa singolare definizione dell’attività filosofica è di Umberto Eco, e ben risponde al modo ben specifico in cui egli stesso, in più di sessant’anni di indefesso lavoro intellettuale, convintamente la praticava: non un’accigliata ricerca della verità ultima sull’uomo o sul mondo, ma una dubbiosa interrogazione circa il senso stesso di tale ricerca, un continuo arrabattarsi sui fondamenti del cosmo e sui principi della conoscenza, ben sapendo, con pervicace ironia, che tali fondamenti e tali principi saranno soggetti a inevitabili falsificazioni prossime future. Ridere con la verità, ma soprattutto ridere della verità, diceva frate Guglielmo in chiusura al Nome della rosa, impersonando esattamente, in quel frangente narrativo e con quelle frasi lapidarie, la figura del perfetto filosofo che, criceto felice nella ruota del pensiero, cerca un senso laddove c’è solo il suo simulacro. Uno scettico abbagliato dalla luce del vero.
Il multiforme ingegno di Umberto Eco, si sa, lo ha portato a esercitare lo spirito in molti modi. È stato semiologo e romanziere, massmediologo e opinionista, collezionista di libri ed enigmista, barzellettiere e docente universitario, editore e funzionario Rai. Ma, inglobando tutto ciò senza appiattirne le differenze, occorre ammettere che Eco è stato soprattutto un filosofo.
Un pensatore sui generis, senz’altro, capace di voli pindarici fra saperi e scritture, sempre pronto a generare cortocircuiti teorici, recuperando al contempo, con grande perizia filologica, la lunga tradizione dei classici del pensiero. Leggeva il Parmenide in continuazione, appunto, ma conosceva assai bene l’intera storia della filosofia (l’ha pure riraccontata in vignette satiriche), facendola interagire con i più recenti esiti delle scienze umane e sociali, della letteratura e delle arti, e con un occhio vigile a quel che andava accadendo nel mondo della comunicazione e della società che, rilanciandolo, ne discende.
Di questa doppia anima di Umberto Eco - filosofo, ma con molti altri strumenti critici e concettuali - danno testimonianza due bei volumi che La Nave di Teseo ha mandato ieri in libreria. Il primo si intitola La filosofia di Umberto Eco (pp. 912, € 29), ed è la versione italiana di un librone uscito quattro anni fa in Usa, nella prestigiosa Library of Living Philosophers, una collezione che a partire dal 1939 ha ospitato i più illustri pensatori del pianeta (Russell, Einstein, Sartre, Popper, Putnam, per dirne alcuni).
La serie funziona così: si invita un filosofo vivente a raccontare in un centinaio di pagine la propria autobiografia intellettuale; un nutrito numero di studiosi scrive un saggio su un particolare aspetto del suo pensiero; il filosofo replica a ogni saggio con un suo ulteriore intervento. Una vera e propria celebrazione in vita - a cui Eco, scomparso un anno prima della pubblicazione del volume, non ha potuto assistere per intero. Così il libro, curato e introdotto da Anna Maria Lorusso, contiene l’autobiografia intellettuale (settantacinque densissime pagine), ma dei ventitré saggi che seguono solo dieci sono accompagnati dalla replica finale.
Il secondo volume è Le avventure intellettuali di Umberto Eco (pp. 176, € 13), una preziosissima sintesi dell’intero lavoro del pensatore piemontese, dalla tesi di laurea su San Tommaso del ’54 alle ultime esternazioni sull’etica e la morte, passando dai saggi semiotici, dai romanzi e dagli studi sui mass-media.
L’autore del libro è Stefano Traini, docente di semiotica a Teramo, allievo diretto di Eco e fra gli studiosi più attivi oggi nel campo della scienza dei linguaggi umani e sociali.
Da una parte dunque un grosso testo che glorifica Eco in quanto filosofo (ma dentro ci sono scritti anche su letteratura e media, traduzione e postmodernismo); dall’altra un libro snello che introduce ai numerosi aspetti di questo pensiero a più facce e con moltissime diramazioni. Accostarli è d’obbligo, per provare a comprendere al meglio - a cinque anni esatte dalla sua dipartita - una delle figure più interessanti e insieme più complesse di una congiuntura culturale che è ancora la nostra.
Andiamo all’autobiografia, una delle parti più preziose della proposta editoriale. Diciamo subito che questo testo, scritto appositamente per un filosofo americano medio (per lo più di orientamento analitico, pochissimo interessato alla storia del pensiero, più attento alle scienze naturali - durissime! - che non a quelle umane e sociali, e con un mug di caffè bollente sulla scrivania), funziona abbastanza bene anche da noi. Non solo perché è la più completa esposizione dell’evoluzione delle ricerche filosofiche di Eco scritta da lui stesso, con i suoi temi ricorrenti, le sue ossessioni, ma anche i suoi cambiamenti di idea, e soprattutto gli innumerevoli tentativi di esplicitare al meglio il proprio punto di vista su nozioni essenziali come la verità, l’etica o i limiti dell’interpretazione.
Ma anche perché getta una luce nuova, se pure in negativo, sull’intera opera di Eco (che Traini dal canto suo ripercorre perfettamente), nell’intreccio fra teoria e narrazione, ma anche fra riflessione filosofica, osservazione critica del sociale, impegno pieno nel mondo della cultura, sguardo obliquo verso la politica.
Così, questa curiosa autobiografia ripercorre le principali tappe della sua esperienza di pensatore (superamento del crocianesimo, studi di medievistica, opera aperta e neoavanguardia, strutturalismo, scoperta di Peirce, semiotica, cognitivismo) e rispiega daccapo i nodi concettuali che la caratterizzano (l’inferenza interpretativa, le aporie d’ogni classificazione ad albero, la nozione di enciclopedia come rete semantica, il realismo negativo, la forza del falso, la semiosi ermetica, l’iconismo). Un concentrato eccezionale di esercizio del pensiero. Capiamo così in estrema sintesi - e lo ricorda anche Lorusso - come il tradizionale problema filosofico della conoscenza (quello che noi chiamiamo gnoseologia e gli anglofoni epistemologia) sia divenuto in Eco la questione del modo in cui gli uomini danno senso al mondo, fornendo a esso un significato (interpretandolo) e anche attribuendogli un valore (apprezzandolo o disprezzandolo).
Ma, per altri versi, questo stesso testo dice di più e di meglio, come se la più fine osservazione dei fatti minuti della vita e del mondo, o se si vuole lo sguardo scafato del romanziere, facessero spesso capolino nel discorso, deviando e arricchendo le grandi questioni della filosofia eterna. La narrazione si insinua surrettiziamente nella concettualizzazione, donandole una specie di base esperienziale, esistenziale quasi, che la rende più vivace.
Così, il testo è puntellato da continue digressioni rispetto al filo logico del ragionamento, le quali, a ben vedere, digressioni non sono affatto. Si pensi al racconto del baule del nonno tipografo, dove erano raccolti tanti libri non ancora rilegati, dal Milione di Marco Polo all’Origine delle specie di Darwin, che in questo stato, e cioè alla rinfusa, vengono letti da un Eco ancora alle elementari: una specie di realizzazione ironica della poesia dadaista nel cappello. Oppure alla storia della militanza per Gioventù cattolica (di cui Eco, da studente universitario, era responsabile nazionale) e al successivo abbandono per ragioni più politiche che confessionali. Oppure ancora alle storielle riguardanti i corridoi della Rai, dove fra un Mike Bongiorno e l’altro si incontrava gente come Brecht o Stravinskij, mentre Berio, padrone di casa, teneva sottobraccio i Principi di fonologia di Trubeckoj. Una delle divagazioni che più colpiscono in questo testo autobiografico è forse quella della Storia figurata delle invenzioni, un’opera che Eco ha curato in ben quattro anni di lavoro editoriale, divulgando i progressi della tecnologia con l’ausilio di migliaia di immagini: pubblicazione che, se da un lato lo porta a sposare “un’artista grafica tedesca che aveva contribuito alla realizzazione dell’opera”, dall’altro farcisce l’istanza filosofica di cultura scientifica.
Cosa c’entra tutto questo con il problema nietzschiano della verità come solidificazione di antiche metafore, l’albero di Porfirio, la semantica a tratti, lo zoccolo duro dell’essere? Nulla, dirà sbadigliando il pensatore duro e puro di uno strafigo college americano. E peggio per lui. Per parte nostra, riconosciamo in questa serie di innesti narrativi la migliore capacità del vero filosofo: quella del saper condire ogni sudata teoria con una forte dose di sano scetticismo. Divagare è alleggerire, prendersi relativamente sul serio, deviare e rientrare. Dubitare insomma. E lo scetticismo, leggiamo già nella prima pagina del libro, “implica un costante senso dell’umorismo, per mettere in forse anche le cose in cui si crede sinceramente”.
Quell’umorismo che sfida le fake news
di Valentina Pisanty (il manifesto, 30.08.2018)
L’anticipazione. Un brano dallo spettacolo dedicato al grande semiologo scomparso due anni fa che andrà in scena a Camogli il 6 settembre nell’ambito della V edizione del Festival della Comunicazione. Per l’intellettuale bolognese ogni strategia illuministica di disvelamento del potere passava per il riso
Umberto Eco ride della rigidità dei luoghi comuni, degli automatismi del linguaggio, della prevedibilità dei generi narrativi, delle trappole della logica e, in generale, di tutte le strutture inflessibili che conferiscono una parvenza di ordine alla vita sociale. Così funziona l’umorismo: si prende una matrice logica familiare, un sistema di regole, un frammento di senso comune; si finge di trovarsi a proprio agio al suo interno, dicendo cose del tutto coerenti con i suoi assunti, di modo che l’interprete si illuda di avere capito dove il discorso andrà a parare; e poi, zac!, quando l’altro meno se lo aspetta si introduce di soppiatto un piano logico incompatibile che fa esplodere le attese sin lì create. Si vedano, per esempio, le Istruzioni per scrivere bene in cui, fingendosi precettore, Eco confuta ciascuna regola stilistica nell’atto stesso di formularla: «evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi»; «evita le frasi fatte: è minestra riscaldata»; «non generalizzare mai»; «sii sempre più o meno specifico»; «non usare metafore incongruenti anche se ti paiono ‘cantare’: sono come un cigno che deraglia»; e - la mia preferita - «solo gli stronzi usano parole volgari».
LE PARODIE FUNZIONANO in modo analogo, salvo che l’incongruenza si rivela attraverso l’accumulo iperbolico di dettagli tra loro coerenti che tuttavia fanno a pugni con il comune buonsenso. In un capolavoro di satira accademica Eco narra la parabola di Swami Brachamutanda (Bora Bora 1818 - Baden Baden 1919), «fondatore della scuola tautologica i cui principi fondamentali sono delineati nell’opera Dico quello che dico: l’Essere è l’Essere, la Vita è la Vita, L’amore è l’amore, Quello che piace piace, Chi la fa la fa e il Nulla Nulleggia».
I GUAI DI BRACHAMUTANDA hanno inizio quando, dopo aver sostenuto che «gli affari sono affari» e «i soldi sono soldi», il fedele discepolo Guru Guru fugge con la cassa della comunità e, fermato dalla polizia di frontiera, si lascia scappare un «chi la fa l’aspetti»: frase che, «come è evidente, contraddice i principi essenziali della sua logica». Di lì è tutto un precipizio: i tautologi sconvolti si spaccano, l’eretico Schwarzenweiss fonda la scuola eterologica secondo cui «L’Essere è il Nulla, il Divenire sta, lo Spirito è Materia, la Coscienza è Inconscia», rivendicando la sua ascendenza sui massimi capolavori della letteratura occidentale - Guerra e Pace, il Rosso e il Nero... - mentre accusa i tautologi di essersi limitati a ispirare opere di scarso rilievo come Tora Tora, New York New York e Que sera sera... Al che Brachamutanda obietta che, di questo passo, tanto vale che lo Schwarzenweiss accampi diritti sulle vendite del whisky Black and White.
