Basta con la guerra ("polemos": "guai ai vinti") e l’ "amore" ("caritas": "caro-prezzo")!!!

"Continuare a credere nel dialogo": questa la vera «lezione» di Ratisbona, secondo Bartolomeo Sorge. Ma il dialogo, quello vero ... del Logos-Charitas, richiede un soggetto "buono" ("eu-angélico", quello uscito "dallo stato di minorità"), capace di incontrare, riconoscere l’altro (soggetto, "maggiorenne"!), e di relazionarsi in modo "logico" e "charitatevole"!!!

Per la Costituzione, la nostra "Bibbia civile", e per l’Italia, al di là del fondamentalismo e del relativismo culturale ed etico.
sabato 4 novembre 2006.
 

"Aggiornamenti sociali", novembre 2006 - Editoriale

Continuare a credere nel dialogo

di Bartolomeo Sorge S.I.

Direttore di «Aggiornamenti Sociali»

Chiamato al timone della barca di Pietro, Benedetto XVI si è trovato a navigare tra gli scogli: da un lato, il relativismo culturale ed etico che nega l’esistenza di verità e di norme morali obiettive e la capacità di conoscerle; dall’altro, il fondamentalismo, una degenerazione della coscienza religiosa, che giunge a giustificare la violenza e il terrorismo in nome di Dio.

La denuncia di entrambi da parte della Chiesa non è nuova. Fin dai primi anni ’90, Giovanni Paolo II aveva formulato una dura critica del relativismo: «Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica a una concezione totalitaria del mondo - e prima fra esse il marxismo -, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità» (enciclica Veritatis splendor [1993], n. 101). Dal canto suo, il cardinal Joseph Ratzinger, prima di divenire papa, era tornato più volte sul medesimo tema, denunciando il relativismo come «il problema più grande della nostra epoca» (Fede, verità, tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, 78).

Non meno decisa e forte era stata la condanna del fondamentalismo. Paolo VI non aveva esitato a prendere le distanze anche dal fondamentalismo cristiano, dalla presunzione cioè di «tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico» (enciclica Ecclesiam suam [1964], n. 195). Giovanni Paolo II con parole altrettanto chiare aveva respinto la tentazione di imporre agli altri la propria fede con le inevitabili conseguenze in campo sociopolitico. «Sia ben chiaro - disse - che non è di questo tipo la verità cristiana»; la Chiesa «non presume di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà sociopolitica», ma «riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse» (enciclica Centesimus annus [1991], n. 46).

Ora, la forte condanna da parte di Benedetto XVI della pretesa di imporre la fede con la violenza ha riportato clamorosamente alla ribalta il problema. Il 12 settembre 2006 il Papa, durante la visita in Baviera, ha tenuto una lezione all’Università di Ratisbona sul tema, a lui caro, del rapporto tra fede e ragione e, in quell’ambito, del rapporto tra coscienza religiosa e violenza (cfr L’Osservatore Romano, 14 settembre 2006, 6-7).

In quel contesto, Benedetto XVI citava un documento del XIV secolo: il «settimo colloquio-controversia» tra l’imperatore cristiano bizantino Manuele II Paleologo e un dotto musulmano di Persia. L’imperatore, col pensiero rivolto alla «guerra santa» (jihad), sottopone al persiano una questione centrale sul rapporto tra religione e violenza: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».

A questo punto, per chiarire il tema che intendeva trattare, il Papa proseguiva: «L’imperatore [...] spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. [...] Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia». Da qui la conclusione netta: «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».

La citazione di questo documento antico da parte del Papa ha causato reazioni violente nel mondo islamico; cosicché Benedetto XVI, nell’edizione definitiva del suo discorso (resa pubblica il 9 ottobre 2006), ha aggiunto: «questa frase [di Manuele II Paleologo] non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. [...] intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d’accordo con Manuele II, senza però fare mia la sua polemica» (nota n. 3).

Prescindendo dallo spiacevole equivoco, ormai chiarito, a noi interessa comprendere il messaggio contenuto nel discorso di Ratisbona, con il quale il Papa ribadisce la necessaria relazione tra fede e ragione e dimostra che religione e ragione vanno insieme, mai invece la religione con la violenza. L’intenzione del Papa, dunque, non era offendere l’Islam; al contrario, di fronte alle sfide del relativismo e del fondamentalismo, egli voleva cogliere un’occasione per incrementare il dialogo tra fede cristiana e mondo moderno, e tra tutte le culture e religioni. Vediamolo meglio.

1. Le sfide del relativismo

Si può dire che il relativismo sia lo sbocco cui ha condotto la concezione illuministica della vita. Non si nega affatto che all’illuminismo - padre della cultura liberale e «laica» - vada il merito di aver generato la democrazia e di aver affermato la libertà e i diritti umani; nello stesso tempo, però, si deve riconoscere che il progetto illuministico di un’etica fondata sulla sola ragione, universalmente accettata da tutti, è fallito. Lo riconoscono oggi gli stessi laici. Scrive, per esempio, l’on. Giuliano Amato: la cultura laica ha dimostrato di non avere la capacità di «conformare ai propri canoni i comportamenti di milioni e milioni di persone. Se mai è stato davvero perseguito un progetto illuminista di etica universale, esso è fallito» («Dove nasce la società egoista», in la Repubblica, 9 dicembre 2004).

