Genio a Londra si dice in italiano
Riuniti a Westminster i "cervelli" che hanno lasciato il nostro Paese
di MARCELLO SORGI *
LONDRA. L’appuntamento è per lunedì mattina, nella sala della vecchia chiesa metodista di Westminster. Ed è sicuro, già adesso, che i posti saranno esauriti. Uno dice: cervelli italiani all’estero, ma quanti potranno essere: dieci, venti, cinquanta? Invece si scopre che nel solo Regno Unito, e in gran parte a Londra e dintorni, ci sono settecento italiani, giovani e di successo, che fanno lustro a un paese come il nostro, ma nel quale, quasi certamente, non potranno mai tornare a lavorare.
L’iniziativa di questo censimento, che culminerà nell’incontro di Westminster, è venuta dall’ambasciatore italiano a Londra, Giancarlo Aragona, da sempre attento alle esigenze di una comunità, come quella italiana, che nella sola capitale inglese supera le centomila unità. «Con questi numeri, parlare di rientro di cervelli è delicato - avverte l’addetto scientifico dell’ambasciata, professor Salvator Roberto Amendolia -, ma conoscere questi nostri connazionali, incontrarli, sentire direttamente quali sono le loro esigenze e i loro progetti, se non altro segna un punto di partenza».
Si somigliano, le storie di questi trenta-quarantenni, molti dei quali hanno ormai un look anglofilo, giacche di tweed e pantaloni di velluto colorato. All’inizio c’è sempre una buona laurea, l’invito del proprio relatore a fare un’esperienza fuori, una borsa di studio e l’idea di un viaggio, magari un po’ più lungo di una vacanza. Poi, arrivati all’estero, la scoperta di un diverso modo di fare ricerca, la sorpresa di sentirsi adeguati, l’ambizione, il successo che o arriva o ti cacciano via.
«A me è andata proprio così - racconta il professor Luigi Gnudi, 43 anni, di Parma, diabetologo, da 15 anni da dieci anni a Londra dopo un’esperienza in Usa - Dopo la specializzazione in endocrinologia a Padova, il mio maestro mi ha proposto di andare a Boston. Lì, con mia moglie, siamo rimasti quattro anni. Tornati in Italia, all’università stavano per assumere come ricercatore uno che aveva dieci anni più di me. Avrei dovuto aspettarne altri dieci: così, dopo un po’ di mesi come precario, tra guardie notturne, borse di studio e paghe a gettoni, quando un mio collega mi ha detto che c’era una possibilità a Londra non ci ho pensato due volte».
Intervistato, selezionato tra concorrenti di diverse nazionalità e assunto, Gnudi oggi è primario di un reparto al Guy’s Hospital del Kings college, uno dei quattro maggiori atenei londinesi, l’anno prossimo diventerà ordinario. Tra un convegno in America e uno in Sudafrica, sul rientro a casa ogni tanto ci riflette, per dirsi subito dopo: «Ho moglie e due figli, una casa di proprietà, un buon incarico e uno stipendio superiore a quello di tanti miei colleghi di corso. In Italia chi mi dà un posto così?».
«Io infatti a tornare non ci penso proprio - obietta il professor Vincenzo Maurino, napoletano, 41 anni, primario al Moorfields eye Hospital, il più grande ospedale oculistico del mondo -. In Italia ci vado ogni tanto, per qualche consulenza o per convegni scientifici, ma credo di esser fortunato a trovarmi qui. Quasi quasi ringrazio il collega raccomandato che, senza alcun titolo, al concorso a cui mi ero presentato mi ha fregato il posto!».
Se si scende un po’ d’età, e s’approda a una fascia in cui magari il successo è alle viste, ma non è ancora arrivato, le opinioni cambiano. Triestina, 35 anni, ingegnere elettronico e ricercatrice in materia di nanotecnologie, Cristina Bertoni da cinque anni e mezzo lavora all’Università di Cranfield, quaranta minuti da Londra, un piccolo ateneo con tremila studenti e professori di cento diverse nazionalità del mondo. Spiega: «Sono arrivata con una borsa di studio europea finanziata, tra gli altri, da Fiat e Magneti Marelli. Sono stata confermata dopo un primo ciclo di tre anni. Adesso avrei la possibilità di tornare ed entrare al Centro ricerche dell’Elettrolux di Pordenone: anche se l’industria è una cosa diversa dall’università, credo che accetterò».
