Filosofia

TOMMASO ROSSI. Nato a San Giorgio la Montagna, nel Sannio, sul finire dell’anno 1673 ... Contemporaneo e amico di G.B. Vico. Le Edizioni di Storia e Letteratura ripubblicano le sue "Opere filosofiche" - a cura di pfls

sabato 31 marzo 2007.
 

FILOSOFIA

Visse fra ’600 e ’700 e fu amico del grande filosofo partenopeo. Venne ordinato prete dal futuro Benedetto XIII. L’opera omnia

Tommaso Rossi, ecco il Vico cattolico

di Francesco Tomatis (Avvenire, 31.03.2007)

Contemporaneo e amico di Giambattista Vico, che di lui scrisse d’esser degno «non già di Montefuscolo, ma della più famosa Università dell’Europa», Tommaso Rossi fu ed è tuttora un filosofo poco noto del Settecento, il quale riallacciandosi a Platone, mediato dal neoplatonismo rinascimentale italiano di Ficino e Pico della Mirandola, ma anche attingendo alle opere del catalano Lullo, svolge nei suoi lavori un’interessante critica alle filosofie atomistiche e dualistiche - Epicuro, Lucrezio e Cartesio in particolare -, persino a Locke e Spinoza, elaborando una filosofia dell’incarnazione cristiana, in cui l’uomo è centro armonizzatore del mondo spirituale e di quello materiale.

Nato a San Giorgio la Montagna, nel Sannio, sul finire dell’anno 1673, dopo diversi anni di studi teologici e giuridici a Napoli venne ordinato prete a Benevento, nel 1697, dall’allora arcivescovo Vincenzo Maria Orsini, poi eletto papa Benedetto XIII nel 1724. E quello con il cardinale Orsini, oltre che successivamente con il Vico, fu un rapporto duraturo e stimolante per Tommaso Rossi. Lunga e lenta fu la sua formazione filosofica, coltivata parallelamente all’attività pastorale svolta con umiltà e dedizione, proprio nel senso dell’incarnazione cristiana e del sacrificio divino e umano che sarà al centro della sua prima indagine scritta, dedicata alle Considerazioni di alcuni misterj divini raccolte in tre dialoghi, del 1724.

Gli studi universitari a Napoli si concluderanno infine solo nel 1730, anno in cui aveva già terminato la seconda delle sue opere pervenuteci, fatta leggere direttamente in manoscritto al Vico, Dell’animo dell’uomo, incentrata sulla confutazione della critica di Lucrezio alla concezione dell’immortalità dell’anima umana, pubblicata nel 1736.

A queste opere va poi aggiunta l’ultima, Della Mente sovrana del mondo, uscita nel 1743, in cui è compresa anche un’acuta critica a Locke e Spinoza.

A quasi cent’anni di distanza dall’ultima di una delle rare edizioni di alcuni di questi scritti di Tommaso Rossi, a cura di Angelomichele De Spirito viene intelligentemente colmata la lacuna, con un volume che raccoglie tutte e tre le opere rimasteci del filosofo campano, corredato da un ampio saggio introduttivo del curatore.

Nell’approfondimento di tutta la sua opera filosofica appare rilevante non solo l’originalità di una riproposizione del pensiero neoplatonico in età moderna, quanto soprattutto la sua capacità di dare una penetrante interpretazione filosofica del mistero dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo.

-  Tommaso Rossi
-  Opere filosofiche
-  Edizioni di Storia e Letteratura
-  Pagine 484. Euro 58,00


VICO contro LUDOVICO A. MURATORI E BENEDETTO XVI: LA STESSA CARITA’ "POMPOSA". Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori " del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori


LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO

Scienza, filosofia dell’arte e storia *

Dopo la rigogliosa fioritura di studi filosofici in un arco di tempo che va dal Quattrocento alla prima metà del Seicento, la cultura italiana cede il passo a quella europea. Mentre in Francia, in Germania, in Olanda, in Inghilterra riprendeva vigore la ricerca scientifica e filosofica e nascevano i grandi sistemi metafisici che abbiamo esaminato nei capitoli precedenti, in Italia si assisteva ad una forte attenuazione dell’interesse speculativo e ad uno scadimento di originalità. Se appare eccessivamente negativa la tesi storiografica di chi ritiene la cultura seicentesca italiana completamente distaccata da quella europea a causa della "decadenza morale e civile" degli italiani, non certamente può essere ritenuta accettabile la tesi contrapposta di chi ritiene che non ci sia stato in questo periodo un calo di tono, una caduta del vigore speculativo ed una certa provincializzazione della nostra cultura.