In realtà, l’accettazione del legittimo pluralismo si è trasformata nella falsa concezione che tutte le posizioni si equivalgono, che tutto si riduce a mera opinione; perciò, l’uomo oggi «si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale» (GIOVANNI PAOLO II, enciclica Fides et ratio [1998], n. 5).

Il risultato più grave di questa frammentazione esistenziale è la drammatica e generalizzata «crisi di senso»: «I punti di vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all’affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi [...], non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso» (ivi, n. 81). E l’uomo è disorientato.

Gli effetti di questo relativismo appaiono più devastanti sul piano etico. Chi potrà mai stabilire che cosa è bene e che cosa è male? La bontà e la malvagità - si sostiene - si possono giudicare solo dalle conseguenze del comportamento libero dell’uomo. Quindi tutti i comportamenti, in linea di principio, si equivalgono, sono leciti: lo Stato non può certo imporre l’aborto, ma perché dovrebbe vietarlo alla donna che decide di farvi ricorso? Lo Stato non obbligherà mai due omosessuali a fare vita di coppia, ma perché dovrebbe impedirlo se essi lo desiderano? Certo, non si può obbligare uno a darsi la morte, ma perché non consentirlo a un malato terminale?

La posta in gioco è molto alta. Si tratta di trovare il punto d’incontro e di equilibrio tra le esigenze della legittima laicità della democrazia e l’effettivo riconoscimento dell’influsso sociale della religione. «Solo Stati autenticamente laici - è stato detto molto bene -, in cui la laicità non sia una religione alternativa di Stato, ma uno spazio di libera espressione garantita a tutte le confessioni religiose, potranno favorire la convivenza e al tempo stesso l’apporto delle religioni all’arricchimento del tessuto etico della società. Si delinea un suggestivo intreccio: la laicità dello Stato garantisce la libera espressione e convivenza delle religioni, ma le libere espressioni dell’esperienza religiosa garantiscono il necessario apporto etico alla democrazia e la stessa laicità» (SCOPPOLA P., «La religione di noi moderni», in la Repubblica, 17 giugno 2005).

In realtà, il vero limite del relativismo è che esso si presenta come una sorta di dogma, che va accettato senza possibilità di essere messo in discussione, aprendo così la strada a forme di «dittatura della maggioranza», che sono una gabbia per la libertà stessa. Il suo vero limite è di essere «un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione, e in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato» (RATZINGER J., «L’Europa nella crisi delle culture», conferenza tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, in Il Regno-Documenti, 9 [2005] 218).

Ora, una libertà senza limiti e priva di valori conduce alla autodistruzione della stessa libertà. Lo rileva Giovanni Paolo II che, dopo aver bollato come dannosa e pericolosa l’«alleanza tra democrazia e relativismo etico», ribadisce: «Se non esiste nessuna verità ultima, la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» (enciclica Centesimus annus [1991], n. 46).

È vero - ammette il Papa - che storicamente si sono commessi molti crimini in nome della «verità» (e la Chiesa non esita a riconoscere le proprie responsabilità), ma è altrettanto certo che delitti e negazioni di libertà si commettono oggi in nome del relativismo etico: «Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione "tirannica" nei confronti dell’essere umano più debole e indifeso?» (enciclica Evangelium vitae [1995], n. 70).

Mentre da un lato è giusto riconoscere i meriti dell’illuminismo, d’altro lato, però, occorre ribadire che il sistema democratico è solo uno strumento: privo di ispirazione etica, finisce col trasformarsi paradossalmente in strumento di oppressione.

2. Le sfide del fondamentalismo

Oggi anche la cultura laica ammette il rilievo sociale della religione. Come negarlo, dopo la parte che la coscienza religiosa ha avuto nella fine del comunismo, nella elaborazione dell’«intervento umanitario» di fronte ai genocidi in Africa e nella ex-Iugoslavia, nella difesa della pace e contro ogni «guerra preventiva»? Tuttavia, l’influsso può essere anche negativo, quando la coscienza religiosa degenera in forme patologiche, come nel caso del fondamentalismo islamico. Esso, dove la shari’a è legge di Stato, non accetta né tollera fedi diverse e riduce drasticamente le libertà fondamentali. Si comprende, perciò, perché oggi molti si chiedano se accogliere gli immigrati islamici senza alcuna misura preventiva non significhi creare nuovi ghetti o focolai di gravi tensioni, che potrebbero portare anche a forme violente di rigetto sociale.

