Valori e conflitti della politica
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22 febbraio 2008)
Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono “eticamente sensibili” (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un’ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.
Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.
Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.
Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.
Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni “eticamente sensibili” di cui si diceva all’inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell’aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l’eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un’altra differenza a seconda che si adotti l’etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l’uno rispetto all’altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).
Nell’assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell’aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice “feticidio”), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell’autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo.
Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l’interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell’aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l’uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, “con le particolari caratteristiche sue proprie”, tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l’altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch’essa “soggetto debole”. Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, “che è già persona”, rispetto al diritto alla vita del concepito, “che persona non è ancora”. Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) “diritto potestativo” della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato.
Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo “problema grave”, un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti “esangui fantasmi in lotta per diventare i tiranni unici delle coscienze”, cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione.
C’è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli “immaturi”, i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull’esistenza futura, sempre che ci sia. C’è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient’altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall’altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione.
C’è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l’assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. È legge solo quella che riesce a “persuadere” tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legale. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
Caustico pamphlet su Atene
Classici ritradotti e commentati. Di chi è la «Costituzione degli Ateniesi»? Edizione commentata di Giuseppe Serra per la Valla. Con un saggio di Canfora
di Carlo Franco (il manifesto, 04.11.2018)
Pensare l’Atene antica, che per i moderni è il lieu de mémoire del Partenone e della Democrazia, come un posto in cui dominava la canaglia popolare. Pensare quella democrazia come un regime perverso, in cui tutto però era organizzato in maniera efficientissima per opprimere e derubare la «gente per bene», ossia i ricchi. Pensare quella società come un luogo dove per gli schiavi era una pacchia (come si direbbe oggi), tanto che vestivano quasi come i liberi, e quando se ne voleva bastonare uno (come giusto e normale, che diamine!) si rischiava di colpire un libero. Con queste e altre considerazioni ora acute, ora acide e forse spiazzanti, un famoso testo greco discute, anzi critica radicalmente, la forma di governo degli ateniesi.
Dell’opera che così seccamente distrugge il nostro mito, però, quasi nulla è certo: non la natura (saggio? dialogo? esercitazione retorica?), non la datazione (quinto secolo? prima, durante o dopo la guerra del Peloponneso? quarto secolo?), non la paternità (Senofonte, come dicono i manoscritti? oppure no? e chi allora?), non il titolo (giacché non di istituzioni si discute, ma di politica). Davvero, la Costituzione degli Ateniesi, attribuita convenzionalmente allo Pseudo Senofonte, ora edita a cura di Giuseppe Serra e accompagnata da un saggio di Luciano Canfora (Fondazione Valla/Mondadori, pp. LXXVI-224, € 35,00) è un testo molto particolare. Studiarla, leggerla, pensarci sopra, è quasi un’avventura intellettuale.
Una prosa spigolosa e poco ornata
Gli interrogativi suscitati dal testo sono ben rappresentati in questa edizione. Si vedono all’opera, in ruoli diversi, due espertissimi studiosi del tema, che sui punti controversi dialogano a distanza. L’introduzione, ampia e pacata, rende conto dei problemi critici e mostra quanto incerti siano i risultati conseguiti dalla pur lunga indagine sul testo. La traduzione conserva le spigolosità di una prosa poco ornata, apparsa a taluno «immatura» nell’argomentazione (quindi opera di un giovane?) con peculiari scelte di lessico e evidenti sbalzi d’umore. Il commento, pure dovuto a Serra, svolge un’analisi soprattutto filologica, studiando lingua e lessico e discutendo in dettaglio alcuni problemi testuali. Le note sono talora molto ampie, la discussione lascia aperte le ipotesi e manifesti i dubbi. Il saggio conclusivo, scritto da Canfora, presenta un’interpretazione generale differente, circa natura e obiettivi, paternità e cronologia del testo. Vi si riprende l’ipotesi che esso sia opera di Crizia, capo dei Trenta Tiranni, e che trasmetta la tensione politica dei circoli filospartani. La dura polemica contro la pesantezza del governo del popolo rivela la «democrazia come violenza» dei molti sui pochi e migliori. L’efficacia di questa lettura e la sua coerenza con il testo sono evidenti: la prospettiva filologica richiama comunque la non univocità degli indizi che la sorreggono.