Realista, Silvia Marson, 34 anni, chimica di Pordenone, anche lei a Cranfield come ricercatrice nel campo delle apparecchiature diagnostiche, conferma: «Quando vai all’estero fai una scelta di vita, un investimento complessivo, un guadagno che non è solo di soldi. L’importante, se pensi di tornare, è costruire il proprio percorso per poi potersi riciclare al meglio, e va da sé, non solo in un ambito difficile come quello universitario».
Al dunque, il problema non è tanto quello del rientro, ma il timore, il dubbio, troppo spesso la certezza, della porta chiusa alle proprie spalle, della mancanza di una scelta: «Sapere che se si vuol tornare non si può, o che negli atenei italiani al massimo puoi trovare incarichi a termine», sintetizza la messinese Simona Milio, 31 anni, dal 2000 alla prestigiosa London School of economics, come ricercatrice in materia di autonomie regionali nell’istituto in cui di recente è andato a parlare Napolitano.
«Un ritorno di massa è impossibile - spiega Amendolia -. Ma dai dati in nostro possesso risulta che il sistema inglese giudica per il settanta per cento superiori come formazione i laureati italiani che approdano nel Regno Unito. Ne facciamo pochi insomma, ma molto buoni, soggetti ben preparati, che da noi non trovano prospettive e diventano risorse in regalo per altri paesi».
Che le cose possano cambiare, anzi che in parte lo siano già, e nuove leggi, almeno sulla carta, siano nate per agevolare il cosiddetto «rientro dei cervelli», gli italiani di Londra lo sanno, ma non ci credono molto. «Ogni tanto ricevo una mail, ma si capisce subito che si tratta di entrare in un reticolato burocratico, senza venirne a capo» sostiene Gnudi. C’è chi giura che l’ex ministro Moratti, in uno di questi appuntamenti con i ricercatori italiani all’estero, alla fine ammise di aver le mani legate dall’impenetrabile resistenza baronale del mondo accademico italiano», conclude la Marson.
Così il sottosegretario Luciano Modica, un matematico e tecnico di buona volontà inviato da Mussi a Londra come avamposto del ministero dell’Università, è avvertito: nella vecchia chiesa di Westminster lo attende la carica, inarrestabile, di ben settecento cervelli.
* La Stampa, 20/1/2007 (8:44)
AMBASCIATA D’ITALIA DI LONDRA. PER L’INCONTRO: http://www.gginternet1.co.uk/eclipse/italianembassy/
IL SUD GIÀ E NON ANCORA/ Il vero dramma che rende i giovani felici di andarsene
Come dice Baldessarro, il dramma del Sud non sono più i suoi figli che se ne vanno. Il dramma vero del Sud è che sono felici di andarsene
di Emiliano Morrone (Il sussidiario, 29.09.2019)
Il Sud non fa più notizia né questione, in primo luogo la Calabria. I media replicano “l’effetto Duisburg”, l’eco dell’orrore, quando in una provincia meridionale si sparge sangue oppure per casi di lupara in Emilia, Lombardia, Liguria, nei “ghetti” del centro Italia riservati ai collaboratori di giustizia. La ribalta della cronaca dura un attimo, poi tutto procede come sempre. È una costante della società 2.0: dello spettacolo, delle emozioni sul dolore altrui.
In questa dimensione di apparenza, priva di spessore, memoria e discernimento, le mafie sollevano la politica dalla responsabilità del divario del Mezzogiorno dal Nord produttivo; divario intanto economico, di diritti, occasioni. La colpa è soltanto dei boss, dei loro apparati di morte. Questa è la vulgata dominante, mentre si mescolano la paura e la rassegnazione popolare alla punta dello Stivale.