Certamente, se non proprio di distacco dal circuito culturale europeo e se non proprio di ristagno e di ripetizione delle vecchie idee, si può e si deve parlare, a proposito della cultura filosofica della seconda metà del Seicento, di perdita di autonomia e di caduta di originalità. Il rogo di Bruno, la condanna di Galilei, il trionfo della cultura controriformista avevano avuto come effetto immediato "la sterilizzazione intellettuale", per citare una icastica espressione di un famoso studioso italiano, Guido De Ruggiero.

Sugli intellettuali italiani pesa il clima di intolleranza instaurato dalla chiesa e soprattutto la completa scomparsa di quelle condizioni sociali e politiche che avevano favorito la nascita e lo sviluppo della cultura filosofica e letteraria nel corso del Rinascimento. In condizioni cosí sfavorevoli, però, non si riscontrano soltanto atteggiamenti rinunciatari e adesioni acritiche e supine alla mentalità controriformista. Se riprendono vigore e potere le voci della cultura cattolica piú tradizionalista ed ossequiente al principio di autorità, non mancano tentativi di mantenere in vita ed in un certo senso di sviluppare la tradizione scientifica e filosofica di stampo galileiano.

Continuano, ad esempio, ad avere una significativa importanza gli studi di matematica, di geometria, di astronomia, di biologia, di anatomia. Una particolare rilevanza rivestono, ad esempio, le ricerche geometriche di GEROLAMO SACCHERI (1667-1733) un gesuita studioso della logica aristotelica e professore di matematica nell’Università di Pavia. In una famosa opera (Euclide liberato da ogni macchia) Saccheri, nel tentativo di risolvere i problemi connessi alle difficoltà del quinto postulato di Euclide, pur senza averne chiara coscienza, costruí una geometria non euclidea pienamente coerente. Oltre al risultato ottenuto, va sottolineata anche la procedura di cui il Saccheri si serve. Egli, partendo dalla negazione del V postulato di Euclide, continua a sviluppare il ragionamento geometrico per verificare se senza l’utilizzo del V postulato si arriva all’assurdo o meno. Se non si arriva all’assurdo è dimostrata la falsità del postulato da verificare, se, invece, si cade in contraddizione rispetto alle premesse accettate, allora è dimostrata la sua validità. Saccheri, convinto assertore della validità del V postulato, credette di vedere l’assurdo là dove, invece, non c’era, e quindi non raggiunse la piena consapevolezza dell’originalità della sua ricerca, ma questo nulla toglie all’importanza del suo tentativo.

La stessa tradizione galileiana continua nell’Accademia del Cimento (1657-67) e, quando l’Accademia sarà chiusa, nei discepoli dei discepoli di Galilei. Attivo continuatore dello spirito galileiano fu LORENZO MAGALOTTI (1637-1712), discepolo di Viviani e, in qualità di segretario dell’Accademia, fedele testimone dell’attività scientifica che in essa si svolse. Ma la chiusura dell’Accademia e la conseguente perdita di un punto di riferimento e di un laboratorio adatto ad indagini scientifiche determinarono un indebolimento nello stesso Magalotti dello spirito scientifico piú genuino. Al suo originario interesse per la ricerca scientifica pura, si va sostituendo un interesse per la cultura enciclopedica e religiosa, interesse testimoniato dalle Lettere scientifiche ed erudite e dalle Lettere familiari contro gli atei.

