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di Mario Monti *
Il Presidente della Repubblica non guida la politica del Paese. Ma può, restando nei suoi poteri, esercitare una leadership. Con essa, può offrire orientamento ai cittadini e al mondo politico.
Ascoltando il messaggio di Giorgio Napolitano, sapevo di non potermi attendere l’annuncio di decisioni. Cercavo una cosa più rara e importante, in un momento così confuso: l’orientamento, una visione nella quale riconoscersi, sull’Italia, la crisi, la politica. La visione mi è parsa nitida e forte. Ne ho colti quattro capisaldi.
L’atteggiamento. A fine 2008 il Presidente indicava «l’atteggiamento da tenere dinanzi alla pesante crisi»: dobbiamo considerarla come «grande prova e occasione per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo». Rispetto a questo metro di valutazione, il suo giudizio dopo un anno appare incoraggiante, ma non soddisfatto. Grazie al «serio sforzo» compiuto dalla comunità internazionale e da quella italiana - «Paese» e poteri pubblici - «guardiamo con fiducia, con più fiducia del 31 dicembre scorso, al nuovo anno». Ma sulle politiche per dare all’Italia nuove prospettive di sviluppo, «il discorso resta ancora interamente aperto».
Il Paese. Risiede sul colle più alto, il Presidente, ma è un attento osservatore delle realtà locali. Ed è «guardando a quel che si è mosso nel profondo del nostro Paese» che nutre una fondata fiducia. «Nel tessuto più ampio e profondo della società si è reagito alla crisi con intelligenza, duttilità, senso di responsabilità». Con garbo, Napolitano sembra invitare i protagonisti della politica a posare anch’essi lo sguardo un po’ più in basso: «In realtà, non è vero che il nostro Paese sia diviso su tutto: esso è più unito di quanto appaia se si guarda solo alle tensioni della politica».
La politica. Se il suggerimento verrà colto, si potrà avere «un ritorno di lucidità e di misura nel confronto politico», che gioverebbe alle stesse forze politiche. «Esse- diceva il messaggio di un anno fa- possono guadagnare fiducia solo mostrandosi aperte all’esigenza di un impegno comune, ed esprimendo un nuovo costume». Predica inutile? Non proprio. «Lo so bene- osserva Napolitano (con elegante understatement, se si pensa agli attacchi personali che ha ricevuto da più parti) - abbiamo vissuto mesi molto agitati sul piano politico, ma ciò non deve impedirci di vedere come si sia operato in concreto da parte di tutte le istituzioni, realizzandosi, nonostante i forti contrasti, anche momenti di impegno comune e di positiva convergenza».
Le riforme. L’impegno comune è necessario per le riforme, chieste con vigore dal Presidente: quelle istituzionali e quelle, «da non rinviare», nel campo economico e sociale. «L’economia italiana deve crescere di più emeglio che negli ultimi quindici anni: ecco il nostro obbiettivo fondamentale». Egli registra positivamente le riforme annunciate dal governo sugli ammortizzatori sociali e sul fisco. Invita a presentare «un’analisi e una proposta d’insieme».
Quello di Napolitano non è un discorso di politica economica. Ma i temi sui quali sollecita l’azione - il Mezzogiorno, i giovani, l’equità sociale - sono legati da una stringente logica economica. Senza risultati su questi fronti, l’Italia sarebbe frenata nella crescita. E non riuscirebbe neppure ad essere un’«economia sociale di mercato», per mancanza di «sociale» e conseguente rigetto del «mercato».
Mario Monti
* Corriere della Sera, 02 gennaio 2010
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il Quirinale tra moniti e auspici
Editoriale (La Stampa, 2/1/2010).
La telefonata di apprezzamento fatta subito giungere al Quirinale da Silvio Berlusconi. Il sostegno convinto dei presidenti di Camera e Senato. L’elogio dei leader di partito che, sottolineando questo o quell’aspetto del discorso del Capo dello Stato, hanno voluto far sapere di esser pienamente e totalmente d’accordo con lui. Eppure, proprio gli «uomini del Palazzo» avrebbero dovuto cogliere, nella fredda e piovosa sera dell’ultimo dell’anno, l’inattesa consonanza di toni che ha segnato i discorsi pronunciati a poche ore di distanza l’uno dall’altro da due uomini certo assai diversi per vocazione, provenienza e ruolo.
