[..] Per ogni Stato troviamo quindi una precisa descrizione della realtà linguistica che lo caratterizza nel suo insieme, dal ruolo della lingua ufficiale alla posizione degli idiomi minoritari, fino all’individuazione delle problematiche politiche generate dalla dialettica fra Istituzioni e realtà locali. Ampia e di grande interesse è poi la parte dedicata all’Italia, dove una puntuale disamina regione per regione è preceduta da due utili esposizioni sulla nostra lingua e sulle diverse politiche linguistiche che lo Stato italiano ha via via elaborato dall’Unità a oggi. Concepito quindi come un vero e proprio manuale, il testo di Toso si rivela non solo uno strumento indispensabile per studiosi, ma anche una piacevole opera di consultazione alla portata di chiunque provi l’interesse o semplicemente la curiosità di girovagare nel sorprendente labirinto linguistico europeo [...]
di Gianpiero Comolli*
Ben ventiquattro sono le lingue riconosciute come «ufficiali» all’interno degli Stati dell’Unione europea. Un numero già di per sé cospicuo, se non fosse che a questi «idiomi di Stato» andrebbe aggiunta una quantità davvero straordinaria di lingue minoritarie, dialetti, varianti locali: tutte parlate che costituiscono il fondamentale patrimonio culturale e identitario delle popolazioni presenti sul territorio europeo, siano esse grandi nazioni o minuscole etnie, dai Ladini delle nostre Dolomiti ai Sorabi della Germania, dai Tartari della Lituania agli Slovinzi e Casciubi della Polonia...
Come orientarsi all’interno di questo vastissimo panorama linguistico europeo? La casa editrice «Baldini Castoldi Dalai» pubblica oggi un libro che per la prima volta in Italia disegna un quadro chiaro e completo dell’eccezionale realtà etnico-linguistica d’Europa: Lingue d’Europa. La pluralità linguistica dei paesi europei fra passato e presente (pp. 206, Euro 17,50). Autore di questo affascinante viaggio glottologico ed etnografico fra popoli e idiomi del nostro Continente è Fiorenzo Toso che - dopo aver esordito con ricerche dialettologiche sull’area ligure da cui proviene (è nato ad Arenzano nel 1962) - insegna linguistica all’Università di Udine ed è libero docente di Filologia Italiana in quella di Saarbrücken.
Apre il volume un ampio saggio introduttivo in cui Toso spiega benissimo come la questione linguistica europea non possa essere in alcun modo disgiunta da quella dell’appartenenza etnica e nazionale. Percorrere la mappa degli idiomi continentali significa, in altre parole, confrontarsi con la pluralità etnografica europea e con le tensioni politiche che ha generato e continua a generare: rivendicazioni autonomiste e irredentiste, esigenze di tutela delle lingue minoritarie, tensioni fra Stati egemoni e realtà locali, nuove strategie glottopolitiche nel quadro dell’Unione europea...
Dopo l’inquadramento introduttivo il volume, procede esaminando in dettaglio la peculiarità idiomatica, culturale e politica dei singoli Paesi europei. Per ogni Stato troviamo quindi una precisa descrizione della realtà linguistica che lo caratterizza nel suo insieme, dal ruolo della lingua ufficiale alla posizione degli idiomi minoritari, fino all’individuazione delle problematiche politiche generate dalla dialettica fra Istituzioni e realtà locali.
Ampia e di grande interesse è poi la parte dedicata all’Italia, dove una puntuale disamina regione per regione è preceduta da due utili esposizioni sulla nostra lingua e sulle diverse politiche linguistiche che lo Stato italiano ha via via elaborato dall’Unità a oggi.
Concepito quindi come un vero e proprio manuale, il testo di Toso si rivela non solo uno strumento indispensabile per studiosi, ma anche una piacevole opera di consultazione alla portata di chiunque provi l’interesse o semplicemente la curiosità di girovagare nel sorprendente labirinto linguistico europeo.
Insomma, basta sfogliare poche pagine, e subito si affollano alla mente urgenti questioni sulle quali sollecitare l’autore stesso.
Professor Toso, il suo libro conferma l’estrema differenziazione etnica e linguistica del nostro Continente. Ebbene, questa grande pluralità di popoli e di culture finisce per ostacolare la ricerca di una comune identità europea, o può rivelarsi per noi europei come un punto di forza?
«Il problema è la corretta interpretazione e la gestione di questa pluralità. Essere sardi o frisoni senza per questo rinunciare a sentirsi italiani o olandesi può insegnarci a essere italiani o olandesi senza contraddizione col sentirsi europei. Il panorama linguistico europeo è un’enorme risorsa e un serbatoio di "diversità" culturale che deve essere valorizzato proprio in un’ottica di ridefinizione e ristrutturazione di una identità comune europea».