Del resto, sembra l’autore il primo a «confondere le tracce» circa l’epoca in cui scrive, preferendo esprimere generalizzazioni e teorie invece che riferimenti concreti a fatti e persone. Che il testo sia ambientato ad Atene o no, che presupponga o invece preceda eventi reali della storia ateniese, che presenti peculiarità di lessico spiegabili «solo se» redatto in un certo momento o decennio, eccetera: ogni elemento, per questa anonima Costituzione degli Ateniesi è destinato a sfrangiarsi nella fuga dei dubbi, e nella circolarità delle prove. E non per difetto di metodo, sì perché in questioni di attribuzione e datazione, la pars destruens riesce più sicura di quella construens, ossia della proposta di nuova, pur ben argomentata ipotesi. Di fronte alle molte «scelte» che l’edizione, la traduzione e il commento richiedono, Serra non cela né impone il proprio giudizio. Il lettore è condotto a formarsi un’opinione sopra le tante incertezze che gravano sul (breve) testo, giudicando gli indizi, tutti controversi, sui quali si fondano le differenti soluzioni finora individuate.
Pervenuto tra gli scritti di Senofonte, il testo è stato ritenuto un apocrifo per ragioni stilistiche, contenutistiche e «ideologiche»: ma i risultati dell’analisi dipendono più di quanto si desidererebbe «dall’erudizione, dalla fantasia e dai preconcetti dell’interprete». Si è scritto che la maggior parte degli studiosi «non vuole» che il testo sia di Senofonte... Dall’ipotesi che l’autore sia un aristocratico, disgustato dalla lunga avversione per la democrazia ateniese è invalso l’uso di chiamarlo «Vecchio oligarca»: l’idea tuttora ha una certa fortuna, ma non una solida base. Un nome per l’autore non c’è: le proposte sono andate dal democratico «radicale» Cleone, all’oligarca Crizia, altrettanto «radicale». Gli indizi interni per la datazione interna risultano pure sfuggenti, e hanno condotto filologi e storici a proporre cronologie oscillanti di cinquant’anni o più (che per questa fase è cosa notevole, e preoccupante). E l’incertezza crescerebbe ancora se, come anche Serra suggerisce, il testo fingesse di essere ambientato negli anni della detestata democrazia, costituendo invece una meditazione «postuma», scritta nell’Atene del quarto secolo, in un contesto del tutto differente e con finalità ulteriormente ambigue.
Una lezione filologica di rigore
Molti delle riflessioni e dei materiali proposti indirizzano sottilmente a questa cronologia, portando a ripensare anche il rapporto, per molti aspetti innegabile, tra quanto sulla democrazia argomenta l’anonimo e quanto ne scrive Tucidide. Una cronologia «bassa», poi, rende «compatibile» l’attribuzione tradizionale del testo a Senofonte (se non a figura a lui prossima): ma ogni conclusione netta viene qui evitata, con una lezione di rigore e di stile. Il punto decisivo è un altro. Se il testo ha carattere «fittizio», ciò «equivale a dire che esso è letteratura», e il suo significato politico esce alquanto ridimensionato. Non tutti saranno pronti ad accettare questo passo: lo sguardo critico (o caustico) che le pagine dell’anonimo gettano sui meccanismi della democrazia ateniese risulta di fondamentale importanza.