Il primo, Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, è entrato a ora di cena nelle case degli italiani con un monito chiaro e netto: «Si dovrebbero ormai, da parte di tutti, contenere anche nel linguaggio pericolose esasperazioni polemiche; si dovrebbe contribuire a un ritorno di lucidità e di misura nel confronto politico». Il secondo, Angelo Bagnasco, cardinale e presidente della Cei, aveva fatto risuonare poche ore prima nella chiesa del Gesù a Genova, la sua critica severa verso «lo spettacolo triste e preoccupante della litigiosità politica, fino al metodo dell’insulto sistematico e dell’odio personale e violento. Tutti noi sappiamo che la gente non si merita questo».
Nelle parole dell’uno e dell’altro si può ipotizzare sia riflesso il senso comune, il sentire degli italiani, di tutti gli italiani, laici e cattolici, credenti e non credenti, giovani e anziani, del Sud o del Nord del Paese. E se questo è lo spirito che serpeggia dalla Sicilia al Trentino, allora la classe politica e i gruppi dirigenti in senso lato possono anche continuare a manifestare apprezzamenti che i fatti dimostrano insinceri e perseverare nel predicar bene per poi razzolar male: ma sappiano che la critica del Capo dello Stato e del capo dei vescovi italiani era ed è rivolta a loro. E comincino a riflettere sul fatto che un 2010 simile al 2009 - per inconcludenza, rissosità e violenza verbale - potrebbe trasformarsi in una faccenda pericolosa e seria: infatti, il vento dell’antipolitica che ciclicamente spazza questo Paese, pare poter assumere - è già accaduto a Milano - un profilo assai meno giocoso dei «girotondi» di ormai antica memoria.
È anche per questo che l’apprezzato «guardiamo con più fiducia del 31 dicembre scorso al nuovo anno» pronunciato da Giorgio Napolitano giovedì sera, è sembrato somigliare a un sospiro liberatorio dopo mesi e mesi di guerra: una guerra che in Italia ha lasciato sul terreno centinaia di migliaia di disoccupati, aziende piccole e medie triturate dalla crisi, sfiducia crescente nei giovani, distacco e rabbia - quando appunto non odio, come a Milano - verso una classe politica impegnata a proclamare piuttosto che a fare. E soprattutto a litigare, piuttosto che a dialogare. Quello del presidente, in definitiva, è parso più un auspicio che un annuncio: ma che l’auspicio di realizzi, ora non dipende da lui ma dal «cambio di stagione» che il Paese aspetta da tempo e ora - anzi - comincia a reclamare.
L’agenda è nota, e Napolitano l’ha rielencata: sostegno ai più deboli, lotta alle nuove povertà, ripresa dell’economia, attenzione particolarissima al Sud e ai giovani («Non possiamo correre il rischio che non vedano la possibilità di realizzarsi e di avere una vita degna nel loro Paese»). E poi, certo, le riforme istituzionali, «che non possono essere bloccate da un clima di sospetto tra le forze politiche e da opposte pregiudiziali». Quel che il presidente ha fatto intendere, è che è giunto il momento del fare dopo la lunga stagione del proclamare. Fare le riforme: sociali e istituzionali. E perfino innovare nella sua seconda parte la Costituzione, «che può esser modificata secondo le procedure che essa stessa prevede».
È parsa insomma quasi una sfida quella che Napolitano - e per altri versi il cardinal Bagnasco - hanno proposto a maggioranza e opposizione: recuperare un clima di confronto appena appena civile e operare, finalmente, per recuperare fiducia, credibilità e consenso tra la gente. Perseverare in una guerra senza più senso a colpi di termini e accuse ripescate direttamente dal secolo scorso - da «comunista» a «piduista» - rischia di essere non solo inutile, ma ormai perfino potenzialmente pericoloso. Nella notte dell’ultimo dell’anno, l’allarme è stato autorevolmente lanciato: e con tale nettezza di toni e tale chiarezza di termini, che nessuno potrà poi dire che non aveva capito...
