Solmi, Montale e le "stalle di Augìa"
di Renato Solmi
Alla redazione della rivista “Una città”
Sarei lieto di mettere a disposizione della vostra bella rivista il testo dell’intervento da me tenuto il 21 maggio 2001 presso l’Archivio di Stato di Torino in occasione della giornata dedicata alla figura di mio padre, Sergio Solmi, nel quadro di un ciclo di relazioni e di dibattiti svolto in diversi tempi e in diverse località, a cura del Centro Studi Piero Gobetti di Torino, sul tema “Intellettuali gobettiani tra cultura e impegno civile”.
Questo testo si riconnette strettamente alla “Nota biografica e testimonianza personale” pubblicata come poscritto al quinto volume delle opere di mio padre, uscito presso la casa editrice Adelphi, sotto il titolo Letteratura e società, nell’anno 2000, e ristampata ora sotto il titolo “Sergio Solmi. Una testimonianza personale”, nella mia Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, uscita presso la casa editrice Quodlibet di Macerata e nel quadro della collana Verbarium diretta da Michele Ranchetti.
Esso avrebbe dovuto far parte, nelle mie intenzioni, di un volumetto dedicato interamente alla vita e all’opera di mio padre, che, peraltro, non è stato ancora portato a compimento e non so se potrà mai vedere la luce. Ho pensato, tuttavia, che questo “aperçu” potrebbe interessare almeno una parte dei lettori di “Una città”, e dare, nello stesso tempo, un’idea della varietà (ma anche dell’unità) dei problemi che sono oggetto della raccolta complessiva dei miei scritti. *
Vorrei fare qualche osservazione sulle pagine dedicate al fascismo e all’influenza che esso aveva o non aveva esercitato sulla cultura italiana (o, più esattamente, sul modo in cui quest’ultima aveva o non aveva reagito ad esso), che si trovano, per lo più, nella quinta sezione del volume Letteratura e società, e precisamente in quella che reca il titolo, assegnato, peraltro, dai curatori, La responsabilità della cultura. Gli scritti compresi in questa sezione risalgono tutti, o quasi, ai primissimi anni del secondo dopoguerra, e cioè ad un’epoca relativamente felice di trapasso e di transizione, in cui ci si era liberati, bensì, del fascismo, e si poteva respirare per la prima volta, dopo tanto tempo, a pieni polmoni, ma non era ancora calata, d’altra parte, sulla società e sulla cultura italiana, come su quelle di tutti gli altri stati europei, l’atmosfera paralizzante della guerra fredda (in cui, come si può constatare facilmente dalla distribuzione degli scritti di questo volume, mio padre avrebbe cessato quasi completamente di scrivere di queste cose, dal momento che né gli esponenti di una parte né quelli dell’altra sarebbero stati minimamente disposti a porgergli ascolto).
Mio padre descrive questa situazione in uno scritto del marzo 1946 (Dibattito sulla cultura) dedicato a una discussione promossa dall’“Avanti!”, a cui lui stesso aveva preso parte, dicendo che il referendum di quel giornale, in cui ciascuno parla ancora per conto proprio, “desta un po’ l’impressione dell’accordarsi degli strumenti prima che s’inizi il concerto. Sono le prime battute d’un dialogo, quando ciascuno degli interlocutori, a metà chiuso nel suo pensiero ancora informulato, sembra parlare ancora a se stesso, e tentare appena l’aria in attesa di un’eco. Non è ancora giunto il momento delle posizioni chiare, tutte le idee e i propositi si librano ancora fluttuanti e indeterminati a mezz’aria, come ansiosi di distendersi e di riconoscersi”.
Purtroppo il dialogo che avrebbe dovuto svilupparsi in quell’occasione è rimasto interrotto prima ancora di essere cominciato. Ma la brevità di questo periodo di trapasso rende ancora più preziose, in un certo senso, le rare testimonianze di una volontà reciproca di confronto e di commisurazione, o, come nel caso degli interventi di mio padre, di mediazione e di interposizione pacifica, ma non per certo meno agguerrita, e cioè precisa e calzante nei suoi distinguo, fra le due parti o i due schieramenti in contrasto. E’ stato forse un anno, o poco più, in cui è durato questo incantesimo così fragile: con l’avvento del primo governo De Gasperi, all’inizio del 1946, l’unità politica fra tutte le forze che avevano preso parte alla Resistenza era già venuta sostanzialmente meno, e i contrasti latenti fra di esse tendevano progressivamente ad allargarsi e ad aggravarsi ogni giorno di più. Alla breve stagione caratterizzata dalla possibilità, anche se non ancora dalla realtà effettiva del dialogo, avrebbe fatto seguito, ben presto, quella della sua impossibilità, in cui la voce pacata e giudiziosa di mio padre sarebbe apparsa, come ho già detto, del tutto vana e superflua.
