Cultura e Politica. Storia e Memoria....

L’ITALIA: "L’ONORE E L’INDECENZA STRETTI IN UN SOLO PATTO". SERGIO SOLMI, MONTALE E "LE STALLE DI AUGIA". Una testimonianza personale di Renato Solmi - a cura di pfls

domenica 27 gennaio 2008.
 

Solmi, Montale e le "stalle di Augìa"

di Renato Solmi

Alla redazione della rivista “Una città”

Sarei lieto di mettere a disposizione della vostra bella rivista il testo dell’intervento da me tenuto il 21 maggio 2001 presso l’Archivio di Stato di Torino in occasione della giornata dedicata alla figura di mio padre, Sergio Solmi, nel quadro di un ciclo di relazioni e di dibattiti svolto in diversi tempi e in diverse località, a cura del Centro Studi Piero Gobetti di Torino, sul tema “Intellettuali gobettiani tra cultura e impegno civile”.

Questo testo si riconnette strettamente alla “Nota biografica e testimonianza personale” pubblicata come poscritto al quinto volume delle opere di mio padre, uscito presso la casa editrice Adelphi, sotto il titolo Letteratura e società, nell’anno 2000, e ristampata ora sotto il titolo “Sergio Solmi. Una testimonianza personale”, nella mia Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, uscita presso la casa editrice Quodlibet di Macerata e nel quadro della collana Verbarium diretta da Michele Ranchetti.

Esso avrebbe dovuto far parte, nelle mie intenzioni, di un volumetto dedicato interamente alla vita e all’opera di mio padre, che, peraltro, non è stato ancora portato a compimento e non so se potrà mai vedere la luce. Ho pensato, tuttavia, che questo “aperçu” potrebbe interessare almeno una parte dei lettori di “Una città”, e dare, nello stesso tempo, un’idea della varietà (ma anche dell’unità) dei problemi che sono oggetto della raccolta complessiva dei miei scritti. *

Vorrei fare qualche osservazione sulle pagine dedicate al fascismo e all’influenza che esso aveva o non aveva esercitato sulla cultura italiana (o, più esattamente, sul modo in cui quest’ultima aveva o non aveva reagito ad esso), che si trovano, per lo più, nella quinta sezione del volume Letteratura e società, e precisamente in quella che reca il titolo, assegnato, peraltro, dai curatori, La responsabilità della cultura. Gli scritti compresi in questa sezione risalgono tutti, o quasi, ai primissimi anni del secondo dopoguerra, e cioè ad un’epoca relativamente felice di trapasso e di transizione, in cui ci si era liberati, bensì, del fascismo, e si poteva respirare per la prima volta, dopo tanto tempo, a pieni polmoni, ma non era ancora calata, d’altra parte, sulla società e sulla cultura italiana, come su quelle di tutti gli altri stati europei, l’atmosfera paralizzante della guerra fredda (in cui, come si può constatare facilmente dalla distribuzione degli scritti di questo volume, mio padre avrebbe cessato quasi completamente di scrivere di queste cose, dal momento che né gli esponenti di una parte né quelli dell’altra sarebbero stati minimamente disposti a porgergli ascolto).

Mio padre descrive questa situazione in uno scritto del marzo 1946 (Dibattito sulla cultura) dedicato a una discussione promossa dall’“Avanti!”, a cui lui stesso aveva preso parte, dicendo che il referendum di quel giornale, in cui ciascuno parla ancora per conto proprio, “desta un po’ l’impressione dell’accordarsi degli strumenti prima che s’inizi il concerto. Sono le prime battute d’un dialogo, quando ciascuno degli interlocutori, a metà chiuso nel suo pensiero ancora informulato, sembra parlare ancora a se stesso, e tentare appena l’aria in attesa di un’eco. Non è ancora giunto il momento delle posizioni chiare, tutte le idee e i propositi si librano ancora fluttuanti e indeterminati a mezz’aria, come ansiosi di distendersi e di riconoscersi”.