In Calabria due aziende sanitarie provinciali su cinque sono state sciolte per infiltrazioni e perciò commissariate: a Reggio e Catanzaro, con la probabilità che la stessa sorte tocchi a quella di Cosenza. Tanto basta per dimostrare l’interesse, la presenza, il pugno dello Stato in un territorio di antichi affari e commistioni, di irrisolti che hanno prodotto carriere politiche folgoranti, acuito fenomeni letterari e amplificato personaggi e clamori televisivi.
Eppure c’erano dati, elementi raccapriccianti: l’Asp di Reggio Calabria non aveva - e non ha - un bilancio certo; assurdo ma vero. Da lì sparirono quasi 400 milioni di euro senza tracce, in un contesto blindato dal vecchio patto tra imprenditoria spregiudicata, colletti bianchi e “uomini d’onore”. L’Asp catanzarese aumentava il disavanzo, mentre Lamezia Terme, con aeroporto e ospedale strategici, si preparava all’ennesimo, prevedibile scioglimento del Consiglio comunale, al tracollo della società di gestione dei servizi aeroportuali e al collasso repentino dei “reparti” sanitari, accompagnato dall’annessione forzosa del nosocomio locale alla nuova azienda ospedaliera di Catanzaro.
I commissari del governo e i ministeri vigilanti (Economia e Salute) conoscevano bene i livelli della degenerazione, ma Roma era - e rimane - lontana come Bruxelles; tolti gli inutili, stucchevoli protocolli di intesa per la legalità e le misure palliative tipo “Garanzia giovani”, valsa a trasformare in questuanti i giovani laureati, a perpetrare promesse e ricatti di un’immarcescibile classe politica.
Oggi in Calabria, l’area più martoriata del Sud, le Regionali si preparano con calcoli e strategie anni ’70, prove di puro mauqillage e contrattazioni a porte chiuse. Nella cantina dell’oblio restano fuori di ogni confronto, sepolte dalla polvere, tante priorità di questa terra: la creazione di lavoro dignitoso, l’incremento indispensabile della quota parte del Fondo sanitario, l’esigenza di ridurre la diaspora dal territorio, di rinverdire e controllare la burocrazia regionale, di rivedere il costo del denaro e l’accesso al credito, di prevedere vantaggiosi sgravi per le imprese, di rilanciare sul serio il porto di Gioia Tauro e il sistema aeroportuale, di collegare università e aziende locali.
La ‘ndrangheta prospera nella povertà, di cultura e di economia. Come ha osservato il giornalista Giuseppe Baldessarro, «il dramma del Sud non sono più i suoi figli che se ne vanno. Il dramma vero del Sud è che sono felici di andarsene».
Il riscatto dell’italiano dai fornelli agli atenei
La nostra lingua è un successo all’estero, certifica la Crusca
È la preferita dalla pubblicità e aumentano quelli che la studiano
di Valeria Strambi (la Repubblica, 19.10.2016)
FIRENZE Una Napoli gustata da “Papa John’s Pizza”, nel Kentucky, promette un sapore più autentico rispetto a quella comprata in un qualsiasi altro fast food americano. Così come l’ultimo film di Steven Spielberg può diventare più avvincente se visto al cinema Caruso, in Thailandia. Oppure i pantaloni acquistati da “Villa Moda”, in Medio Oriente, hanno quel non so che di elegante che manca allo stesso capo presente nel negozio a fianco. A fare sempre più la differenza, nell’immaginario degli stranieri, è il dettaglio italiano. Vero o inventato che sia, un richiamo al Belpaese è garanzia di qualità e basta a far vendere di più. Parola di linguisti, pubblicitari, manager d’azienda ed esponenti del mondo della politica e della cultura che si sono ritrovati per due giorni agli Stati Generali della lingua italiana nel mondo, conclusi ieri a Firenze.
«Vestirsi d’italianità serve a essere più credibili», conferma Paolo D’Achille, professore di Linguistica italiana all’Università di Roma Tre e accademico della Crusca, «abbiamo analizzato le insegne commerciali di 21 paesi del mondo: 339 sono ispirate alla tradizione enogastronomica italiana e altre 214 alla moda. Anche se non sempre le citazioni sono corrette. Non penso solo agli errori di ortografia, ma anche alla scelta delle corrispondenze. Esistono negozi di abbigliamento chiamati “Dolce Vita”, ma il riferimento non è al maglione a collo alto, quanto al film di Fellini che porta con sé tutta la magia di un’epoca e di uno stile di vivere».