Eppure, di fronte alle insidie del relativismo culturale ed etico, i musulmani con il loro forte senso di Dio potranno essere di aiuto alla ripresa spirituale dell’Occidente. Sembra supporlo lo stesso Benedetto XVI, quando nell’omelia di domenica 10 settembre 2006 a Monaco di Baviera afferma che i musulmani «la vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà».

Del resto, già il Concilio Vaticano II, parlando delle religioni non cristiane, aveva affermato che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni»; in particolare, per quanto riguarda l’Islam, la Chiesa guarda con stima i musulmani, «i quali adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, Creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini» e che «cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come a Dio si sottomise anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce» (decreto Nostra aetate, nn. 2-3). Il problema è capire come lo Stato laico, senza trasformarsi in Stato etico o confessionale, e senza scadere nel laicismo, possa garantire non solo la libertà religiosa, ma il contributo della religione alla formazione e al consolidamento del tessuto etico della società. Ovviamente la soluzione non dipende solo dall’atteggiamento dello Stato laico verso la religione, ma anche dalla maturità con cui la coscienza religiosa si pone nei confronti della democrazia laica.

È questo l’aspetto approfondito da Benedetto XVI a Ratisbona. Sul tema era già intervenuto: «Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del logos [...]. Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restar fedeli a questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal logos, dalla ragione creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale» (RATZINGER J., «L’Europa nella crisi delle culture», cit., 218).

A Ratisbona Benedetto XVI insiste: occorre che ragione e fede tornino a essere riunite in un modo nuovo, affinché sia possibile il dialogo tra le culture e le religioni, di cui oggi si avverte un urgente bisogno: «Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture» (L’Osservatore Romano, 14 settembre 2006, 7).

Dunque l’intenzione di Benedetto XVI è chiara: invitare al dialogo tra fede e mondo moderno, tra tutte le culture e le religioni. Ma per fare questo - ribadisce - si esige che fede e ragione vadano insieme. Da qui l’invito al dialogo con l’Islam, affinché sia superata la versione violenta della diffusione della fede e si riscopra il logos quale terreno comune di confronto sulla verità.

3. Continuare a credere nel dialogo

Ecco dunque perché la condanna del relativismo (come degenerazione della cultura moderna) e del fondamentalismo (come degenerazione della coscienza religiosa) non significa affatto - per Benedetto XVI - il rifiuto dell’illuminismo, della modernità e del dialogo interculturale e interreligioso. La Chiesa - spiega Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio (1998) - non nega gli apporti positivi del pensiero moderno; questo «ha il grande merito di aver concentrato la sua attenzione sull’uomo», con il risultato di favorire lo sviluppo di vari ambiti del sapere: «l’antropologia, la logica, le scienze della natura, la storia, il linguaggio»; tuttavia, la Chiesa denuncia il fatto che «la ragione, sotto il peso di tanto sapere, si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere» (n. 5).

Ciononostante, non mancano significativi punti di convergenza tra cristianesimo e modernità, a cominciare dal discorso sui valori fondamentali di libertà, uguaglianza e universalità dei diritti umani. La religione cristiana ha sempre cercato di difendere la propria libertà, in particolare rifiutandosi nei primi secoli di lasciarsi assorbire dall’ordinamento statale pagano, anche a costo del martirio; la fedeltà al messaggio universale di salvezza l’ha portata poi a rivolgersi indiscriminatamente a ogni popolo, di ogni lingua, razza e nazione, considerando gli uomini tutti fratelli e uguali nella dignità e nei diritti fondamentali.

Sono i medesimi valori portati avanti, tradotti in termini laici, dall’illuminismo. «In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana»; anzi ha contribuito a rimettere in luce la razionalità originaria della religione del logos, e ha concorso a liberare il cristianesimo da condizionamenti storici e politici che, in certe epoche e in certi contesti storici, avevano finito col trasformarlo in religione di Stato (cfr RATZINGER J., «L’Europa nella crisi delle culture», cit., 218).

Bisognerà dunque proseguire nella riscoperta del rapporto tra fede e ragione, tra morale e ragione, che in passato era stato sottovalutato, collocando erroneamente la fede religiosa al di là (o al di sotto) della conoscenza scientifica, l’unica ritenuta valida. Pertanto, «è illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere» (enciclica Fides et ratio, n. 48).

Ecco perché la Chiesa è profondamente convinta che «fede e ragione si recano un aiuto scambievole, esercitando l’una per l’altra una funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell’approfondimento» (ivi, n. 100). Conclude, perciò, Benedetto XVI: «È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori» (L’Osservatore Romano, 14 settembre 2006, 7). Sta qui la vera «lezione» di Ratisbona: continuare a credere nel dialogo.


Se anche parlerò le lingue degli uomini e degli angeli, e non avrò l’Amore (Agape - Charitas), sarò simile ad echeggiante bronzo.... cfr., sul sito, la mia nota sul RETTIFICARE I NOMI, e sul RIPARTIRE DAL "PRESEPE" . Federico La Sala


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