PERCHÉ FA RIDERE? In un saggio sul Comico e la regola (Alfabeta 1980) Eco teorizzava che l’effetto comico scaturisce dalla violazione di una regola sociale compiuta da un personaggio inferiore nei confronti del quale chi ride prova un aristotelico senso di superiorità. Ma non è mai chiaro se lo zimbello sia la regola violata, o colui che la trasgredisce, oppure entrambe le cose insieme: è questo il bello dell’umorismo, che mentre si fa gioco delle contraddizioni altrui è a sua volta irriducibilmente contraddittorio. Non si salva nessuno.
CON ECO SI RIDE in modo allegro e tutto sommato benevolo nei confronti di ciò verso cui ci si sente sì superiori, ma anche compartecipi: una parte ride dell’altra, e viceversa, senza sintesi possibile, e guai se ci fosse. La stupidità umana - bersaglio della risata - è l’altra faccia dell’intelligenza, come d’altronde chiarisce Jacopo Belbo in un famoso dialogo del Pendolo di Foucault: «l’intelligenza è il prodotto di infinite stupidità».
Solo se gli stupidi sono anche arroganti, desiderosi di far prevalere la propria sull’altrui stupidità, la risata diventa beffarda. Ancora Belbo: «Ma gavte la nata, levati il tappo. Si dice a chi sia enfiato di sé. Si suppone si regga in questa condizione posturalmente abnorme per la pressione di un tappo che porta infitto nel sedere. Se se lo toglie, pffffiiisch, ritorna a condizione umana». Ridicolizzare i prepotenti per afflosciarne le ambizioni di dominio è una strategia illuministica fondata sulla fiducia nella fondamentale ragionevolezza umana. Gli altri, i complici, capiranno e non si faranno abbindolare.
Ma cosa succede quando la Regola che si supponeva ovvia e condivisa viene diffusamente violata senza senso del ridicolo? Quando la carnevalizzazione totale della vita priva l’umorismo del suo lampo, del suo scandalo, della sua spinta sovversiva? Quando, di fronte alla «travolgente rivelazione che sono tutti dei coglioni», non ci si può più consolare con la solita battuta: «d’altronde se fossero intelligenti sarebbero tutti professori di semiotica»? La risata si strozza in gola.
NEGLI ANNI DEL BERLUSCONISMO Eco scrive A passo di gambero, dove i discorsi sull’Ur-fascismo, sul populismo mediatico e sulle reviviscenze razziste al «crepuscolo d’inizio millennio» assumono toni insolitamente foschi e nauseati: «Andate un poco al diavolo tutti quanti, perché è anche colpa vostra», conclude, e a questo punto ci sarebbe poco da ridere. Per farlo bisognerebbe conservare almeno un barlume di complicità, ed è per questo che né Berlusconi, né Trump, né Salvini fanno ridere. Se non che Eco sa essere spiritoso anche quando manda la gente a quel paese.
COSÌ, IN UN’EMAIL DEL 1999 che merita di essere condivisa, suggeriva alcune varianti del messaggio-base, a seconda della nazionalità degli ipotetici mittenti: «wa’ ffa n’kul da arabi, waakkaagaare da finlandesi, strnz da cecoslovacchi, fk yup da turchi, maa mukkela da africani, tel lì el pirlon da spagnoli, nicht rumper Katz oppure roth im kuhle da tedeschi, o filho da minhota da brasiliani, fak ja De Meerd da fiamminghi, throw yeah put an A da americani, van Moona da olandesi, mavamori amatzatu da giapponesi, Pi Ciu da cinesi, tglt dll pll da ebrei non masoretici, Masta Citu da incas, massipuo e ser kosi pistoola da hawaiani, manoru ‘n pemei Bali da balinesi. To be continued». Così finiva il messaggio.
«Visioni» al Festival della Comunicazione di Camogli
«Musica e parole. Un ricordo di Umberto Eco» è il titolo dello spettacolo con Valentina Pisanty e altri amici e colleghi di Eco, Furio Colombo, Gianni Coscia, Roberto Cotroneo, Paolo Fabbri, Riccardo Fedriga, Maurizio Ferraris e Marco Santambrogio, che si terrà giovedì 6 settembre nell’ambito del Festival della Comunicazione di Camogli.
Filo conduttore della V edizione della kermesse, in programma fino al 9 settembre, aperta dalla lectio magistralis di Renzo Piano, saranno le «Visioni». Oltre un centinaio di protagonisti dell’informazione, della cultura, dell’innovazione, dell’economia, della scienza e dello spettacolo si confronteranno in 78 incontri.
Tra i relatori: Alessandro Barbero; Giovanni Allevi; Piero Angela; Mario Calabresi; Evgeny Morozov; Oscar Farinetti; Gad Lerner; Stefano Massini; Davide Oldani; Massimo Montanari; Massimo Recalcati; Gherardo Colombo con Marco Travaglio; Andrea Riccardi; Marco Aime con Guido Barbujani e Telmo Pievani.
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA... *
Al Parini l’insegnante ci parlava di Mao in classe
«Il problema della sinistra è che si alza tardi al mattino. Eco era meglio del cabaret»
di Pier Luigi Vercesi (Corriere della Sera, 26.08.2018)
Professor Salvatore Veca, filosofo militante: posso definirla così? Oltre all’insegnamento universitario, ai famosi seminari della Fondazione Feltrinelli, alla creazione di nuove istituzioni accademiche, alla stesura della Carta di Milano in occasione dell’Expo, sono quarant’anni che lancia granate nell’accampamento della sinistra. Tra un po’ rischia di non trovare più nemmeno una capanna, non crede?
«La sinistra potrebbe sparire. A meno che non cominci a guardare oltre il proprio ombelico. Un’idea ce l’avrei, è sotto il naso di tutti da settant’anni, basterebbe metterla in pratica».
Vale a dire?
«L’articolo 3 della Costituzione: pari dignità per tutti e l’impegno a rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona. Non è un discorso di sinistra? Però bisogna tornare a essere credibili, contrastando le povertà, garantendo cibo adeguato per tutti, abbattendo le diseguaglianze entro e tra le società, avviando politiche di crescita con lavoro dignitoso. Con questa classe dirigente non credo sia possibile, ci vogliono ragazzi nati nel nuovo mondo. Io, ad esempio, sono un vecchio signore del Novecento che può solo alzare la mano e dare qualche spunto di riflessione».
Marx è morto, le ideologie sono morte, il buonismo ha fatto danni e i dirigenti del Pd sono in coma. Resta il buon senso, mi pare di capire. Non è un po’ poco per ripartire?
«Sa qual è il problema? La sinistra si sveglia sempre troppo tardi la mattina. Ne so qualcosa. Per sette anni ho ingaggiato un corpo a corpo con Marx: nel ’77 scrissi che aveva pregi e limiti. Polverone a sinistra. Cercai allora di dare il mio contributo per innovare una cultura ossificata con il libro La Società giusta. Altro casino. Al Gramsci di Bologna mi processarono: traditore della classe operaia, riformista! In un’intervista a L’Espresso mi chiesero, con ironia, cosa significasse “società migliore”: “L’ho tratta da John Dewey e da un film con Robert Redford, The Runner, dove il candidato ripete: siamo il Paese più potente del mondo, perché nelle nostre scuole c’è l’apartheid, perché se uno si ammala e non ha soldi crepa? Ci sarà un modo per rendere migliore questa società”. Nell’89, con Michele Salvati, proponemmo di cambiare nome al Pci. Fabio Mussi alzò il sopracciglio e rispose che certe cose si fanno solo per cambiamenti epocali. Se il crollo del Muro di Berlino non bastava... Occhetto alla fine fece ciò che non poteva non fare. Allora cominciai a pensare che una sinistra democratica dovesse ispirarsi ai valori di una società aperta con l’obiettivo primario dell’equità e della qualità della vita. Ma la sinistra era impegnata nelle solite battaglie intestine per accorgersi che la gente si stava incazzando. Così, nella società della sfiducia, gli impresari della paura hanno inventato il popolo omogeneo delle brave persone e replicato la celebre massima di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Dunque, nulla di nuovo. La mia email ai giovani è questa: non mollate!».
Ma il mondo oggi è troppo diverso da quello in cui si è formato lei...
«Vero: la Milano della mia infanzia era disciplinata, frammentata in ceti e culture omogenee. I tempi erano scanditi dall’apertura delle fabbriche. Oggi prevale il disorientamento: mentre noi parliamo, gli algoritmi creano vincenti e perdenti. Non creda però che il Novecento sia stato una scampagnata. Mio padre era ufficiale a Civitavecchia e l’8 settembre i tedeschi lo arrestarono e lo spedirono in un campo di concentramento in Polonia, dove tentò due volte la fuga e venne inscenata la sua fucilazione. Alla fine del 1944 firmò una falsa accettazione della Repubblica di Salò per tornare in Italia. Io sono nato due mesi dopo la sua deportazione e l’ho visto solo dopo la Liberazione. Papà era affettuoso ma erogava un senso di disciplina. Appena mi vide con i boccoli da putto disse: “Fategli tagliare i capelli”. Nel frattempo era nato mio fratello Alberto e cominciai a frequentare le scuole elementari alla Leonardo Da Vinci. La mia maestra, Maria Bertin, mi insegnò a imparare e quel bagaglio mi aiutò fino agli anni del ginnasio al Carducci. In prima liceo studiavo poco e prendevo voti alti. Mio padre si insospettì e mi trasferì al Parini, struttura austera e gerarchica. Il professor Pelosi, insigne grecista, mi accolse chiedendomi: “Adesso anche i barbari entrano al Parini?”. Avevo finito di vivere di rendita».
Divenne «di sinistra» per reazione?
«Al Parini c’era un preside autoritario ma anche Maria Teresa Torre Rossi, la prof accusata di parlare di Mao in classe. Fu lei a svegliare la mia vocazione. Era legata al Piccolo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Un giorno ci portò a teatro e ci fece scrivere un tema. Grassi lesse il mio e volle conoscermi: “Ti piacerebbe collaborare con noi?”. Era una macchina da guerra disciplinatissima: qualsiasi cosa facessi, Grassi ti mandava un biglietto con complimenti o critiche. Dava il meglio di sé nelle telefonate in cui esibiva, con nonchalance, il tal teatro di Zurigo o l’Ensemble di Brecht. Lo spiazzò il ’68: non poteva accettare di essere messo sotto inchiesta, come se, preservando tradizioni e istituzioni, fosse per ciò stesso autoritario. Si confondeva autorevolezza con autorità».
Ma preferì la filosofia: come accadde?
«Mi iscrissi a Lettere alla Statale. I docenti erano giganti: Mario Fubini per Letteratura italiana, Ignazio Cazzaniga Letteratura latina, Enzo Paci Filosofia teoretica, Ludovico Geymonat Filosofia della scienza... Cesare Musatti teneva le lezioni alle 8 di mattina per scoraggiare l’enorme afflusso di studenti. Enzo Paci trasmetteva una sorta di eros per la filosofia. Fu così che me ne innamorai».
Lei era già troppo grande nel Sessantotto?
«Ero assistente volontario. Io e Pier Aldo Rovatti negoziammo con Salvatore Toscano, Mario Capanna e Luca Cafiero la richiesta di contro-corsi: “Va bene, affianchiamoli ai corsi”. Capanna disse: “Sì, così finisce il Movimento. Noi dobbiamo rilanciare continuamente per mettere in moto una spirale crescente di consenso studentesco”».
Come ebbe il primo incarico?