Purtroppo il dialogo che avrebbe dovuto svilupparsi in quell’occasione è rimasto interrotto prima ancora di essere cominciato. Ma la brevità di questo periodo di trapasso rende ancora più preziose, in un certo senso, le rare testimonianze di una volontà reciproca di confronto e di commisurazione, o, come nel caso degli interventi di mio padre, di mediazione e di interposizione pacifica, ma non per certo meno agguerrita, e cioè precisa e calzante nei suoi distinguo, fra le due parti o i due schieramenti in contrasto. E’ stato forse un anno, o poco più, in cui è durato questo incantesimo così fragile: con l’avvento del primo governo De Gasperi, all’inizio del 1946, l’unità politica fra tutte le forze che avevano preso parte alla Resistenza era già venuta sostanzialmente meno, e i contrasti latenti fra di esse tendevano progressivamente ad allargarsi e ad aggravarsi ogni giorno di più. Alla breve stagione caratterizzata dalla possibilità, anche se non ancora dalla realtà effettiva del dialogo, avrebbe fatto seguito, ben presto, quella della sua impossibilità, in cui la voce pacata e giudiziosa di mio padre sarebbe apparsa, come ho già detto, del tutto vana e superflua.

Un altro aspetto interessante degli scritti di questo periodo è rappresentato dal confronto fra il prima e il poi, fra l’epoca buia da cui si era usciti e quella luminosa e festosa che avrebbe dovuto cominciare adesso. Ma fino a che punto la cultura, gli intellettuali, i produttori di arte o di letteratura, avevano beneficiato del cambiamento che si era verificato con la fine della guerra, e con la caduta definitiva dei regimi fascisti? Ebbene, la risposta a questa domanda che troviamo qua e là in queste pagine può sembrare a tutta prima sorprendente. “Può sembrare un paradosso”, scrive mio padre in Invito alle storie (uno dei “cinque saggi programmatici” contenuti in questa sezione), “affermare che la letteratura ha dimostrato di resistere meglio al fascismo che alla libertà”. E’ questo motivo su cui può essere interessante stabilire un confronto fra il modo in cui hanno saputo reggere o reagire a questa sfida difficile del tempo Eugenio Montale, che ha affrontato a più riprese questo problema nelle poesie del dopoguerra, e mio padre, che, a dir la verità, non ne ha mai parlato nelle sue liriche, ma che ne ha avvertito, e come, la gravità, e quindi anche l’esigenza di porvi in qualche modo rimedio.

Mi sembra che Montale si sia reso conto fin dall’inizio del fatto che la caduta del fascismo e la restaurazione della normalità democratico-borghese, eliminando tutte le barriere di carattere artificioso e contingente, ma non per questo meno oppressive e soffocanti, che si frapponevano fra il poeta e l’ambiente sociale circostante, ma lasciando sussistere pressoché intatte le sue assise economiche e le sue forme di vita e di relazione abituali, e rompendo l’isolamento coatto in cui una piccola cerchia di intellettuali intransigenti aveva potuto conservare una sorta di verginità o di coerenza, per il semplice fatto di seguire i propri gusti e le proprie tendenze naturali, che l’avevano tenuta lontana, in generale, da qualunque compromesso sostanziale con lo spirito del regime, e facendola confluire, se si può dir così, nell’alveo comune di una società profondamente guasta e corrotta, dal cui contatto, o dal cui contagio, le sarebbe stato molto più difficile difendersi (fino ad annullare, in ultima istanza, ogni differenza qualitativa fra i pochi eletti e gli innumerevoli altri), avrebbe creato, paradossalmente, condizioni assai meno propizie, o addirittura ostacoli pressoché insuperabili, al libero dispiegarsi e articolarsi dell’ispirazione poetica (che richiede concentrazione e segregazione, distacco e silenzio, la possibilità, se si può dir così, di vivere in incognito, e di osservare il mondo e la vita dei propri simili attraverso una specie di diaframma che rimane invisibile agli altri).

Anche mio padre, che si era reso ben conto di questo intreccio di eventi, e delle conseguenze a cui avrebbe potuto dar luogo, parla, nello stesso saggio a cui ho già fatto riferimento prima, della minaccia rappresentata dalla crescente mondanizzazione della vita letteraria. Ma torniamo a Montale.