Il volume della Fondazione Valla esce dieci anni dopo un commento inglese (J.L. Marr, P.J. Rhodes, The ’Old Oligarch’. The Constitution of the Athenians Attributed to Xenophon, Aris & Phillips, 2008), a pochi mesi dall’edizione per la Collection des universités de France (Pseudo-Xénophon. Constitution des Athéniens, a cura di D. Lenfant, Belles Lettres, 2017), in contemporanea con gli atti di un convegno sui due grandi testi relativi alla Costituzione degli Ateniesi (Athenaion Politeiai tra storia, politica e sociologia: Aristotele e Pseudo-Senofonte, Milano, Led 2018). E un altro convegno si annuncia in queste settimane a Strasburgo (Les aventures d’un pamphlet antidémocratique: transmission et réception de la Constitution des Athéniens du Pseudo-Xénophon). L’incessante lavoro sul testo è prova dell’interesse che esso suscita.
L’edizione di Serra dialoga in modo riflettuto con una bibliografia amplissima, nella quale hanno spazio (con mirate omissioni) contributi critici, testuali o storici, di studiosi italiani. Questo libro dunque è un importante frutto della filologia classica nostrana. Chissà se il paese potrà mantenere a lungo nei classics uno standard simile. L’accelerato declino costringe ormai gli ingegni migliori a fare altro o, se vogliono occuparsi dei classici, a farlo altrove.
La lezione di Jules Isaac un inno alla libertà oggi sempre più attuale
Da Atene a Auschwitz, chi ha tradito la democrazia
Parla delle vicende narrate da Tucidide ma ha negli occhi i collaborazionisti
Sua moglie e sua figlia moriranno ad Auschwitz, lui si salverà per un caso
di Ezio Mauro (la Repubblica, 21.04.2016)
LO splendore eterno della democrazia, tutta la fragilità della sua miseria sono rinchiusi nella vecchia borsa da professore che Jules Isaac si trascina dietro tra i campi e i boschi, i piccoli alberghi e i fienili della Francia meridionale, tra Aix-en-Provence, Chambon-sur-Lignon, Riom e Royat, scappando per nascondersi. Tutt’attorno, il governo di Vichy, l’umiliazione francese del collaborazionismo di Pétain con l’occupante nazista, la deportazione degli ebrei con tre convogli di mille persone che partono ogni settimana per i campi di sterminio. Isaac ha appena subito un rovesciamento totale della sua vita e non ha ancora visto il peggio. Ebreo laico di famiglia alsaziana, padre e nonno decorati con la Legion d’Onore per meriti militari, lui stesso ferito nella Prima guerra mondiale dopo 30 mesi di trincea.
Allievo di Bergson e compagno di Charles Péguy, scrive il manuale di storia su cui studieranno quattro generazioni di francesi e diventa Ispettore generale del ministero dell’Educazione Nazionale. Dal 1940, per le leggi razziali, il maresciallo Pétain che gli aveva chiesto di diventare il suo storiografo lo destituisce da ogni incarico, lo caccia dall’università, lo radia dall’Ordine della Legione. Il professore è bandito, deve lasciare Parigi, non sa dove andare. Ha un amico letterato che insegna ad Aix, lo raggiunge chiedendo rifugio. Mentre attraversa la linea di demarcazione, con la moglie Laure e i tre figli, legge il cartello del bando di regime: «Passaggio vietato ai negri e agli ebrei».
Cravatta, baffetti grigi, camicia bianca dal colletto floscio, Jules si salva quasi inconsapevolmente passando di mano in mano tra un intellettuale che lo protegge e un professore che lo nasconde, mentre a Parigi l’accademico Abel Bonnard denuncia lo scandalo di vedere «la storia di Francia insegnata ai giovani dai libri di un Isaac».
Nella semiclandestinità di Vichy la famiglia cambia nome, si chiama Marc. Ma la Gestapo si avvicina. Daniel, il figlio più grande, collabora con la Resistenza, i Marc finiscono sotto osservazione. All’inizio di ottobre del ’43 la polizia arresta il figlio minore, Jean-Claude, con la sorella Juliette e il marito. La madre parte subito per Vichy chiedendo notizie dei suoi: il giorno dopo la Gestapo verrà a Riom per arrestarla insieme col marito. Jules Isaac è fuori, sfugge per una casuale combinazione del destino al campo di Auschwitz dove moriranno la moglie, la figlia e il genero, mentre il figlio riesce a fuggire.