Ma l’immagine del nostro paese si ferma a qualche insegna in italiano maccheronico? «Può capitare che da parte di chef o gestori di negozi di moda scatti la curiosità di imparare davvero la lingua», prosegue D’Achille, che insieme a Giuseppe Patota ha curato per l’occasione l’e-book L’italiano e la creatività. Marchi e costumi, moda e design scaricabile gratuitamente fino al 23 ottobre - il fenomeno è ancora piccolo, ma è un canale da non sottovalutare».
Ma accanto a un italiano pop, visto e consumato negli spazi di uno slogan, c’è ancora chi si avvicina alla lingua per ragioni culturali: «Chi studia la Storia dell’Arte o la lirica», spiega D’Achille, «non può farlo a prescindere dall’italiano. Mi è capitato di vedere un documentario in inglese in cui una storica dell’arte commentava un manoscritto in italiano: per farlo non basta un’infarinatura. Mai rinunciare all’approfondimento».
E anche il governo sembra credere nella promozione della cultura italiana al di fuori dei confini. All’apertura degli Stati Generali lo stesso premier Matteo Renzi ha annunciato che 50 milioni previsti nella Legge di Stabilità sono destinati proprio a rafforzare le scuole d’italiano all’estero. A ribadire il concetto ha pensato ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Proporre la qualità Italia è la sfida di fronte a noi: proporre cioè l’umanesimo che deriva dalla nostra cultura, dal modo di vivere, di lavorare. L’italianità parla di umanesimo».
Veri cultori della lingua o semplici ammiratori, sono sempre di più gli stranieri che scelgono di studiare l’italiano. Se nel 2012-2013 erano un milione e 522 mila, nel 2014-20105 sono aumentati di più di 700 mila unità raggiungendo quota due milioni e 233 mila. La Germania resta in testa, con 337.553 studenti, seguita da Australia (326.291), Francia (274.582), Stati Uniti ( 212.528) ed Egitto (124.925). In Australia, nel 2016, sono stati inseriti corsi d’italiano nei sistemi scolastici locali e il governo ha riconosciuto la nostra lingua come parte del patrimonio ereditato dall’immigrazione del passato. Agli ultimi posti della lista Ban-gladesh, Bahrein e Repubblica Popolare Democratica di Corea, con rispettivamente 10, 15 e 13 studenti.
Per chi vive dall’altra parte del mondo, però, non sempre è semplice studiare l’italiano e il rischio di perdersi nei meandri della burocrazia è alto. Dove seguire i corsi? Come procurarsi un visto? Le risposte si trovano sul “Portale della lingua italiana nel mondo” (www.linguaitaliana.esteri.it), un database appena attivato che per la prima volta raccoglie le 1.300 cattedre di italiano che esistono al mondo con relativi indirizzi, oltre al corso di italiano a distanza gratuito del Wellesley College.
Tra le sezioni del sito, c’è anche quella dedicata alla “Formazione artistica e per la creatività”, una lista degli istituti italiani che offrono corsi riconosciuti nei settori della moda, design, musica, cucina. «Gli studenti stranieri che studiano negli istituti italiani sono solo il 4 per cento», commenta il viceministro degli Esteri, Mauro Giro, «entro il 2018 vorremmo raggiungere l’8». E la chiave per attrarre talenti potrebbe essere proprio quella di insegnare loro un mestiere. Chi accede al Portale non deve far altro che inserire la regione e il settore che gli interessa per avere davanti un mondo: dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, all’Accademia italiana d’Arte di Roma o il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
GIOVANI ITALIANI NEL MONDO (PRIMA CONFERENZA),
ATTENTI AL TRUCCO E ALL’INGANNO.
E ALLA VERGOGNA!!!
