IL TRAMONTO DEI SOCIOLOGI
Così muore la scienza del tutto
Trasformazioni veloci e mondo liquido la sociologia non basta più
Dagli anni ’60 in poi le scienze sociali hanno dominato la lettura della realtà: ogni fenomeno veniva interpretato attraverso gli occhiali di questa disciplina
Ma tra l’invasione dei "tuttologi" e gli eccessi specialistici ora è cominciato il declino
E gli intellettuali di riferimento sono diventati gli economisti, i filosofi, gli antropologi
Il segno del declino è stata la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca che verrà chiamato "Identità Culturale Italiana"
La tesi principale era che individui e Stato non si possono pensare come autosufficienti
Ma l’eccesso di obiettivi e di metodi, ha finito per frammentare la disciplina
di Carlo Galli (la Repubblica, 01.05.2010)
Sul sito web della Fondazione Treccani una delle figure di punta della sociologia del nostro Paese - il milanese Guido Martinotti - ha criticato aspramente la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca denominato «Identità Culturale Italiana». Ma a partire dalla denuncia della debolezza organizzativa di una disciplina che non riesce a opporsi a simili diktat, viene introdotta una articolata riflessione - a cui hanno partecipato parecchi altri sociologi - su quella che viene definita la "crisi della sociologia": crisi di paradigmi conoscitivi, di presenza accademica, di visibilità pubblica; crisi del sociologo come «tuttologo», insomma. Una crisi d’identità che viene dopo una stagione di notevoli successi.
A partire dagli anni Sessanta, infatti, ha conosciuto un grande incremento della sua penetrazione dell’Università, grande popolarità dei suoi metodi (il questionario), grande appetibilità del suo sapere per gli enti pubblici di vari livelli che alle analisi sociologiche - il prodotto tipico delle ricerche commissionate (e finanziate) ai sociologi - affidavano e ancora oggi affidano la legittimazione delle loro politiche d’intervento sulla società italiana. Un successo anche d’immagine, tanto più notevole quanto più la cultura italiana non era stata certo benevola, inizialmente, verso la disciplina: contro la quale avevano pesato i pregiudizi della filosofia idealistica - «inferma scienza» fu definita da Croce - ma anche la chiusura del marxismo, nonché l’originaria diffidenza di altri mondi scientifici più influenti.
Una disciplina, la sociologia, che sembrava povera di pedigree e di lignaggio scientifico, insomma. Il che, però, non era vero. Nata nel grembo della filosofia del tardo Settecento e dell’Ottocento - da Bonald a Comte, da Saint-Simon a Spencer -, la sociologia si afferma tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX con l’opera di padri fondatori che sono dei giganti del sapere e della ricerca: da Durkheim a Tönnies, da Weber a Simmel, da Pareto a Parsons. E in seguito, nel corso del Novecento, la sociologia è stata illustrata da personaggi come Elias e Goffman, Boudon e Luhmann, Schütz e Merton, Elster e Riesman, Giddens e Beck - solo per fare qualche nome tra i più famosi, noti anche a un pubblico non specialistico.
Una simile fioritura d’ingegni - diversissimi tra loro quanto a stili e metodi di pensiero - testimonia della straordinaria rilevanza e fecondità del proposito originario della sociologia: l’analisi della società, cioè della dimensione che si colloca tra il soggetto e lo Stato, e che dà loro sostanza e fondamento. La sociologia assume infatti che i pilastri del pensiero politico moderno - individualità e statualità - non possano essere pensati come entità autosufficienti, ma siano comprensibili come momenti interni a un universo di relazioni e di interazioni reali, appunto la società, nella quale i soggetti agiscono rapportandosi variamente con altri soggetti, con le comunità, con le istituzioni, con le forme del potere.
È questa concretezza e questa multiformità relazionale della società la sfida a cui la sociologia vuole rispondere, evitando quelle che le paiono le parzialità, le semplificazioni, le astrattezze di altre discipline, come la filosofia, l’economia, il diritto. Questo progetto di analisi del Tutto si è ben presto arricchito e complicato: la sociologia si è divisa tra sostenitori del primato dell’agire soggettivo e teorici della precedenza delle grandi strutture impersonali; tra fautori dei metodi qualitativi e di quelli quantitativi o empirici; tra strutturalisti e funzionalisti; tra chi crede del ruolo applicativo della sociologia - un sapere che avrebbe la vocazione a stabilire una sorta di alleanza "illuministica" o tecnocratica col potere - e chi ne enfatizza la capacità critica e demistificatrice.
Soprattutto, la sociologia si è profondamente articolata in numerosissime branche e specializzazioni, che indagano ogni angolo e ogni versante dell’esperienza individuale e dell’esistenza collettiva, stabilendo così nuovi legami - alla pari - con altre scienze umane.
Eppure, in questa crescita c’è stato anche il seme del declino. L’ampliamento dello spettro degli obiettivi, proprio in ottemperanza all’imperativo di aderire alla realtà sociale in tutte le sue molteplici dimensioni, ha fatto nascere molte sociologie quasi autoreferenziali, sprofondate nei propri oggetti anche minimi, poco capaci di dialogare tra loro e molto differenziate per metodi e obiettivi, che faticano a essere riconducibili a un’epistemologia comune, a quella "terza cultura" - non solo scientifica e non solo umanistica - che la sociologia vorrebbe essere.