«Una mattina, a Cervinia, rincoglionito perché avevo fatto notte, scesi a prendere i giornali e mi sentii chiamare: “Dottor Veca, anche lei qui?”. Era Norberto Bobbio, mi aveva visto una volta a Torino e si ricordava di me. “Facciamo una passeggiata”, disse: era un gran camminatore, io gli banfavo dietro; a ogni passo indicava una montagna, “quello è il Grandes Jorasses...”, ma se non le conosci, le cime sembrano tutte uguali. Col fiatone cercavo di interloquire: “Sì, sì magnifico”. Poi si fermò, mi fissò e disse: “All’università della Calabria cercano professori”. Nel 1973-74 ebbi il primo incarico e a Cosenza incontrai il più grande amico della mia vita, Marco Mondadori: ne avrei sposato la sorella».
Nicoletta, figlia di Alberto, primogenito di Arnoldo e fondatore del Saggiatore...
«Marco mi invitava spesso nella loro villa di Camaiore. Nell’estate del ’76, pochi mesi dopo la morte del padre, una sera mi capitarono in mano foto di Nicoletta. Non l’avevo mai vista, sapevo solo che aveva tre bambini e si stava separando dal marito. Qualche mese dopo, a casa di Marco, arrivò con un enorme carico di tende bianche. “Piacere Salvatore”: emanava un’attrazione magnetica col sorriso, la voce e quel suo modo di navigare nel mondo. Cominciammo a frequentarci. La sera andavamo al Tencitt, in via Laghetto. Suonavano sempre Genova per noi. Tra un gin tonic e un gin fizz correvano fiumi di storie. Dopo Natale passammo un weekend a Camaiore, io avevo una Renault 4, lei una 850 scassata. Al rientro bucammo una ruota, e la cambiai. Poco dopo se ne forò un’altra. Si fermò un tir francese. “Andiamo a Milano, in viale Tunisia”. “Mais oui, Tunìsia”. Da allora andai a vivere da lei in Tunìsia, con l’accento sulla prima “i”».
Dopo la Calabria il Dams di Bologna, quindi Milano e infine Firenze. Com’era insegnare al fianco di Umberto Eco?
«Serate esilaranti. Si usciva a cena con Furio Colombo e qualche assistente. Umberto e Furio insieme erano un numero di cabaret. I loro cavalli di battaglia erano il sottomarino e l’uomo cacciatore; cominciavano con luoghi comuni e andavano avanti inanellando battute. Eco aveva l’intelligenza di un funambolo. Lo conobbi a Villadeati a casa di Inge Feltrinelli; suonò il flauto fino alle tre di notte, poi disse: “Vado a dormire, domani devo dare un articolo al Manifesto e voglio scriverlo in latino”. La mattina dopo, alle 11, mi allungò un foglio con un testo che imitava lo stile delle encicliche».
Anche Eco è morto, non ci resta che tornare al presente.
«Ha ragione, le cose passate sono risucchiate in un tempo che non c’è più, ma senza il passato non c’è futuro e la malattia del nostro tempo si chiama presentismo».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...] .L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
Federico La Sala
Il populismo in cerca di un vocabolario
di Michele Ainis (la Repubblica, 12.12.2017)
Il populismo è fin troppo popolare. La parola - se non anche la cosa - rimbalza nei discorsi dei politici, tracima sui media e nel web, ci casca addosso. Già, ma che diavolo significa? Le parole, a usarle troppo spesso, subiscono una sorta d’azzeramento semantico, come dicono i linguisti: diventano suoni, non concetti. È successo alla parola «democrazia» (Sartori ne contò decine di definizioni). Sta succedendo al populismo, tanto che ormai viene squadernato come un calendario: populismi di destra o di sinistra, di lotta o di governo, nuovi o stagionati.
Ecco, i vecchi populismi. Quelli, almeno, già li conosciamo: narodniki russi, People’s Party negli Usa, peronismo sudamericano. Ma è una conoscenza teorica, libresca, non avendoli mai sperimentati di persona. E d’altronde pure i libri mentono, talvolta. Così, Mény e Surel ( Populismo e democrazia, 2000) scrivono che un elemento d’identità del populismo è l’avversione verso tutti i poteri neutri, dalla magistratura alle autorità di garanzia; ma allora dovremmo definire populista anche Togliatti, che in Assemblea costituente s’oppose strenuamente all’istituzione della Corte costituzionale.
Sta di fatto che questo fenomeno, oggi come ieri, non si lascia inquadrare in precise gabbie concettuali. Ha tratti mutevoli, cangianti. Tuttavia qualcosa nel populismo si ripete, impermeabile alle stagioni della storia. In primo luogo un elemento nazionalista (oggi diremmo «sovranista»). Poi la critica all’establishment, alle classi dirigenti, sempre bollate come parassitarie e inette. Inoltre una concezione primitiva della democrazia, senza filtri, senza mediazioni, senza le lungaggini delle procedure parlamentari. E infine la presunzione di rappresentare il “vero” popolo: «I am your voice», proclamava Trump durante la sua campagna elettorale. Un popolo omogeneo, indistinto, compatto nell’avversione all’altro da sé, dunque in primo luogo nell’avversione agli altri popoli.
Tutto l’opposto della concezione pluralistica della società, che è il presupposto delle democrazie. Però in questo, almeno qui in Italia, c’è un deposito culturale, c’è un’idea organicistica della società che a suo tempo allevò il fascismo. A differenza del mondo anglosassone: loro dicono «people», al plurale, per designarsi come comunità di singoli individui; noi diciamo «popolo», al singolare, e in tale sostantivo i singoli annegano in una totalità indifferenziata, in un organismo omogeneo dove conta assai poco l’apporto di ciascuno.
Probabilmente nessuno di questi elementi è sufficiente, di per sé, a catalogare come populista un determinato messaggio politico: devono ricorrere tutti insieme, è la loro somma che contraddistingue il populismo. E il nuovo populismo presenta almeno due caratteri innovativi rispetto alle esperienze precedenti. Anzitutto si è affermato anche un populismo di sinistra (che reclama protezionismo e servizi pubblici) accanto ai populismi di destra (che s’oppongono al multiculturalismo). In secondo luogo vi si coglie un elemento passatista, l’idea che le lancette dell’orologio possano girare al contrario, per sfuggire ai formidabili problemi della modernità. Sono però nuove le cause che spiegano il successo attuale delle parole d’ordine populiste. Possiamo indicarne almeno un paio.
Primo: la globalizzazione, con le sue diseguaglianze. Nel 1820, in base al reddito pro capite, fra il Nord e il Sud del mondo c’era uno scarto di 3 a 1; invece nel 2011 lo Stato più ricco del pianeta, il Qatar, vantava un reddito pro capite 428 volte maggiore rispetto allo Stato più povero, lo Zimbabwe. Questa faglia sotterranea si riproduce tale e quale in ogni Stato, in ogni regione, in ogni città. E l’Italia non fa certo eccezione - anzi, esprime la società più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Da qui la rabbia verso tutte le strutture sociali, dall’economia alle istituzioni.
Secondo: l’accelerazione tecnologica, che spinge folle di lavoratori fuori dal mercato del lavoro, perché sostituiti dalle macchine o perché scavalcati da nuove abilità. Sicché reagiscono con un senso d’angoscia, che reclama scorciatoie, soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la democrazia è una creatura complicata, e a sua volta la semplificazione può ben risolversi in una trappola autoritaria.
Sta di fatto che la comunicazione politica viene dominata da messaggi rozzi, semplificati, e in conclusione demagogici; una categoria (la persuasione demagogica) messa a fuoco fin dai tempi di Aristotele. Anche se, più che Aristotele viene in mente Umberto Eco, con la sua Fenomenologia di Mike Bongiorno. Che «convince il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Sarà per questo che i nostri leader sono diventati populisti, senza sforzi, forse senza neppure averne l’intenzione. È un’inclinazione naturale, mettiamola così.
KANT E L’ORNITORINCO. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e la catastrofe culturale italiana... *
Nel nome di Eco
di Daniele Trematore (Alfabeta2 , 30 settembre 2017)
Per cominciare bisogna andare a scavare nelle pagine finali di alcuni saggi Sulla letteratura. Lì, in un bellissimo scritto autobiografico intitolato “Come scrivo”, Umberto Eco ci dice che narrare è innanzitutto un fatto “cosmogonico”: ha a che fare con la costruzione di un mondo, e solo dopo che questo mondo è stato costruito le parole verranno quasi da sé: rem tene, verba sequentur. Ed è quello che Eco ha fatto prima di scrivere Il nome della rosa, disegnando personaggi e labirinti di un mondo che già conosceva benissimo grazie ai suoi studi medievali, o Il pendolo di Foucault, le cui pagine finali sono venute di getto proprio perché Eco quel momento lo aveva vissuto: il ragazzino piemontese che suona la tromba a un funerale di partigiani era proprio lui. Ed è anche quello che deve essere successo a Claudio Paolucci (docente di Semiotica all’Università di Bologna e già autore di numerosi saggi sulla semiotica interpretativa) quando si è messo a scrivere il suo ritratto di Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura, da poco uscito per la collana “Eredi” di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati.
Quel mondo Paolucci lo ha costruito nel corso del tempo e, in parte, lo ha anche vissuto, visto che per lui Eco è stato “il relatore della mia tesi di laurea, il tutor di quella di dottorato e il maestro di semiotica che avevo sempre sognato”: quel “prof.” che condensava in sé le qualità dei suoi tre più importanti maestri - il rigore e la pedanteria di Pareyson, l’ironia scettica di Abbagnano e la teatralità di Guzzo - e che amava infinitamente stare con i propri allievi anche al di fuori dell’ambiente universitario, magari davanti a un Martini o a un whisky. Che ti poteva addirittura chiedere di tenere un intero corso al suo posto, ma che poi sapeva degnamente ricompensarti con qualche prima edizione, dalla Logica dei Relativi di Peirce alla copia originale della sua tesi sul Problema estetico in San Tommaso d’Aquino. E che, soprattutto, non si tirava mai indietro di fronte alla discussione critica al punto da accettare la tesi “tutta contro di lui” di “un ragazzo di ventiquattro anni con un look che lo disturbava moltissimo” e che smontava punto per punto alcune idee contenute nel suo Kant e l’ornitorinco.
Rem tene, verba sequentur, dicevamo. Ma le pagine di Paolucci (come del resto quelle di Eco) non sono il risultato di una sorta di “magma dell’ispirazione”, bensì di giorni e notti passate a studiare le opere del suo maestro (e dei suoi maestri) che, non a caso, amava insegnare ai suoi allievi che “il talento non porta da nessuna parte senza il lavoro”. Esse, insomma, sono il frutto di quell’“etica lavorativa” che caratterizzava il metodo di lavoro intellettuale e professionale di Umberto Eco (si pensi agli impressionanti ritmi di studio che aveva a Monte Cerignone interrotti soltanto dai pasti o da una nuotata in piscina); e si distinguono per rigore e profondità quando parlano dello studioso - e, aggiungerei, per commozione quando Paolucci rievoca alcuni ricordi e momenti personali dell’uomo.
Facendosi strada tra boschi narrativi e labirinti rizomatici dove incontriamo i temi più cari al nostro, come il riso e la menzogna, la guerriglia semiologica e l’Enciclopedia, questo appassionato ritratto intende offrire una panoramica generale del pensiero di Eco tentando - alla luce della sua autobiografia intellettuale terminata poco tempo prima di morire per la prestigiosa collana “Library of the Living Philosophers” - di fare il punto su un’eredità ancora tutta da valutare.