Già nella Voce giunta con le folaghe, che fa ancora parte della Bufera, e che potrebbe essere stata scritta, o quanto meno concepita, poco dopo la fine della guerra, anche se è stata pubblicata solo nel 1947, la voce dell’“ombra fidata” che assiste all’incontro con quella del padre defunto fa presente al poeta, in tono di monito, che la situazione è radicalmente mutata rispetto al passato (“Ora ritorni al cielo libero / che ti tramuta...”), e che le fonti segrete della sua ispirazione, di cui si era alimentata la sua poesia nell’epoca del fascismo (e cioè, in particolar modo, nelle Occasioni), potrebbero risultare del tutto inadeguate, e forse addirittura inaridite, nella nuova epoca che si affaccia all’orizzonte (“Memoria / non è peccato finché giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé...”).

A un invito ancora più esplicito, da parte della compagna della sua vita, che gli verrà a mancare di lì a poco, a uscire dal suo atteggiamento di distacco e a tuffarsi nella realtà, invece che nelle profondità della memoria (Botta e risposta I, composta nel 1961), Montale risponderà, nel 1962, con una lunga similitudine, sviluppata arditamente in tutte le sue implicazioni, tratta da un episodio ben noto della mitologia antica (la pulizia delle stalle del re Augìa effettuata da Eracle mediante la deviazione del corso del fiume Alfeo). Si tratta di una delle liriche più belle e più complesse che Montale abbia composto dopo il 1953, e cioè dopo la pubblicazione della versione definitiva della Bufera, e che, a mio avviso, deve la sua perfetta riuscita proprio al fatto di avere assunto ad oggetto della propria meditazione, e di avere, per così dire, tematizzato direttamente, il problema di cui ho parlato prima, e cioè quello del nesso che si è venuto a stabilire, nella sua vita, fra il periodo fascista e quello successivo, in cui la libertà apparente è venuta a trasformarsi, per le ragioni a cui ho già accennato, in una nuova specie di impotenza reale. Per il suo carattere riassuntivo ed emblematico, e anche per il livello artistico a cui si colloca, essa potrebbe benissimo essere affiancata alle due grandi liriche (Piccolo testamento e Il sogno del prigioniero) che costituiscono le “conclusioni provvisorie” della Bufera.

L’epoca del fascismo e, più in generale, il periodo fra le due guerre, e poi, naturalmente, gli anni terribili della seconda guerra mondiale, sono stati, nel loro insieme, un incubo tremendo, che il poeta rappresenta, con una fantasia potente e corrusca, come una specie di “città di Dite”, il cui sovrano non si fa mai vedere, o di campo di concentramento nazista, in cui anche i minimi tentativi di evasione sentimentale e poetica sono sistematicamente rintuzzati e stroncati, come nei gironi dell’inferno dantesco, dai “bargelli del brago”, e cioè dagli scherani diabolici del regime. Ma la liberazione da parte delle acque dell’Alfeo, che finiscono per inondare uniformemente ogni cosa, ha prodotto, per certi aspetti, un risultato ancora peggiore:

-  A liberarci, a chiuder gli intricati
-  cunicoli in un lago, bastò un attimo
-  allo stravolto Alfeo. Chi l’attendeva
-  ormai? Che senso aveva quella nuova
-  palta? e il respirare altre ed eguali
-  zaffate? e il vorticare sopra zattere
-  di sterco? ed era sole quella sudicia
-  esca di scolaticcio sui fumaioli,
-  erano uomini forse,
-  veri uomini vivi
-  i formiconi degli approdi?

Si è venuta a determinare, cioè, quella totale indistinzione delle parti, quella compromissione universale e sistematica, in cui risulta sempre più difficile preservare la propria dignità personale, e, in ultima istanza, anche la propria libertà di spirito. Il problema sarà affrontato ancora una volta, una decina di anni più tardi, in una poesia ugualmente decisiva per definire la posizione occupata da Montale negli anni del dopoguerra, e anzi, in questo caso, in quelli della contestazione giovanile e studentesca, che avrebbe anche potuto indurre, come non è il caso di mostrare qui, anche uomini molto vicini a lui, e della sua stessa generazione, ad assumere altri atteggiamenti o a coltivare altre speranze: la Lettera a Malvolio, compresa nel Diario del ’71, un personaggio dietro il cui soprannome mi sembra di intravvedere la figura di Pasolini, che doveva avere scritto, in quel periodo, sul conto di Montale, qualcosa che doveva essere andato di traverso al grande poeta genovese.