Un altro aspetto interessante degli scritti di questo periodo è rappresentato dal confronto fra il prima e il poi, fra l’epoca buia da cui si era usciti e quella luminosa e festosa che avrebbe dovuto cominciare adesso. Ma fino a che punto la cultura, gli intellettuali, i produttori di arte o di letteratura, avevano beneficiato del cambiamento che si era verificato con la fine della guerra, e con la caduta definitiva dei regimi fascisti? Ebbene, la risposta a questa domanda che troviamo qua e là in queste pagine può sembrare a tutta prima sorprendente. “Può sembrare un paradosso”, scrive mio padre in Invito alle storie (uno dei “cinque saggi programmatici” contenuti in questa sezione), “affermare che la letteratura ha dimostrato di resistere meglio al fascismo che alla libertà”. E’ questo motivo su cui può essere interessante stabilire un confronto fra il modo in cui hanno saputo reggere o reagire a questa sfida difficile del tempo Eugenio Montale, che ha affrontato a più riprese questo problema nelle poesie del dopoguerra, e mio padre, che, a dir la verità, non ne ha mai parlato nelle sue liriche, ma che ne ha avvertito, e come, la gravità, e quindi anche l’esigenza di porvi in qualche modo rimedio.
Mi sembra che Montale si sia reso conto fin dall’inizio del fatto che la caduta del fascismo e la restaurazione della normalità democratico-borghese, eliminando tutte le barriere di carattere artificioso e contingente, ma non per questo meno oppressive e soffocanti, che si frapponevano fra il poeta e l’ambiente sociale circostante, ma lasciando sussistere pressoché intatte le sue assise economiche e le sue forme di vita e di relazione abituali, e rompendo l’isolamento coatto in cui una piccola cerchia di intellettuali intransigenti aveva potuto conservare una sorta di verginità o di coerenza, per il semplice fatto di seguire i propri gusti e le proprie tendenze naturali, che l’avevano tenuta lontana, in generale, da qualunque compromesso sostanziale con lo spirito del regime, e facendola confluire, se si può dir così, nell’alveo comune di una società profondamente guasta e corrotta, dal cui contatto, o dal cui contagio, le sarebbe stato molto più difficile difendersi (fino ad annullare, in ultima istanza, ogni differenza qualitativa fra i pochi eletti e gli innumerevoli altri), avrebbe creato, paradossalmente, condizioni assai meno propizie, o addirittura ostacoli pressoché insuperabili, al libero dispiegarsi e articolarsi dell’ispirazione poetica (che richiede concentrazione e segregazione, distacco e silenzio, la possibilità, se si può dir così, di vivere in incognito, e di osservare il mondo e la vita dei propri simili attraverso una specie di diaframma che rimane invisibile agli altri).
Anche mio padre, che si era reso ben conto di questo intreccio di eventi, e delle conseguenze a cui avrebbe potuto dar luogo, parla, nello stesso saggio a cui ho già fatto riferimento prima, della minaccia rappresentata dalla crescente mondanizzazione della vita letteraria. Ma torniamo a Montale.
Già nella Voce giunta con le folaghe, che fa ancora parte della Bufera, e che potrebbe essere stata scritta, o quanto meno concepita, poco dopo la fine della guerra, anche se è stata pubblicata solo nel 1947, la voce dell’“ombra fidata” che assiste all’incontro con quella del padre defunto fa presente al poeta, in tono di monito, che la situazione è radicalmente mutata rispetto al passato (“Ora ritorni al cielo libero / che ti tramuta...”), e che le fonti segrete della sua ispirazione, di cui si era alimentata la sua poesia nell’epoca del fascismo (e cioè, in particolar modo, nelle Occasioni), potrebbero risultare del tutto inadeguate, e forse addirittura inaridite, nella nuova epoca che si affaccia all’orizzonte (“Memoria / non è peccato finché giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé...”).
A un invito ancora più esplicito, da parte della compagna della sua vita, che gli verrà a mancare di lì a poco, a uscire dal suo atteggiamento di distacco e a tuffarsi nella realtà, invece che nelle profondità della memoria (Botta e risposta I, composta nel 1961), Montale risponderà, nel 1962, con una lunga similitudine, sviluppata arditamente in tutte le sue implicazioni, tratta da un episodio ben noto della mitologia antica (la pulizia delle stalle del re Augìa effettuata da Eracle mediante la deviazione del corso del fiume Alfeo). Si tratta di una delle liriche più belle e più complesse che Montale abbia composto dopo il 1953, e cioè dopo la pubblicazione della versione definitiva della Bufera, e che, a mio avviso, deve la sua perfetta riuscita proprio al fatto di avere assunto ad oggetto della propria meditazione, e di avere, per così dire, tematizzato direttamente, il problema di cui ho parlato prima, e cioè quello del nesso che si è venuto a stabilire, nella sua vita, fra il periodo fascista e quello successivo, in cui la libertà apparente è venuta a trasformarsi, per le ragioni a cui ho già accennato, in una nuova specie di impotenza reale. Per il suo carattere riassuntivo ed emblematico, e anche per il livello artistico a cui si colloca, essa potrebbe benissimo essere affiancata alle due grandi liriche (Piccolo testamento e Il sogno del prigioniero) che costituiscono le “conclusioni provvisorie” della Bufera.