A ciò si aggiunga la continua trasformazione dell’oggetto - la società -, causata dalle sconvolgenti trasformazioni del mondo contemporaneo, dei suoi spazi politici e dei suoi attori, che disorienta, oltre che altre discipline, anche e forse più la sociologia: proprio in quanto vuol essere sensibile a ogni mutamento, questa è destinata a inseguire e a volte anche a subire i cambi di struttura e di paradigma che la nostra epoca di transizione reca con sé. Il Tutto sociale si è fatto tanto complesso da risultare quasi imprendibile.
Così, benché ancora molto "utilizzati", non si può dire che i sociologi siano oggi gli intellettuali di riferimento primario, dubbio onore che tocca più ai filosofi, agli economisti, ai politologi, agli antropologi. Al netto di ogni altro problema specificamente italiano - necessità di ringiovanimento, di riorganizzazione, di internazionalizzazione - proprio nel vanto della sociologia, la sua capacità di aderire a una realtà mobile e sfuggente come la società, sta anche la fonte primaria dei suoi problemi.
Noi eravamo saliti in cattedra ma oggi un comico conta di più
La disciplina ha avuto grande successo accademico, tra facoltà e corsi di laurea Eppure non si è riusciti a intaccare la mentalità prevalente che è rimasta parolaia
di Franco Ferrarotti (la Repubblica, 01.05.2010)
Sembra ormai un dato acquisito: la sociologia è in crisi; il sociologo sta uscendo di scena. Dopo la «sbornia sociologica», come la chiamava il tardo-crociano Francesco Compagna, il sociologo appare evanescente, ha perso il passo. Ma, storicamente, la sociologia è nata da una grande crisi; è figlia ingrata della transizione dal mondo contadino alla società industriale. E ha avuto, non solo in Europa o negli Stati Uniti, ma anche in Italia, i suoi successi, se non i suoi trionfi. Una grande vittoria, però, è un grande pericolo. Il successo rende timidi. Si esita a cambiare formule o impostazioni che hanno funzionato.
In Italia, siamo al paradosso. Come in una pochade da Café du Commerce, si verifica una fulminea sostituzione di persona; il sociologo si presenta sotto mentite spoglie; è scomparso. In due tempi. Dapprima, questioni sociologicamente rilevanti sono affrontate e discusse da altri degni analisti sociali, soprattutto psicologi e antropologi. Come mai? Con tutto il rispetto per questi colleghi - già in cattedra per la sociologia ho aiutato a suo tempo Tullio Tentori ed Ernesto Valentini ad avere la loro in antropologia e psicologia - a parte il fatto che credo fermamente nell’impostazione multidisciplinare della ricerca, i committenti pubblici e privati li ritrovano probabilmente più «maneggevoli», forse meno sulfurei.
Gli antropologi fanno ancora pensare ai popoli detti «primitivi». Sanno di post-colonialismo. Gli psicologi riducono la società a stati d’animo, predicano l’adattamento, se non la rassegnazione. I sociologi chiamano in causa le strutture della società, sospendono un interrogativo sul potere, sui gruppi sociali che lo detengono, sulla legittimità non solo formale, ma sostanziale. Misurano lo scarto fra le cose dette e le cose fatte. Scoprono, qualche volta, che una classe dirigente mira più a durare che a dirigere, che si comporta come una truppa d’occupazione in un paese che non conosce.
In un secondo momento, specialmente in Italia, il sociologo è surrogato dal professore di estetica e dal comico. Niente da dire sulla professionalità di queste figure. Ma non hanno mai fatto una ricerca, come si dice, sul campo. E perché dovrebbero? A loro basta la battuta, la strizzatina d’occhio, il gesto. Non hanno bisogno di fare ricerca. Intuiscono. Vengono direttamente dalla «commedia dell’arte». Sono collegati con la più collaudata tradizione politica e culturale italiana: tradurre i problemi etici in atteggiamenti estetici; far ridere per dimenticare di piangere. Crozza e Benigni invece di Vilfredo Pareto o, più modestamente, Alfredo Niceforo, quello che aveva studiato la pellagra al Nord Est e di cui i nuovi ricchi di quelle parti farebbero bene a ricordarsi.
Per riassumere e concludere, la sociologia in Italia, nel corso degli ultimi cinquant’anni, ha ottenuto un grande successo accademico-burocratico-organizzativo. Ci sono oggi cattedre, facoltà, corsi di laurea, dottorati in sociologia. Non è riuscita a intaccare, tanto meno a trasformare la mentalità prevalente, che è rimasta ciceroniana, parolaia, ciarlatanesca - in una parola, incapace di ragionare pacatamente e di operare efficacemente con riguardo alle questioni specifiche di un paese in bilico, divenuto industriale ma senza una cultura industriale, privo di una lucidità condivisa.
Le tre grandi tradizioni culturali italiane - cattolica, marxistica, liberaldemocratica - non sono strumentalmente in grado di aiutare e portare al compimento della transizione. Ma hanno un temibile potere di veto. Gli intellettuali più aperti al nuovo si sentono esuli in patria. Rispetto ai problemi quotidiani della loro comunità, sono dei «separati in casa».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
FLS
Sociologia.