Solo, senza più libri né famiglia, il professore sopravvive scrivendo. Anzi, scrivendo trova la forza per resistere, il suo modo per testimoniare. A Aix-en-Provence aveva iniziato un lavoro sulla caduta della democrazia di Atene per mano degli oligarchi. Tra gli spettri di Vichy il saggio entra e esce dalla cartella, trova tavoli di fortuna, luci notturne, angoli rubati alla disperazione. Si dilata nel suo spazio morale, i piani della tragedia contemporanea e del dramma dell’antichità si confondono e si sovrappongono, mentre la lezione di civismo si unifica in un atto di fede disperato nella democrazia che testimonia se stessa, morendo.
Si può fare storia, nell’abisso di Vichy? Si deve, dice a se stesso Isaac, perché è l’unico modo che lui ha per restare se stesso mentre è privato di tutto, e soprattutto è il modo più giusto per interpretare il presente. «Voglio mostrare quale fu il ruolo del partito oligarchico di Atene, nemico mortale della democrazia - spiega nella prima pagina degli Oligarchi, ora pubblicato da Sellerio - Nel 404 avanti Cristo Atene dovette piegare le ginocchia davanti a Sparta. È nel 1942 dopo Cristo, nella Francia soggiogata dalla Germania hitleriana, che queste pagine sono state scritte. Duemilatrecentoquarantasei anni - la metà dei tempi storici - separano l’autore dal suo soggetto. Piuttosto che nello spazio ha scelto di fuggirsene nel tempo. Ed ecco quel che vi ha trovato».
La libertà, vista dal fondo del vortice nazista, è il cuore di ciò che Atene ha perduto e di ciò che aveva costruito negli anni della sua felicità insolente, con l’avorio, il marmo e l’oro dell’Acropoli che riflettevano la maestà imperiale di una democrazia sfavillante nella trinità senza mistero del potere, della ricchezza, delle belle arti riunite davanti al Pireo sui cui banconi si raccoglievano tutti i prodotti dell’universo. Se Sparta è quasi una creatura ideologica, incarnando nella sua durezza l’idealtipo oligarchico, Atene resta l’archetipo dell’ideale democratico, ingigantito nel suo fascino dallo splendore della città. Ma la bellezza non salva da sola la democrazia. Anzi, la bellezza si espone agli dei vendicatori che «per realizzare i loro disegni trovano sempre gli uomini adatti, all’ora adatta, quella del disastro».
Gli uomini sono gli oligarchi. La descrizione di questa classe-setta di Atene nel 404 a.C. vale per il potere collaborazionista del 1942, ma vale anche oggi, settant’anni dopo. Non sono la maggioranza moderata dell’aristocrazia ateniese (fatta di uomini d’ordine conservatori e moderati, nemici della violenza) ma il suo cuore radicale e ideologico, settario, nemico del popolo e della democrazia, trascinato da una capacità d’odio talmente assoluta da spingerli a puntare ogni volta sul peggio, a sognare il disastro da cui trarre profitto, invocando persino la guerra sperando che finisca male.
Le parole d’ordine sono quelle eterne dell’ideologia conservatrice d’ogni tempo, Natura e Forza, con Callicle che nel Gorgia di Platone spiega come «la legge sia fatta dai deboli e per loro. Ma la natura stessa dimostra che per essere giusti colui che vale di più deve prevalere su colui che vale di meno, il capace sull’incapace». Se dunque la democrazia è questa istituzione contronatura da abbattere a tutti i costi e senza rimorsi, occorre ancora l’occasione, quel “vento cattivo” capace di gonfiare le vele dell’oligarchia. Insieme, come nota oggi Luciano Canfora in una bellissima prefazione, a due cedimenti nella democrazia ateniese che si riprodurranno anche negli anni di Vichy: una forte corrente politica interna al Paese stremato pronta ad accogliere il “nuovo ordine”, il trasformismo opportunistico dei capi popolari pronti sia in Francia che ad Atene a passare con gli estremisti del nuovo potere.