L’epoca del fascismo e, più in generale, il periodo fra le due guerre, e poi, naturalmente, gli anni terribili della seconda guerra mondiale, sono stati, nel loro insieme, un incubo tremendo, che il poeta rappresenta, con una fantasia potente e corrusca, come una specie di “città di Dite”, il cui sovrano non si fa mai vedere, o di campo di concentramento nazista, in cui anche i minimi tentativi di evasione sentimentale e poetica sono sistematicamente rintuzzati e stroncati, come nei gironi dell’inferno dantesco, dai “bargelli del brago”, e cioè dagli scherani diabolici del regime. Ma la liberazione da parte delle acque dell’Alfeo, che finiscono per inondare uniformemente ogni cosa, ha prodotto, per certi aspetti, un risultato ancora peggiore:
A liberarci, a chiuder gli intricati
cunicoli in un lago, bastò un attimo
allo stravolto Alfeo. Chi l’attendeva
ormai? Che senso aveva quella nuova
palta? e il respirare altre ed eguali
zaffate? e il vorticare sopra zattere
di sterco? ed era sole quella sudicia
esca di scolaticcio sui fumaioli,
erano uomini forse,
veri uomini vivi
i formiconi degli approdi?
Si è venuta a determinare, cioè, quella totale indistinzione delle parti, quella compromissione universale e sistematica, in cui risulta sempre più difficile preservare la propria dignità personale, e, in ultima istanza, anche la propria libertà di spirito. Il problema sarà affrontato ancora una volta, una decina di anni più tardi, in una poesia ugualmente decisiva per definire la posizione occupata da Montale negli anni del dopoguerra, e anzi, in questo caso, in quelli della contestazione giovanile e studentesca, che avrebbe anche potuto indurre, come non è il caso di mostrare qui, anche uomini molto vicini a lui, e della sua stessa generazione, ad assumere altri atteggiamenti o a coltivare altre speranze: la Lettera a Malvolio, compresa nel Diario del ’71, un personaggio dietro il cui soprannome mi sembra di intravvedere la figura di Pasolini, che doveva avere scritto, in quel periodo, sul conto di Montale, qualcosa che doveva essere andato di traverso al grande poeta genovese.
Dopo avere ribattuto l’accusa di essere fuggito di fronte alla realtà, e di essersi sottratto a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi compiti (“Non s’è trattato mai d’una mia fuga, Malvolio, / e neanche di un mio flair che annusi il peggio / a mille miglia... /... No, / non si trattò mai d’una fuga / ma solo di un rispettabile / prendere le distanze”), Montale passa a contrapporre, con grande chiarezza ed efficacia, i due periodi storici di cui ho già parlato:
Non fu molto difficile dapprima,
quando le separazioni erano nette,
l’orrore da una parte e la decenza,
oh solo una decenza infinitesima
dall’altra parte. No, non fu difficile,
bastava scantonare scolorire,
rendersi invisibili,
forse esserlo. Ma dopo...
“Rendersi invisibili”: questa espressione conferma nel modo più calzante e più incontestabile quello che abbiamo detto prima. Verso la conclusione della poesia, Montale torna a parlare, non senza fierezza (il suo animus fondamentale non era mai veramente mutato), di una “fuga immobile” (e cioè di un atteggiamento che possa infondere coraggio, che “possa dire / forza a qualcuno e a me stesso che la partita è aperta”, mentre essa è chiusa, per definizione e in partenza, per quelli che, come Pasolini, si rifiutano di prendere le distanze, e, anzi, sembrano provare un particolare piacere a voltolarsi nel fango di questa società immonda) *.
Montale continua:
Ma dopo che le stalle si vuotarono
l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto
fondarono l’ossimoro permanente
e non fu più questione
di fughe e di ripari. Era l’ora
della focomelia concettuale
e il distorto era il dritto, su ogni altro
derisione e silenzio.
Il richiamo alle “stalle” attesta, se ce ne fosse stato bisogno, la continuità fra questa poesia e quella che abbiamo esaminato in precedenza.
Se mi sono soffermato così a lungo su questi testi di un autore a cui mio padre era legato da un rapporto di profonda e devota amicizia, che risaliva all’epoca della prima giovinezza, e che era ricambiato interamente dall’altra parte, è perché mi è sembrato che essi potessero gettare una luce più viva sulla problematica che era comune, in larga misura, ad entrambi, e che costituisce, almeno in parte, l’oggetto di alcuni dei saggi che sono compresi nella raccolta di cui ho parlato (e in particolare di quelli che fanno parte della sezione intitolata La responsabilità della cultura).
Bisogna dire, peraltro, che il passaggio da un’epoca all’altra esercitò su mio padre un effetto meno traumatico di quello che, come abbiamo visto, esso produsse sull’animo e, prima ancora e più in generale, sulle consuetudini di vita e sulla collocazione sociale e politica di Montale. Il passaggio da Firenze a Milano, dall’ambiente appartato e riservato del Gabinetto Vieusseux, in cui era ancora presente lo spirito di Leopardi, e dalla confraternita letteraria delle “Giubbe Rosse”, alla redazione del “Corriere della Sera”, alla cronaca delle prime della Scala, e alla frequentazione dell’alta società milanese (a cui, peraltro, Montale avrà cercato di sottrarsi nella misura del possibile), e insieme a tutto questo la celebrità, peraltro meritatissima, che si era acquistato con le grandi opere del trentennio precedente, e che faceva di lui un personaggio di primo piano della vita culturale milanese e italiana, non potevano fare a meno di influire, e, purtroppo, non sempre nel senso più positivo, su una personalità per certi aspetti così fragile e nervosa, anche se fermissima nelle sue convinzioni fondamentali e refrattaria a qualsiasi seduzione di carattere più profondo e sostanziale, come quella del grande poeta.