Università: Cantone, subissati da segnalazioni, collegamento fuga cervelli-corruzione
’Soprattutto sui concorsi. Riforma Gelmini ha creato problemi’ ha spiegato il responsabile dell’Autorità nazionale anticorruzione
di Redazione ANSA *
"C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione". Lo ha sottolineato il responsabile dell’Anac Raffaele Cantone oggi a Firenze, intervenendo al convegno nazionale dei responsabili amministrativi delle università. Cantone lo ha detto dopo aver riferito che l’’Anac è "subissata" di segnalazioni di presunti casi di corruzione negli atenei italiani.
"Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, spesso soprattutto segnalazioni sui concorsi" ha spiegato il responsabile dell’Anac. "Non voglio entrare nel merito, non ho la struttura né la competenza - ha aggiunto - ma la riforma Gelmini secondo me ha finito per creare più problemi di quanti ne abbia risolti. Per esempio, ha istituzionalizzato il sospetto: l’idea che non ci possano essere rapporti di parentela all’interno dello stesso dipartimento, il che ha portato a situazioni paradossali".
"In una università del Sud è stato istituzionalizzato uno ’scambio’: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Credo che questo sia uno scandalo e che lo sia il fatto che si sia stati costretti a fare questa operazione; se tutto avvenisse in trasparenza, la legge che nasce dalla logica del sospetto è una legge sbagliata".
Faremo linee guida per garantire la discrezionalità - Sull’università "proveremo a fare linee guida ad hoc, che non vogliono burocratizzare ma provare a consentire l’esercizio della discrezionalità in una logica in cui la discrezionalità però non diventi arbitrio, in cui discrezionalità significhi dare conto ai cittadini, non solo gli studenti ma tutti i cittadini perché l’università è il nostro futuro" ha spiegato Cantone.
"L’università - ha aggiunto - dovrebbe essere l’esempio, per rilanciare il nostro Paese. Le classifiche internazionali, purtroppo, in questo senso, e se non ci premiano una delle cause sta anche in una serie di vischiosità del sistema universitario. Non concordo che le università italiane sono baracconi burocratici; ma all’estero tutti credono che lo siano, e sappiamo bene quanto conti non solo il fatto di essere ma anche di apparire. E questo apparire costituisce un danno enorme per il nostro Paese".
Blocco della didattica all’Alma Mater
"Sostituiremo i ricercatori che aderiscono"
La protesta contro la Gelmini costa caro: i ricercatori dell’Università di Bologna che non terranno lezione saranno rimpiazzati da docenti a contratto. Lo ha deciso il senato accademico inviando un ultimatum che scadrà venerdì alle dodici: "Non possiamo permetterci di bloccare corsi fondamentali". La risposta: "E’ gravissimo" *
La protesta contro la Gelmini costa caro: i ricercatori dell’Università di Bologna che aderiscono al blocco della didattica saranno sostituiti da docenti a contratto, almeno quelli dei corsi fondamentali. Lo ha deciso il Senato accademico all’unanimità. Sarà spedita una lettera a tutti i presidi di facoltà che a loro volta la gireranno ai ricercatori chiedendo se hanno intenzione di aderire al blocco della didattica o meno. La risposta dovrà arrivare entro venerdì alle 12 e chi non lo farà sarà considerato come non disponibile a fare lezione. Ogni facoltà spedirà i dati raccolti alla sede centrale che deciderà quanti e quali corsi coprire con bandi per docenti a contratto. La priorità è per i corsi fondamentali. I ricercatori: "Ci rimpiazzano, è gravissimo".
La decisione. Tramite il prorettore alla didattica, Gianluca Fiorentini, l’Alma Mater fa sapere di avere fatto di tutto a sostegno dei ricercatori, a cui va "solidarietà politica e umana". Insomma, "non c’è nessuna guerra", ma chi si rifiuterà di fare lezione per protesta contro il Governo sarà rimpiazzato nella didattica. "Abbiamo il dovere di dare continuità all’attività formativa - giustifica Fiorentini - un conto è se diminuisce la qualità della didattica, un conto è il blocco totale delle lezioni. Il danno, non solo d’immagine per l’Ateneo ma anche sociale per le famiglie e la collettività, è enorme. Non possiamo creare questo danno in un momento così difficile".