Ma esiste davvero una comune identità europea, superiore alle diverse identità nazionali e regionali? Partendo dalla grande varietà etnica e linguistica che lei ha esaminato, è possibile approdare a una definizione comune di Europa? E che cosa significa essere europeo, sentirsi tale?
«Come ha scritto Amin Maalouf in un saggio illuminante, l’identità è un fatto intimo e plurale, che nasce dal proprio retaggio e dalla somma delle esperienze che ciascuno di noi accumula nel corso della vita: provo sempre un certo imbarazzo di fronte a chi sbandiera uno e un solo aspetto della sua "appartenenza" etnica, linguistica, culturale o di altro genere. Personalmente riesco a essere europeo e mediterraneo e italiano e irriducibilmente ligure genovese, senza avvertire contraddizioni in tutto questo. Se anche lei è d’accordo che ciò sia possibile, diventa implicita la risposta su ciò che intendo sul sentirmi europeo e sull’esistenza di una identità comune europea».
Lei ha descritto la realtà delle minoranze storiche presenti nel Continente. Ma i flussi migratori in atto stanno generando nuove comunità linguistiche. Le lingue dei migranti come interagiscono col territorio nel quale si trovano a vivere? Si intravede una tendenza complessiva, un processo evolutivo tipico della lingua extraeuropea trapiantata di recente in Europa?
«Il problema è molto complesso e presenta aspetti in parte diversi da quelli che coinvolgono le minoranze che storicamente si integrano nel panorama linguistico ed etnografico europeo: in quest’ultimo caso il problema rimane quello di preservare e attualizzare spezzoni importanti della nostra pluralità; mentre nel caso dei nuovi flussi migratori possono esserci di volta in volta urgenze di integrazione e progetti di mantenimento e valorizzazione di nuove specificità idiomatiche e culturali. Bisognerà verificare sulla lunga durata se e come queste ultime riusciranno a radicarsi e a diventare a loro volta parte integrante del patrimonio comune europeo. E in ogni caso si dovrà pensare a una nuova identità continentale, dove minoranze vecchie e nuove abbiano modo di esprimersi e di convivere. Da questo punto di vista le sfide che attendono la scuola e l’università sono enormi».
E da parte delle istituzioni europee si sta delineando una politica di tutela e promozione per le lingue degli immigrati nell’Unione?
«Ci sono provvedimenti relativi soprattutto alla didattica. Ma, al di là delle enunciazioni di principio, sembra prevalere l’esigenza dell’integrazione: e questo vale non solo per la Ue ma anche a livello di singoli Paesi. La Francia, ad esempio, riconosce l’arabo dialettale tra le langues de France: anche lì però la tendenza generale rimane quella dell’assimilazione linguistica. Si parte dal presupposto, concettualmente corretto, che l’apprendimento della lingua del Paese ospitante consenta maggiori opportunità sociali. Verissimo, ma è così che in Italia abbiamo "suicidato" i dialetti e le lingue delle minoranze, per poi scoprirne l’enorme valore culturale e la rilevanza pedagogica nel quadro dei processi di formazione e apprendimento di repertori plurilingui».
Venendo appunto alla realtà italiana, lei esamina a fondo e assai criticamente l’impostazione della Legge nazionale (n. 482, del 1999) che tutela la lingua e la cultura delle minoranze linguistiche presenti nel nostro territorio (albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana, sarda). Quali risultati ha prodotto l’attuazione di questo provvedimento legislativo?
«Debbo ribadire che quella italiana è una brutta legge: nasce da presupposti in gran parte superati, soprattutto per quanto riguarda la definizione unificante e discriminante del concetto di lingua minoritaria (dal tedesco standard ai dialetti provenzali del Cuneese) e di minoranza (accomunando realtà sociolinguistiche molto diverse tra loro, dalla compatta e già ipertutelata maggioranza etnica altoatesina alle esigue sopravvivenze croate del Molise). Applicando criteri discutibili ha escluso inoltre realtà minoritarie di notevole interesse, dagli Zingari ai Tabarchini ai Galloitalici di Sicilia. Ha infine legittimato il sovvertimento del panorama linguistico italiano, con amministrazioni comunali che fanno a gara per dichiarare l’appartenenza dei loro cittadini a questa o a quella minoranza, in barba alla realtà dialettale, nell’illusoria speranza di accedere a chissà quali finanziamenti. Non è così che si tutelano lingue minoritarie che sono parte integrante del patrimonio culturale e linguistico nazionale. E ancor meno tutelato è il diritto dei parlanti, a suo tempo invocato da Tullio De Mauro, di poter utilizzare il proprio idioma tradizionale per partecipare attivamente alla vita sociale e civile del Paese. Si sente fortemente la mancanza di una legge-quadro sull’insieme degli usi linguistici tradizionali in Italia, integrata con provvedimenti ad hoc sulle singole realtà».