La vita, gli affetti, le abitudini di mio padre non furono, invece, modificate quasi per nulla dalle conseguenze del passaggio dalla dittatura fascista e dall’emergenza bellica alle nuove forme di relazione e di attività che potevano essere dischiuse, a una persona dotata dei suoi interessi, dalla restaurazione delle condizioni fondamentali della democrazia politica, e dall’allargamento degli orizzonti culturali, e degli spazi aperti ad iniziative di ogni genere, che non potevano fare a meno di derivarne. E’ bensì vero che mio padre aveva già sottoscritto, se si può dir così, il suo “patto col diavolo”, e cioè limitato sostanzialmente le sue possibilità di lavoro e di scelta, fin dal momento in cui era entrato a far parte della Banca Commerciale, ciò di cui egli era perfettamente consapevole, e che, da parte mia, ho avuto il torto di considerare, fin dall’inizio, come un dato scontato e immodificabile, salvo deplorare poi, nel mio intimo, le conseguenze negative che quel vincolo o quell’impegno fondamentale, che, insieme agli altri suoi progetti e interessi di ordine culturale e letterario, a cui si dedicava nel tempo libero, era destinato ad assorbire quasi completamente le ore della sua giornata, non avrebbe potuto fare a meno di causare sotto altri rispetti. Ma non si può avere, come si dice, la botte piena e la moglie ubriaca, né pretendere di modificare uno o più tratti di una situazione senza avere la possibilità, e magari nemmeno l’intenzione, di modificare anche gli altri che sono ad essi strettamente connessi.
Sta di fatto, comunque, che l’operosità di mio padre nel campo letterario, e anche in quello più strettamente poetico, lungi dal diminuire d’intensità e dal produrre effetti meno rilevanti, fu ulteriormente potenziata ed esaltata dalle nuove condizioni che si erano venute a creare dopo la Liberazione, come si può facilmente constatare anche solo esaminando i volumi usciti finora nell’edizione complessiva delle sue opere o anche la successione degli scritti che sono compresi nel volume già più volte citato. E’ bensì vero che egli non fu più in grado di svolgere, dopo la guerra (o, per dir meglio, non fu più in grado di svolgerla con la stessa continuità e intensità), quella funzione stimolante e orientativa di critico militante che aveva assolto fino allora (o, diciamo, fino al 1940), sia nei confronti della letteratura italiana contemporanea (poesia, narrativa e saggistica) che in quelli della letteratura francese, di cui aveva fatto tanto, fino a quel momento, per incrementare e diffondere la conoscenza fra noi. E qualcosa di simile si può dire anche per la critica d’arte, a cui avrebbe continuato a dedicarsi anche in seguito, ma in forma più sporadica e occasionale di quanto non avesse fatto in precedenza. Ma ciò era dovuto, almeno in parte, oltre che al peso crescente degli impegni di lavoro all’interno della Banca, anche a un mutamento sostanziale di interessi, che erano rivolti, ormai, quasi solo alla letteratura, e che tendevano a focalizzarsi su autori ed opere determinate e di maggiore rilievo e importanza.
E, per tornare alla sua attività propriamente creativa, e cioè, in ultima istanza, alla poesia, credo di non sbagliarmi dicendo che la sua vena o la sua vocazione poetica, che si erano manifestate già chiaramente negli anni ’20 e ’30, è rimasta attiva e sensibile e ha dato, anzi, i suoi risultati più alti e più significativi proprio negli anni del dopoguerra, e cioè nel periodo che va dal 1945 al 1960 e anche più in là.
Renato Solmi
UNA CITTÀ n. 152 - dicembre 2007-gennaio 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL GIORNO DELLA MEMORIA E LA DIGNITA’ DELL’ITALIA...
FESTA NAZIONALE, IL 17 MARZO. IL CARNEVALE DELLA FOLLIA ISTITUZIONALE (1994-2011)
FESTA NAZIONALE: L’UNITA’ D’ITALIA E LA "FOLLIA INCOSTITUZIONALE" DI "DUE PRESIDENTI" DELLA REPUBBLICA.