Innanzitutto Paolucci evidenzia il rapporto tra Teoria e Storia costitutivo dell’opera di Eco - in continua tensione tra Ordine e Avventura, Summa ed Enciclopedia, Forma e Interpretazione - e rielabora completamente quello più tardo tra Teoria e Narrazione che ha impegnato la riflessione di alcuni suoi critici e di cui Eco stesso era da tempo consapevole. Si tratta di due regni metodologicamente separati ma che si nutrono reciprocamente; non a caso, per spiegarne il rapporto, Eco riformulava una famosa frase di Wittgenstein e al posto di “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, diceva “su ciò su cui non si può teorizzare, si deve narrare”. Così, mentre la Teoria è l’arte di risolvere i problemi attraverso lo studio del linguaggio, la Narrazione “mostra” le soluzioni ad alcuni problemi che la Teoria non era in grado di trattare coi propri mezzi. Un esempio di questo rapporto è proprio Il nome della rosa. Per tutta la sua vita Eco ha cercato di scrivere un Trattato filosofico sul Riso, senza mai riuscirci. Il nome della rosa è la versione non teorica di questo trattato. E nelle ultime pagine del romanzo Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos discutono proprio delle teorie sul riso che Eco mette sì in bocca ad Aristotele, ma che in realtà sono le sue. È quindi dal Nome della rosa e non dai saggi di filosofia che apprendiamo le teorie filosofiche di Eco sul riso. Da qui l’idea centrale del libro: secondo Paolucci la filosofia di Eco è una specie di “ornitorinco filosofico”, nel senso cui secondo Eco l’ornitorinco era un animale fatto “con pezzi di altri animali”. Così è la filosofia di Umberto Eco: una filosofia fatta con pezzi di non-filosofia, che Paolucci smonta in vari pezzi, aiutandoci a fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni.
Partiamo da due maschere: quella dell’ironia e dell’erudizione. La prima ci presenta l’immagine di un Eco che scrive filastrocche sulla storia della filosofia e gioca di pastiches letterari (quando non legge i fumetti) e ride della morte, non prima ovviamente di aver tacciato di imbecillità qualche legione di utenti del web. Paolucci vi dedica un intero capitolo (“Il riso e la rosa”) - dando conto appunto di quel Trattato filosofico sul Riso mai scritto, ma già anticipato in saggi come “L’elogio di Franti” - perché l’ironia in Eco è tanto importante quanto l’estrema serietà del lavoro, costituendone quella parte attraverso cui si testano l’Ordine esistente e le teorie consolidate. La seconda, sottolineata sia dai suoi estimatori che dai suoi critici, può essere rappresentata dalla parodia di Fiorello che mostra un Eco coltissimo che finisce per inciampare su errori banalissimi. Ora, è vero che Eco sapeva molte cose, ma non era L’uomo che sapeva troppo e tantomeno quello che sapeva tutto: era semmai l’enciclopedista che sapeva dove andare a cercare le informazioni che gli servivano hic et nunc (di qui si spiega la sua monumentale biblioteca come strumento di lavoro e come raccolta di libri non letti).
Un altro luogo comune smascherato da Paolucci ci porta ad uno dei suoi testi più noti, Apocalittici e integrati del 1964, che molti ancora citano in relazione alle opposizioni più diverse. In realtà in quel libro - che si presentava come il tentativo di giustificare un titolo scelto dal suo editore Valentino Bompiani per una serie di saggi assemblati in fretta per motivi di concorso - non si trattava di spiegare Rita Pavone attraverso Kant né di dire che la filosofia avesse la stessa dignità culturale del fumetto, ma di far vedere come la cultura “bassa” fosse un prodotto di quella “alta” e “di rivoluzionare i prodotti di cultura bassa, criticando le ideologie della cultura alta ed elevandoli a prodotti che abbiano un’effettiva dignità culturale”. Certo, benché intendesse semplicemente “fare il punto su un dibattito ormai maturo”, noi sappiamo che questo libro, analizzando con metodi filosofici e sociologici rigorosi gli oggetti della cultura di massa, ebbe il merito di ridisegnare la geografia della cultura italiana e di allargarne i domini. Ed ecco che arriviamo al luogo comune che riguarda il suo lavoro filosofico, che negli anni è stato “ostracizzato” dai filosofi di professione proprio perché Eco aveva dei rapporti controversi con la cultura ritenuta “bassa” e considerava la semiotica “la forma contemporanea della filosofia” (e non è un caso che nelle celebrazioni seguite alla morte l’Eco filosofo sia stato messo da parte).
Uno dei tanti meriti del libro di Paolucci - che rappresenta una sorta di grande rivoluzione copernicana nella bibliografia su Eco - è quello di restituire giustizia a questo pensiero eminentemente filosofico e, prendendo provocatoriamente a prestito il titolo di un pezzo mai scritto che Eco regalò a Paolucci, diciamo: Occorre rimettere Eco negli scaffali di filosofia.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
UMBERTO ECO E IL POPULISMO DI "FORZA ITALIA". Un’intervista di Marcelle Padovani (2002) e un’intervista di Deborah Solomon (2007).
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!! Un’inchiesta e una mappa.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE E STRUMENTI DEL COMUNICARE. La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e il populismo...*
Populismo digitale o solamente para-fascismo?
di Nello Barile (Doppiozero, 18.09.2017)
Per molti commentatori la “vera” sinistra è davvero poco attrezzata per affrontare le problematiche fondamentali del nostro tempo - come sostenne anni fa anche Christopher Lasch - mentre le uniche formazioni oggi capaci di farlo sono: una sinistra neolaburista che saccheggia politiche di destra importandole nel proprio programma oppure i movimenti populisti che si pongono come forze post-ideologiche ma che, in loro parecchie manifestazioni, assumono posizioni tipicamente di destra. Non è ancora chiaro se tale condizione sia solo di passaggio, ovvero un interregno tra il vecchio sistema e il nuovo, oppure se è già parte del nuovo che ha spazzato via alcune parti del vecchio (come l’idea classica di sinistra).
Tra gli autori che oggi invece confutano tale tesi, Alessandro Dal Lago nel suo Populismo digitale (Raffaello Cortina 2017) propone una critica serrata contro l’alleanza tra globalizzazione e cultura digitale, ma anche contro il populismo che rappresenta un modo sui generis di incrinare tale alleanza e di utilizzare le armi del digitale contro la globalizzazione. Per questo il testo esordisce con due citazioni in esergo che sono talmente stridenti da rendere bene il senso di questo passaggio problematico. Da un lato Antonio Gramsci che definisce la crisi come uno stato di sospensione in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, dall’altro invece Gianroberto Casaleggio con la sua profezia su internet “supermedia che assorbirà tutti gli altri”. Due figure troppo diverse e sostanzialmente contraddittorie: se il primo rappresenta l’essenza intellettuale dell’ethos politico tradizionale, l’altro esprime l’essenza imprenditoriale dell’ethos post-politico.
Un contrasto perfetto che lancia il lettore in un’introduzione molto dinamica e accattivante, in cui la questione chiave del “come moriremo?” (prima democristiani, poi berlusconiani, poi renziani, adesso forse grillini) serve a rendere conto di uno dei temi centrali di tutto il testo: la velocità crescente del cambiamento, la perdita di riferimenti e il sostanziale movimento caotico dell’attuale sistema politico nazionale e globale. L’agente di tale trasformazione è ovviamente il digitale, evocato anche nel titolo e letto qui non tanto in termini deterministici ma come nuovo ecosistema che avvolge e sommerge la vecchia politica, trasformandola in qualcosa d’altro.
Una delle metafore che difatti Dal Lago predilige, riprendendola dal gruppo Ippolita (p. 16), è quella dell’acquario che ci mostra come la libertà assoluta promessa dal web sia a ben vedere recintata nello spazio circoscritto del virtuale, dunque una libertà paradossale.
Per questo motivo egli ricorre al modello cognitivo del doppio vincolo (p. 19) per esaminare la nuova comunicazione politica. Lo stesso modello è, dal mio punto di vista, indispensabile per comprendere la logica dei brand (commerciali, politici, terroristici ecc.).
Nella sua accezione originaria il doppio vincolo indica un difetto di comunicazione tra madre e figlio talché il secondo non è in grado di risolvere la contraddizione che si manifesta tra i messaggi di odio e di amore inviati dalla madre. Questa comunicazione paradossale mina il senso dell’identità dell’infante e può degenerare nella schizofrenia. Alcune espressioni come “La rete sei tu” oppure “Sei libero solo in rete” sono per l’autore eminentemente doppiovincoliste, ovvero utilizzate dai padroni della rete per esercitare un “controllo sulle procedure politiche formalmente democratiche” (ib).
Se è vero che la digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti chiave della globalizzazione (p. 23), a ben vedere la nuova cultura che si produce a partire dal web contiene in sé anche i germi della reazione alla globalizzazione. Per questo la rete è l’ambiente di coltivazione dei populismi contemporanei, non solo di quelli più marcatamente post-fascisti ma anche quelli di sinistra o vocatamente post-ideologici.
L’ascesa del populismo sul palcoscenico della politica globale coincide con lo svuotamento del significato della parola “popolo” (p. 29). Dal Lago offre una rassegna di molteplici interpretazioni moderne di tale concetto, anche per sottolineare la pericolosità di un suo riferimento diretto a una matrice etnica omogenea. Ad essa si contrappongono invece la concezione “morale” di Renan e quella più “finzionale” di Weber, secondo cui appunto “la volontà del popolo non è altro che una delle convenzioni (...) politiche necessarie a legittimare la rappresentanza” (p. 40).
Il dibattito sul populismo è ancora sospeso tra l’idea di una reazione integrale contro “l’espropriazione delle democrazie da parte delle oligarchie politiche” (Revelli 2017) e quella che invece vede la stessa sinistra moderata colpevole di un “tradimento di classe in favore dei diritti umani (LGBT, immigrati ecc.)” (Formenti 2016). Pertanto il populismo rischia di condurre le sinistre in un vicolo cieco, dato che “riconoscere come giuste le ragioni della destra significa legittimarla” (p. 51), in un pericoloso salto mortale in cui l’elettore è tendenzialmente persuaso a scegliere l’originale rispetto alla brutta copia.
La critica dell’autore alla nuova politica pervasa dalla rete si accentua quando si considera il populismo come una realtà immanente alla rete (p. 53). Il modo in cui l’affermazione di internet fa saltare in aria la distinzione tra pubblico e privato - pilastro delle democrazie moderne - ci indirizza verso una dimensione che dal mio punto di vista è definibile come neototalitaria (Barile 2008), in cui il privato è appunto irretito e messo a disposizione del pubblico.
La critica di Dal Lago insiste sulla separazione tra la dimensione virtuale e quella reale (p. 53) e definisce la nuova socialità mediata dalla rete come “disincarnata” rispetto a quella materiale e incarnata nei processi storici. Tra le due ci sarebbe la stessa relazione che intercorre tra pornografia e sessualità. L’idea secondo cui l’utente della rete tende a considerare lo schermo del computer come unica porta d’accesso alla realtà insiste forse su un paradigma obsoleto - da altri definito dualismo digitale - e impedisce di cogliere la totale integrazione tra il livello comunicativo-virtuale e quello della realtà fisica. Un’integrazione che sotto alcuni aspetti può essere ancor più pericolosa delle nuove forme di alienazione imposte dal digitale.
Alcuni temi di questo approccio neocritico alla rete ritornano in un capitolo dal titolo davvero ammirevole: “La realtà come costruzione virale”. In esso si argomenta come l’interazione tra viralità e l’immediatezza del tempo reale impatta sui modi di costruzione/rappresentazione della realtà sociale, modificandola in base alle proprie funzioni.
Per questo motivo Dal Lago riprende i temi di una più generale mutazione antropologica che ha dato vita al “soggetto digitale”, anche se quest’ultimo è ben diverso dal soggetto che ha abitato la cultura e la politica moderna. Molto distante dall’americano medio tipicamente eterodiretto che animava La folla solitaria di Riesman, il soggetto digitale ha semmai un problema di eccesso di autodirezione.
Da ciò deriva anche uno smembramento drammatico del popolo in una molteplicità irriducibile di punti di vista e interessi di gruppi che utilizzano il web per amplificare i propri messaggi: “gli operai del Michigan che hanno votato Trump, gli agricoltori impoveriti del Midwest, gli studenti radicali dei campus, i Latinos, gli attivisti per i diritti LGBT... non possono essere rappresentati, tantomeno unificati da un’idea di medietà” (p. 67). L’unico comune denominatore tra tutti questi è l’essere in vario modo soggetti digitali, che appunto aderiscono alla modalità “disincarnata” d’azione mediata dal web. Dal Lago denuncia la crescente sparizione dei momenti “tradizionalmente sociali” della vita e del dibattito pubblico (p. 68), insieme allo svanimento delle esperienze faccia a faccia in “favore di mere estensioni digitali” (p. 69).