La dottrina del Quirinale
di MASSIMO GIANNINI *
Come ogni Capodanno il "cuore d’Italia", da Palermo ad Aosta, batte all’unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un’opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano "presepe italiano" di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l’assolutoria epifania del Partito dell’Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso "Inno alla serenità" pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La "Dottrina Napolitano" si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L’Italia, dopo mesi "molto agitati", ha un drammatico bisogno di essere governata.
Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell’occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l’assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: "invisibili" del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto "invisibili" del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta "interamente aperto", vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l’ha fatto. Ci sono riforme "non più rinviabili". Non regge più l’alibi biblico del Qoelet (c’è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d’altro.
La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che "non possono essere tenute in sospeso" o bloccate dalle "opposte pregiudiziali". Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell’articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano "ispirate solo all’interesse generale", cioè all’esclusivo "servizio dei cittadini". Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un "radicato ancoraggio" a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti "poteri neutri". La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della "condivisione più larga possibile", nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di "patto scellerato", e ricolloca il confronto nell’unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.
La "Dottrina Napolitano" fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente "rivoluzione liberale" che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell’idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma "hobbesiano" che, nella visione berlusconiana, lega l’esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l’origine dell’ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l’esistenza dell’ordine politico e dove perciò l’unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in "Fine del diritto", Il Mulino). "Io non desisterò", promette il presidente della Repubblica agli italiani, all’alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.
© la Repubblica, 2 gennaio 2010
Sueddeutsche Zeitung, 17 maggio 2010
Giustizia sociale
Disuguale, più disuguale: Germania
http://www.sueddeutsche.de/wirtschaft/soziale-gerechtigkeit-ungleich-ungleicher-deutschland-1.535943
Lo sviluppo degli scorsi anni non ha raggiunto tutti gli strati sociali. L’ingiustizia sociale cresce in Germania in misura più elevata che negli altri Stati industriali. In Germania povertà e ineguaglianza, secondo uno studio dell’OCSE, sono aumentate fortemente dal 2000 in poi.
“Nonostante l’incessante redistribuzione effettuata dallo Stato mediante imposte e trasferimenti la frattura fra ricchi e poveri è aumentata”, è detto nel rapporto OCSE sull’argomento.
La quota di povertà in Germania si è stabilita nel frattempo perfino di poco sopra la media definita dall’OCSE, mentre all’inizio degli anni ’90 era caduta di un buon quarto.
La causa principale della crescente disuguaglianza è la disoccupazione. La quota delle famiglie senza alcun reddito da lavoro fino al 2005 è aumentata di un buon quinto, senza contare i bilanci famigliari dei pensionati. Un particolare segnale d’allarme per il Governo federale: questo dato è il valore più alto all’interno dell’OCSE, della quale fanno parte 30 Paesi industrializzati. Incentivi più forti per l’occupazione, come le riforme denominate Hartz ["Hartz IV" è stata nel dopoguerra la più grande riforma sociale e del lavoro], puntano nella giusta direzione, ha detto l’esperto dell’OCSE Michael Förester.
I ricchi più ricchi, i poveri più poveri
Secondo lo studio [citato] dal 1995 fino al 2005 la divaricazione dei salari e degli stipendi è “aumentata drasticamente”. I ricchi diventano più ricchi, i poveri più poveri. “Soprattutto per gli uomini i redditi alti sono aumentati in modo nettamente più rapido di quelli bassi”, vi si legge. Nessun barlume di speranza. Il trend verso una ripartizione diseguale dei redditi negli anni scorsi sarebbe giunto a un temporaneo blocco. I trasferimenti di carattere sociale e le imposte sui redditi hanno ridotto l’ineguaglianza fra le entrate di un terzo e la povertà della metà. Questo corrisponderebbe precisamente allo spaccato riferito dall’OCSE.