LA BUFERA E ALTRO DI EUGENIO MONTALE
a cura di Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai *
La storia e l’organizzazione della Bufera e altro (1956), il terzo libro di poesia di Montale, implicano un alto grado di coscienza da parte dell’autore, confermata anche dagli autocommenti che si succedono soprattutto a partire dalla metà degli anni Quaranta, cioè all’inizio e durante l’elaborazione dell’opera. Il più famoso è Intenzioni (Intervista immaginaria), del 1946, in cui Montale fissa alcune questioni essenziali della propria poetica, illustrandone lo sviluppo dagli Ossi alle Occasioni, fino alle liriche più recenti come la serie di Finisterre e Iride:
Le poesie che entreranno nella Bufera, costituendone i cardini sul piano dei temi e dello stile, sono presentate da Montale come sviluppi e complementi delle Occasioni, o poste in corrispondenza ideale con le grandi liriche di quel libro (come nel caso del nesso Nuove stanze-Iride). Ciò non vuol dire che il terzo libro ripeta il secondo; il rapporto è piuttosto di rincaro e quasi di complicità metaletteraria. In questo senso, si può parlare della Bufera come di un’opera manierista. La relazione di Montale con la grande poesia europea tra Cinque e Seicento è stata ben illustrata sul piano della poetica e delle fonti. Ma il termine ‘manierismo’ va inteso qui come categoria stilistica più che storica, in contrasto cioè con il termine e il concetto di ‘classicismo’ (moderno e paradossale) riferito alle raccolte precedenti. In questo senso, tratti manieristici sono l’amplificazione, che interessa ad esempio il macrotesto della Bufera, più ampio e complesso rispetto a Ossi e Occasioni; l’adesione allusiva a un modello colto; la codificazione di lessico e immagini già presenti nelle Occasioni e recuperati consapevolmente nella Bufera come elementi di un linguaggio lirico interno alla poesia montaliana.
Il riferimento a modelli letterari alti non è una peculiarità della Bufera; già nelle Occasioni si delineava una sorta di moderno stilnovismo, giusta anche la concomitanza tra l’uscita di quel libro e l’edizione continiana delle Rime. Ciò che caratterizza La bufera è appunto il più alto grado di allusività, che arriva fino all’esplicitazione (e perfino all’esibizione) degli stessi modelli che nelle Occasioni restavano più impliciti. È nel terzo libro, per esempio, che l’ispiratrice riceve il nome ovidiano-dantesco di Clizia, in una poesia (La primavera hitleriana) che ha in epigrafe una diretta citazione (pseudo)dantesca («Né quella ch’a vedere lo sol si gira...») prolungata all’interno del testo da un altro inserto dalla stessa fonte: «tu / che il non mutato amor mutata serbi».
L’esempio della Primavera hitleriana illustra un’ulteriore caratteristica della Bufera, cioè l’adozione di soggetti topici del mito e della tradizione come spunti allegorici per connotare e ‘travestire’ l’esperienza dell’io. Nelle Conclusioni provvisorie, per esempio, Montale esprime in negativo una posizione etico-politica (la presa di distanza dalle ideologie di massa) e una condizione esistenziale attraverso maestosi scenari di maniera. L’Apocalisse biblica e il Paradise Lost di Milton, Les Tragiques di Agrippa d’Aubigné, La vida es sueño di Calderón o le Operette leopardiane, più che fonti o riferimenti intertestuali, sono materiali di un grande repertorio, cui Montale attinge per portare in scena l’«ombroso Lucifero» di Piccolo testamento e rappresentarsi nelle vesti gotico-romantiche del Sogno del prigioniero.
D’altra parte, i riscontri non riguardano solo il terreno della letteratura illustre; altri campi da esplorare, come si dirà nel commento, sono la narrativa e il cinema contemporanei (ancora e specialmente per La primavera hitleriana e Il sogno del prigioniero). La varietà produce talvolta simultaneità: vale a dire, compresenza di tessere non immediatamente gerarchizzabili, attratte dalla consonanza tematica. Può avvenire, infatti, che il riferimento più consistente a un testo (letterario o di altro genere) attivi un processo di aggregazione di pseudo-fonti culturalmente più aristocratiche. In questi casi, lo scopo del commento non consiste solo nel registrare i contatti più probabili, ma anche e soprattutto nell’illustrare la funzione complessiva della memoria letteraria, diretta o rielaborata. Nella Bufera, infatti, quella memoria è il principio ispiratore del regime mitopoietico che presiede alla costruzione tematica della raccolta, e in parte anche al suo stile.
Il terzo elemento manierista della Bufera infatti si apprezza proprio al livello stilistico, specialmente in certi elementi del ‘codice’ lessicale. Ciò avviene attraverso la ripresa dalle Occasioni di vocaboli semanticamente connotati, come «segno», che definisce una prerogativa magico-sacrale del visiting angel; dal mottetto 8 («Ecco il segno; s’innerva / sul muro che s’indora»), lo stigma dell’epifania si trasferisce nelle Conclusioni provvisorie («Giusto era il segno», in Piccolo testamento). Le occorrenze così circoscritte non sono sempre significative e possono ridursi a generiche consonanze di vocabolario; in questi casi è evidentemente superfluo darne conto nel commento. Il loro rilievo, cioè la loro effettiva di ripresa intratestuale, è ipotizzabile in base al contesto tematico in cui tali occorrenze si verificano; per esempio, sono da considerare connessioni tra Occasioni e Bufera soprattutto le voci che riguardano la fenomenologia del personaggio femminile (spesso in accordo con il repertorio della forma-canzoniere).