Facciamo attenzione all’attenzione, è l’ultimo baluardo di libertà
Già nel 1969 il Nobel Simon ne sottolineava il valore economico. Uno studio di Campo evidenzia le dinamiche sociali e umane di questo bene individuale oggi tanto conteso dai nuovi media
di Simone Paliaga (Avvenire, mercoledì 11 marzo 2020)
«La Pasqua scorsa i miei vicini hanno comprato per la loro figlia un paio di conigli. Non so se intenzionalmente o per sbaglio, fatto sta che uno era maschio e l’altra femmina, e così ora viviamo in un mondo ricco di conigli. Che un mondo sia ricco o povero di conigli è una questione relativa. Ma poiché il cibo è essenziale per le popolazioni biologiche, potremmo giudicare se il mondo è povero o ricco di conigli, mettendo a confronto il numero di conigli con la quantità di lattuga ed erba a loro disposizione. Un mondo ricco di conigli è un mondo povero di lattuga e viceversa». Attraverso questa metafora, nel lontano 1969, nel corso della conferenza “Progettare organizzazioni in un mondo ricco di informazioni”, oggi pubblicata nel volumetto Il labirinto dell’attenzione (Luca Sossella Editore, pagine 94, euro 10), Herbert Simon conduce a riflettere su come in un mondo abbondante di informazioni la risorsa che viene a mancare sia l’attenzione, inaugurando una branca di studi chiamata economia dell’attenzione.
Non si può dire che il futuro premio Nobel per l’economia non intuisca anzitempo questioni che solo oggi bussano alla porta. Il 1969 era l’anno in cui era partito il primo collegamento internet tra le due sponde dell’Atlantico e del timore che le nuove tecnologie producessero effetti negativi sulle facoltà mentali nessuno aveva contezza. Sovraccarico cognitivo, deterioramento dell’attenzione, difficoltà di concentrazione erano fantasmi ancora lontani, eppure Simon capì che con questi problemi prima o poi si sarebbero dovuti fare i conti.
Certo l’approccio di Simon è marcatamente utilitaristico ed economicista, e l’individualismo è il suo metodo di ricerca, ma il problema che tocca è sensibile. Considerare l’attenzione alla stregua di una risorsa, tuttavia, fraintende quanto essa pesi nella vita di ognuno. Ridurla a bene conteso da operatori economici misconosce quanto l’attenzione conti nella definizione dell’autonomia individuale e collettiva. Attraverso di essa maturano infatti le modalità con cui gli uomini diventano tali. O per dirla alla maniera di certi filosofi: l’attenzione riguarda i modi e le forme della individuazione o soggettivizzazione. Merito del sociologo Enrico Campo è di condurre la sua ricerca lungo una direzione non economicista come racconta La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale (pagine 272, euro 28), appena pubblicato dall’editore Donzelli.
Il dito puntato sulle nuove tecnologie è evidente. L’iperconnessione e la richiesta di essere multitasking sarebbero all’origine di diffuse difficoltà di memorizzazione, di scarsa produttività, di dispersione. Eppure lo sforzo di Campo porta a uscire dalla spirale interpretativa che costruisce un rapporto causale tra tecnologie digitali e distrazione. Il fenomeno dell’attenzione infatti sfugge alle considerazioni meccanicistiche come all’atteggiamento individualista. La relazione attentiva non si edifica su un rapporto uno a uno, di causa ed effetto, tra uomo e strumenti digitali. Come se il mondo circostante non ci fosse. Per comprenderla a fondo bisogna invece cogliere l’organizzazione sociale dell’attenzione e non il suo aspetto individuale.
Campo indaga l’attenzione abbandonando il paradigma cartesiano, che chiude il soggetto dentro la sua testa. Adottando gli strumenti offerti dalle scienze cognitive meno riduzioniste, tra cui quelli partoriti da Gregory Bateson, e dalla ricerca sociale d’impronta fenomenologica, da Alfred Schütz a Erving Goffmann, Campo allarga l’idea di mente al fine di sottrarla ai condizionamenti dello psicologismo, da un lato, e dell’individualismo dall’altro. La mente, e di conseguenza l’attenzione, non sarebbe una realtà rinchiusa entro la teca cranica. A condizionarne modulazione e sensibilità non sono certo esclusivamente variabili soggettive e cognitive. Intervengono invece cultura, relazioni sociali, narrazioni e quindi apparati tecnici. E questo vale anche per l’attenzione, che spazia tra ambiti diversi, sfonda confini e danza da un dominio all’altro. Di conseguenza il modello attentivo intrappolato tra deep attention, l’attenzione focale prolungata su un unico compito, e l’hyperattention, un’attenzione volatile, prossima alla dispersione, risulta inadeguato per descrivere l’attenzione ai tempi del digitale.
Entrambi questi atteggiamenti attentivi rappresentano degli eccessi poco consapevoli dei regimi di attenzione che contraddistinguono l’uomo. Egli vive contemporaneamente più mondi e non gli basta l’attenzione focale. Abita un mondo pubblico e uno privato, uno lavorativo e uno familiare, un mondo degli affetti e quello dell’interesse, quello dello svago e quello dell’impegno e infiniti altri che si intersecano tra loro. Ognuno di questi mondi reclama l’attenzione dell’uomo ed egli varca di continuo i confini tra l’uno e l’altro. Non si focalizza su uno soltanto, la sua mente eccede i confini e l’attenzione necessaria a consentirgli questo è qualcosa di più complesso dell’attenzione focale. Sarebbe inutile lamentarsi del suo deteriorarsi.