Sulla falsariga dell’Accademia del Cimento si sviluppò a Napoli l’Accademia degli investiganti (1663-1670), che acquistò non poche benemerenze promuovendo una serie di indagini fisiche e medico-sanitarie. Accademie pubbliche o private sorsero a Bari, a Siena, a Bologna, a Venezia, costituendo, in tal modo, un circolo culturale parallelo e contrapposto alle Università. Mentre nelle Università si trasmetteva ancora una cultura scolastica, che non faceva molto per mascherare il proprio fastidio o la propria avversione per la nuova scienza, nelle Accademie, grazie al metodo sperimentale, si continuava a portare un contributo per costruire una nuova immagine del mondo.

Ma questo parallelismo e questa contrapposizione ai centri di cultura istituzionalizzati, mentre dal punto di vista culturale rappresentavano la forza delle Accademie, dal punto di vista dell’efficacia nella formazione di una nuova mentalità ne rappresentavano anche la debolezza. Esse, infatti, rimasero, come centri di cultura elitaria, esclusi dalla piú vasta circolazione delle idee che incidevano sulle scelte, culturali e non, della società.

Una particolare sollecitazione nell’impegno di ricerca gli accademici italiani la ricevevano dai primi contatti che stabilivano con le dottrine di Cartesio, di Gassendi, di Locke, di Leibniz. Ma purtroppo di tutta questa fioritura di studi non ci rimane alcun documento preciso. Non poche volte, per sottrarsi a sospetti e ad accuse, essi non affidano allo scritto le loro convinzioni ed il frutto delle loro ricerche. Ci rimangono, pertanto, soltanto testimonianze sulla importanza della loro attività, sulla validità della loro lezione, ma niente o quasi sulla natura dei problemi dibattuti e sulle risposte fornite a tali problemi. Dell’importanza dell’Accademia napoletana degli Investiganti abbiamo testimonianza, ad esempio, dalle autobiografie di Pietro Giannone e di Giambattista Vico.

Sappiamo che in essa furono attivi protagonisti TOMMASO CORNELIO (1614-1686), che per primo fece conoscere le opere di Cartesio in Italia, LEONARDO DA CAPUA (1617-1695) e FRANCESCO D’ANDREA (1625-1698). Da questi autori le idee di Telesio e di Galilei vengono combinate con la visione scientifica di Cartesio. Ma la loro metodologia rimane fedele allo sperimentalismo galileiano. Il loro programma, infatti, cosí come è esposto da Leonardo da Capua, punta a mantener ferma l’unione di esperienza e ragione:

-  posposta ogni qualunque autorità d’uomo mortale, alla
-  scorta della
-  sperienzia solamente, e del ragionevole discorso andar
-  dietro per ispiar le
-  cagioni dei naturali avvenimenti.
-  (cit da E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino 1966, vol. Il, pag. 869)

Ma questo fervore di studi scientifici e la polemica metodologica corrosiva di ogni autorità che lo accompagnava,ovviamente suscitavano sospetti ed avversione nell’autorità, religiosa, soprattutto a Napoli, dove la presenza degli spagnoli rendeva piú attiva e vigile l’Inquisizione. Così negli anni 1683-1696 si accese una forte disputa filosofica.

La filosofia moderna fu difesa con grande energia contro il principio di autorità e contro la tradizione aristotelica, oltre che da Francesco d’Andrea, da GIUSEPPE VALLETTA (1636-1714), che in una Historia filosofica difendeva cartesianesimo e gassendismo come continuatori della filosofia pitagorico-platonica.

Un primo accenno ad una polemica anticartesiana in Italia si trova nell’opera dì PAOLO MATTIA DORIA (1662-1746), studioso di fisica e matematica. Il Doria, dopo un primo entusiasmo per Cartesio, ripiega su posizioni platoniche. Il metodo geometrico che aveva sollecitato il gusto razionalistico di procedere con rigore e precisione in ogni analisi, si rivela agli occhi del Doria troppo ipotetico, incapace di giustificare i principi primi da cui prende le mosse. Come pure il Criterio della chiarezza e della distinzione sembra troppo generico e tale da ingenerare nelle menti una sorta di facilismo ottimistico, in virtù del quale molti credono che il sapere sia una conquista facile e conseguibile da parte di tutti. In un’altra opera contro Locke, Doria ripete, grosso modo, accuse analoghe a quelle rivolte a Cartesio, ma accentua i toni nella polemica che conduce in difesa delle idee innate.