Le parole legate al volo, immagine privilegiata dell’ispiratrice montaliana, permettono infatti di seguire il filo di una corrispondenza: espressioni come il «lungo / viaggio per il sentiero fatto d’aria» e le «fronti d’angiole / precipitate a volo...» dell’Orto richiamano così il tema del mottetto «Ti libero la fronte dai ghiaccioli...», istituendo con questo anche una forma di continuità narrativa. Un caso simile è quello che riguarda la coppia di parole amuleto/portafortuna: la prima in Dora Markus I («forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra»), la seconda in Piccolo testamento («Conservane la cipria nello specchietto... Non è un’eredità, un portafortuna / che può reggere all’urto dei monsoni»). In entrambi i casi, l’oggetto magico appartiene alla dotazione del personaggio femminile; ma l’associazione assume un connotato narrativo quando si considerano i distinti contesti in cui l’oggetto ricorre: privato e esistenziale nelle Occasioni; storico-apocalittico nella Bufera.
Ne consegue anche un diverso effetto stilistico: in Dora Markus la matita delle labbra o il piumino sono assunti nel campo del dicibile lirico, in grazia di un processo di estensione del lessico poetico agli oggetti ‘poveri’ o quotidiani (Blasucci); nel Piccolo testamento, gli stessi oggetti poveri (lo specchietto per la cipria) entrano in attrito con uno scenario culturalmente sostenuto e in qualche misura artificiale. Il commento dà conto di questi fenomeni sia attraverso i rimandi puntuali nelle note, sia attraverso i cappelli introduttivi, in cui sono spiegati i rapporti di allusività tra una lirica della Bufera e il suo antecedente.
[...]
In una lettera a Silvio Guarnieri del febbraio ’66, Montale scrive che la sua «poesia non è vera, non è vissuta, non è autobiografica; non serve a nulla identificare questa o quella donna perché nelle mie cose il tu è istituzionale»; ma aggiungere subito dopo che nei suoi versi convergono «esperienze che vengono da tutte le parti della sua vita e spesso sono inventate» (AMS, p. 1520). Per un libro come La bufera altro, queste affermazioni perentorie possono suggerire anche delle prospettive sui temi e le figure più rilevanti. Nella terza raccolta, più ancora che nelle precedenti, Montale infatti dà spazio alla dimensione autobiografica e ai diversi ambiti dell’esperienza personale; tuttavia, per dar corpo alle vere presenze della sua storia famigliare o sentimentale, le proietta contro lo sfondo della Storia e le avvolge nel «tessuto mitico» (Contini) che sostiene e orienta la materia del libro.
I due grandi temi della Bufera, cioè l’attraversamento della vicenda storica e l’evoluzione parallela del rapporto con un tu (non sempre) istituzionale, appaiono perciò insieme personali e universali. Dal loro intreccio dipende anche il doppio regime del libro: da un lato, la riconfigurazione dell’esperienza attraverso la forma del ‘canzoniere’, mediata anche dai tratti manieristici messi prima in evidenza; dall’altro, l’inclusione della realtà, sotto forma di eventi e date, luoghi e situazioni, parole, formule e soprattutto personaggi. La presenza di elementi portanti della forma-canzoniere, come la promozione etico-ideologica del tema d’amore, sono interpretabili quali segni di una tensione ideale della poesia intesa come selezione e controllo del reale storico.
Tuttavia, la complessità della Bufera risiede proprio nel fatto che in quel reale il protagonista sceglie di calarsi, allargando l’ambito dell’esperienza oltre gli stretti confini delle situazioni liriche tradizionali. Per far questo, forza il sistema canonico dei personaggi di un canzoniere d’amore, dando spazio, oltre a Clizia, ad altre figure femminili come quella di Volpe (cui si affiancano Arletta, recuperata dalle memorie di gioventù, e G.B.H.). La figura di Volpe va ben oltre il ruolo di «donna dello schermo» o di «Antibeatrice» (come pure la definisce lo stesso Montale: AMS, p. 1519); la sua presenza, soprattutto nei Madrigali privati, non è connotata solo in negativo rispetto a Clizia, con la quale tende anzi a sovrapporsi, attraverso la fusione e la condivisione di simboli e senhals.
Cessata l’emergenza storica (la guerra), venuta dunque meno anche la necessità di una compensazione ideale attraverso l’intervento metafisico di Clizia, il protagonista sembra arrendersi alla «prosa del mondo», rinunciando a trovare nella propria vicenda la chiave per interpretare i destini universali: «il dono che sognavo / non per me ma per tutti / appartiene a me solo» (così in Anniversario, ultima poesia dei Madrigali privati). Ma è a quel punto che Montale compie una mossa strategica, attuata grazie all’aggiunta delle Conclusioni provvisorie. Constatata l’impossibilità di applicare alla realtà un filtro ideale, viene formulato l’auspicio che il visiting angel ritorni, sì, ma in un punto fuori dal tempo, in uno spazio metafisico: «L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito», sono le parole conclusive del libro. L’oscillazione fra canzoniere e autobiografia, tragico e comico, Clizia e Volpe, non viene risolta; ma quegli ultimi versi danno al libro un finale in battere, senza esaurirne i temi ma garantendogli la «completezza» strutturale in cui Montale stesso individuava la cifra distintiva dei suoi primi tre libri: Ossi, Occasioni e Bufera, dirà il poeta a Maria Corti in un’intervista del ’71, «obbedivano al concetto del canzoniere, erano quello che in gergo letterario si dice “canzoniere”, una raccolta che tende a una specie di completezza anche formale, senza buchi, senza intervalli, senza nulla di trascurato» (AMS, p. 1700).