Occorre invece riflettere su come l’attenzione venga attirata su uno o sull’altro di questi mondi per essere valorizzata, misurata e trasformata in un bene da scambiare sul mercato. Quindi, al tempo dei big data, l’attenzione diventa sempre più economicamente rilevante, soprattutto con le tecnologie dell’informazione che producono e vendono contenuti. Ma «delegare al singolo individuo - conclude Enrico Campo - la capacità di resistere all’offensiva permanente ha l’effetto perverso di fomentare i sensi di colpa».
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO"... *
Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica
Reminisco, ergo sum: il pensiero "involontario"
di Simone D’Alessandro (Doppioero, 25 giugno 2019)
Secondo Ferrarotti, decano della sociologia italiana, gli uomini oltrepassano la prevedibilità perché hanno memoria. Paradossalmente è la consapevolezza dei ricorsi storici che ci rende affatto stufi di ciò che è razionalmente prevedibile. A renderci sfuggenti è proprio ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati.
L’assioma di Cartesio si rovescia: da Cogito ergo sum a Reminisco ergo sum.
In Il pensiero involontario nella società irretita, pubblicato quest’anno da Armando editore, egli affronta la memoria che costituisce l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra, tema che ricorre in altre sue opere precedenti. Il ricordo è, oggi, intaccato dalla comunicazione elettronica che lo rende superfluo.
Più che un saggio canonico è un pamphlet che analizza come la modernità dimentica, per citare il classico di Paul Connerton, in quanto funzionalmente portata verso questa fatalità.
La mancanza di memoria rende, infatti, l’umano sostituibile o impiegabile per altro.
Il suo agire meccanico e routinario viene preferito a quello imprevedibile dell’homo sapiens che coniuga la regola con l’emozione, direbbe de Masi.
Tanto vale sostituirlo con un’entità strumentale ben più efficiente, ma questo già accadeva con L’homme machine di de la Mettrie: utopia e distopia al tempo stesso.
Ferrarotti condanna la “ripetizione” come morte dell’invenzione radicale, perché la produzione si annulla nella cieca “riproduzione” e nell’incrementale “miglioramento” fine a se stesso.
Quando nulla cambia, quando tutto si dispiega in un eterno presente, l’unica cosa da fare è automatizzare l’esistente.
La memoria diventa, allora, strumento di resistenza verso tale deriva.
Essa non è semplicemente utile, né banalmente peculiare del nostro essere umani, detentori di un’identità personale da coltivare.
La memoria è molto di più, perché ci distoglie dalla retorica delle soluzioni facili che, proprio per questo, si rivelano sempre autoritarie giammai autorevoli.
La nostra società di Informatissimi idioti, altro fortunato titolo ferrarottiano di alcuni anni fa, viene algoritmicamente plagiata da un potere panoptico che riduce anche l’esercizio democratico in mero tecnicismo. Potere e autorità sono termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in questa facile analogia si nasconde una fallacia epistemologica.
Mentre il potere schiaccia, l’autorità permette la crescita.
La contrapposizione tra potere autoritario e proattività autorevole è un altro tema che assilla un intellettuale che è stato tra i primi frequentatori di Olivetti, addetto alla Presidenza per le Questioni Sociali nel 1949 e, successivamente, deputato per il Movimento di Comunità.
Ferrarotti appartiene a quella tradizione solida di intellettuali organici, resilienti e consapevoli del destino declinante dell’occidente.
In un momento in cui la filosofia e la sociologia vengono eliminate nelle università del Brasile, uno scienziato sociale rivendica il primato del pensiero umanistico, oggi costretto al suicidio dalle regole del profitto.
Applicazione disciplinata delle procedure o vocazione che metabolizza le tecniche rendendole apparentemente spontanee? Trasformazione di ciò che sei attraverso empowerment o attitudine che prevede miglioramento di ciò che già sei?
Questo è il dilemma nella società di oggi che deve scegliere se governare o essere governata dalla tecnica che elimina tutto ciò che ritiene disfunzionale.
Per maestri del pensiero quali Heidegger e Severino il destino sembrerebbe esser tracciato, ma in Ferrarotti vi è un imprevedibile vitalismo che disattiva ogni forma di disperazione.
Contestualmente alla pubblicazione del suo libro, la Luiss University Press dà alle stampe l’ultima fatica del filosofo francese Éric Sadin: Critica della ragione artificiale, nella quale si evidenzia il ruolo delle nuove tecnologie intelligenti che erodono le facoltà di giudizio e azione soggettiva. Forse non è un caso! Sadin, recuperando in senso letterale il ruolo politico della filosofia, svela il retro pensiero antiumanistico dei discorsi che sostengono l’indiscriminato sviluppo tecnologico.
Siamo giunti all’avveramento della profezia di Luhmann che negli ultimi suoi lavori annunciava l’avvento di una società senza persone?
Ferrarotti non cade nel tranello dei radicalismi. Evita di sposare la causa degli “apocalittici”, ma trova ingenuo l’atteggiamento ottimista degli “integrati”.