Se è vero che questo processo di desertificazione sociale è una minaccia anche per altri mercati, come ad esempio la moda in cui l’esperienza urbana dello shopping potrebbe essere sostituita totalmente dall’e-commerce e dai sistemi di delivery (l’autore fa l’esempio di Amazon), è anche vero che questo è solo il più radicale e forse meno probabile tra gli scenari possibili (quello che io chiamo “isolation”), mentre invece il più probabile ci racconta di una sostanziale fusione tra mondo digitale e fisico, tra bit e atomi, in nuove modalità d’interazione al contempo reali e virtuali. Dopo un’analisi impeccabile sulla trasformazione sistemica, l’autore torna a insistere sulla dimensione psicologica con immagini che talvolta hanno il sapore di un’altra epoca. Come “la persona in carne e ossa seduta davanti allo schermo” che in tal modo “acquista una seconda identità o meglio perde quella relazionale e sociale a favore di una virtuale” (p. 73).
Il discorso di Dal Lago si mostra molto più efficace nella disamina delle pratiche linguistiche concrete, come nel caso dell’analisi degli articoli e dei post che alimentano il dibattito online e offline sull’immigrazione. La stessa trasformazione della dialettica politica a opera di trolls, haters ecc. dimostra questo cambiamento qualitativo del dibattito pubblico, dato che certe espressioni offensive non potrebbero essere usate in una situazione “reale” senza degenerare nello scontro fisico. Cosicché, come anche Mark Thompson (2017), Dal Lago denuncia il fatto che “lo stile prevalente dei dibattiti online sta creando una cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale” (p. 84).
Di particolare interesse sono le pagine in cui si elencano le caratteristiche del fenomeno squisitamente televisivo del peronismo, per confrontarle con quelle dei diversi digital-populismi di oggi. Una riflessione che consente all’autore di introdurre il concetto di para-fascismo, riferito specialmente al Movimento 5 Stelle, dalla “arroganza bislacca del capo” alla sua “passione per i plebisciti e per le performance sportivo-pubblicitarie” (p. 113).
Tale definizione ha ovviamente fatto risentire gli attivisti e i simpatizzanti del Movimento che, in una sorta di chiusura del circuito, hanno risposto con toni polemici sul profilo Facebook dell’autore. A differenza di altri studiosi di sinistra che stanno rivalutando il discorso populista con maggiore cautela - come Carlo Formenti ne La variante populista che insiste molto più sulla reazione del populismo contro il comune nemico della finanza globalista - Dal Lago non concede alcuna legittimazione né alla retorica, né alla pretesa neutralità post-ideologica del populismo, insistendo invece sulla sua matrice identitaria e autoritaria, propria dell’ideologia forte che lo ha preceduto.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore"
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ).
Federico La Sala
Fino a che punto possiamo interpretare?
Da Foucault a Eco
di Francesco Bellusci (DoppioZero, 05 marzo 2017)
Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità. Nietzsche, nel saggio, è in compagnia degli altri “maestri del sospetto”, Marx e Freud, che, a differenza di Ricoeur, non sono visti da Foucault tanto come coloro che dubitano della coscienza trasparente a se stessa, di cartesiana memoria, e l’allargano demistificandone i pregiudizi o i condizionamenti che su di essa operano l’ideologia borghese, le pulsioni libidiche o i valori della tradizione morale e metafisica. Gli autori della Nascita della tragedia e della Genealogia della morale, del Capitale e dell’Interpretazione dei sogni non mettono in campo un soggetto che accede a una verità più profonda di se stesso, ma un nuovo sistema di interpretazione, una nuova possibile ermeneutica, che coglie il senso profondo nell’esteriorità, che decifra, cioè, i segni disposti sulla “superficie” dei rapporti di produzione, dei sintomi e dei lapsus, delle pulsioni vitali alla base di sentimenti morali, idee, valori, che trascendono il soggetto e lo costituiscono. Ma, nello stesso tempo, Marx, Freud e Nietzsche, che fa da capofila in questo, ci consegnano questo compito dell’interpretazione come infinito, senza la possibilità di un compimento che attinga un’origine o un fondamento ultimo. Infatti, scrive Foucault, “se l’interpretazione non può mai giungere a compimento, è semplicemente perché non c’è niente da interpretare. Non c’è niente di assolutamente primario da interpretare, perché in fondo, tutto è già interpretazione, ogni segno è in se stesso non la cosa che si offre all’interpretazione, ma interpretazione di altri segni”.
Quindi, ogni interpretandum è di per sé già intepretans. Così, Marx interpreta i meccanismi del capitalismo interpretati come “naturali” dall’economia politica classica; Freud scopre dietro i sintomi non traumi originari ma fantasmi carichi di angoscia, che sono già nodi interpretativi. In questa prospettiva, l’interpretazione è obbligata ad auto-interpretarsi sempre e a investire l’interprete stesso, chi ha posto l’interpretazione, in un gioco di rimandi speculari e di inversioni (ma anche di lotte), per cui, se Marx ha ragione, Nietzsche è un fenomeno della borghesia del suo tempo, oppure, se Freud ha ragione, bisogna indagare l’inconscio di Nietzsche. E così via. Pertanto, se l’interpretazione precede il segno e il segno è già un’interpretazione che non si dà come tale, “la morte dell’interpretazione - concludeva Foucault - è credere che ci sono dei segni che esistono primariamente, originariamente, realmente, come marche coerenti, pertinenti e sistematiche. La vita dell’interpretazione, al contrario, è credere che non ci sono che interpretazioni.
Mi sembra che bisogna comprendere bene questa cosa che troppi nostri contemporanei dimenticano: l’ermeneutica e la semiologia sono due feroci nemiche. Una ermeneutica che si pieghi di fatto su una semiologia crede all’esistenza assoluta dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni, per far regnare il timore dell’indizio, e sospettare il linguaggio. Riconosciamo qui il marxismo dopo Marx. Al contrario, un’ermeneutica che si avvolge su di sé entra nel campo dei linguaggi che non cessano di auto-implicarsi, la regione mitica della follia e del puro linguaggio. È qui che riconosciamo Nietzsche”. Si può dire che, per Foucault, l’evento della filosofia nietzschiana non coincideva con l’ultimo atto della storia della metafisica, secondo la nota lettura di Heidegger emersa in quegli anni, ma nell’approdo più consapevole e coerente di due “sospetti” che hanno sempre accompagnato le culture indo-europee: il sospetto che il linguaggio voglia dire altro rispetto a ciò che dice e il sospetto che ci sia linguaggio all’infuori del linguaggio. Fedele fino alle estreme conseguenze al “lieto messaggero” della morte di Dio, che decretò anche la fine della “cosa in sé” e dell’esistenza dei fatti in nome del gioco infinito e conflittuale delle interpretazioni, Foucault opponeva allora l’ermeneutica, con il suo portato demolitore rispetto alla concezione della verità come corrispondenza alle “cose” fuori di essa, alla semiologia di stampo desaussuriano, dove c’è un codice a stabilire l’equivalenza tra segno e significato già dati.
Sempre alla fine degli anni sessanta, Umberto Eco avviava però gradualmente una rifondazione della semiotica, facendo riferimento non tanto a De Saussure ma a Peirce, lungo la parabola che lo porterà, da La struttura assente (1968) al Trattato di semiotica generale (1975), a vedere nel segno ciò che interpreta un altro segno, a sua volta ancora interpretabile, in un processo illimitato di semiosi, che coinvolge sempre triadicamente il segno, l’oggetto e l’“interpretante”, inteso come costrutto culturale o convenzione socialmente pattuita. Ma, a differenza del Foucault di Royaumont, questo percorso conduce Eco a ritenere che la condizione di possibilità dell’ermeneutica stia nei limiti che l’essere o il reale pongono al discorso interpretativo piuttosto che nella loro assenza: “Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura nella sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che c’è un Limite” (Kant e l’ornitorinco, 1997). Infatti: davvero non c’è “nulla” da interpretare e non si dà mai un interpretandum? Davvero l’interpretazione è sempre risucchiata in un circolo infinito nel quale può solo riprendere continuamente se stessa e generarsi, per così dire, per partenogenesi? Se non c’è una “realtà” che si offra all’interpretazione per essere decifrata nel suo senso ultimo, non c’è forse almeno una realtà che c’impedisce certe interpretazioni e certi percorsi di senso?
È proprio quest’ultima, infatti, la tesi di Umberto Eco. Una certa conformazione del nostro corpo c’impedisce d’interpretare il cacciavite come qualcosa di utile per grattarci un orecchio; l’esperienza c’impedisce di interpretare un grave come qualcosa capace di muoversi alternativamente verso il pavimento o il soffitto della nostra casa (lo può fare un poeta, ma in riferimento a un mondo possibile). In questi casi, il reale si oppone e resiste a certe nostre interpretazioni, che dovranno prendere altre direzioni; in altri termini, non c’è una “cosa in sé”, ma di sicuro si manifesta una “cosa che dice no”. In conclusione, per Eco, “ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette” (Di un realismo negativo, 2012).
Ma a parte la differenza sul modo di intendere, in senso assoluto o limitato, il compito infinito dell’interpretazione, è indubbio che entrambi, Foucault ed Eco, hanno incarnato con il loro lavoro non solo scientifico, ma giornalistico, civile e politico, due esempi di quel “coraggio di dire il vero”, inteso come abito intellettuale e comportamentale, di quello stile parresiastico, in attrito con il “vero” imposto dai poteri dominanti e dall’ordine del discorso, a cui Foucault s’interessò anche nei suoi lavori genealogici, durante i corsi al Collège de France, poco prima della morte.
Questo sì, da intendere a maggior ragione come un compito infinito, per Foucault, perché, come dichiarò in una delle sue ultime interviste, “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” (Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984).
L’undicesima domanda a Silvio Berlusconi
L’ex Cavaliere, ottanta anni il 29 settembre, adesso è fuori gioco. Nel 2009 le 10 domande al Cavaliere di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. E oggi è il tempo di porne un’altra
di Ezio Mauro (l’Espresso, 26 settembre 2016)
L’Undicesima domanda arriva alla fine del tempo, quando si è chiuso il baldacchino della politica, oltre lo scontro tra destra e sinistra, fuori dai calcoli delle competizioni elettorali e dopo la grande partita per il potere. Quella partita durata vent’anni tra Berlusconi e la sinistra è finita: il Cavaliere è fuori gioco, la sinistra non sa a che gioco deve giocare.
Ci accorgiamo che quelle due anime perimetravano il campo, lo definivano e a noi assegnavano il posto sugli spalti per uno dei più grandi spettacoli politici del dopoguerra. Adesso il campo è vuoto, e come tutti gli spazi abbandonati è preda di incursioni casuali, episodiche, quasi aliene. Senza passione. Bisogna ammettere che l’ultima grande passione politica, per metà del Paese, è stato lui. E l’altra metà si è appassionata altrettanto all’idea di contrastargli il passo, cercando di fermare il piano di conquista di quello che era in quel momento l’uomo più potente d’Italia.
Era già tutto pronto anni prima che l’avventura incominciasse ufficialmente. Due anni prima, quando lavoravo a Torino alla "Stampa", l’avvocato Agnelli, editore del giornale, mi disse che avevamo un invito a pranzo ad Arcore con l’imprenditore televisivo Berlusconi e ci saremmo andati insieme, come capitava talvolta con uomini d’impresa ma anche con Luciano Lama. Poi ci fu un contrattempo, e mi presentai da solo.