Quando la flotta ateniese della spedizione di Sicilia è annientata, con la città in lutto, ecco per gli oligarchi l’occasione, anzi “la divina sorpresa”, come Charles Maurras nel 1942 saluterà l’arrivo al potere a Vichy del maresciallo Pétain: «Nel disastro e nella rotta le nostre idee si trovavano molto vicine a giungere al potere». Ad Atene “la divina sorpresa” è un’opinione pubblica sconcertata e provata dalla guerra, pronta a tutto.
Guardandosi attorno nelle campagne di Vichy, Isaac annota il clima del terrore ateniese: «Conversioni, servilismi verso i nuovi padroni, una splendida fioritura di vigliaccheria », mentre i Trenta oligarchi divideranno i pieni poteri, la violenza, la sopraffazione, perché è fatale che l’usurpazione finisca in repressione, finché i cittadini si ribellano e Atene intera giura nuovamente fedeltà alla democrazia. Ma ecco nel 406 il processo agli strateghi, con i membri delle famiglie degli equipaggi delle triremi morti senza sepoltura che prendono posto in Assemblea vestiti di nero e con la testa rasata a zero, insieme testimoni, vittime e accusatori dei sei strateghi schiacciati dalla forza simbolica della loro presenza. Così quando Callisseno chiede un verdetto collettivo, una sola sentenza che vincoli tutti gli accusati nella colpa mandandoli insieme al supplizio, a nulla vale il richiamo alla legge, al giuramento democratico, agli dei.
«Come presa da follia la democrazia era caduta nella trappola in cui i suoi nemici l’avevano attirata», scrive Isaac. Meno di un anno dopo Lisandro annienta la flotta di Atene che dopo l’assedio e la fame capitola accettando di subordinarsi a Sparta su terra e in mare: «Era la libertà nella schiavitù».
La Francia collaborazionista con Hitler che la occupa spiega a Jules Isaac quel che è potuto accadere alla democrazia ateniese: come quando un uomo perde conoscenza per uno choc violento, scrive, così capita che un popolo precipitato dalla sua grandezza resti come inerte, privo di coscienza, alla mercé delle canaglie o dei fanatici.
Così ad Atene il colpo di Stato va in scena «con il demos incatenato e il nemico all’Acropoli», come vogliono gli oligarchi. A loro infine si rivolgerà Trasibulo dopo aver sacrificato alla dea gratitudine per la città ritrovata dopo il terrore e l’arbitrio: «Ditemi, dunque, su che cosa voi fondate la vostra superiorità? Il popolo vale molto più di voi, dimentico del male che avete fatto saprà mantenere il suo giuramento».
La malvagità dei cosiddetti “buoni”, nota Isaac, sarà stata superata solo dalla clemenza dei “cattivi”. Da allora, aggiunge, «sono trascorsi 2344 anni, e mentre sto scrivendo queste ultime righe da qualche parte in Francia - quella che fu la Francia - il sabato 17 ottobre 1942, i “buoni” sono sempre così malvagi, resta da sapere se i “cattivi” saranno così magnanimi».
Nelle stesse ore i giornali fascisti di Vichy spiegavano le ragioni dei “buoni”. Basta scorrere gli articoli di Robert Brasillach su Je suis partout scritti proprio in quei giorni e appena ripubblicati in Italia da Settimo Sigillo: «Il dottor Goebbels ha pronunciato parole che sarebbe uno sbaglio non meditare sui popoli che si ripiegano su se stessi, sui popoli che sognano solo della passata opulenza e non si rendono conto dello sforzo che fa la Germania ». Ma «il cancelliere Hitler ha agito in fretta. In mezzo agli innumerevoli impegni che l’ultimo cavaliere dell’ordine teutonico ha nel suo territorio orientale, egli ha avuto per la Francia questo pensiero simbolico, significativo e pratico. Non siamo spariti dal campo d’azione del mondo nuovo». Tuttavia «l’attendismo non paga». «Per andare d’accordo con il nuovo mondo ci vuole una Francia nuova. Per andare d’accordo con l’Europa fascista ci vuole una Francia fascista».
