[...] L’esperienza di legalità: come farla oscillare verso una radicale trasformazione? Quali sono le condizioni materiali che possono permetterlo e dentro le quali il processo è in atto? Quali regimi dell’immaginazione e quali gli apparati di resistenza che romperanno, nell’animo delle moltitudini, l’idea della legalità ed imporranno il dovere della disobbedienza? Qual è il grado attuale di maturazione della demistificazione della legalità, nonché di generalizzazione della volontà di destrutturare questa ignobile realtà? I politici sembrano del tutto ignari di queste questioni. Quando l’antropologia era una scienza della trasformazione e, nello stesso momento, un insieme di dispositivi atti a tirar le conseguenze dei suoi presupposti, la politica non serviva, bastavano i grandi movimenti delle moltitudini. L’Illuminismo fu questo [...]
La nazione oscurata
di Guido Crainz (la Repubblica, 04.05.2010)
Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all’interno della coalizione.
Certo, anche nelle celebrazioni del 1911 e del 1961 non erano mancati momenti polemici, alimentati dalle forze intellettuali e politiche che si sentivano in qualche modo ai margini del processo (repubblicani, socialisti e cattolici, nel 1911), o non si riconoscevano per intero nell’orizzonte culturale che improntava le celebrazioni (e che risentiva ampiamente, nel 1961, dell’egemonia politica della Democrazia Cristiana). Erano momenti di riflessione - talora anche segnali di delusione, come già nel 1911 - che dialogavano con un’impostazione "forte" e prevalente delle celebrazioni e dell’identità: non ne mettevano in discussione le fondamenta né la svilivano. Erano, insomma, posizioni nobili. Avevano a che fare con un’idea alta di nazione, facevano parte a pieno titolo di quel confronto culturale di cui le identità si nutrono.
Non è così oggi, e le parole del ministro Calderoli - nel loro non eccelso profilo culturale - appaiono realmente contundenti proprio per questo: proprio perché non si infrangono contro un solido e condiviso muro ideale ma rivelano ancor di più, semmai, la fragilità crescente - pericolosamente crescente - delle barriere che sono state erette. La vicenda stessa delle celebrazioni ufficiali, del resto, ha mostrato più del dovuto quella fragilità. Ha illuminato anch’essa il dramma di un paese che sembra impaurito dal futuro e infastidito dal passato.
La riflessione deve muoversi allora su due versanti. Deve riguardare le dinamiche politiche che queste e altre sortite leghiste possono innestare (poco importa se contraddette o "interpretate" da altre forze del governo), ma anche - e soprattutto - lo "stato della nazione". Sul primo versante appare in tutta la sua pericolosità il rinsaldato connubio fra l’offensiva leghista - che i risultati elettorali avevano inevitabilmente preannunciato - e una egemonia del premier che da tempo mette sempre più apertamente in discussione i tratti costituzionali essenziali della Repubblica (anche per questo, forse, l’intervento del cardinale Angelo Bagnasco assume un valore particolare e in qualche modo impegnativo anche rispetto al riemergere di umori anti-risorgimentali che nel mondo cattolico non sono mancati).
La pericolosità del connubio fra Berlusconi e Bossi è aumentata a dismisura proprio dallo "stato della nazione", e il confronto con il 1911 e il 1961 è purtroppo illuminante. Nel 1911 il paese era attraversato sì da contraddizioni sociali e da tensioni anche forti ma si era ormai avviato all’industralizzazione e a forme democratiche meno incompiute: in quello stesso anno, ad esempio, il governo annunciava la riforma elettorale che avrebbe portato di lì a poco al suffragio universale maschile. Si pensi anche al centenario dell’unità nazionale, nel 1961: era celebrato nel pieno del "miracolo economico", e le euforie del boom nascondevano semmai le contraddizioni pur esistenti, sia nel presente che nel passato.