Ci ricorda che il vero pensiero non cede alle tentazioni della soluzione finale, piuttosto ci prepara a vivere quotidianamente con il problema: «l’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere, è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. Non si tratta di contemplare rassegnati. Non è in gioco la Gelassenheit heideggeriana e neppure il “surrender”, la resa di Kurt H. Wolf. Si tratta di un’attesa vigile». Per questo bisogna contrastare la procedura, il modello come soluzione finale: il modello è un deja vù!
C’è sempre uno scienziato che crede di aver inventato un modello totalmente innovativo (ingenuità) che possiede qualcosa che altri modelli non hanno (propaganda) e che permette, una volta implementato, di risolvere tutti i problemi (utopia).
Un modello è una variabile dipendente da altre variabili: il contesto, i pregiudizi dell’epoca, le persone che trovi lungo il cammino, il ruolo effettivo che ricopri, la casualità.
L’allenamento mentale dell’uomo in grado di guidare il cambiamento, dovrebbe basarsi sulla capacità critica di falsificare tutti i modelli.
I modelli sono riduzionistici rispetto alle dinamiche del reale. Non si può governare la complessità rinunciando alla complessità. Di questo la sociologia critica è perfettamente consapevole.
Un modello che diventa procedura genera mostri, ostacolando il salto di qualità.
Più di cento anni fa, Max Weber lanciava un monito sulle conseguenze del processo di razionalizzazione della società occidentale, rinchiusa in una gabbia d’acciaio.
Quel monito è rimasto inascoltato!
Il XXI secolo ha spalancato le porte alla Dittatura del calcolo, come ci ricorda il matematico Zellini nella sua ultima pubblicazione del 2018.
Aumentano i libri sulla gestione automatica, cibernetica o per emulazione-memorizzazione di modelli. Eppure i livelli di criticità e di conflittualità - politica, organizzativa, economica, sociale, ambientale - sono aumentati rispetto al cosiddetto trentennio glorioso del secolo scorso.
Anche negli anni precedenti ai due conflitti mondiali, si erano imposti paradigmi di stampo positivistico finalizzati a modellizzare la realtà per ottimizzarne la funzionalità.
Risultato: le procedure generano mostri! Il positivismo ha creato sistemi autoritari.
Il modello migliora ciò che già sei, ma non cambia la natura di ciò che sei.
Allora vale la pena riscoprirsi imprevedibili e non farsi irretire dalla macchina.
L’uomo prende decisioni anche in assenza di informazioni. La macchina no!
Il 15 gennaio 2009, il pilota di linea Chesley Burnett “Sully” Sullenberger fa ammarare il volo US Airways 1549 sul fiume Hudson. Con la sua manovra, resa necessaria dall’impatto del velivolo con uno stormo di uccelli che manda in panne entrambi i motori, salva la vita a 155 persone.
Ciò nonostante l’aviazione lo sottopone a una commissione di inchiesta, perché ritiene che il pilota abbia agito in maniera pericolosa e avventata. La tesi sostenuta dagli ispettori era che avrebbe potuto fare ritorno presso l’aeroporto e atterrare con molti meno rischi. Solo dopo 15 mesi di indagini e decine di simulazioni, il NTSB convalida senza riserve la decisione di Sully.
Inizialmente una serie di test aveva sconfessato la scelta del pilota, ma si trattava di simulazioni che non tenevano conto dei 20 secondi che erano stati necessari a Sully per valutare la situazione dopo lo spegnimento dei motori. Includendo questo lasso di tempo nei test, la decisione del pilota si è dimostrata la più corretta.
Questa divagazione su una storia di vita era necessaria, perché consonante con il modo di osservare e interpretare la realtà di Ferrarotti.
L’analisi qualitativa della micro sociologia, fatta di esperienze singole e di “ricerche di comunità”, dalle quali emergono conoscenze non rilevabili con i dati statistici, fanno parte di quella tradizione della filosofia sociale e della sociologia qualitativa che non può essere cancellata, ma deve necessariamente coniugarsi con le metodologie di carattere quantitativo, accettando il problema dell’irriducibilità dei fenomeni sociali al mero dato misurabile.
Ferrarotti non dimentica la lezione ottocentesca, ancora attuale, di dover tenere assieme spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen) , mantenendo una rotta scientifica alimentata da una tensione critica verso fenomeni che corrodono la coesione sociale.
Egli appartiene alla schiera di quei pensatori che vogliono incidere sulla realtà senza cadere in tentazioni ideologiche, preservando l’onesta dello scienziato sociale.
A lui si addice la frase che egli stesso cita in un’altra delle sue opere pubblicate quest’anno: Potere e autorità.
Nell’ultima pagina di questo lavoro, cita l’ultima opera di Charles Wright Mills, The Marxists, dove in esergo compare una frase che ogni sociologo dovrebbe far propria:
«I have tried to be objective, I do not claimed to be detached». Ho cercato di essere obiettivo. Non pretendo di essere distaccato.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Quel diritto privato di saccheggiare i beni comuni
La legge è stato lo strumento per difendere la proprietà privata. E se agli inizi della rivoluzione industriale era usata nei paesi europei e negli Stati Uniti, in seguito è intervenuta per legalizzare il saccheggio delle materie prime nel Sud del pianeta. Ora quello stesso dispositivo consente la privatizzazione dell’acqua, dei servizi sociali e della conoscenza
di Antonio Negri (il manifesto, 04.05.2010)
Finalmente un «libro arrabbiato» e «coraggioso» da parte d’un ottimo giurista e di un’antropologa di buona caratura (Ugo Mattei e Laura Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, Bruno Mondadori). La relazione fra pensiero giuridico ed apologia delle istituzioni dell’ordine, della proprietà e dello sfruttamento di rado viene messa in questione e quando avviene lo è dall’esterno del mondo giuridico e in nome di ideologie moralizzanti o politicamente desuete.