Il pranzo che doveva essere a quattro diventò a tre, con il Cavaliere che non conoscevo e Fedele Confalonieri. Parlammo di tutto e di niente, in modo aperto e sciolto. Tanto che a un certo punto domandai: «Ho sentito dire che sta pensando di candidarsi a sindaco di Milano, è vero?». Mi rispose con un gesto infastidito della mano: «Una sciocchezza». Poi mi domandò quante lettere riceveva ogni giorno "Specchio dei tempi", la rubrica di dialogo coi lettori della "Stampa". Più di cento, risposi, pensando che avesse voluto cambiare discorso. Invece lo riprese: «Sa perché glielo chiedo? Perché io ricevo duecento lettere al giorno e sono delle massaie, felici perché ho regalato loro la libertà con le mie televisioni che guardano al mattino mentre fanno i mestieri, come si dice qui a Milano quando si rigoverna la casa. Bene, se pensassi di entrare in politica, io non farei il borgomastro di Milano ma fonderei un partito reaganiano, punterei proprio su quel mondo, prenderei la maggioranza dei voti e governerei il Paese».
Una sorta di "Bum!" silenzioso risuonò nella stanza, attorno al tavolo dov’eravamo seduti con le finestre aperte. A me quella frase entrò da un orecchio e uscì dall’altro, pensai a una boutade estemporanea, un paradosso gratuito, come se Renzi mi dicesse oggi che pensa di fare il centravanti nella Fiorentina. E infatti quando Agnelli chiamò in macchina per sapere se c’era qualche curiosità in quell’incontro gli raccontai la conversazione, saltando quel piccolo particolare. Glielo avrei ricordato due anni dopo, d’urgenza, quando sullo sfondo di una politica disastrata si avvertivano i primi scalpiccii berlusconiani misteriosi, le voci di vertici segreti a Publitalia, la rete di uomini di Dell’Utri, le simulazioni strategiche e coperte con i giornalisti del gruppo, i sussurri di qualche navigatore democristiano di lungo corso che cercava una scialuppa di salvataggio dopo il grande naufragio, una cena al Cambio con imprenditori torinesi a cui era stato raccontato tutto chiedendo il silenzio come nelle sette, nelle operazioni di marketing, nei blitz militari.
Io sapevo, anche se non avevo capito nulla. Non avevo considerato che il vuoto chiama il pieno. Che nella grande desertificazione della politica italiana dopo il suicidio di partiti centenari con le tangenti tutto era prosciugato, meno il deposito elementare ma identitario dell’anticomunismo, catalizzatore e collante istintivo: a patto che qualcuno fosse capace di riportare l’istinto in politica dopo l’uniformità scolastica degli anni democristiani e la rigidità monumentale della piramide comunista. Non avevo creduto possibile, soprattutto, che una creatura politica nuova potesse nascere dal nulla, dagli spettri del caos come direbbero i russi, senza il seme di una tradizione culturale, la selezione di un’élite allargata, la rappresentanza esplicita di una base sociale riconoscibile e riconosciuta.
Eppure, il Cavaliere senza accorgersene mi aveva consegnato il bandolo, la scintilla identitaria con quell’aggettivo buttato sul tavolo dopopranzo: reaganiano. Non democristiano, o moderato, o conservatore o liberale. No: reaganiano. Qualcosa di sconosciuto alla politica italiana, ma qualcosa che contiene il vero elemento fondante dell’intera operazione. L’outsider che in Italia come in America viene da un altro mondo, e guarda caso è il mondo dello spettacolo che dà la temperatura del rapporto con la folla, abitua ai riflettori, evoca intorno a sé un’avventura più che un progetto, in un paesaggio smart di successi, denaro e sorrisi.
La politica - per Reagan come per il Cavaliere - scoperta in età matura, come un’incursione estranea, senza l’imprinting originario dei professionisti. Proprio per questo, il tocco permanente del grande dilettante che non conosce il vocabolario istituzionale ma sa sfiorare perfettamente i tasti (basta leggere Lou Cannon, il biografo del presidente americano) dell’emozione popolare in ogni occasione, presentandosi come uomo nuovo, estraneo ai professionismi degli apparati. E infine, il nocciolo duro di quell’aggettivo: il profilo reaganiano disegnava fin dall’origine un progetto di destra, destra popolare ma destra vera, che dopo la mediazione democristiana puntava direttamente al comando, più che al governo.
La “rivoluzione conservatrice” non c’è stata. E anche la sinistra non è stata all’altezza del suo compito storico Naturalmente i denti d’acciaio (con cui il vecchio Gromiko misurava la durezza dei candidati alla guida del Cremlino) erano ben nascosti dentro il sorriso televisivo del Cavaliere, la cui iniziazione è insieme una grande dissimulazione. Deve nascondere i debiti che pesano come una macina al collo dell’azienda («ci vogliono vedere sotto un ponte», diceva allora Confalonieri), il debito politico dell’impero televisivo al Psi per le leggi che hanno consentito alla tv privata il volo nell’etere di Stato, la filiazione diretta del personaggio pubblico Berlusconi dal Caf, l’alleanza d’agonia della Prima Repubblica tra Craxi, Andreotti e Forlani, la macchia imprenditoriale nascosta (i tribunali l’accerteranno più tardi) del grande furto della Mondadori, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978, e soprattutto le obbligazioni sotterranee che ne derivano. Proprio queste fragilità e queste ambiguità celate dietro i mausolei berlusconiani auto-eretti consigliavano prudenza ai personaggi più vicini al Cavaliere, secondo un modello democristiano teorizzato da Confalonieri: non vale la pena di gettarsi in politica in prima persona correndo il rischio di rompersi l’osso del collo, anche perché con tre televisioni basta avere pazienza, verrà la politica a cercare il becchime nella tua mano.
E invece proprio qui c’è il rovesciamento delle aspettative, il ribaltamento delle convenienze. Il Cavaliere si dimostra uomo d’avventura, l’egolatria fino a quel momento tenuta a bada lo trascina ad un protagonismo diretto e gli fa puntare l’intera posta su una nuova partita, dopo quella immobiliare, quella editoriale, quella televisiva: la politica, o meglio il comando, soprattutto il potere. La politica vista come il cuore del potere, ben più che il cuore dello Stato, qualcosa da conquistare più che da governare. C’è in questo la "pazzia" di cui parla Giuliano Ferrara, che tradurrei con l’azzardo di pensare l’impensabile, crederci costringendo gli altri a credere nell’incredibile realizzandolo prima ancora di renderlo plausibile. Farlo senza adattare la propria natura estranea alle regole auree e comunemente accettate del sistema, ma anzi deformando quelle regole e quelle modalità secondo la propria natura. Siamo a un passo - magari senza saperlo - da Carl Schmitt, secondo cui il vero sovrano non è il garante dell’ordinamento esistente ma è colui che crea un nuovo ordinamento decidendo sullo stato d’eccezione.
Mi sono sempre chiesto, in tutti questi anni, quanto tutto ciò fosse puro istinto di destra - destra reale, realizzata, come c’era il socialismo reale - e quanto invece progetto teorico dissimulato nel rifiuto del "culturame", ma in realtà accumulato con cura. Certo, l’istinto di classe ha convinto fin dall’inizio il Cavaliere a puntare sul ceto medio emergente proponendogli di mettersi in proprio per diventare finalmente soggetto politico, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato. Il progetto lo ha spinto a evocare un vero e proprio sovvertimento della classe dirigente, quasi una ribellione dei garantiti, perché c’è sempre un’élite più o meno ristretta contro cui mostrarsi ribelle. Il calcolo gli ha suggerito di infilarsi nella breccia aperta da Mani Pulite, nel solco della prima seminazione di antipolitica della Lega, e di radunare queste incoerenze sotto il doppiopetto miliardario, paradossalmente credibile proprio perché rivestiva un outsider rispetto all’aristocrazia delle grandi famiglie industriali cresciute nel fordismo e nell’acciaio, che lo consideravano imprenditore dell’immateriale e lo tenevano in fondo al tavolo. Ancora l’istinto barbaro e redditizio lo ha spinto a consigliare al cittadino di disinteressarsi dello Stato cercando un demiurgo, nascondendogli che su questa strada lo Stato avrebbe finito per disinteressarsi di lui, perché quando la sua libertà non si combina con la vita degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta esclusivamente individuale, separato, lui diventa un’entità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.
Ma questo paesaggio misto, abitato da solitudine e ribellione, era in realtà lo scenario perfetto di un esperimento del tutto nuovo per l’Italia e per le democrazie occidentali. Era nella mia stanza il direttore di un grande giornale europeo, a dicembre del 1994, mentre sul video subito dopo il telegiornale scorrevano riflessi negli addobbi rotondi e lucenti di un gigantesco albero di Natale le immagini di un Berlusconi sorridente, magnanimo, circondato dai bambini su un prato, mentre accarezzava i cani, o alzava le coppe vinte dal Milan. Mascherati da innocenti auguri di Natale erano i primi spot subliminali di un’avventura politica del tutto nuova. «Il solito italiano», disse il mio amico, «manca soltanto la chitarra o il mandolino». Naturalmente arrivarono, insieme all’iperrealismo di una bandana sulla fronte. Ma era tutt’altro che il volto di un arcitaliano, quello che stavamo vedendo: piuttosto l’inizio di un esperimento che l’Europa non aveva ancora conosciuto, e che in questi anni non ho saputo chiamare altrimenti che neo-populismo, qualcosa di modernissimo e primitivo insieme, con la sua neolingua e una dilatata dismisura.
Ottimismo ad ogni costo, poiché le mani del demiurgo sono sul timone, soluzioni semplici davanti a problemi complessi (l’efficacia del "puerilismo", come lo chiamava Huizinga), invulnerabilità assoluta, tanto che le sconfitte sono sempre colpa di una truffa o di un inganno sopraffattore, in modo che il leader esca comunque dalla prova innocente, magari ferito ma superstite, nel cerchio intatto del carisma perenne. È un investimento sull’indebolimento dello spirito critico, a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura eroica. Il cittadino viene autorizzato a farsi i fatti suoi, elevati a cifra privata della nuova dimensione pubblica. In cambio il leader gli parlerà direttamente saltando ogni intermediazione partitica, istituzionale, politica, e mentre provvederà alla guida del Paese gli chiederà soltanto una vibrazione costante di consenso, e una delega elettorale periodica e fissa. Principio e fine di tutto questo, l’evocazione di una destra che il Paese nel dopoguerra non aveva conosciuto, perché il filtro democristiano drenava al centro gli istinti post-fascisti del Paese. Berlusconi ha fatto l’opposto, radicalizzando a destra una propensione politica sconosciuta a se stessa, camuffata e scusata dal doroteismo di potere, liberandola nella sua vera natura. Una destra sdoganata con un progetto puramente elettorale e non culturale, senza chiedere revisioni e abiure, con la complicità dell’intellettuale italiano strabico, che per vent’anni (fino al declino del nuovo potere col calcio dell’asino) non ha usato a destra la pedagogia liberale impiegata giustamente a sinistra con il Pci.
Il mix ha funzionato tre volte, perché il fuoco in pancia del Cavaliere lo ha trasformato in uno straordinario campaigner (salvo quando ha incontrato Romano Prodi), tanto quanto è risultato sempre un pessimo uomo di governo. A Palazzo Chigi quel fuoco si è ogni volta spento e tra le ceneri brillavano fisse le quattro anomalie del Cavaliere rispetto a qualsiasi moderna destra occidentale: le leggi ad personam, il conflitto d’interessi, lo strapotere economico che gli consentiva di comperare i deputati a grappoli, lo strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso. A un certo punto l’uomo della grande avventura diventava un avventuriero, fino al punto di usare l’esecutivo per piegare il legislativo a fermare il giudiziario, con buona pace di Montesquieu. Le coalizioni assemblate senza il crogiuolo di una fusione culturale capace di dare al Paese una destra moderna, ogni volta si sfaldavano perdendo prima Bossi, poi Casini, quindi Fini, con gli intellettuali che se n’erano già andati. Infine la vicenda giudiziaria prese il sopravvento. Lui teorizzò la decapitazione per via processuale. In realtà aveva imposto una tale torsione al sistema che eravamo giunti al dubbio estremo: se la legge era ancora uguale per tutti, oppure no, nel suo unico caso.