Oggi, invece, vengono al pettine tutti i nodi di una crisi della Repubblica che aveva avuto la sua incubazione negli anni ottanta e il suo primo esplodere all’inizio del decennio successivo. Superati i momenti più drammatici di quel trauma il paese scelse - nella sua grande maggioranza - di non fare i conti con quei nodi. E quindi di aggravarli. Nel 1993 un bel libro di Gian Enrico Rusconi aveva come titolo Se cessiamo di essere una nazione. C’è da chiedersi se in un prossimo futuro non dovremo ricorrere a un titolo ancor più pessimistico.
MODERNI RECINTI
Quel diritto privato di saccheggiare i beni comuni
La legge è stato lo strumento per difendere la proprietà privata. E se agli inizi della rivoluzione industriale era usata nei paesi europei e negli Stati Uniti, in seguito è intervenuta per legalizzare il saccheggio delle materie prime nel Sud del pianeta. Ora quello stesso dispositivo consente la privatizzazione dell’acqua, dei servizi sociali e della conoscenza
di Toni Negri (il manifesto, 04.05.2010)
Finalmente un «libro arrabbiato» e «coraggioso» da parte d’un ottimo giurista e di un’antropologa di buona caratura (Ugo Mattei e Laura Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, Bruno Mondadori). La relazione fra pensiero giuridico ed apologia delle istituzioni dell’ordine, della proprietà e dello sfruttamento di rado viene messa in questione e quando avviene lo è dall’esterno del mondo giuridico e in nome di ideologie moralizzanti o politicamente desuete.
Questo è invece un libro di critica del diritto dall’interno del diritto. «Con tutto quello che è stato scritto sulla dominazione imperialista e coloniale e sulla globalizzazione come manifestazione contemporanea di simili rapporti di potere fra l’Occidente opulento e il resto del mondo, colpisce la limitata attenzione dedicata al ruolo del diritto in questi processi. (...) Difficile non accorgersi che il diritto è stato ed è tuttora utilizzato per amministrare, sanzionare e soprattutto giustificare la conquista ed il saccheggio occidentale. Ed è proprio questo continuo e mai interrotto saccheggio che provoca - ben più delle ragioni legate a dinamiche corruttive interne ai paesi poveri con cui si tenta di colpevolizzare le vittime - la massiccia diseguaglianza globale. L’idea portante dell’autocelebrazione occidentale è legata a filo doppio a una certa concezione del diritto, quella che abbiamo reso in italiano, per sottolineare l’ambiguità, come regime di legalità (rule of law)».
Il progetto del libro non sarà allora solo quello di demistificare la funzione del diritto nella sua figura neo-liberale (cioè di indicarne la potenza di copertura, falsificazione e neutralizzazione dei rapporti di dominio in generale) - bensì sarà soprattutto quello di destrutturarne le figure, criticandolo e dissolvendone la funzione dall’interno dei suoi movimenti. In che modo?
Fornitori di legittimità
In primo luogo mostrando che il regime di legalità non è una sovrastruttura dell’economia liberista ma una macchina che funziona all’interno di questa, che per il liberalismo organizza direttamente la produzione e i mercati. Ne consegue che, nel colonialismo e nell’imperialismo, il diritto non ha fatto altro che svolgere ed applicare la rule of law, non solo estendendo i campi di efficacia del diritto borghese nei paesi fuori dal centro di sviluppo, ma costituendo, su queste figure, la vita dei popoli allo scopo di dominarli.
Vi è probabilmente un certo luxemburghismo in questo approccio - fosse non tutto corretto dal punto di vista della critica dell’economica politica ma sacrosanto da quello etico-politico. In secondo luogo, una volta riconosciuta la genesi, i processi di destrutturazione critica devono saper riconoscere chi fa funzionare la macchina, chi ne sono i «fornitori di legittimità».
Ecco dunque che ci troviamo di fronte a soggetti dominanti che utilizzano idealità supposte filosofiche e modernizzatrici, ipocrite costituzioni politiche ed in fine apparecchiature giuridiche funzionali che costituiscono i dispositivi di un materialissimo saccheggio delle ricchezze e dell’autonomia delle popolazioni dominate. Il diritto imperiale espande le figure del diritto coloniale, pretendendo nuova legittimazione in nome delle funzioni di globalizzazione. Che imbroglio!