Questo è invece un libro di critica del diritto dall’interno del diritto. «Con tutto quello che è stato scritto sulla dominazione imperialista e coloniale e sulla globalizzazione come manifestazione contemporanea di simili rapporti di potere fra l’Occidente opulento e il resto del mondo, colpisce la limitata attenzione dedicata al ruolo del diritto in questi processi. (...) Difficile non accorgersi che il diritto è stato ed è tuttora utilizzato per amministrare, sanzionare e soprattutto giustificare la conquista ed il saccheggio occidentale. Ed è proprio questo continuo e mai interrotto saccheggio che provoca - ben più delle ragioni legate a dinamiche corruttive interne ai paesi poveri con cui si tenta di colpevolizzare le vittime - la massiccia diseguaglianza globale. L’idea portante dell’autocelebrazione occidentale è legata a filo doppio a una certa concezione del diritto, quella che abbiamo reso in italiano, per sottolineare l’ambiguità, come regime di legalità (rule of law)».
Il progetto del libro non sarà allora solo quello di demistificare la funzione del diritto nella sua figura neo-liberale (cioè di indicarne la potenza di copertura, falsificazione e neutralizzazione dei rapporti di dominio in generale) - bensì sarà soprattutto quello di destrutturarne le figure, criticandolo e dissolvendone la funzione dall’interno dei suoi movimenti. In che modo?
Fornitori di legittimità
In primo luogo mostrando che il regime di legalità non è una sovrastruttura dell’economia liberista ma una macchina che funziona all’interno di questa, che per il liberalismo organizza direttamente la produzione e i mercati. Ne consegue che, nel colonialismo e nell’imperialismo, il diritto non ha fatto altro che svolgere ed applicare la rule of law, non solo estendendo i campi di efficacia del diritto borghese nei paesi fuori dal centro di sviluppo, ma costituendo, su queste figure, la vita dei popoli allo scopo di dominarli.
Vi è probabilmente un certo luxemburghismo in questo approccio - fosse non tutto corretto dal punto di vista della critica dell’economica politica ma sacrosanto da quello etico-politico. In secondo luogo, una volta riconosciuta la genesi, i processi di destrutturazione critica devono saper riconoscere chi fa funzionare la macchina, chi ne sono i «fornitori di legittimità».
Ecco dunque che ci troviamo di fronte a soggetti dominanti che utilizzano idealità supposte filosofiche e modernizzatrici, ipocrite costituzioni politiche ed in fine apparecchiature giuridiche funzionali che costituiscono i dispositivi di un materialissimo saccheggio delle ricchezze e dell’autonomia delle popolazioni dominate. Il diritto imperiale espande le figure del diritto coloniale, pretendendo nuova legittimazione in nome delle funzioni di globalizzazione. Che imbroglio!
A questo punto, in terzo luogo, il progetto di destrutturazione del diritto imperiale può rivolgersi verso l’interno dei paesi dai quali quel diritto è prodotto: per verificare un primo paradosso, e cioè che quel saccheggio del mondo intero, attuato attraverso figure giuridico-liberali, ora ritorna e deborda, all’interno dei paesi imperiali, imponendo lo smantellamento di quella legalità tradizionale che aveva permesso l’espansione e l’interno godimento dei sovrappiù imperialisti. Dopo aver tutto distrutto, il drago si mangia la coda.
Gli orti della resistenza
Come resistere a questi processi? Mattei e Nader sono, sul terreno politico, molto pessimisti. Il quadro che la globalizzazione ha fissato è, secondo loro, tragico. Anche le politiche della presidenza Obama - e la promessa di bloccare gli eccessi imperialisti bushani - sembrano loro perfettamente coerenti, nel bene o nel male, con il quadro fin qui delineato. Obama non può interrompere la macchina dell’imperialismo americano.
A me sembra che i nostri autori vadano tuttavia, sul terreno giuridico, più a fondo di quanto facciano sul terreno politico; e che la loro analisi ripercorra quella medesima via che percorse la critica, da Evgeny Pashukanis, grande critico russo del diritto privato e pubblico in generale, su fino a Jacques Derrida, critico contemporaneo della sovranità. Quando Derrida destruttura le determinazioni di potere del regime capitalistico e ne conduce la critica fino ad estreme conclusioni, verifica l’affermazione di Pashukanis che, globalizzazione o meno, il diritto pubblico ed il diritto borghese in generale sono sempre e solamente figure dell’appropriazione privata e che il diritto è in realtà sempre l’autoriconoscimento e la potenza armata della società borghese.