Questo disegno strutturale cerca ancora di dare un ordine, un’ipotesi di senso, ai fatti storici e personali che fermentano nel libro. Proprio la Storia, come si accennava, è l’altra grande area tematica del libro; se il titolo La bufera è un’evidente allusione alla Seconda guerra mondiale, l’eco del conflitto risuona continuamente, ora più intenso (come nella Primavera hitleriana), ora più debole.
La sezione Dopo si riferisce, già nel titolo, alla fine della dittatura; in particolare, Ballata scritta in una clinica e il secondo ‘madrigale fiorentino’ rievocano, con diverso registro, la Liberazione della città, in cui Montale viveva in quegli anni. Più avanti, tra i Madrigali privati, i versi di Le processioni del 1949 richiamano il rito della Peregrinatio Mariae, cioè le processioni dell’immagine della Madonna, che alla fine degli anni Quaranta ebbero vasta eco e diffusione, anche sul piano politico in funzione anticomunista.
Infine, nelle Conclusioni provvisorie, emerge lo scetticismo di Montale nei confronti del «modello di civiltà anonima, massificata e meccanizzata» (Luperini) affermatosi nel dopoguerra; in Piccolo testamento, Montale prende le distanze dalle opposte ideologie dei «chierici rossi e neri» e dà forma alle ansie apocalittiche di un’epoca ormai entrata nel clima della guerra fredda; le «purghe» e le «abiure» evocate nel Sogno del prigioniero alludono del resto al regime staliniano.
Nel rappresentare in chiave realistica o allegorica gli eventi del Novecento, La bufera si volge anche al passato personale. Il tema larico (Macrì), ossia la memoria degli affetti famigliari, attraversa la raccolta da Finisterre (L’arca e A mia madre) a Voce giunta con le folaghe (nelle Silvae): qui il poeta si rivolge al padre («eccoti fuor dal buio / che ti teneva, padre, erto ai barbagli, / senza scialle e berretto»), dal quale lo conduce l’ombra di Clizia, assimilata ormai anche lei a un ricordo. Dal passato riemergono anche il «festoso e orecchiuto» cane Piquillo (Da una torre), e le sorelle («due bianche farfalle») di Dov’era il tennis...; in questa prosa, legata per soggetto e ambientazione a Donna Juanita e altri racconti di Farfalla di Dinard, Montale rievoca la Liguria dell’infanzia e della prima gioventù, da cui proviene anche la figura di Arletta, che ricompare trasfigurata in ‘Ezekiel saw the Wheel...’. È in questa prospettiva che si spiega anche il repêchage di un testo molto più antico degli altri, come Due nel crepuscolo.
Il tema della memoria, anzi della sua labilità, è cruciale nell’opera montaliana fin dagli Ossi di seppia; qui nella Bufera la sua presenza più evidente è in Verso Siena: «Ohimè che la memoria sulla vetta / non ha chi la trattenga». Tuttavia, la sezione a cui la poesia appartiene (‘Flashes’ e dediche) non parla del timore dell’oblio, ma della possibilità di rielaborare le circostanze del passato, le immagini fissate come da un ‘flash’ fotografico, alla luce del presente. Nella serie, tali immagini si riferiscono per lo più a paesi visitati e descritti da Montale nei suoi reportage per il «Corriere della Sera»: l’Inghilterra (Reading, Londra, la cattedrale di Ely), la Scozia (Glasgow, Edimburgo), la Siria, la Bretagna, la Catalogna. I toponimi che punteggiano quei testi o le loro epigrafi non hanno di base una funzione evocativa ma diaristica; sennonché, la sfida alla memoria consiste proprio nel ricondurre le occasioni reali (i ‘flash’, appunto) sotto l’influenza ideale di una dedicataria (di qui la parola ‘dediche’ nel titolo della sezione) che v’imprime a posteriori la sua presenza. La dinamica non è così lontana da quella illustrata, in chiave paradossale, nei Madrigali privati, soprattutto in Per album («Ho cominciato anzi giorno / a buttar l’amo per te») e Anniversario («Dal tempo della tua nascita / sono in ginocchio, mia volpe»), in cui il poeta reinterpreta anche le epoche passate della propria vita nel segno di Volpe.
Il genio di Montale conquista New York
Galassi: tra gli immortali come Baudelaire
di Alessandra Farkas (Corriere della Sera, 18.02.2011)
NEW YORK - «Eugenio Montale appartiene alla ristretta cerchia di poeti come Baudelaire, Valéry o T. S. Eliot. È uno dei grandissimi che non verranno mai dimenticati» . Reduce dal Convegno e Reading su Eugenio Montale organizzato dall’Istituto italiano di cultura in collaborazione con l’American Academy di Roma e la Fondazione Rizzoli Corriere della Sera, Jonathan Galassi parla con insaziabile entusiasmo del grande scrittore premio Nobel di cui è uno dei più raffinati traduttori, insieme a Charles Wright e William Arrowsmith. -, ma a trent’anni dalla sua morte, l’America rischia di dimenticare Montale.