A questo punto, in terzo luogo, il progetto di destrutturazione del diritto imperiale può rivolgersi verso l’interno dei paesi dai quali quel diritto è prodotto: per verificare un primo paradosso, e cioè che quel saccheggio del mondo intero, attuato attraverso figure giuridico-liberali, ora ritorna e deborda, all’interno dei paesi imperiali, imponendo lo smantellamento di quella legalità tradizionale che aveva permesso l’espansione e l’interno godimento dei sovrappiù imperialisti. Dopo aver tutto distrutto, il drago si mangia la coda.
Gli orti della resistenza
Come resistere a questi processi? Mattei e Nader sono, sul terreno politico, molto pessimisti. Il quadro che la globalizzazione ha fissato è, secondo loro, tragico. Anche le politiche della presidenza Obama - e la promessa di bloccare gli eccessi imperialisti bushani - sembrano loro perfettamente coerenti, nel bene o nel male, con il quadro fin qui delineato. Obama non può interrompere la macchina dell’imperialismo americano.
A me sembra che i nostri autori vadano tuttavia, sul terreno giuridico, più a fondo di quanto facciano sul terreno politico; e che la loro analisi ripercorra quella medesima via che percorse la critica, da Evgeny Pashukanis, grande critico russo del diritto privato e pubblico in generale, su fino a Jacques Derrida, critico contemporaneo della sovranità. Quando Derrida destruttura le determinazioni di potere del regime capitalistico e ne conduce la critica fino ad estreme conclusioni, verifica l’affermazione di Pashukanis che, globalizzazione o meno, il diritto pubblico ed il diritto borghese in generale sono sempre e solamente figure dell’appropriazione privata e che il diritto è in realtà sempre l’autoriconoscimento e la potenza armata della società borghese.
Come avanzare, una volta stabiliti questi presupposti, sul terreno della proposta politica? Nella modernità si è sognato che, contro Hobbes e Locke, fosse possibile trovare nel pubblico, nello Stato, nel potere democratico un’alternativa allo «stato di natura» ed alle sue più violenti espressioni. Da un lato una frazione di gesuiti spagnoli, polemici contro la modernità, dall’altro, sul fronte del materialismo, Spinoza, lo pensarono nel Seicento: la passione del «bene comune» avrebbe dovuto costruire un terreno, un riparo, che ci salvasse dalla violenza dalla prima accumulazione originaria del capitalismo. Non ci riuscirono, quei bravi, poiché il capitalismo si affermò comunque, svilendo la religione a suo strumento di potere e chiudendo l’utopia materialista negli orti della resistenza. Così la costruzione di un nuovo diritto pubblico integrò la continuità del diritto privato. Ma oggi siamo arrivati ad un punto di rottura.
Lungi dal costituirsi in luoghi di assenza di diritto, il comune comincia a mostrarsi e può esser definito come una potenza costruita oltre il privato ed il pubblico, oltre il contratto e la sanzione statuale. Per non averlo compreso la sinistra socialista e quella comunista, in Europa e in tutto l’Occidente, sono fallite. Inoltre, da quando abbiamo cominciato a ragionare di e dentro il «postmoderno», non possiamo più semplicemente rimembrare e dar sfogo alle eroiche alternative costruite nel «moderno» attorno all’idea del «bene comune». Dobbiamo invece arrivare a porre questo problema in termini di totale discontinuità con l’idea di un’appropriazione individuale, privata o pubblica, di qualsiasi bene.
Il potere dei ricchi
Il comune diviene ora un progetto di gestione democratica, impiantata dell’espressione delle singolarità e della loro necessità di vivere e di produrre in maniera cooperativa. Il comune è una realtà già in parte costituita dall’attività umana nel postmoderno e, dall’altra parte, un progetto per costruire e ripartire tutto quello che l’attività produttiva costruisce. Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti. A questo punto l’ordine giuridico (e le sue istituzioni) dovrebbero essere predeterminate a questa finalità.