Posizioni piú chiaramente platoniche espresse il beneventano TOMMASO ROSSI (1673-1743), che da Vico fu esaltato come "il piú grande e puro metafisico". Rossi, riagganciandosi a Ficino e a Pico, esalta la centralità dell’uomo, nel mondo e rappresenta l’universo come una realtà unitaria che, attraverso una serie di progressive unificazioni, va dalla materia fino a Dio.

Uno stemperamento del razionalismo cartesiano nell’empirismo galileiano fu tentato dal padovano ANTONIO CONTI (1677-1749). Venuto per caso a contatto con la filosofia cartesiana, si entusiasmò per essa e cominciò a studiarla con grande impegno. Ma, entusiasta anche della filosofia lockiana, tentò di conciliare i due filoni in una metodologia contemperante razionalismo ed empirismo.

Lo spirito conciliante del Conti svolge un ruolo di una certa importanza anche sul piano della filosofia dell’arte. Il razionalismo cartesiano aveva permeato di sé le discussioni sull’estetica ed aveva prodotto teorie che proclamavano la coincidenza del vero e del bello: la caratteristica prima di un’opera che voglia aspirare ad essere opera d’arte è che essa risponda al canone razionalista della verità . Nelle estetiche francesi, soprattutto, il sentimento e l’intuizione cedono rispetto all’intelletto. I rigidi canoni intellettualistici in Italia sono fortemente attenuati, o comunque non disgiunti da motivi fantastici ed emozionali.

Il Conti, per quanto come autore di poemi e sonetti indulga ad atteggiamenti didascalici e faccia della poesia uno strumento per la diffusione delle teorie filosofiche, come teorico dell’arte tenta la conciliazione tra intelletto e sentimento, tra ragione ed emozione. La poesia deve avere come vero contenuto la filosofia e la scienza, ma deve servirsi come mezzo espressivo delle immagini fantastiche capaci di "rapire l’intelletto" e "muovere la volontà".

Lo stesso atteggiamento pedagogico e didascalico caratterizza le considerazioni estetiche del maggiore teorico della filosofia dell’arte di questo periodo: GIAN VINCENZO GRAVINA (1664-1718). Poesia e cultura filosofica non possono essere disgiunte se non si vuole ridurre la poesia ad un puro passatempo privo di ogni funzione civilizzatrice. Attraverso la poesia, invece, bisogna operare la "correzione del costume e della favella dei popoli".

A tal fine egli recupera un concetto di poesia ricavato da Omero e da Dante. Ma il suo classicismo ed il suo razionalismo di ispirazione cartesiana sono filtrati attraverso il sentimento. La poesia deve sorgere da una forte tensione morale e critica, deve puntare a svolgere un ruolo di civilizzazione e di purificazione, ma deve anche servirsi di potenti immagini fantastiche ed armoniose per parlare al sentimento e al gusto del lettore-ascoltatore. La poesia suscita grandi emozioni, è come una maga buona che incanta per fini nobili, è un "delirio che sgombra le pazzie". Anzi nell’opera di ingentilimento dei costumi ed in quella di socializzazione e di civilizzazione degli uomini, la poesia ha preceduto la filosofia e la legislazione. Fu proprio la poesia, con 1’incanto della sua dolcezza, a " piegare il rozzo genio degli uomini e ridurli alla vita civile ". Se la poesia è sogno, "è un sogno fatto in presenza della ragione".

Intellettualismo in questo clima culturale non è più sinonimo di astratto e freddo rigore matematico, ma è razionalità mirante alla persuasione attraverso l’armonia e la bellezza delle immagini fantastiche. Una schiera di teorici di questo periodo ripete che "il buon gusto " è l’attitudine a ben ragionare. Il buon gusto, come un bel vestito, deve ornare i contenuti di tutte le scienze e di ogni sorta di letteratura.