Come avanzare, una volta stabiliti questi presupposti, sul terreno della proposta politica? Nella modernità si è sognato che, contro Hobbes e Locke, fosse possibile trovare nel pubblico, nello Stato, nel potere democratico un’alternativa allo «stato di natura» ed alle sue più violenti espressioni. Da un lato una frazione di gesuiti spagnoli, polemici contro la modernità, dall’altro, sul fronte del materialismo, Spinoza, lo pensarono nel Seicento: la passione del «bene comune» avrebbe dovuto costruire un terreno, un riparo, che ci salvasse dalla violenza dalla prima accumulazione originaria del capitalismo. Non ci riuscirono, quei bravi, poiché il capitalismo si affermò comunque, svilendo la religione a suo strumento di potere e chiudendo l’utopia materialista negli orti della resistenza. Così la costruzione di un nuovo diritto pubblico integrò la continuità del diritto privato. Ma oggi siamo arrivati ad un punto di rottura.
Lungi dal costituirsi in luoghi di assenza di diritto, il comune comincia a mostrarsi e può esser definito come una potenza costruita oltre il privato ed il pubblico, oltre il contratto e la sanzione statuale. Per non averlo compreso la sinistra socialista e quella comunista, in Europa e in tutto l’Occidente, sono fallite. Inoltre, da quando abbiamo cominciato a ragionare di e dentro il «postmoderno», non possiamo più semplicemente rimembrare e dar sfogo alle eroiche alternative costruite nel «moderno» attorno all’idea del «bene comune». Dobbiamo invece arrivare a porre questo problema in termini di totale discontinuità con l’idea di un’appropriazione individuale, privata o pubblica, di qualsiasi bene.
Il potere dei ricchi
Il comune diviene ora un progetto di gestione democratica, impiantata dell’espressione delle singolarità e della loro necessità di vivere e di produrre in maniera cooperativa. Il comune è una realtà già in parte costituita dall’attività umana nel postmoderno e, dall’altra parte, un progetto per costruire e ripartire tutto quello che l’attività produttiva costruisce. Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti. A questo punto l’ordine giuridico (e le sue istituzioni) dovrebbero essere predeterminate a questa finalità.
Ma che fare per impedire che anche quest’ipotesi si riveli utopica? «È necessario riconoscere che è impossibile trasformare in maniera significativa il regime di legalità imperiale in un regime di legalità popolare senza una profonda ristrutturazione dell’ambito politico. Per poter procedere in questo senso è tuttavia necessario demistificare alcuni tabù, tra cui quello della desiderabilià per se dell’esperienza storica fin qui conosciuta come regime di legalità». Così concludono Mattei e Nader: questo regime difende i ricchi, la loro appropriazione di gran parte delle ricchezze prodotte in questo mondo.
I ricchi saccheggiano i poveri. Io credo che, ciò detto, la parola passi più che dal giurista al politico, dal giurista all’antropologo. L’esperienza di legalità: come farla oscillare verso una radicale trasformazione? Quali sono le condizioni materiali che possono permetterlo e dentro le quali il processo è in atto? Quali regimi dell’immaginazione e quali gli apparati di resistenza che romperanno, nell’animo delle moltitudini, l’idea della legalità ed imporranno il dovere della disobbedienza? Qual è il grado attuale di maturazione della demistificazione della legalità, nonché di generalizzazione della volontà di destrutturare questa ignobile realtà?
I politici sembrano del tutto ignari di queste questioni. Quando l’antropologia era una scienza della trasformazione e, nello stesso momento, un insieme di dispositivi atti a tirar le conseguenze dei suoi presupposti, la politica non serviva, bastavano i grandi movimenti delle moltitudini. L’Illuminismo fu questo.
SONDAGGIO
Italiani a metà
un popolo diviso
Fieri di appartenere alla comunità nazionale anche se spesso pronti a considerare il Sud un peso. L’Italia si presenta ai 150 anni dell’Unità con molte contraddizioni ma con un’identità. Costruita soprattutto intorno all’attaccamento ai familiari e all’arte di arrangiarsi.
Ecco perché, nonostante le tensioni, continuiamo a sentirci cittadini dellostesso Paese. E perché rischiamo di scoppiare
di ILVO DIAMANTI *
CI SI avvia al 150esimo anniversario dell’unità nazionale fra molte divisioni. Tanto che alcuni fra i più autorevoli componenti del Comitato dei Garanti per le celebrazioni si sono dimessi. Per primo: Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente della Repubblica che, nel corso del suo mandato, ha investito sulla riaffermazione delle feste e dei simboli nazionali. Un atteggiamento che non pare condiviso dalla maggioranza di governo. Nella Lega, soprattutto. I cui leader, a partire da Bossi, fanno a gara nel sottolineare che c’è poco da celebrare. Che, per i padani veri, l’unità d’Italia anzi: l’Italia stessa non merita di essere celebrata. Così, ci si avvia a questo 150enario in modo dimesso e reticente. Un po’ come l’atteggiamento degli italiani verso l’Italia, descritto da un sondaggio di Demos per Repubblica. Difficile da interpretare in un solo modo. Tratteggia un popolo di "italiani a metà". Visto che, fra le diverse appartenenze territoriali, il 28% sceglie, anzitutto, l’Italia (comunque, in crescita di 5 punti rispetto al 2006). Il resto: cosmopoliti (27%) e localisti (45%). Dunque, veneti, siciliani, lombardi, napoletani, nordisti "e" - non "o" - italiani. Visto che quasi tutti (l’88%) si dicono (molto o abbastanza) "orgogliosi" della propria appartenenza nazionale. E quasi tutti (l’84%) considerano "positiva" (il 24% "molto") l’Unità d’Italia.