Ma che fare per impedire che anche quest’ipotesi si riveli utopica? «È necessario riconoscere che è impossibile trasformare in maniera significativa il regime di legalità imperiale in un regime di legalità popolare senza una profonda ristrutturazione dell’ambito politico. Per poter procedere in questo senso è tuttavia necessario demistificare alcuni tabù, tra cui quello della desiderabilià per se dell’esperienza storica fin qui conosciuta come regime di legalità». Così concludono Mattei e Nader: questo regime difende i ricchi, la loro appropriazione di gran parte delle ricchezze prodotte in questo mondo.
I ricchi saccheggiano i poveri. Io credo che, ciò detto, la parola passi più che dal giurista al politico, dal giurista all’antropologo. L’esperienza di legalità: come farla oscillare verso una radicale trasformazione? Quali sono le condizioni materiali che possono permetterlo e dentro le quali il processo è in atto? Quali regimi dell’immaginazione e quali gli apparati di resistenza che romperanno, nell’animo delle moltitudini, l’idea della legalità ed imporranno il dovere della disobbedienza? Qual è il grado attuale di maturazione della demistificazione della legalità, nonché di generalizzazione della volontà di destrutturare questa ignobile realtà? I politici sembrano del tutto ignari di queste questioni. Quando l’antropologia era una scienza della trasformazione e, nello stesso momento, un insieme di dispositivi atti a tirar le conseguenze dei suoi presupposti, la politica non serviva, bastavano i grandi movimenti delle moltitudini. L’Illuminismo fu questo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA.
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
L’Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale
Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste
Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione
di Guido Crainz (la Repubblica, 25.09.2010)
In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l’intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.
Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent’anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell’etica collettiva. Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.
Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi - se non nel corso di esso - venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all’emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti».
Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D’Alema, vide non il rafforzamento ma l’ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione - altamente simbolica - di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l’ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall’interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.
Ripresero così campo - sul versante leghista come su quello berlusconiano - ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell’area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall’Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l’emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi.
Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all’informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa).
Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l’esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.
È l’esito di un processo. È l’esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l’evoluzione stessa di quella parte della destra - un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" - che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste.
È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l’ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.
Sull’altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell’urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.
La corruzione dimenticata
C’è qualcosa che colpisce più ancora della ampiezza dei fenomeni di corruzione venuti alla luce o della pervasività del «sistema», per dirla con l’onorevole Denis Verdini. Colpisce soprattutto che il «sistema» abbia potuto rimodellarsi negli ultimi quindici anni in un silenzio quasi assoluto.
di Guido Crainz (la Repubblica, 18.05.2010)
Per molto tempo la politica e la società italiana avevano rappresentato - in primo luogo a se stesse - i guasti degli anni ottanta e novanta come un’anomalia sostanzialmente conclusa. E, progressivamente, come una vicenda ampiamente esagerata dalla faziosità dei giudici e da una cultura moralistica arcaica. In questo modo alla fine del 2008, di fronte al moltiplicarsi di nuove indagini che coinvolgevano anche il centrosinistra, sembrarono prevalere le reazioni che un titolo sintetizzò: Mani Pulite 2? No, grazie. Soprattutto, continuò una forte sottovalutazione della corruzione presente nel paese. Eppure in quello stesso periodo la Corte dei Conti valutava che la sua entità sfiorasse i 60 miliardi di euro, cifra molto più alta rispetto agli anni di Tangentopoli. Nel 2009, poi, le denunce per corruzione aumentarono del 230% e quelle per concussione del 150%: sono ancora dati della Corte dei Conti, resi pubblici il 17 febbraio di quest’anno. Cioè a 18 anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa e dall’avvio di Tangentopoli, e mentre già le cronache e le intercettazioni stavano disegnando un panorama inquietante. Caratterizzato però da tratti nuovi rispetto al passato, anche se ad esso ci ha riportati la mazzetta di un politico milanese nascosta in un pacchetto di sigarette.