In misura particolarmente drastica è salita la disuguaglianza fra i redditi, calcolata nell’anno del boom, il 2006, secondo l’Istituto tedesco per la ricerca economica (DIW). Un anno più tardi, stimolata dallo sviluppo congiunturale, la situazione è nuovamente migliorata. “Questo significa, in cifre assolute, che in Germania 1,2 milioni di persone non sono più colpite dalla povertà, a causa della migliorata situazione del mercato del lavoro”, ha detto Markus Grabka del DIW.
Patrimoni distribuiti in modo diseguale
Lo sviluppo congiunturale dalla metà del 2008 è diventato di nuovo nettamente negativo. Negli ultimi dieci anni le strutture del mercato del lavoro si sono fortemente modificate, con più lavoro in affitto e a tempo determinato, e così anche l’occupazione, in misura poco significativa. Questi lavoratori “adesso, nel quadro del rallentamento congiunturale, saranno rapidamente catapultati fuori dal mercato del lavoro. Ciò che secondo le nostre valutazioni fa aumentare di nuovo la dimensione della povertà per l’anno 2009”, ha detto Grabka.
Ancor più inegualmente sono distribuiti i patrimoni. Il dieci percento più elevato possiede circa la metà del patrimonio totale - il dieci percento dei più forti percettori di reddito al contrario raggiungono un po’ più di un terzo del reddito totale.
Poveri bambini
Lo sviluppo [negativo della situazione] nella società colpisce i più piccoli in modo particolarmente duro. La povertà infantile è ancor sempre un problema, negli anni passati è evidentemente aumentata. Nel 1985 sette percento dei bambini vivevano in una famiglia che percepiva meno della metà del reddito medio tedesco. Nel 2005 erano già diventati il 16 percento. Per i figli di genitore single la Germania presenta la quota più alta di povertà dopo Giappone, Irlanda, Stati Uniti, Canada e Polonia. Per contro il tasso di povertà delle persone più in età è rimasto stabile al nove percento circa, mentre nella media OCSE si aggira sul 13 percento.
La povertà a lungo termine secondo l’OCSE è al contrario un fenomeno che in Germania si presenta più raramente che altrove. Ne è colpito dal due al tre circa percento della popolazione, che quindi nel corso di un lasso di tempo di almeno tre anni sono considerati poveri. La quota è più limitata soltanto in Danimarca e Olanda, la media OCSE è alta più del doppio. Anche le privazioni materiali in Germania sarebbero più infrequenti che in molti altri Paesi. Circa l’otto percento della popolazione deve applicare evidenti riduzioni al suo standard di vita - nella media OCSE è il dodici percento.
I lavoratori, i robot e i signori della rapina
di Paul Krugman (la Repubblica e The New York Times, 11.12.2012)
L’economia americana, sotto molti punti di vista, è ancora adesso gravemente depressa. Eppure gli utili societari stanno raggiungendo cifre da record. Come è possibile? Semplice: gli utili si sono impennati come frazione del reddito nazionale, mentre i salari e le altre retribuzioni della manodopera sono in flessione. La torta non sta crescendo come dovrebbe, ma il capitale se la passa bene arraffandone una fetta sempre più grossa, a discapito della manodopera.
Un momento: stiamo forse parlando ancora una volta di capitale in contrapposizione a lavoro? Non è un argomento obsoleto? Un soggetto quasi marxista di cui parlare, passato di moda nella nostra moderna economia dell’informazione? Beh, questo è quanto molti pensavano. Per la scorsa generazione i discorsi sull’ineguaglianza non si sono concentrati per lo più sul capitale in contrapposizione a lavoro, ma su questioni di distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Questa sì, in effetti, potrebbe essere storia passata.
Più specificatamente, se è vero che i pezzi grossi della finanza stanno ancora agendo da banditi - in parte perché, come ormai sappiamo, alcuni di loro effettivamente lo sono -, il divario retributivo tra i lavoratori che hanno un’istruzione universitaria e quelli che non l’hanno (che si acuì molto in modo particolare tra gli anni Ottanta e i primi Novanta) da allora non è variato granché. In verità, i lavoratori neolaureati avevano redditi statici addirittura prima che la crisi finanziaria colpisse. Sempre più spesso, gli utili stanno aumentando a spese dei lavoratori in genere, compresi i salariati che hanno le qualifiche ritenute adatte a portare al successo nell’economia odierna.