Dopo avere ribattuto l’accusa di essere fuggito di fronte alla realtà, e di essersi sottratto a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi compiti (“Non s’è trattato mai d’una mia fuga, Malvolio, / e neanche di un mio flair che annusi il peggio / a mille miglia... /... No, / non si trattò mai d’una fuga / ma solo di un rispettabile / prendere le distanze”), Montale passa a contrapporre, con grande chiarezza ed efficacia, i due periodi storici di cui ho già parlato:

-  Non fu molto difficile dapprima,
-  quando le separazioni erano nette,
-  l’orrore da una parte e la decenza,
-  oh solo una decenza infinitesima
-  dall’altra parte. No, non fu difficile,
-  bastava scantonare scolorire,
-  rendersi invisibili,
-  forse esserlo. Ma dopo...

“Rendersi invisibili”: questa espressione conferma nel modo più calzante e più incontestabile quello che abbiamo detto prima. Verso la conclusione della poesia, Montale torna a parlare, non senza fierezza (il suo animus fondamentale non era mai veramente mutato), di una “fuga immobile” (e cioè di un atteggiamento che possa infondere coraggio, che “possa dire / forza a qualcuno e a me stesso che la partita è aperta”, mentre essa è chiusa, per definizione e in partenza, per quelli che, come Pasolini, si rifiutano di prendere le distanze, e, anzi, sembrano provare un particolare piacere a voltolarsi nel fango di questa società immonda) *.

Montale continua:

-  Ma dopo che le stalle si vuotarono
-  l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto
-  fondarono l’ossimoro permanente
-  e non fu più questione
-  di fughe e di ripari. Era l’ora
-  della focomelia concettuale
-  e il distorto era il dritto, su ogni altro
-  derisione e silenzio.

Il richiamo alle “stalle” attesta, se ce ne fosse stato bisogno, la continuità fra questa poesia e quella che abbiamo esaminato in precedenza.

Se mi sono soffermato così a lungo su questi testi di un autore a cui mio padre era legato da un rapporto di profonda e devota amicizia, che risaliva all’epoca della prima giovinezza, e che era ricambiato interamente dall’altra parte, è perché mi è sembrato che essi potessero gettare una luce più viva sulla problematica che era comune, in larga misura, ad entrambi, e che costituisce, almeno in parte, l’oggetto di alcuni dei saggi che sono compresi nella raccolta di cui ho parlato (e in particolare di quelli che fanno parte della sezione intitolata La responsabilità della cultura).

Bisogna dire, peraltro, che il passaggio da un’epoca all’altra esercitò su mio padre un effetto meno traumatico di quello che, come abbiamo visto, esso produsse sull’animo e, prima ancora e più in generale, sulle consuetudini di vita e sulla collocazione sociale e politica di Montale. Il passaggio da Firenze a Milano, dall’ambiente appartato e riservato del Gabinetto Vieusseux, in cui era ancora presente lo spirito di Leopardi, e dalla confraternita letteraria delle “Giubbe Rosse”, alla redazione del “Corriere della Sera”, alla cronaca delle prime della Scala, e alla frequentazione dell’alta società milanese (a cui, peraltro, Montale avrà cercato di sottrarsi nella misura del possibile), e insieme a tutto questo la celebrità, peraltro meritatissima, che si era acquistato con le grandi opere del trentennio precedente, e che faceva di lui un personaggio di primo piano della vita culturale milanese e italiana, non potevano fare a meno di influire, e, purtroppo, non sempre nel senso più positivo, su una personalità per certi aspetti così fragile e nervosa, anche se fermissima nelle sue convinzioni fondamentali e refrattaria a qualsiasi seduzione di carattere più profondo e sostanziale, come quella del grande poeta.