Era l’11 settembre 1942 quando Brasilach scriveva questa esortazione. Da qualche parte nella campagna, probabilmente di notte, Jules Isaac tirava fuori dalla sua borsa per un’ultima volta il manoscritto degli Oligarchi per la correzione finale. Da poco aveva cominciato a rileggere i Vangeli in greco, grazie al prestito di un curato di paese, e a ragionare sullo scarto tra gli scritti evangelici e l’insegnamento della Chiesa sugli ebrei. Incomincia a lavorare sul testo di Gesù e Israele, il libro in base al quale chiederà nel ’49 a Pio XII di rivedere la preghiera del Venerdì Santo, offensiva per gli ebrei, finché nel ’60 sarà ricevuto in udienza privata da Giovanni XXIII, ispirandogli la revisione fondamentale della Nostra Aetate.
In quei giorni un secondo manoscritto cresce dunque nella cartella del professore che si muove alla macchia, sulla strada tra Riom e Clermond Ferrand con indosso l’ultimo vestito che gli è rimasto, nascondendosi di giorno per scrivere di notte, fedele a quel messaggio che la moglie gli ha lasciato sull’ultimo biglietto prima dell’arresto, e che lui tiene nel portafoglio: «Mio caro, prenditi cura di te, abbi fiducia e finisci il tuo lavoro. Il mondo lo aspetta».
La colpa di chi fa
le leggi per se stesso
di GUSTAVO ZAGREBELSKY *
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l’Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c’è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l’intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l’ubbidienza in dovere. Ma dov’anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l’amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest’adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l’invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull’interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell’uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all’altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d’esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all’altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l’ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall’esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c’è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d’un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L’ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell’autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell’Areopago che l’aveva condannato a morte, è l’incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d’avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l’inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell’interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l’iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l’abbiamo visto all’inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l’esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l’arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest’arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L’illegalità, anche se all’inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell’interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un’eccezione, ma significa farne l’inizio di un’infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell’identità nazionale"
© la Repubblica, 01 marzo 2010
Il Cavaliere dell’Italia ingiusta
di Antonio Padellaro *
Il figlio del capo di Cosa nostra, boss mafioso anch’egli scarcerato per decorrenza dei termini grazie a una burocrazia lenta e indifferente. La lista dei superevasori nascosti nel paradiso fiscale del Liechtenstein della cui reale identità forse non sapremo mai. Gli arbitraggi del calcio accusati di favorire sempre le società più potenti a scapito delle piccole. Sono tre titoli di stretta attualità che hanno in comune la stessa parola chiave. Ingiustizia. Che nel suo significato più ampio è qualcosa di più e diverso del contrario della parola giustizia, declinabile in molteplici modi. Non la mitica divinità provvista di equanime bilancia rappresentata nelle aule di tribunale o il potere dello Stato depositario del relativo esercizio, perché appartengono a una dimensione troppo elevata rispetto alle umane debolezze. E anche la giustizia come valore etico sociale in base al quale si riconoscono e si rispettano i diritti altrui come si vorrebbe fossero riconosciuti e rispettati i nostri resta un concetto nobile ma purtroppo astratto.
Di ben altro vocabolario avremmo bisogno per orientarci dentro la nuvola nera di risentimento, rabbia e cattivo umore che ci sentiamo gravare addosso soprattutto come italiani. Ingiustizia che è sì mancanza di giustizia ma nelle sue accezioni più minacciose e accidentate. Sopruso. Torto. Arbitrio. Prepotenza. Prevaricazione. Non sono forse sentimenti che frequentiamo ogni giorno, cattive compagnie che ci tirano fuori il peggio?
Gli uomini, ci è stato insegnato, hanno creato il diritto per difendersi dalla legge della giungla.