Perché sta accadendo questo? Il meglio che posso dire è che vi sono due spiegazioni plausibili, ed entrambe potrebbero essere vere in parte. La prima è che la tecnologia ha preso una piega che colloca in posizione di netto svantaggio la manodopera. L’altra è che stiamo assistendo agli effetti di un palese aumento del potere dei monopoli. Provate a pensare a queste due ipotesi come a una maggiore importanza conferita ai robot da una parte e ai signori della rapina dall’altra.
Parliamo di robot: è fuor di dubbio che in alcuni settori industriali di alto profilo la tecnologia sta rimpiazzando sempre più lavoratori di tutti i generi o quasi. Per esempio, una delle ragioni per le quali da qualche tempo alcuni processi produttivi di articoli hi-tech stanno tornando negli Stati Uniti è che ormai il componente di maggior valore di un computer, la scheda madre, è fabbricato in pratica da robot, e di conseguenza la manodopera asiatica a prezzi stracciati non costituisce più un motivo valido per produrlo all’estero.
In un libro appena pubblicato e intitolato Race Against the Machine (La corsa contro le macchine), Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee dell’Mit sostengono che la stessa cosa sta avvenendo in molti campi disparati, compresi servizi quali la traduzione e la ricerca legale. Negli esempi da loro addotti in particolare colpisce il fatto che molti posti di lavoro soppressi richiedono alte competenze e sono ben retribuiti. Ne consegue che lo svantaggio della tecnologia non è limitato ai mestieri più umili.
E tuttavia: innovazione e progresso possono danneggiare davvero un gran numero di lavoratori o addirittura i lavoratori in genere? Spesso mi imbatto in affermazioni secondo le quali ciò non può accadere. In verità, invece, può accadere eccome, e illustri economisti sono consapevoli di tale probabilità da almeno due secoli. David Ricardo è un economista dell’inizio del XIX secolo famoso per lo più per la sua teoria del vantaggio comparato, che costituisce uno dei capisaldi del libero commercio. Ma nel medesimo libro del 1817 nel quale Ricardo illustrava quella teoria c’è anche un capitolo su come le nuove tecnologie della Rivoluzione industriale ad alto impiego di capitale di fatto avrebbero potuto peggiorare le condizioni dei lavoratori, quanto meno per un po’. Gli studiosi moderni puntualizzano che le cose in realtà sono andate avanti così per parecchi decenni.
Che dire dei signori della rapina? Di questi tempi non si parla molto del potere dei monopoli. L’applicazione delle leggi anti-trust durante gli anni della presidenza Reagan è stata per lo più abbandonata e da allora non è mai ripresa davvero. Eppure Barry Lynn e Phillip Longman della New America Foundation sostengono - in modo convincente, dal mio punto di vista - che la crescente concentrazione di aziende potrebbe costituire un fattore determinante ai fini della stagnante richiesta di manodopera, dato che le corporation usano il loro potere monopolistico in netta espansione per aumentare i prezzi senza passarne gli utili ai propri dipendenti.
Ignoro in che misura la tecnologia o il monopolio possano spiegare la svalutazione della manodopera, in parte perché si parla molto poco di quello che sta accadendo. Tuttavia, penso che sia corretto affermare che lo spostamento del reddito dalla forza lavoro al capitale non è ancora entrato nel nostro dibattito nazionale.
Quello spostamento, peraltro, è in corso, e ha implicazioni ragguardevoli. Per esempio, vi sono forti pressioni, lautamente finanziate, a favore della riduzione delle aliquote fiscali applicate alle grandi società. È davvero questo che intendiamo lasciare che accada nel momento in cui gli utili sono in forte aumento a detrimento dei lavoratori? E che dire delle pressioni volte a ridurre o abolire del tutto le imposte di successione? Se stiamo per tornare a un mondo nel quale è il capitale finanziario - e non le qualifiche professionali o il livello di istruzione - a determinare il reddito, vogliamo davvero rendere ancora più facile ricevere in eredità la ricchezza?