C’è dunque da interrogarsi meglio sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il rimodellarsi del fenomeno, e anche sulle caratteristiche dei processi in corso. Già nel dicembre del 2008 Roberto Saviano rifletteva su La corruzione inconsapevole che affonda il paese e ne coglieva un tratto di fondo: nessuna delle persone indagate «aveva la percezione dell’errore, tantomeno del crimine (...). Cosa potrà mai cambiare in una prassi quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo»? Ne coglieva al tempo stesso il terreno di coltura: la corruzione si estende «quando la politica si accontenta di razzolare nell’esistente e rinuncia a farsi progetto e guida». In altri termini, come annotava poco dopo Piero Ottone ancora su questo giornale, quando viene a mancare la «religione civile»: che può nutrirsi di ideali di progresso o di conservazione ma è, appunto, concezione alta della politica.
Sono passati poi altri mesi e sono venuti alla luce contorni ancor più laceranti di un fenomeno che si è rimodellato sostanzialmente attorno a due cardini: da un lato la sostituzione del «rubare (soprattutto) per il partito» degli anni di Tangentopoli con il «rubare per sé»; dall’altro una eversione delle regole che non si è radicata solo in pratiche anomale o marginali ma all’interno di quella «pratica dell’emergenza» e di quella «politica del fare» che sono state erette a bussola e a bandiera.
Sul primo versante i dibattiti degli anni novanta sono ormai un ricordo sbiadito. Certo, continua ad apparirci indecente il tentativo di assolvere chi almeno «rubava per il partito» (ignorando che in questo modo la corruzione metteva a rischio lo stato di salute della democrazia) ma lo squallore che le intercettazioni portano oggi a galla non ha forse paragoni con il passato. Esse rivelano in realtà un rovesciamento più generale: il «rubare per sé» è così diffuso perché il «primato del sé» ha sostituito «il primato del partito» in una cultura che si è diffusa ben oltre la vita pubblica. Il degrado attuale della politica ci appare dunque non solo causa - come avvenne negli anni ottanta - ma in qualche modo anche conseguenza del trionfo dell’antipolitica. Una antipolitica che è andata al potere.
A questo stesso nodo rimanda un altro corposo «slittamento» rispetto agli anni di Tangentopoli. Allora ci si illuse - ci si volle illudere - che i guasti fossero annidati solo in un degenere ceto politico e che una virtuosa società civile ne fosse del tutto immune. In taluni interventi di oggi, all’opposto, sembra trasparire la tentazione di considerare il Palazzo come corrispettivo quasi inevitabile di una società civile irrimediabilmente perversa. Obbligato in qualche modo ad assecondare il flusso per non perdere consensi. Appaiono così fastidiose «anime belle» coloro che segnalano le responsabilità specifiche della politica: l’abdicazione a una selezione reale della classe dirigente, l’assenza di adeguate misure correttive, la delegittimazione della magistratura, le scelte relative a esenzioni, prescrizioni e condoni, le leggi ad personam, e così via.
Il secondo aspetto centrale dello scenario che si è delineato sta poi nel suo rapporto con alcuni cardini dell’azione del governo. Com’è noto, nulla di ciò che è stato pubblicato sarebbe venuto alla luce se fossero stati già approvati i vincoli alle intercettazioni voluti dalla maggioranza. E solo lo scandalo ha affossato una legge che avrebbe regalato alla Protezione civile una specialissima immunità. Era il corollario minore ma simbolico di un progetto di presidenzialismo che si accompagna all’indebolimento drastico dei controlli, delle regole e delle garanzie: questa è la reale posta in gioco, e i tempi della partita si stanno accorciando. Negli anni di Tangentopoli un intellettuale e poeta civilmente impegnato come Giovanni Raboni scriveva: c’è qualcosa che mi impedisce di esultare per la giustizia finalmente all’opera, ed è «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?». Forse il centrosinistra nel suo insieme dovrebbe porsi oggi la stessa domanda.