E qual è invece lo stato di salute dei dialetti italiani, non contemplati dalla Legge 482 sulle minoranze linguistiche e quindi rimasti privi di tutela? Il loro uso è in costante regresso o si riscontrano significativi segni di vitalità?
«Il regresso degli usi linguistici tradizionali è un dato presente, salvo eccezioni e casi specifici, in tutti i contesti regionali o minoritari italiani: né la Legge 482 è concepita in modo da modificare questa tendenza per le lingue minoritarie, né l’adozione di provvedimenti analoghi per le altre componenti del patrimonio linguistico italiano potrebbe comportare inversioni di tendenza, che possono partire solo ed esclusivamente dalla volontà dei parlanti. C’è però una discreta rinascita dell’interesse per il patrimonio linguistico, che, se si prescinde da sovrastrutture e strumentalizzazioni politiche, rientra in fondo nel quadro della ridefinizione individuale del nostro senso di appartenenza, all’indomani della crisi di altri soggetti di identificazione collettiva (pensiamo ai partiti, alle ideologie) e nel clima di spaesamento provocato dai processi di globalizzazione».
Un’ultima domanda sul progetto di riforma costituzionale respinto dal referendum confermativo. La cosiddetta devolution, in esso prevista, avrebbe meglio promosso o al contrario soffocato, disperso, la ricchezza dei patrimoni linguistici regionali? Che valutazione possiamo dare, da questo punto di vista, dell’esito del referendum?
«L’Italia è un paese singolare, in cui il federalismo si vorrebbe far nascere non dall’unione di realtà preesistenti, ma dalla cessione di quote di potere dallo Stato centrale alle istituzioni periferiche, ciò che nel resto del mondo si chiama decentramento amministrativo. Una proposta culturalmente così debole, come quella della riforma costituzionale appena respinta, avrebbe finito per rendere ipertrofiche le esigenze di autolegittimazione dei poteri locali, con la strutturazione di "identità" regionali (qualche volta sostanziali, in altri casi meno definite) in quanto strumenti di contrapposizione fittizia, nel quadro della riformulazione del senso di appartenenza dei cittadini: avremmo dunque assistito alla nascita di una lingua lombarda o di una lingua siciliana standard, cosa che avrebbe fatto a pugni, naturalmente, con la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico lombardo o siciliano».
* www.unita.it, Pubblicato il 28.06.06
Oggi è la giornata europea delle lingue: Nella Ue dai mille idiomi se ne sta diffondendo uno "ibridato" con matrice inglese
Una nuova lingua s’aggira per l’Europa e in Italia suona come "l’itangliano"
di LINDA ROSSI HOLDEN *
Oggi è la giornata europea delle lingue. L’Europa è una nazione dalle molte lingue, nella quale si che sta però diffondendo una sorta di unica lingua ibridata, con matrice inglese, che risente delle contaminazioni idiomatiche derivanti dai diversi paesi dell’Ue: qualcosa che in Italia possiamo definire "Itangliano"
La situazione attuale. L’Unione europea è composta da 450 milioni di cittadini che parlano 23 lingue ufficiali, almeno 60 regionali e una moltitudine di lingue minoritarie. Da fonte Censis, in Italia un terzo della popolazione non parla alcuna lingua straniera; meno del 20% è bilingue; il 50,1% ritiene scolastico il proprio grado di preparazione, il 23,9% giudica il proprio livello buono e solo il 7,1% lo valuta molto buono; inoltre, per il 55,9% della popolazione italiana lo studio delle lingue a scuola - dove l’inglese prevale nettamente - è ritenuto scarso o gravemente insufficiente.
E a proposito di lingua inglese, c’è da dire che il suo uso ibridato sembra diventato la vera lingua franca europea; si tratta di "broken English" o "Eurojargon" che in Italia ha dato luogo a questa forma di itangliano: "L’election day si avvicina. Le apparizioni in TV come previsto dall’equal time, gli ads con accusa di strumentalizzazione del 9/11, i dirty tricks sulla necessità delle guerre in Afghanistan e in Iraq e l’incapacità dell’Intelligence di prevedere gli attacchi alle Twin Towers potrebbero causare a Bush la perdita degli swing states che, trascinati da un crescente bandwagon effect, diventerebbero importanti supporters dei democratici e dei loro running mates".
