Un test anche per noi ...

MILANO: UNA SCUOLA ARABA, NON CORANICA !!! Una nota di CHIARA SARACENO

lunedì 4 settembre 2006.
 

FA DISCUTERE LA RICHIESTA DI APRIRE A MILANO UN ISTITUTO CHE SEGUA L’ORDINAMENTO DIDATTICO EGIZIANO

La scuola «araba», un test anche per noi

di Chiara Saraceno (La Stampa, 4/9/2006)

Scuola araba o scuola coranica? Sui giornali in questi giorni si è fatta molta confusione tra i due termini quando si è discusso della richiesta di autorizzazione al ministero dell’Istruzione e al provveditorato da parte di una associazione (di cui fanno parte sia stranieri che italiani) con sede a Milano.

La richiesta di autorizzazione in realtà riguarda, come è ovvio, una scuola araba e più precisamente egiziana, dato che l’ordinamento scolastico egiziano è quello riconosciuto da tutti i Paesi arabi. Non una scuola coranica, che è una scuola di stampo e contenuto esclusivamente religioso, come sarebbe una scuola di catechismo. Non è neppure una scuola di ispirazione religiosa come una scuola cattolica o ebraica, dato che, accanto alla religione musulmana che fa parte delle materie da insegnare (non diversamente da quanto avviene nelle scuole pubbliche italiane per la religione cattolica), è previsto anche l’insegnamento di altre religioni, se richiesto da studenti non musulmani.

Si tratta quindi di una richiesta in linea di principio non diversa da quella ottenuta da molte scuole inglesi, francesi, tedesche. Ed è motivata, almeno in parte, dalle stesse ragioni che spingono i genitori stranieri che risiedono temporaneamente in Italia a mandare i figli a queste scuole: fare ottenere ai propri figli un titolo di studio riconosciuto sia in Italia che nel Paese d’origine, in modo da non far perdere loro tempo scolastico prezioso nel caso di un nuovo spostamento dei genitori. Era lo stesso motivo che spingeva in passato gli emigrati italiani in Germania o Svizzera a far frequentare ai propri figli una scuola italiana, quando non a metterli in un collegio in Italia, per evitare loro di pagare costi scolastici pesanti.

Si tratta di una scelta insieme saggia e rischiosa, a seconda della vicenda migratoria. Se i genitori poi non tornano al Paese d’origine i ragazzi si trovano disadattati, spesso anche sul piano linguistico. E frequentare una scuola diversa da quella frequentata dalla maggioranza rischia comunque di creare dei ghetti, più o meno privilegiati. Ma se lo abbiamo accettato per altri, perché non dovremmo consentirlo ai ragazzini di lingua e cultura arabe?

La preoccupazione nasce dal fatto che si è arrivati a questa richiesta dopo che erano fallite, giustamente, due altre iniziative: quella di un riconoscimento della scuola di Via Quaranta, a Milano, perché non intendeva adeguarsi ai programmi di insegnamento italiani, e quella dell’istituzione di una sezione separata per musulmani in una scuola pubblica. Questi due fallimenti hanno portato a quest’ultima soluzione, segnalando come la fermezza nel definire regole possa aiutare a fare maturare atteggiamenti e richieste in direzioni accettabili.

Si dirà che ciò non risolve il problema dell’auto-ghettizzazione, o meglio della ghettizzazione dei propri figli da parte dei genitori. Non vi è dubbio che il problema c’è. Come c’è, appunto nelle scuole di altra nazionalità o internazionali, come c’è nelle scuole - pubbliche - separate in base alla appartenenza linguistica in Alto Adige. E come c’è nelle scuole di ispirazione religiosa. Ma, appunto, va affrontato in quei termini.

Per altro, nei documenti dell’associazione si insiste sul fatto che verranno sviluppate attività con altre istituzioni, associazioni e scuole a livello di quartiere, proprio per evitare l’isolamento e favorire la mutua integrazione. Mi piacerebbe anche vedere maggiormente esplicitato che l’obiettivo della scuola non è solo fornire un doppio titolo di studio - italiano e arabo - ma sviluppare un insegnamento che educhi alla curiosità, al rispetto di sé e per l’altro, alla non discriminazione, oltre che a una conoscenza non formale dei valori e dei principi su cui è basata, almeno in linea teorica, la nostra società.

Qui sta il vero punto cruciale. Ma è un punto che interroga anche la scuola italiana, pubblica o privata che sia. Siamo davvero sicuri che nelle nostre scuole (oltre che nelle nostre famiglie) i ragazzi trovino sempre e non casualmente gli strumenti e gli stimoli per sviluppare una cultura civica, il valore dell’uguaglianza, inclusa l’uguaglianza tra uomini e donne, il rispetto degli altri?

Non sembrerebbe, a vedere alcuni comportamenti, inclusi quelli di molti adulti, politici compresi. E anche la, sacrosanta, pretesa che venga acquisita la distinzione tra religione e diritto avrebbe più credibilità se fossimo davvero uno stato più laico e se i nostri politici non brandissero troppo spesso il cattolicesimo come una forma di, arrogante e indimostrata, superiorità e non pretendessero di legiferare in suo nome, come ormai troppo spesso molti di loro dichiarano ormai senza alcuna riserva.

Osserviamo quindi con attenzione e rigore questo esperimento. Ma cogliamolo anche come stimolo autocritico.


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