Per dissuadere attraverso pene e sanzioni adeguatamente severe l’agire dei violenti e dei disonesti. Poi un giorno un magistrato ti spiega che assassini, ladri, bancarottieri, mafiosi, più la fanno grossa, meglio è. Ammazzi la moglie? Con 5 anni te la cavi. Rubi miliardi? Prescrizione assicurata. La legge e i suoi cavilli sono dalla tua. Intanto in prigione ci vanno gli altri, tossicodipendenti e immigrati. Alla fine la stragrande maggioranza dei delitti resta impunita. Parola di Bruno Tinti, giudice e autore di «Toghe rotte» che è già un best-seller. Esagerazioni? Non si direbbe a vedere il giovane Giuseppe Salvatore Riina jr. mentre con un sorrisetto varca il portone del carcere di massima sicurezza di Sulmona. Sì, massima sicurezza. Ecco però che il ministro della Giustizia Scotti chiede molto tardive informazioni. E quello dell’Interno Amato assicura che pur di fronte a un fatto così grave le forze dell’ordine non si scoraggiano. Caute circonlocuzioni che rendono ancora più evidente lo stato d’animo dei funzionari di polizia e degli agenti che incastrarono il figlio di cotanto padre facendolo condannare a 14 anni e 6 mesi per estorsione e associazione mafiosa. Cosa penseranno nel vederlo oggi mostrarsi al mondo e agli amici degli amici di Corleone con il giubbotto moncler e il maglioncino rosa? Immagine che certamente non farà che avvalorare l’amara convinzione ormai radicata nel senso comune del paese. Che ormai in galera ci va soltanto chi è troppo povero o chi è troppo fesso. Come ben sa l’uomo delle leggi ad personam.
Chi paga le tasse invece è soltanto un fesso. Come non pensarlo mentre Berlusconi declama il suo eterno programma di sperperi. Musica per le orecchie degli evasori di cielo di terra e di mare resi di nuovo liberi, se egli tornerà al governo, «dall’atmosfera di minaccia e di terrore che Prodi e Visco hanno introdotto nel nostro Paese». Prendere nota: minaccia e terrore il semplice rispetto della legge. Lui che ha massacrato i conti pubblici si permette di insultare il governo del risanamento e della ritrovata credibilità in Europa. Se torna questa gente aspettiamoci che i furbi e i furbetti di Vaduz vengano additati a pubblico esempio e insigniti di cavalierati al merito. Di lotta all’evasione non se ne sentirà più parlare e nella testa delle giovani generazioni si inculcherà l’idea che i contribuenti onesti sono dei poveracci, dei deboli che il fisco fa bene a tartassare.
In un libro di recente pubblicazione, «Governare il mercato», Vincenzo Visco ha elencato i nemici di quell’Italia che il centrosinistra ha faticosamente rimesso in piedi. «L’incultura, la prepotenza, la ricchezza ostentata e di dubbia provenienza, la malavita, soprattutto quella in guanti bianchi, l’ignoranza, la volgarità, la disonestà intellettuale, l’evasione fiscale, l’assistenzialismo, la prevaricazione dei deboli, l’inconsapevolezza dei bisogni, la manipolazione delle masse, l’informazione addomesticata, il fascismo di ritorno, che invece dei manganelli e dell’olio di ricino usa l’attacco personale, le campagne mediatiche, le falsità costruite ad arte».
Veltroni ha ragione quando condanna la politica dell’odio e della divisione. Ma non può non tener conto dei danni che provoca un senso di ingiustizia diffuso e non placato. Certo non è giusto che ogni auto blu che passa per strada scateni scatti di antipolitica. O che ogni fuorigioco non fischiato allo stadio sia un complotto. Sono i riflessi condizionati di un paese abituato a pensar male per frustrazione, a cui occorre restituire il senso di una netta e rigorosa demarcazione tra il giusto e l’ingiusto, l’onesto e il disonesto. Se no il rischio è di assopirci tutti quanti, tra un taglio dell’Ici e un condono, nella misera rassegnazione del così fan tutti. E di domandarci una mattina: ma il conflitto d’interessi cos’era?
* l’Unità, Pubblicato il: 01.03.08, Modificato il: 01.03.08 alle ore 14.22