Anche qui, la concezione carismatica del populismo era perfettamente coerente con il rifiuto di essere giudicato, anzi con la giustizia vista come sopruso. Il leader unto dal Signore col voto popolare infatti risponde solo al popolo, ed è per questa sua stessa speciale natura insofferente ad ogni controllo, costituzionale da parte delle autorità di garanza, politico da parte del parlamento, di legalità da parte della magistratura. La legittimità dell’investitura assorbe la legalità fino a soffocarla nell’irrilevanza, l’annulla subordinandola. Ma proprio la specialità di questa eccezione - ecco il punto - rende oggi impossibile sciogliere il nodo gordiano del dopo-Berlusconi.
Politicamente, la sua creatura è ancora irrisolta così com’è nata per conquistare il potere e non per cambiare il Paese, ferma al bivio tra moderatismo e radicalità. Leaderisticamente, bisogna prendere atto che ogni successione nel senso democratico e moderno del termine è nei fatti impossibile perché Crono divora ogni possibile figlio tanto che si è davvero pensato al passaggio dinastico come unica soluzione, in quanto avrebbe trasmesso integrale il conflitto d’interessi insieme con il dna familiare, perpetuando l’anomalia berlusconiana nella contemplazione perpetua del peccato originale.
Siamo davanti alla metafisica di sé, con un’avventura straordinaria che consuma se stessa replicandosi ogni giorno in sedicesimo, come una condanna infernale, ormai fuori dal tempo. E guardando quel poco che resta, da qui nasce l’undicesima domanda: Cavaliere, ne valeva la pena?
Eco non sa più giocare
di Goffredo Fofi *
Anche Eco invecchia e ci dispiace, perché qualcosa da lui si ebbe da imparare, in passato. Non riesce più a incuriosire e a divertire e sembra non divertirsi neanche lui, nell’inventare mirabolanti avventure di modello ottocentesco, storiche o pseudo-storiche. Sembra non saper più giocare - con il romanzo, con i segni, con la storia - usando l’ironia e la distanza di una volta.
Numero zero è uno sciatto romanzo su una cospirazione nell’ombra di fatti storici molto reali e sanguinosi - le trame nere, da Salò ai nostri giorni, fino al 1992 - raccontata però in chiave di fumetto, tra Diabolik e la Spectre di James Bond. Il punto di partenza è che il Mussolini ammazzato dai partigiani era un sosia, lui è fuggito in Argentina. Si spiega il disastro italiano con un dietrismo ossessivo, certo in parte giustificato, ma narrando la cospirazione Eco vede solo certi poteri e sorvola su altri.
Il suo filo nero corre dentro una stantia vicenda di giornalismo trash, è la storia raccontata da un giornalista visionario, condita di paradossi alla Accadde domani e di spiegazioni su come il giornalismo imbraca e manipola notizie e opinioni. Eco ansima tra citazioni e digressioni, rimastica e si balocca, e il suo romanzo risulta, alla fine, tanto inutile e insipido quanto le caramelle di Carofiglio. In confronto Camilleri è un genio.
*
Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2015 a pagina 74 di Internazionale, con il titolo “Eco non sa più giocare” - 28 GEN 2015.
NEL PERICLE DI TUCIDIDE Una critica dissimulata della retorica democratica e della violenza imperiale
LA CONDANNA DI SOCRATE Calpestate le forme alte di arte e cultura eliminando gli uomini che le incarnano
Atene, il vizio d’origine della democrazia
Corruzione, cattivo governo, repressione del dissenso: nel suo nuovo libro Canfora smonta il mito del sistema politico-sociale inventato 2500 anni fa
L’orazione funebre di Pericle per i caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso, che impegnò Atene e Sparta per quasi trent’anni, dal 431 al 404 a.C (dipinto di Philipp von Foltz).
«Il nostro sistema politico», disse in quella occasione il leader della democrazia ateniese, secondo quanto riporta Tucidide, «non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza».
«La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse», ribatteva l’antidemocratico Platone nella parodia di quell’epitafio affidata nel Menesseno alla voce di Aspasia
di Silvia Ronchey (La Stampa, 19.12.2011)
Che cos’è la democrazia? Noi occidentali viviamo convinti che sia «la peggiore forma di governo, a eccezione di tutte le altre sperimentate», secondo il detto reso famoso da Churchill. Al punto che ci adoperiamo spesso per «esportarla», dando per scontato che quel «potere di tutto il popolo» che la parola etimologicamente indica non sia un mito, un equivoco, una costruzione retorica o propagandistica diversamente declinata a seconda delle epoche, ma esista come realtà e come tale si applichi. Anzitutto nel mondo greco in cui nacque e nella politica di una polis di 2500 anni fa: Atene.
Eppure già Tucidide definiva il lungo governo di Pericle «democrazia solo a parole, ma di fatto una forma di principato». Che cos’era dunque la democrazia per i suoi antichi inventori? Le frasi in cui Tucidide parafrasa e in parte ricrea il cosiddetto epitafio di Pericle tradiscono in realtà una cupa ironia e una neppure troppo recondita critica della retorica democratica e di quella «violenza imperiale esercitata dagli ateniesi ovunque nella terra» attraverso la demagogia, che certo il primo accurato diagnosta delle convulsioni della politica non avrebbe mai menzionato come lode. Ma a lungo sono state prese alla lettera da chi non ha saputo riconoscervi quel fondersi di critica del potere e simulato encomio che dall’antichità a Bisanzio, fino a Stalin, intesse i discorsi dell’intelligencjia.
È a questo primo chiarimento che Luciano Canfora affida l’esordio del risolutivo Il mondo di Atene (Laterza, pp. 518, 22), vera summa di tutto ciò che si dovrebbe sapere sulla cosiddetta democrazia ateniese; e dunque sulla democrazia tout court nel suo scenario primo. Un micidiale dossier che documenta con sistematica chiarezza le tesi di Canfora, già autore, sul tema, di rigorose analisi talvolta mascherate da pamphlet.
«La chiamano democrazia ma in realtà è un’aristocrazia con l’appoggio delle masse», chiariva l’antidemocratico Platone nella feroce parodia dell’epitafio di Pericle affidata nel Menesseno alle labbra di Aspasia. Ma è nel breve dialogo Sul sistema politico ateniese, tradizionalmente attribuito a Senofonte, in realtà opera di Crizia, che Canfora indica «il vero e proprio antiepitafio» di Pericle, dove tutti i punti toccati dal tradizionale elogio «vengono capovolti e presentati nella cruda luce della sopraffazione quotidiana di cui si sostanzia il sistema politicosociale ateniese» per mostrare che la democrazia di Atene «è in realtà violenza di classe, cattivo governo, regno della corruzione e della sopraffazione anzitutto in tribunale, regno dello spreco e del parassitismo», e che calpesta le forme alte di cultura e d’arte «con l’eliminazione stessa degli uomini che le incarnano».
È questo il punto in cui anche le più devote espressioni di fede dei moderni nella democrazia, basate sull’esperimento ateniese, si incagliano. Quasi per una nemesi prometeica, «Atene», scriveva Moses Finley in La democrazia degli antichi e dei moderni, «pagò un prezzo terribile: la maggiore democrazia greca diventò soprattutto famosa per avere condannato a morte Socrate». E suquesto punto - la repressione del dissenso - si arena, simmetricamente, anche la scuola opposta, quella che esaltala moderna democrazia proprio in virtù della sua distinzione rispetto all’antica. Benjamin Constant, fondatore all’inizio dell’Ottocento di questa dottrina, nel discorso Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni sottolineava che l’antica idea di libertà era limitativa in primo luogo del diritto alla fruizione della ricchezza; ma al tempo stesso riconosceva che l’egemonia della «repubblica commerciale» ateniese (Montesquieu) nasceva proprio dalla circolazione della ricchezza. Nell’ammettere dunque che «tra tutti gli Stati antichi Atene è quello che riuscì più simile ai moderni», tanto meno rassicurante gli appariva che la più «moderna» delle democrazie antiche fosse la città dell’ostracismo, della censura, del suicidio coatto di Socrate.
È il primo dei nodi cruciali del trattato di Canfora: la polarità istituita da Constant (e sulla sua scia dai politologi moderni) tra una «libertà oppressiva» (la democrazia antica) e la «libertà libera» dei moderni, «si sfascia quando si tratta di Atene. È lì che il teorema si inceppa perché Atene è le due cose insieme». È libertà oppressiva: schiavista, tra l’altro, come già sottolineato da Tocqueville e come ribadito a oltranza dalla storiografia marxista. Ed è insieme libertà «libera» nel senso moderno: basata sul diritto alla fruizione della ricchezza e perciò esposta a tutto ciò che ne consegue, tra cui l’inevitabile deriva imperialista (fondamento del benessere sociale anche nella lettura socialista di Arthur Rosenberg) e il suo sfociare in oligarchia finanziaria, se non in dittatura finanziaria.
È molto più vasta la ricognizione del mito della «democrazia» ateniese che Canfora conduce attraverso le sue metamorfosi, attualizzazioni, consapevoli e inconsapevoli strumentalizzazioni nelle diverse fasi del dibattito storico e filosofico moderno e contemporaneo, per poi rispalancare al lettore, vaccinato dalla credulità, l’accesso pieno all’antichità, ai suoi conflitti palesi o segreti. Per far rivivere, sul palcoscenico dell’antico dramma ateniese, quella remota «scena primaria» che l’ambigua parola democrazia insieme sigilla e preclude. Per rintracciare la vera origine del distorto mito della democrazia ateniese nella politica non più della Grecia ma di Roma: nell’esigenza romana di screditare il grande e comune avversario macedone. L’integrazione tra Oriente e Occidente e le altre epocali innovazioni dell’impero di Alessandro, intuite da Cesare e Antonio, sarebbero continuate in Bisanzio. Rinnegate dalla reazione augustea, la loro eclissi avrebbe lasciato al medio e poi al moderno evo europeo una livida eredità di guerre barbariche, nazionalismi e conflitti etnici, non ancora estinta.
Pericle. Il suo discorso agli ateniesi come esempio di malafede
di Umberto Eco (la Repubblica, 14 gennaio 2012)
Si stava celebrando in piazza del Duomo, strapiena di festanti, la vittoria di Pisapia alle amministrative, si succedevano sul palco politici, cantautori, attori, artisti, e uno dei nostri comedians più bravi mi stava dicendo che andava a leggere il discorso di Pericle agli ateniesi, come elogio della democrazia. Io gli avevo detto: "Stai attento, perché Pericle era un figlio di puttana". Lui aveva preso il mio giudizio come una boutade, aveva riso, ed era salito. Dopo, quando era disceso, mi aveva detto: "Sai, mentre leggevo mi accorgevo che avevi ragione".
Pericle era un figlio di buona donna o, come avrebbero detto ai suoi tempi, per esprimersi in modo più gentile, figlio di una etera. Non più di tanti altri politici e, tanto per dire, Machiavelli lo avrebbe ampiamente giustificato, per carità. Ma il suo discorso agli ateniesi è un classico esempio di malafede.
All’inizio della prima guerra del Peloponneso, Pericle fa il discorso in lode dei primi caduti. Usare i caduti a fini di propaganda politica è sempre cosa sospetta, e infatti sembra evidente che a Pericle i caduti importavano solo come pretesto: quello che egli voleva elogiare era la sua forma di democrazia, che altro non era che populismo - e non dimentichiamo che uno dei suoi primi provvedimenti per ingraziarsi il popolo era stato di permettere ai poveri di andare gratis agli spettacoli teatrali. Non so se dava pane, ma certamente abbondava in circenses. Oggi diremo che si trattava di un populismo Mediaset.