Italiani a metà. Perché, tuttavia, il 30% di essi considera il Sud un peso. Il 41% nel Nordest, ma il 24% anche nel Mezzogiorno. Cittadini di un paese diviso. Non solo dal punto di vista territoriale, ma - lo sappiamo bene - anche politico. E civile. Perché lontani dalle istituzioni e dallo Stato. L’orgoglio nazionale, infatti, appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici. La bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda e la cucina. Mentre gli elementi che specificano gli italiani rispetto agli altri popoli, secondo gli italiani stessi, evocano il "carattere nazionale": l’attaccamento alla famiglia e l’arte di arrangiarsi, sopra tutti gli altri. (Come abbiamo messo in luce anche su liMes, in altri scritti). Seguiti dalla "creatività" - nell’arte e nell’economia. Perché l’arte di arrangiarsi è, in fondo, un’arte. Evoca la capacità di innovare e di inventare. Gli italiani. Familisti, imprenditori, localisti, artigiani e artisti. In fondo alla graduatoria dei caratteri che li distinguono dagli altri popoli, non a caso, pongono la fiducia nello Stato e il senso civico. Mentre, fra gli avvenimenti che hanno modernizzato la Repubblica, al primo posto, indicano la "ricostruzione economica degli anni 50 e 60". La stagione nel corso della quale il nostro paese conquistò, faticosamente, lo sviluppo e il benessere. Quando gli ultimi dell’Occidente risalirono fino ai primi posti. E si guadagnarono un po’ di rispetto dagli altri. Non più soltanto mafiosi, poveracci ed emigranti. Ma lavoratori e imprenditori.
"Italiani a metà", però, non significa solo "divisi", ma anche ambivalenti e contraddittori. Perché, dopo la "ricostruzione", tra i fattori di modernizzazione della Repubblica, collocano lo "statuto dei lavoratori" e il "referendum sul divorzio". Avvenimenti che segnarono una stagione di mutamento sociale e civile profondo. E, tra i motivi che alimentano l’orgoglio nazionale, il 50% indica la Resistenza e il Risorgimento, il 43% la Costituzione (un orientamento in crescita di 7 punti percentuali rispetto al 2008). Quasi come lo sport e la Nazionale (ma, in questo caso, pensiamo che si tratti di una risposta reticente. Mentre quasi due italiani su tre ammettono la loro soddisfazione (non andiamo oltre...) di fronte al Tricolore e all’inno nazionale.
Insomma, gli italiani sono divisi, non solo dal punto di vista politico e territoriale, ma anche personale. Incoerenti anche di fronte a se stessi. In grado di manifestare malessere verso il Sud, fino ad auspicarne l’espulsione dal Paese. Oppure, identificati nel loro piccolo mondo, nella loro piccola patria locale: città, regione, Padania, Sud. E ancora: sfiduciati verso lo Stato, disillusi nei confronti delle istituzioni. Rassegnati al proprio - patologico e storico - deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso "cinico" dilatato e dilagante. Le stesse persone che si dicono orgogliose di essere italiane. Convinte che l’Unità sia una conquista positiva. Solo una minoranza minima (15%) sostiene che dividere Nord e Sud sia un obiettivo utile, da perseguire.
Gli stessi italiani raccolti intorno al Presidente Napolitano, guardato con fiducia da oltre 7 cittadini su 10. Come Ciampi, prima di lui. Prova che, se lo Stato è lontano, se il Paese è diviso, c’è grande bisogno di riferimenti e di istituzioni comuni, in cui riconoscersi "insieme". Ciò induce a leggere diversamente anche fenomeni che hanno assunto grande ampiezza e importanza crescente, come il voto alla Lega. Il cui significato è, anch’esso, in-coerente. E non può essere assimilato, in modo automatico, ai proclami e alle parole dei leader padani. Visto che 2 leghisti su 3 considerano positiva l’Unità d’Italia e 8 su 10 si dicono "orgogliosi" di essere italiani (il 52%: "molto"). D’altra parte, basta pensare all’Adunata Nazionale degli Alpini, ieri. Centinaia di migliaia di penne nere confluite a Bergamo, nel cuore di una zona leghista. Gli alpini, al cui interno le simpatie leghiste non sono poche (basta citare l’esempio di Gentilini, prosindaco di Treviso e "alpino doc"). Sfilano, orgogliosamente, dietro al Tricolore. Accompagnati da inni patriottici.
Un altro segno di questo Paese di italiani a metà. Che, proprio per questo, potrebbe non restare tale, a lungo. Dipende dal modo di rappresentarli - e di governarli - espresso dagli attori politici. Dalle istituzioni. Potrebbero cambiare. Divenire, finalmente, una "nazione" (per echeggiare Gian Enrico Rusconi). Oppure degradare ancora. Rinunciare del tutto alla loro identità nazionale. Al residuo di civismo che ancora esprimono. Gli "italiani a metà": potrebbero ridursi a "mezzi italiani". Per citare Edmondo Berselli: post-italiani. Non-cittadini di un paese provvisorio.
* la Repubblica, 10 maggio 2010