Il precedente: l’Euroenglish. Tony Blair dall’inizio del suo mandato, aveva capito che in molti casi era importante dimenticarsi delle proprie origini oxfordiane per ricorrere a un inglese condiviso dalla platea europea e/o mondiale a cui si rivolgeva. Il 7 ottobre 2001, per esempio, Blair rilasciò un’importantissima dichiarazione per comunicare ufficialmente l’avvio delle azioni belliche in Afghanistan. Il suo discorso, dal punto di vista linguistico, era studiato per essere il più possibile comprensibile. Certo, il suo era un modo per sdoganare l’Euroenglish in una versione molto corretta, mentre la maggior parte degli italiani parla un inglese "pidginizzato", tollerante degli errori di cui quello che segue è un esempio ai limiti della forzatura, ma senz’altro molto emblematico: sul set del film "Giù la testa", per tenere a freno James Coburn che era piuttosto irrequieto, il direttore di produzione lo minacciava così: "You must stay on the bell with me!" , e anche: "Where do you go, for the roofs ?". Il povero Coburn ascoltava stranito, perché capiva ogni singola parola ma non il senso di una traduzione letterale di "Hai da stà in campana con me" e "Ma ’ndo vai, pè tetti ?".
La giornata europea delle lingue. In occasione dell’odierna giornata europea delle lingue il Commissario europeo per il multilinguismo, Leonard Orban, presenta la relazione finale "Promuovere la motivazione per l’apprendimento delle lingue", composta da raccomandazioni che riguardano l’apprendimento permanente delle lingue, il potenziale dei mezzi di comunicazione nel sostenere l’apprendimento delle lingue, l’incentivazione delle lingue nell’impresa, nei settori dell’interpretazione e della traduzione, nello sviluppo di lingue regionali o minoritarie. Sempre oggi, il Commissario attiva sul suo sito "Dite la vostra", una rubrica interattiva con sondaggi complementari alla consultazione pubblica online, lanciata per ottenere informazioni e dati volti a migliorare gli scambi comunicativi tra i 27 paesi dell’Ue. E proprio mentre l’Europa istituzionale si mobilita, in Italia le iniziative per celebrare la giornata sono soltanto 13; un insuccesso prevedibile dal momento che il Ministero della pubblica Istruzione non ha sostenuto la giornata, nemmeno segnalando l’evento tra i tanti che appaiono sul suo portale internet. Una ulteriore conferma della volontà del ministro Fioroni di declassare le lingue straniere, in netta controtendenza con le competenze di base definite in ambito europeo che attestano la comunicazione plurilingue al secondo posto, subito dopo la comunicazione nella madrelingua e ancor prima di matematica, scienze e tecnologia.
L’economia plurilingue. In buona parte, il potere contrattuale di un Paese a livello sociale, culturale ed economico si basa sulle interazioni attivate con precisi scambi comunicativi; è questo, in sintesi, il messaggio racchiuso nella comunicazione della Commissione europea del 2005: "Un nuovo quadro strategico per il multilinguismo" che fa riferimento alle politiche linguistiche, con il chiaro intento di responsabilizzare gli Stati dell’Ue nello sviluppo e nella diffusione, per legge, del multilinguismo. Una delle 3 principali strategie individuate è racchiusa nel capitolo: "L’economia multilingue" che specifica: "L’Unione europea sta sviluppando un’economia altamente competitiva.... Ci sono tuttavia segnali secondo cui le compagnie europee perdono opportunità perché non parlano le lingue dei loro clienti". Le aziende europee, a causa della scarsa conoscenza delle lingue - soprattutto dell’inglese - non sono in grado di sviluppare proficui rapporti commerciali determinando una perdita stimata in cento miliardi di euro all’anno sulla base di contratti mancati per un valore di 100.000 euro su 945.000 imprese attive nel settore dell’export.
"È mia intenzione porre il multilinguismo al centro della strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione", ha dichiarato il commissario Orban che venerdì 21 settembre ha presieduto la conferenza " Languages mean business", con rappresentanti del mondo delle imprese, della formazione, nonché autorità in materia di istruzione e progetti di sviluppo nazionale e regionale per dare slancio all’apprendimento linguistico durante tutto l’arco della vita, inteso come investimento umano ed economico. E anche sulla base di questa scenario di globalizzazione, c’è senz’altro da domandarsi come mai nelle 281 pagine del programma dell’Unione, alle voci Istruzione e Università, non vi sia traccia di formazione, apprendimento e insegnamento delle lingue straniere.