Ricorda Plutarco (Vita di Pericle) che "Pericle governando si dedicò al popolo, preferendo le cose dei molti e poveri a quelle dei ricchi e pochi, contro la sua natura che non era affatto democratica". Vale a dire, se le parole hanno un senso, che, aristocratico di buona condizione economica, era attaccato alla sua classe ma usava il ricorso al favore popolare come strumento di potere. Al punto tale che, visto che Cimone, più ricco di lui, spendeva un sacco di soldi suoi per iniziative popolari, ne aveva intraprese altrettante, ma coi soldi pubblici.
Ricorda ancora Plutarco che secondo molti a causa di queste elargizioni senza criterio il popolo fu abituato male e divenne dissoluto e spendaccione anziché moderato e lavoratore. Non solo, ma in certe occasioni Pericle aveva usato i beni pubblici per le sue elargizioni demagogiche, così che "avendo allentato le redini del popolo, si occupava di politica per ingraziarselo, provvedendo che in città ci fosse sempre qualche spettacolo pubblico, o banchetto o processione, intrattenendo la città con piaceri non rozzi, inviando sessanta triremi ogni anno, sulle quali molti cittadini navigavano stipendiati per otto mesi, praticando e insieme imparando l’arte nautica. (...)
Pericle, che si voleva campione di democrazia, non poteva usare con gli ateniesi la forza, ma doveva richiederne il consenso, e per ottenere il consenso popolare non è indispensabile essere nel giusto, basta usare delle accorte tecniche di persuasione. E Pericle si era allenato sin da giovane ad essere oratore convincente ed affabile, che sapeva sostenere anche fisicamente la sua fama di persona affidabile, visto che, come ci dice ancora Plutarco "non solo ebbe una mente grave e un linguaggio elevato immune da volgare e comune loquacità, ma anche l’espressione del volto inflessibile al riso, la mitezza dell’andatura e la decenza della veste che non si agitava per alcun trasporto nel parlare, la modulazione quieta della voce".
Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell’educazione, la tensione verso l’uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle?
Prima naturalmente fa portare in scena le bare (in cipresso) dei caduti, compresa una per quella che chiameremmo oggi il Milite Ignoto, poi così parla: (...) «Io, dato che non voglio fare lunghi discorsi, lascerò perdere, fra questi fatti, le imprese compiute durante le guerre, grazie alle quali furono conquistati i singoli possedimenti, o quando noi o i nostri padri respingemmo con valore il nemico barbaro o greco che ci attaccava (...). Utilizziamo infatti un ordinamento politico che non imita le leggi dei popoli confinanti, dal momento che, anzi, siamo noi ad essere d’esempio per qualcuno, più che imitare gli altri. E di nome, per il fatto che non si governa nell’interesse di pochi ma di molti, è chiamato democrazia; per quanto riguarda le leggi per dirimere le controversie private, è presente per tutti lo stesso trattamento; per quanto poi riguarda la dignità, ciascuno viene preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo in cui sia stimato, non tanto per appartenenza ad un ceto sociale, quanto per valore; e per quanto riguarda poi la povertà, se qualcuno può apportare un beneficio alla città, non viene impedito dall’oscurità della sua condizione».
Come discorso populista non è male salvo che Pericle non menziona il fatto che in quei tempi ad Atene c’erano, accanto a 150.000 abitanti, 100.000 schiavi. E non è che fossero solo barbari catturati nel corso di varie guerre, ma anche cittadini ateniesi. Infatti una delle leggi di Solone stabiliva di togliere dalla schiavitù i cittadini diventati servi a causa dei debiti verso i latifondisti. Segno che erano servi anche altri cittadini, caduti in schiavitù per altri motivi. E d’altra parte, circa cent’anni dopo Aristotele avrebbe scritto (Politica I): «Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo (...). Comandare ed essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli, e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare. (...) Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata - ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio così. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi» (...).
Ma ogni epoca ha le sue debolezze, e lasciamo a Pericle di celebrare questa sua democrazia di schiavi. Però il nostro così prosegue: «Noi... ci procurammo moltissime occasioni di svago dalle fatiche, per il nostro spirito, dato che celebriamo secondo la tradizione giochi e sacrifici per tutto l’anno e grazie a case e suppellettili eleganti, il cui godimento quotidiano allontana lo sconforto». E qui siamo di nuovo al populismo Mediaset e all’elogio del consumismo.
Ma andiamo avanti. A che cosa mira questo elogio della democrazia ateniese, idealizzata al massimo? A legittimare l’egemonia ateniese, sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle dipinge in colori affascinanti il modo di vita di Atene per giustificare il diritto di Atene a imporre il proprio dominio sugli altri popoli dell’Ellade (...). Segue l’elogio militare degli ateniesi che combattono sempre bravamente per difendere la loro terra. Pericle si dimentica di rilevare che (e proprio sotto il suo governo) erano stati riconosciuti come cittadini ateniesi solo coloro che avevano tutti e due i genitori ateniesi. Quindi c’erano gli schiavi, i veri cittadini ateniesi e i meteci, qualcosa come degli extracomunitari con diritto di soggiorno, che non erano cittadini a pieno diritto e non potevano votare - anche se tra coloro possiamo annoverare personaggi come Ippocrate, Anassagora, Protagora, Polignoto, Lisia o Gorgia.
Ma non è finita: «Non ci procuriamo gli amici ricevendo benefici, ma facendone. Dunque chi fa un favore è un amico più sicuro, tanto da conservare il favore dovuto grazie alla riconoscenza di colui al quale egli l’ha dato». Il che francamente mi sembra un principio mafioso.
Tornato poi ai defunti, Pericle osserva che bellamente sono morti per difendere una città che è di modello a tutto il mondo (e cara grazia che abbia lasciato a un suo futuro collega il compito di celebrare il proprio "popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori"). (...) Comunque i genitori dei caduti, ascesi all’olimpo degli eroi, non si debbono dolere perché li deve animare «la speranza di avere altri figli, per coloro che sono ancora in età adatta per avere figli: infatti, su un piano privato, i nuovi figli costituiranno per alcuni la possibilità di dimenticare quelli che non ci sono più, per la città, poi, sarà utile in due modi, contro il divenire spopolati e per la sicurezza: infatti non è possibile che prendano decisioni imparziali e giuste coloro che corrono dei rischi senza esporre al pericolo anche i propri figli come gli altri».
Il che mi pare solo sfacciataggine, ma sembra che ai dolenti questa oratoria piacesse. Così che l’oratore può concludere con «Ora, dunque, dopo aver compianto ciascuno il proprio parente, tornate alle vostre case», che - traducendo alla buona - significa «e ora smammate e non rompete più le scatole con i vostri piagnistei» (...).
Ecco perché bisogna sempre diffidare del discorso di Pericle e, se lo si dà da leggere nelle scuole, occorrerà commentarlo, ricordando che molti padri di tante patrie sono stati figli di un’etera.
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 15 marzo 2010)
Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa.
È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.
La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole.
Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo.
Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise.
Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco - il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole - si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere.
Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese.
Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge.
Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.
L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati.
Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto.
Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto - scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis - cesserà insieme con la barbarie».
I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere.
Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.
Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà.
Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano - in forme abnormi - piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri.
Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?
Il nemico della stampa
di Umberto Eco (L’Espresso, n. 28, 2009 - 10.07.2009)
Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l’età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo ’robuste’ non c’è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.
Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l’interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?
Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell’impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest’uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l’Italia, forse quest’Uomo troverà il modo di rimettere un po’ d’ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l’energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l’indulgenza e la rilassatezza di quell’onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).
E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.
Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de ’L’espresso’ se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?
Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all’epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell’antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l’onore dell’Università e in definitiva l’onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.
Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto.
LA LETTERA
Umberto Eco: "La minoranza
ha il dovere di manifestare"
Umberto Eco ha inviato questa lettera a Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais, Pancho Pardi, promotori della manifestazione dell’8 luglio in Piazza Navona.
Cari Amici,
mentre esprimo la mia solidarietà per la vostra manifestazione, vorrei che essa servisse a ricordare a tutti due punti che si è sovente tentati di dimenticare:
1) Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare.
2) Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.
Umberto Eco
* la Repubblica, 2 luglio 2008.
La Rossanda e l’allarme di Umberto "Gran brutta aria, regime ancora no"
"Se il 47% degli italiani rifiuta i rom, bisogna battersi contro di loro"
Gli intellettuali sul rischio-autoritarismo.
La fondatrice del "manifesto": con Di Pietro in piazza mai
Lo scrittore Matvejevic: in Italia solo l’involucro della democrazia
di Alessandra Longo (la Repubblica, 03.07.2008)
ROMA - Difficile non confrontarsi con le parole di Umberto Eco. Difficile non chiedersi se davvero noi italiani siamo con un piede nel burrone, se davvero la democrazia qui, adesso, è in pericolo. «Non siamo ancora al regime - dice Rossana Rossanda - ma ci sono molti segnali di avvicinamento. Siamo al limite, tira un’aria brutta. Trovo importante che Eco sia intervenuto. Il rischio c’è. E a preoccuparmi non sono solo le gesta di Berlusconi, di La Russa, della "banda" che ci governa, ma il guasto profondo che si è prodotto nella società italiana, nell’opinione pubblica». Da Parigi, dove ormai vive quasi in pianta stabile, senza tuttavia perdere nulla di quel che succede in Italia, Rossanda vede un Paese incline al «populismo», in cerca del «capro espiatorio», «del poveraccio, del diverso», su cui far convergere frustrazioni, rancori, paure: «Se è vero che il 47 per cento degli italiani prova repulsione all’idea di vivere accanto a un Rom, allora bisogna battersi contro quel 47 per cento, ribellarsi all’egoismo, all’individualismo, risvegliare le coscienze».
Una democrazia, quella italiana, che scivola lentamente in altro. Dice Eco che «la maggioranza ha diritto di governare», ma altra cosa è il sentirsi depositari dell’unica verità. Dacia Maraini si farà prendere pubblicamente le impronte, il 7 luglio prossimo, a Roma, come atto di protesta contro uno dei provvedimenti più odiosi decisi da questo governo, la schedatura dei piccoli Rom. E’ d’accordo con Eco: «Questo Paese è borderline dal punto di vista della democrazia. Berlusconi non tiene conto di nulla, è un estremista, gestisce l’Italia come fosse una sua azienda. Maggioranza non può essere diritto di impunità, non è dominio sulla minoranza, non implica l’uso personalistico, poliziesco della politica».
La storia non si ripete o, semmai, si può ripetere in farsa, «ma anche le farse, a volte, possono essere inquietanti», avverte Rossanda che attribuisce un certo torpore etico anche alla scomparsa dei comunisti alla Berlinguer: «Potevi non essere d’accordo con loro, ma il Pci di allora, con le sue denunce, ti faceva sentire in colpa, agitava le coscienze». Oggi gli anticorpi sembrano minori. Che serva il ritorno alla piazza? «Se fossi a Roma - dice Rossanda - non andrei alla manifestazione dell’8 luglio perché intravvedo in Di Pietro un’idea della democrazia alimentata dalla vendicatività che non condivido». A ognuno il suo. Vincenzo Cerami pensa che, «per carità, un girotondo vada benissimo» ma da un «grande partito come il Pd, doverosamente dotato di senso delle responsabilità istituzionali, ci si attende una manifestazione alta, matura». Eco, dice Cerami, ha ragione quando fiuta il pericolo-regime in Italia ma l’immagine di «una minoranza che non osa reagire» non si applica certo all’opposizione veltroniana che, a mio avviso, non è né paciosa né tranquilla. Io dico: una manifestazione il Pd la farà, con i suoi tempi, con i suoi modi, senza un linguaggio impulsivo. Lasciamo che la maggioranza si cuocia nel suo brodo, lasciamo che vengano più allo scoperto...».
Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l’aria irrespirabile dei Paesi dell’Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un’Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l’involucro».