L’ANNIVERSARIO
Unità d’Italia, Napolitano a Genova
"Celebrazioni non sono tempo perso"
Il presidente della Repubblica invita le forze politiche a evitare polemiche pregiudiziali e respinge tesi storiche infondate che vorrebbero un Sud da abbandonare a se stesso. Anche perché "la maggioranza dei garibaldini venivanon dal Nord"*
GENOVA - Tutte le iniziative comprese nel "sobrio" programma per celebrare il 150/o dell’Unità d’Italia "non sono tempo perso e denaro sprecato, ma fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi". Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a bordo della portaerei "Garibaldi" per il discorso ufficiale di Genova, implicitamente replicando alle dichiarazioni di diversi esponenti della Lega, con Umberto Bossi . Il capo dello Stato prende la parola nell’hangar della portaerei, al suo fianco, i presidenti del Senato, Renato Schifani, e della Camera, Gianfranco Fini, e il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, insieme ai vertici delle forze armate e delle istituzioni locali. Tra gli esponenti politici, il segretario dell’Udc, Pier Ferdinando Casini.
Reagire a tesi storiche infondate.
Per il capo dello Stato, "non è retorica reagire a tesi storicamente infondate, come quelle tendenti ad avvalorare ipotesi di unificazione parziale dell’Italia abbandonando il Sud al suo destino’’. Ipotesi queste, ’’che non furono mai abbracciate da alcuna delle forze motrici e delle personalità rappresentative del movimento per l’unità’’. "Far rivivere nella memoria e nella coscienza del Paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità con cui nacque l’Italia serve a offrire una fonte di coesione sociale come base essenziale di ogni avanzamento, tanto del Nord quanto del Sud, in un sempre più arduo contesto mondiale".
Unità d’Italia, no a polemiche pregiudiziali.
Il presidente della Repubblica sottolinea con forza come i festeggiamenti per l’Unità d’Italia "non possono formare oggetto di polemica pregiudiziale da parte di nessuna forza politica. C’è spazio per tutti i punti di vista e per tutti i contributi. Solo così onoriamo i patrioti, gli eroi e i caduti dei mille che salparono da Genova in questo giorno il 5 maggio di 150 anni orsono". Patrioti che "erano in grande maggioranza lombardi, veneti, liguri", "italiani che si sentivano italiani e che accorrevano là dove altri italiani andavano sorretti nella lotta per liberarsi e ricongiungersi in un’Italia finalmente unificata".
Orgoglio nazionale per affrontare il futuro.
Napolitano sui luoghi dove fu conquistata l’unità d’Italia. Per rinfrescare la memoria e rafforzare la consapevolezza comune delle radici. "Celebrando il 150/o dell’Unità d’Italia guardiamo avanti, traendo dalle nostre radici fresca linfa per rinnovare tutto quello che c’è da rinnovare nella società e nello Stato" dice il capo dello Stato. Ma bisogna "recuperare motivi di fierezza e di orgoglio nazionale, perché ne abbiamo bisogno. Ci è necessaria questa più matura consapevolezza storica comune anche per affrontare con la necessaria fiducia le sfide che ci attendono e già mettono alla prova il nostro Paese. Ci è necessaria per tenere con dignità il nostro posto in un mondo che è cambiato e che cambia".
In difesa di Garibaldi.
I mille erano guidati da un "condottiero" coraggioso e capace. A Giuseppe Garibaldi rende omaggio Giorgio Napolitano, per ripulire la sua figura da "grossolane denigrazioni". Il presidente ricorda le "capacità di attrazione e di guida", il "coraggio e la "perizia" del condottiero. Non a caso, prima della cerimonia Napolitano ha voluto recarsi allo scoglio di Quarto, dove la spedizione dei mille salpò. E il prossimo 11 maggio il presidente sarà in Sicilia, dapprima a Marsala, dove le camicie rosse sbarcarono, e poi ancora a Calatafimi.
* la Repubblica, 05 maggio 2010