L’ultimatum. I tempi sono stretti. Alcune facoltà, come Architettura, iniziano i corsi già la prossima settimana e i bandi durano minimo 15 giorni. Anche per questo i vertici dell’Alma Mater hanno deciso di non fare slittare l’inizio dei corsi a ottobre, come chiedevano i ricercatori. "L’organizzazione della didattica è molto complessa - spiega Fiorentini - se si sposta in avanti, non si recupera più. Qualche corso può iniziare con una settimana di ritardo, ma gli insegnamenti che hanno già i docenti possono partire subito". Insomma, afferma il prorettore, "adesso siamo arrivati a un punto che non possiamo più aspettare. A luglio il Senato aveva chiesto ai ricercatori di comunicare entro settembre quanti avevano deciso di aderire alla protesta. A inizio mese non erano ancora pronti, perchè era ancora in corso il dibattito interno e il rettore ha deciso di aspettare ancora, il che è un grande segnale d’attenzione". Arrivati a metà settembre l’Ateneo ha deciso che non si poteva più andare oltre e ha accelerato i tempi.
I costi per i nuovi contratti. Il bando sarà per docenti interni ed esterni all’Alma Mater e sarà finanziato con fondi straordinari (ancora non è chiaro però se a carico delle casse centrali o delle singole facoltà). Di cifre nessuno ne parla e anzi Fiorentini smentisce i tre milioni di euro di cui si era vociferato nell’assemblea dei ricercatori.
I ricercatori. Anna Maria Pisi, ricercatrice e rappresentante in Senato dell’area di Scienze biologiche, geologiche e agrarie, ha contestato già tra gli scranni dell’organo accademico la decisione avallata dal rettore Ivano Dionigi. Intervistata dall’agenzia Dire spiega: "Per me è una scelta molto grave significa che come ricercatori non valiamo niente per l’Ateneo". Tra l’altro, sottolinea, "noi ricercatori non siamo obbligati ad assumere carichi didattici. Noi siamo assunti solo per fare ricerca e le lezioni le facciamo gratuitamente". Non è però solo la prospettiva di essere sostituiti a far saltare sulla sedia i rappresentanti dei ricercatori. Anche aver accelerato i tempi da parte dell’Ateneo ha lasciato l’amaro in bocca. "Ho chiesto di spostare il termine della risposta alla lettera a lunedì anzichè venerdì - spiega Pisi - e mi ha sostenuto anche qualche preside. Mi è stato risposto che non si poteva fare perchè non ci sarebbe stato tempo a sufficienza per i bandi. Invece aspettare un giorno in più non sarebbe stata la fine del mondo". Con questa mossa, la paura è che la protesta si possa sgonfiare. Anche se Pisi assicura che "andremo avanti comunque: è l’unica arma che abbiamo".
* la Repubblica, 14 settembre 2010
Il lungo elenco degli atenei a rischio
così i ricercatori bloccano le lezioni
Da anni garantiscono la didattica anche se non è un loro compito. E ora, per protesta contro la Gelmini che li ha tagliati, mettono on line la lista delle università dove non andranno oltre le loro mansioni. Mentre è corsa contro il tempo per approvare la riforma
di SALVO INTRAVAIA *
Avvio delle lezioni nel caos all’università. La protesta dei ricercatori contro la riforma Gelmini rischia di bloccare buona parte dell’offerta formativa per l’anno accademico 2010/2011. I ricercatori, che da anni si occupano anche della didattica impartendo anche più di un insegnamento, sono determinati e intendono incrociare le braccia. Il loro contratto non prevede infatti l’obbligo di insegnare e il loro rifiuto getterà nel panico presidi e rettori. Intanto, la politica sta cercando di chiudere al più presto la partita della riforma, magari con qualche aggiustamento che scongiuri il blocco delle attività didattiche da parte dei ricercatori.
Il Cnru (il Coordinamento nazionale dei ricercatori universitari) pochi giorni fa ha messo in linea una lettera aperta indirizzata a studenti e genitori, che spiega loro a cosa andranno incontro quest’anno. "I ricercatori universitari italiani stanno protestando contro il disegno di legge sull’università e la manovra finanziaria dell’onorevole Tremonti. Questa forma di protesta - avvertono - comporterà disagi anche per voi". L’elenco di università e facoltà in cui i ricercatori hanno deciso di ritirare la loro disponibilità all’insegnamento è lunghissima.