«Purtroppo oggi anche lui è vittima dell’oblio che dopo la morte sembra colpire tutti i grandi della letteratura» , spiega Galassi, che oltre a essere presidente e publisher della Farrar, Straus and Giroux, è anche uno degli intellettuali più colti e raffinati degli Stati Uniti. E punta il dito contro «il bisogno quasi fisiologico di prendere le distanze dai mostri sacri» . -, ma in questa sponda dell’Atlantico negli anni 60 e 70 la sua influenza era straordinaria. Al punto da ispirare le celebri «imitazioni» di Robert Lowell, il grande poeta statunitense, considerato il fondatore della Poesia confessionale, che nel 1961 pubblicò Imitations, un volume di libere traduzioni di Montale e altri poeti europei (vincitore del Bollingen Poetry Translation Prize nel ’ 62). Un tema, quello delle «imitazioni montaliane» esplorato da Fabio Finotti, docente all’Università della Pennsylvania. «Montale resta il poeta italiano più tradotto del XX secolo - incalza Galassi -, ha ispirato generazioni di poeti americani, da Charles Wright a Robert Lowell a Mark Strand» .
Rebecca West, docente all’università di Chicago e autrice di Eugenio Montale: Poet on the edge, ha sottolineato come «negli ultimi 20 anni la lingua inglese non ha prodotto nessuna nuova opera su Montale» . Eppure secondo Riccardo Viale, direttore dell’Istituto italiano di cultura newyorchese, la sua poesia resta attualissima. «Eugenio Montale, frequentatore di Gobetti, credeva in una dimensione morale della poesia che alla fine assumeva significato politico» , ha spiegato Viale. «Era la forte decenza della vita quotidiana, il silenzioso, ma fermo non scendere a compromessi il filo conduttore della sua poesia come della sua opposizione al fascismo e la sua lontananza dalla politica del dopoguerra».
Anche la sua attività di giornalista per il «Corriere della Sera» è definita «straordinaria e moderna» da Galassi, che racconta di aver conosciuto Montale a Forte dei Marmi nel 1979. «Stavo lavorando alla traduzione di uno dei suoi libri e nella casa sul mare c’era anche la sua governante toscana Gina Tiossi, eroina di tanti suoi versi. Fu uno degli incontri più formativi della mia vita - aggiunge -. Da allora Montale è uno dei miei eroi e una delle mie ossessioni» . Scindere il Montale uomo dal Montale scrittore è per lui impossibile. «Tutta la sua opera parla della sua vita, dell’amante Irma Brandeis, soprannominata Clizia, e della moglie Drusilla Tanzi, "Mosca". Della guerra e della sua difficile vita durante il fascismo» .
Nel 2006 Mondadori pubblicò le sue Lettere a Clizia: «Un volume in un certo senso scioccante - incalza -, perché rivelò al mondo il suo comportamento non certo esemplare nei suoi confronti» . In America ci fu un piccolo scandalo «quando si apprese che alcune delle traduzioni firmate da Montale erano in realtà opera di una donna: Lucia Rodocanachi» . Secondo Galassi non c’è niente di scandaloso, invece, nella relazione tra Montale e l’allora 28enne Annalisa Cima che dopo la sua morte ha pubblicato un volume di poesie che lui le aveva dedicato. «Escludo che siano stati amanti, anche perché lui non era molto sessuale come individuo» . Potrebbero, in futuro, emergere nuovi inediti? «Forse l’unico resta il carteggio pluridecennale con il caro amico Gianfranco Contini- risponde Galassi -, ma l’interesse di tale opera è secondario: sarebbe più importante ritradurre Montale e pubblicare nuovi saggi di analisi sul suo lavoro» . La lacuna sarà presto colmata: «Sto lavorando a un nuovo libro: una collezione di poesie scritte negli ultimi anni della sua vita» .
LETTERA A MALVOLIO
di Eugenio Montale *
Non s’è trattato mai di una mia fuga, Malvolio,
e neanche di un mio flair che annusi il peggio
a mille miglia. Questa è una virtù
che tu possiedi e non ti invidio anche
perché non potrei trarne vantaggio.
No,
non si trattò mai d’una fuga
ma solo di un rispettabile
prendere le distanze.
Non fu molto difficile dapprima,
quando le separazioni erano nette,
l’orrore da una parte e la decenza,
oh solo una decenza infinitesima
dall’altra parte. No, non fu difficile,
bastava scantonare scolorire,
rendersi invisibili,
forse esserlo. Ma dopo.
Ma dopo che le stalle si vuotarono
l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto
fondarono l’ossimoro permanente
e non fu più questione
di fughe e di ripari. Era l’ora
della focomelia concettuale
e il distorto era il dritto, su ogni altro
derisione e silenzio.
Fu la tua ora e non è finita.
Con quale agilità rimescolavi
materialismo storico e pauperismo evangelico,
pornografia e riscatto, nausea per l’odore
di trifola, il denaro che ti giungeva.
No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore
non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.
Ma lascia andare le fughe ora che appena si può
cercare la speranza nel suo negativo.
Lascia che la mia fuga immobile possa dire
forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,
che la partita è chiusa per chi rifiuta
le distanze e s’affretta come tu fai, Malvolio,
perché sai che domani sarà impossibile anche
alla tua astuzia
* Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72.