Come ho premesso, questo dibattito non è ancora iniziato sul serio. In ogni caso, è ora di iniziarlo, prima che i robot e i signori della rapina trasformino la nostra società in qualcosa di completamente irriconoscibile.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2012, The New York Times
L’Italia: aspra campagna in vista
di Fabio Liberti (direttore di ricerca all’Istituto di ricerche internazionali e strategiche - Iris)
L’Italia poteva sembrare, all’occhio dell’osservatore esterno, un paese pacificato, garantito dalla saggezza del presidente del Consiglio, Mario Monti, liberato dalla ingombrante presenza di Silvio Berlusconi, vivificato dalla partecipazione dei cittadini alle elezioni primarie del centro-sinistra. Purtroppo il ritorno del Cavaliere e le dimissioni di Mario Monti ricordano che il contesto politico italiano ed europeo è di difficile comprensione.
Il ritorno alla ribalta di Silvio Berlusconi segna soprattutto l’inizio di una campagna elettorale aspra che sarà marcata da violenti attacchi tedescofobi e antieuropei. Il contesto si presta, quello economico specialmente, con una contrazione del PIL italiano dell’ordine del 2,5% nel 2012, frutto degli errori del passato e delle leggi di budget che hanno accumulato più di 100 miliardi di euro tra aumento delle imposte e riduzione della spesa pubblica in soli due anni.
La disoccupazione si impenna, il consumo crolla, il paese mette in opera riforme strutturali che devono permettergli, come la Germania di Gerhard Schröder, di ridispiegare il proprio potenziale in termini di crescita. Ma nell’attesa, gli effetti sono quelli di un impoverimento della popolazione.
Politicamente, una larga parte dell’opinione pubblica italiana ha l’impressione di pagare per una appartenenza all’Europa che sarebbe diventata un club di banchieri, dominato dagli interessi francotedeschi. L’Italia è in procinto di approdare a derive populiste e di far implodere l’euro? Nulla è meno sicuro.
Silvio Berlusconi non ha alcuna possibilità di vincere le elezioni della primavera 2013, cerca piuttosto di non perderle troppo. Il suo partito, che aveva raccolto il 38% dei voti nel 2008, è creditato ora solo del 14% dei suffragi.
Silvio Berlusconi, che avrebbe potuto lasciare la leadership del suo campo a Mario Monti, e curare la sua uscita di scena definitiva, fa la scommessa di difendere fino in fondo i propri interessi personali, economici e giudiziari, mettendo il suo partito e la destra italiana al suo servizio, e cerca di sfruttare le faglie della legge elettorale (che prevede un premio di maggioranza calcolato in modo diverso per i due rami del Parlamento, rendendo facile la formazione di una minoranza di ostruzione) per continuare a contare.
Ma la sua decisione precipita anche l’entrata nell’arena politica di Mario Monti che, liberato dal suo ruolo bipartisan, potrebbe alla fine accettare di condurre una lista centrista con il programma di continuare la propria azione di governo.
A guardare i sondaggi, l’esito dello scrutinio sembra lasciare pochi dubbi. La coalizione di centrosinistra, guidata da Pier Luigi Bersani, che ha appena vinto le elezioni primarie, resta il grande favorito di questo scrutinio, ma potrebbe avere bisogno di un accordo con i centristi (guidati da Mario Monti?) per governare, utilizzando il “Professore” Monti come cauzione di fronte ai mercati nominandolo Presidente della Repubblica o ministro delle Finanze. Ma non bisogna dimenticare la campagna elettorale che potrebbe fare dei guasti.
Giocando sulla collera degli Italiani, Silvio Berlusconi criticherà l’euro, l’austerità, l’Unione europea, il duo franco-tedesco. Non sarà il solo in questa battaglia, la Lega Nord si unirà al Cavaliere. Senza essere suo alleato, il Movimento 5 stelle del comico Beppe Grillo farà una campagna sugli stessi temi. Questo blocco populista è accreditato del 40% delle intenzioni di voto, sapendo che la metà degli italiani, scoraggiati dagli scandali di corruzione che hanno coinvolto parecchi partiti politici, atterriti dall’austerità, annunciano la loro astensione.