La vita, gli affetti, le abitudini di mio padre non furono, invece, modificate quasi per nulla dalle conseguenze del passaggio dalla dittatura fascista e dall’emergenza bellica alle nuove forme di relazione e di attività che potevano essere dischiuse, a una persona dotata dei suoi interessi, dalla restaurazione delle condizioni fondamentali della democrazia politica, e dall’allargamento degli orizzonti culturali, e degli spazi aperti ad iniziative di ogni genere, che non potevano fare a meno di derivarne. E’ bensì vero che mio padre aveva già sottoscritto, se si può dir così, il suo “patto col diavolo”, e cioè limitato sostanzialmente le sue possibilità di lavoro e di scelta, fin dal momento in cui era entrato a far parte della Banca Commerciale, ciò di cui egli era perfettamente consapevole, e che, da parte mia, ho avuto il torto di considerare, fin dall’inizio, come un dato scontato e immodificabile, salvo deplorare poi, nel mio intimo, le conseguenze negative che quel vincolo o quell’impegno fondamentale, che, insieme agli altri suoi progetti e interessi di ordine culturale e letterario, a cui si dedicava nel tempo libero, era destinato ad assorbire quasi completamente le ore della sua giornata, non avrebbe potuto fare a meno di causare sotto altri rispetti. Ma non si può avere, come si dice, la botte piena e la moglie ubriaca, né pretendere di modificare uno o più tratti di una situazione senza avere la possibilità, e magari nemmeno l’intenzione, di modificare anche gli altri che sono ad essi strettamente connessi.

Sta di fatto, comunque, che l’operosità di mio padre nel campo letterario, e anche in quello più strettamente poetico, lungi dal diminuire d’intensità e dal produrre effetti meno rilevanti, fu ulteriormente potenziata ed esaltata dalle nuove condizioni che si erano venute a creare dopo la Liberazione, come si può facilmente constatare anche solo esaminando i volumi usciti finora nell’edizione complessiva delle sue opere o anche la successione degli scritti che sono compresi nel volume già più volte citato. E’ bensì vero che egli non fu più in grado di svolgere, dopo la guerra (o, per dir meglio, non fu più in grado di svolgerla con la stessa continuità e intensità), quella funzione stimolante e orientativa di critico militante che aveva assolto fino allora (o, diciamo, fino al 1940), sia nei confronti della letteratura italiana contemporanea (poesia, narrativa e saggistica) che in quelli della letteratura francese, di cui aveva fatto tanto, fino a quel momento, per incrementare e diffondere la conoscenza fra noi. E qualcosa di simile si può dire anche per la critica d’arte, a cui avrebbe continuato a dedicarsi anche in seguito, ma in forma più sporadica e occasionale di quanto non avesse fatto in precedenza. Ma ciò era dovuto, almeno in parte, oltre che al peso crescente degli impegni di lavoro all’interno della Banca, anche a un mutamento sostanziale di interessi, che erano rivolti, ormai, quasi solo alla letteratura, e che tendevano a focalizzarsi su autori ed opere determinate e di maggiore rilievo e importanza.

E, per tornare alla sua attività propriamente creativa, e cioè, in ultima istanza, alla poesia, credo di non sbagliarmi dicendo che la sua vena o la sua vocazione poetica, che si erano manifestate già chiaramente negli anni ’20 e ’30, è rimasta attiva e sensibile e ha dato, anzi, i suoi risultati più alti e più significativi proprio negli anni del dopoguerra, e cioè nel periodo che va dal 1945 al 1960 e anche più in là.

Renato Solmi

UNA CITTÀ n. 152 - dicembre 2007-gennaio 2008


Sul tema, nel sito, si cfr.:

IL GIORNO DELLA MEMORIA E LA DIGNITA’ DELL’ITALIA...

-  CRISI COSTITUZIONALE E VERGOGNA PLANETARIA (1994-2010). IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GRIDA: FORZA ITALIA!!! IL PRESIDENTE DI UN PARTITO GRIDA: FORZA ITALIA!!! LA DOMANDA E’: CHI E’ IL MENTITORE ISTITUZIONALE?!!
-  CAPISALDI?! LA BUSSOLA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI UN PAESE, SENZA "NOME" E SENZA "PAROLA"!!! Una nota di Mario Monti
-  NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’": "FORZA ITALIA" (2010)!!!

-  FESTA NAZIONALE, IL 17 MARZO. IL CARNEVALE DELLA FOLLIA ISTITUZIONALE (1994-2011)
-  FESTA NAZIONALE: L’UNITA’ D’ITALIA E LA "FOLLIA INCOSTITUZIONALE" DI "DUE PRESIDENTI" DELLA REPUBBLICA.


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