Da Torino a Palermo, nei mesi scorsi si sono svolte assemblee e manifestazioni che si sono concluse quasi sempre allo stesso modo: un documento in cui viene ritirata la disponibilità ad impartire lezioni da parte dei ricercatori. Al Politecnico di Bari sono 74 coloro che hanno dichiarato la loro "indisponibilità a coprire incarichi di insegnamento e di garanzia" per il prossimo anno accademico. Stesso discorso per i ricercatori di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, della facoltà di Psicologia e della facoltà di Lingue e letterature straniere dell’università di Torino.
"A Palermo - scrivono i ricercatori di Medicina - molto probabilmente non potranno essere attivati gran parte dei corsi di laurea triennali a partire dal prossimo anno accademico". Stesso discorso per la facoltà di Lettere e Filosofia e Ingegneria gestionale: complessivamente nell’ateneo siciliano il 56% dei ricercatori. A Roma iniziative analoghe riguardano Tor Vergata e La Sapienza. Ma anche Siena, L’Aquila, Brescia, Camerino, Catania, Genova, Reggio Emilia, Napoli, Parma, Pavia, Trieste, Udine e Verona, solo per citare alcuni atenei. Ovviamente, la situazione è fluida: non tutti i ricercatori aderiranno alla protesta le braccia. Ma non è difficile immaginare che la presa di posizione dei ricercatori rischia di fare saltare tutto. Negli atenei italiani sono oltre 25 mila: 4 "docenti" su 10. E quasi tutti sono titolari di almeno un insegnamento.
Ma non basta: i 34 mila prof ordinari e associati sono coadiuvati da 20 mila docenti a contratto. Se, quindi, i 25 mila ricercatori dovessero decidere in blocco di astenersi dalle lezioni, l’intera macchina didattica si incepperebbe. "I ricercatori - scrivono quelli del Cnru - stanno protestando nell’unica maniera civile e legale a loro concessa, quindi, non insegneranno più". Ed elencano anche le conseguenze di questa decisione. "La riduzione dell’offerta formativa degli atenei: molti studenti andando nelle segreterie non troveranno più, probabilmente, i corsi che avrebbero voluto frequentare e dovranno cercarseli in altre università, ammesso che - spiegano - in altre università, senza i ricercatori, tali corsi possano essere attivati. Questa è la realtà".
Una prospettiva da incubo per le decine di migliaia di studenti che si accingono a varcare la soglia degli atenei italiani. Ma non solo. Secondo i ricercatori, "le tasse di iscrizione aumenteranno, i servizi per gli studenti si ridurranno, l’offerta formativa calerà drasticamente in quantità e qualità". E si tratta di esempi. A chi si rivolgeranno gli studenti per i dubbi sulla lezione? I ricercatori sono in generale più disponibili dei prof. Alla base della protesta i tagli imposti dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, al sistema universitario pubblico, ma anche per la riforma Gelmini che, per dirla con parole loro, "rottama" i ricercatori attuali. Che fine faranno, si chiedono, nell’università riformata?
Intanto, l’approvazione della riforma va per le lunghe. Pochi giorni fa, su richiesta del capogruppo alla camera del Pd, Dario Franceschini, la discussione del disegno di legge approvato al Senato è stata calendarizzata per il 14 ottobre prossimo. Ma, fa notare il presidente della Crui (la Conferenza dei rettori italiani) Enrico Decleva, a metà ottobre incombe la sessione di bilancio e tutto potrebbe slittare al 2011. E se a marzo si andasse alle elezioni anticipate, la riforma naufragherebbe. Ma potrebbe essere Gianfranco Fini a togliere le castagne dal fuoco al governo. Fini ha proposto di fare votare la camera anche venerdì 15 e sabato 16 ottobre, per approvare in tutta fretta la riforma già passata al Senato. In questo caso, però, non potrebbero introdursi le modifiche che i ricercatori sperano di ottenere.
* la Repubblica, 06 ottobre 2010