Sono questi Italiani che determineranno l’esito dello scrutinio, dopo una campagna elettorale che verterà sull’Europa e sull’euro. Come i Greci e gli Olandesi, gli Italiani dovranno scegliere tra l’appartenenza alla zona euro e all’Unione Europea, e le sirene di un capovolgimento del sistema politico europeo.
Fonti del Ppe: Monti non esclude la candidatura
Berlusconi: “Se lo fa mi ritiro,
tutto il Pdl è con lui”
di Amedeo La Mattina
inviato a Bruxelles (La Stampa 3/12/2012)
Un vertice europeo dei Popolari segnato da una grande attenzione per quanto sta accadendo in Italia e da voci e smentite sulle mosse di Mario Monti.
La cancelliera tedesca Angela Merkel avrebbe chiesto a Monti di ricandidarsi, oggi durante il pre-vertice del Ppe a Bruxelles (ma da Berlino fonti del governo tedesco smentiscono che si sia espressa su “candidature specifiche”).
Il premier, secondo fonti del Ppe, a sua volta avrebbe risposto di non escludere affatto una sua candidatura. Una posizione, questa di Monti, che negli ambienti di Palazzo Chigi viene però ritenuta non una novità, ma in linea con quanto il presidente del Consiglio va ripetendo negli ultimi giorni riguardo a un suo possibile, futuro impegno in politica.
Silvio Berlusconi, nel frattempo, avrebbe ribadito il suo orientamento durante lo stesso vertice: «Se Monti si candida io mi ritiro, non solo, ma il professore avrà tutto il sostegno del Pdl».
Al termine della riunione del Partito popolare europeo a Bruxelles il commissario europeo all’Industria Antonio Tajani ha affermato che “nessuno dei leader del Ppe ha chiesto espressamente a Monti di candidarsi”. “Tutti hanno parlato bene di Monti - ha aggiunto - ma nessuno vuole interferire”. Di diverso avviso Sybrand Van Haersma Buma, leader dell’opposizione in Olanda, che all’uscita della riunione ha detto: «È chiaro che il Ppe dà un chiaro supporto a Monti e non a Berlusconi. Vogliamo vedere questa situazione politica continuare, è importante per l’Europa”. Buma ha anche affermato: “Apprezziamo i risultati raggiunti da Monti, non quelli raggiunti da Berlusconi”.
Anche il presidente francese Francois Hollande non ha voluto far mancare il suo sostegno all’operato di Mario Monti, descritto come il leader «che ha permesso all’Italia di raddrizzarsi». All’arrivo di Monti al summit, Hollande è tornato indietro per salutarlo. I due si sono stretti la mano a lungo, davanti a fotografi e telecamere. Più tardi, parlando con i giornalisti, Hollande ha definito Monti «l’uomo che ha fatto in modo che l’Italia sia rispettata».
Monti ha trovato casa nel centrodestra
Archiviata l’ipotesi terzista Casini-Montezemolo
Proverà a guida un polo ispirato al Ppe
di Stefano Feltri (il Fatto, 14.12.2012)
Mario Monti ancora non ha deciso se e come candidarsi, ma abbandona il suo ruolo super partes e si colloca nel centrodestra. La scelta di partecipare a Bruxelles alla riunione del Partito popolare europeo, la stessa a cui c’erano Silvio Berlusconi e Angela Merkel, segna la fine del profilo “tecnico” del Professore. Qualche mese fa la destra europea si spese, senza grande fortuna, per la rielezione di Nicolas Sarkozy, con Angela Merkel molto criticata per essere andata a Parigi all’inizio della campagna elettorale. Nel documento approvato ieri, prima firmataria la Merkel, auspica che “i leader di centro e di centrodestra trovino il modo di proseguire sulla traccia” del governo tecnico. Tradotto: Mario Monti a palazzo Chigi con una coalizione di centrodestra nel 2013.
Il Professore ha molto più chiaro dei suoi interlocutori europei che non è così semplice riuscirci. Visti i sondaggi su Udc e movimento di Luca Cordero di Montezemolo, Monti sta valutando le alternative: la base elettorale strettamente di centro non è sufficiente a dargli certezze. Difficilmente potrebbe superare il 15 per cento.