A questa estetica aderisce anche uno spirito erudito amante della ricerca storica e della collazione documentaria: LUDOVICO ANTONIO MURATORI (1672-1750). Con Muratori si fa più stretto il rapporto poesia-ragione. La poesia e le arti debbono propendere "all’ordine, all’esattezza, al sistema"; il buon gusto deve collegarsi al linguaggio chiaro e preciso di Bacone e Cartesio. Ma il contributo maggiore alla cultura del suo tempo è fornito dall’impegno storico-erudito del Muratori. La ricerca delle fonti, l’esame critico e comparato delle testimonianze, l’acribia filologica, lo sforzo di datare con precisione gli eventi (il tutto al fine di operare una sicura ricostruzione documentaria della storia italiana) rappresentano e qualificano l’impegno di Muratori nelle sue ricerche erudite. La valutazione critica, quasi illuministica del passato, testimonia il maturare dell’esigenza di un rinnovamento civile e culturale.

L’edizione dei Rerum italicorum scriptores è la piú chiara prova di una filologia protesa alla ricostruzione del certo in funzione del vero, con la prospettiva, cioè, di costruire su un passato conosciuto nella maniera piú rigorosa possibile un futuro ispirato alle nuove verità filosofiche e alle nuove certezze scientifiche.

Nel panorama della cultura italiana di questo periodo un posto di maggior rilievo occupa il napoletano PIETRO GIANNONE (1676-1748). Storico e giurista impegnato nell’ideale di difesa dell’autonomia dello stato da ogni ingerenza della chiesa, Giannone contribuisce ad arricchire l’ambiente culturale napoletano già cosi vivace ed impegnato. Contrariamente alla storiografia erudita, l’opera di Giannone non punta alla ricostruzione rigorosa dei fatti, ma risponde ad una precisa volontà polemica, sorretta però da una forte tensione civile e da una profonda serietà intellettuale.

Nella Istoria civile del regno di Napoli, Giannone vuole ripercorrere la storia delle istituzioni giuridiche e politiche per evidenziare gli arbitri e le usurpazioni della chiesa ai danni dello stato napoletano. Il desiderio di liberare lo Stato dalle interessate intromissioni della chiesa, spinge Giannone a recuperare l’immagine della chiesa primitiva fedele ai principi evangelici ed a contrapporla a quella della chiesa della sua epoca caratterizzata da interessi mondani e da intrighi politici. Il decadimento morale e religioso della chiesa è incominciato con la rivendicazione della natura divina del potere temporale del papa. L’unico potere legittimo è, per Giannone, quello delegato dal popolo ad un principe. Queste dottrine, unitamente alla ferma ostilità contro l’ignoranza e la mondanità degli ecclesiastici, soprattutto contro i gesuiti, costò allo storico la scomunica, feroci persecuzioni ed il carcere. L’ostilità della chiesa e dei governi ad essa collegati stese una cortina di silenzio su un’altra opera del Giannone, Il Triregno, che poté essere pubblicata soltanto nel 1895. In quest’opera la polemica contro la potenza politica del papato è condotta non piú con le armi della ricerca storiografica intesa ad evidenziare i misfatti politici della chiesa, ma con armi piú filosofiche e teoriche. Il papato ha volutamente confuso il "regno terreno" della Bibbia e degli Ebrei con il "regno celeste" predicato da Cristo. La rivendicazione del primo serve, infatti, a giustificare il potere temporale, quella del secondo, con la promessa della felicità o della sofferenza ultraterrena, serve a distogliere gli uomini dagli impegni civili e di conseguenza, col conferire al papato l’aureola del potere spirituale, a rafforzarne il dominio sugli stati e sulle coscienze. L ispirazione gassendista e naturalista dell’opera spinge Giannone su posizioni fortemente polemiche contro la pretesa teologica dell’immortalità dell’anima e della vita ultraterrena.

* In questo ambiente culturale, cosí ricco e variegato, matura la vocazione filosofica di Giambattista Vico


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