E ALLORA c’è un’altra possibilità. Diventare il perno su cui costruire una dialettica democratica normale. Era uno dei punti programmatici del discorso di insediamento del Professore, il 17 novembre 2011: “Noi vorremmo aiutarvi tutti a superare una fase di dibattito, che fa parte naturalmente della vita democratica, molto, molto, accesa”. E il modo sarebbe costruire una “destra europea”, espressione cara a Gianfranco Fini che due giorni fa ha avuto un lungo colloquio con Monti e ieri ha chiamato Wilfried Martens, presidente del Ppe, per ringraziarlo dell’appoggio al Professore. Rinunciare al Quirinale e a quella che i politologi chiamano non partisanship per diventare l’alfiere del duplex Casini-Montezemolo poteva sembrare poco sensato. Ma creare un centrodestra nuovo, europeista e rassicurante, è una sfida all’altezza della percezione che Monti ha della propria missione.
Ma costruire una destra alternativa al Pdl richiede tempi lunghi. Mentre il Professore ha a disposizione una settimana per decidere e un mese per definire l’eventuale lista. E poi c’è Berlusconi. “Ho ricordato al Ppe di aver chiesto a Mario Monti di essere il riferimento per il Pdl nonostante questo crei qualche problema con la Lega”, ha detto il Cavaliere da Bruxelles. Ma questo è l’unico scenario inverosimile: Monti candidato premier di una coalizione da Casini al Pdl, da Montezemolo al Carroccio. Roberto Maroni, segretario leghista, scrive subito su Twitter: “Grande ammucchiata guidata da Monti, quello del record mondiale di tasse? No, grazie”. Anche gli altri sarebbero contrari.
L’ipotesi più percorribile è quella di un pezzo del Pdl che si stacca, l’ala dei montiani ispirata dall’ex ministro Franco Frattini (indicato come il regista dell’abbraccio del Ppe a Monti). Questi ex-pidiellini aggregherebbero intorno a Casini e Montezemolo, più altre liste, e tutti indicherebbero Monti come candidato premier (consenziente). Il Professore sta ragionando sulle incognite: chi decide i candidati nelle liste (dentro solo chi ha votato la fiducia)? Che possibilità ci sono di insidiare Pier Luigi Bersani? E se Berlusconi vuole appoggiare davvero la candidatura di Monti? Ieri Monti ha chiarito al Ppe che la ragione delle sue dimissioni è stata proprio la sfiducia del Pdl, decisa da Berlusconi in persona. Per il premier sarebbe difficile, anche se forse necessario, contribuire a portare in Parlamento chi lo ha sfiduciato.
La linea ufficiale di Palazzo Chigi è quella della cautela: “Niente è deciso, non bisogna dare troppi significati alla visita di ieri”. Che, nell’accezione minimalista, è solo il seguito dell’incontro a Fiesole di settembre, quando il premier andò a spiegare agli europarlamentari del Ppe la situazione dell’Italia. Il silenzioso nervosismo del centrosinistra dimostra che l’ingresso di Monti nel centrodestra non è da sottovalutare. “Non è niente di drammatico”, commenta il presidente (socialista) dell’Europarlamento Martin Schulz.
Il segretario del Pd Bersani ribadisce che anche il suo partito è europeista e che “c’è, in qualsiasi situazione numerica, la disponibilità e l’intenzione dei progressisti ad aprire un dialogo e un confronto con un centro europeista”. Come dire: anche io vi posso dare garanzie. Dopo la benedizione della Chiesa, con il cardinal Angelo Bagnasco in un’intervista, e perfino (pare) del Papa, anche quasi tutta Europa più il Fondo monetario internazionale sostengono Monti. “Se non se la sente, dovrebbe fermarsi ora, ma se tiene al suo Paese, è il momento di uscire a combattere”, scrive l’Economist, che titola: “Corri, Monti, corri”. Ma Monti è indeciso. Come quel 26 per cento di elettori che secondo Swg non hanno idea di chi votare. Sarebbero più che sufficienti a confermare Monti a Palazzo Chigi. Sommati al centrodestra.