[...] la reinvenzione della superficialità generava spesso l’effetto indesiderato di sdoganare, per un equivoco, la pura stupidità, o la ridicola simulazione di un pensiero profondo. Ma alla fine, quel che è accaduto è stato soltanto il frutto delle nostre scelte, del talento e della velocità delle nostre intelligenze. La mutazione ha generato comportamenti, cristallizzato parole d’ordine, ridistribuito i privilegi: ora so che in tutto ciò è sopravvissuta la promessa di senso che a suo modo il mito della profondità tramandava. Sicuramente tra coloro che sono stati più svelti a capire e gestire la mutazione ce ne sono molti che non conoscono quella promessa, né sono capaci di immaginarla, né sono interessati a tramandarla. Da essi stiamo ricevendo un mondo brillante senza futuro. Ma come sempre è successo, ostinata e talentuosa è stata anche la cultura della promessa, e capace di estorcere al disinteresse dei più la deviazione della speranza, della fiducia, dell’ambizione [...]
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
FUTURO
2026, la vittoria dei barbari
Uno scrittore viaggia nel futuro, alla scoperta di un’èra dominata dalla superficialità. Con una sorpresa: non sarà poi così male
di ALESSANDRO BARICCO *
Ci crediate o no, questo articolo l’ho scritto nel luglio 2026, cioè fra sedici anni. Diciamo che mi son portato un po’ avanti col lavoro. Prendetela così. Ecco l’articolo.
Alle volte si scrivono libri che sono come duelli: finita la sparatoria guardi chi è rimasto in piedi, e se non sei tu, hai perso. Quando ho scritto I barbari, venti anni fa, poi mi son guardato attorno ed erano ancora tutti lì, belli in piedi. Aveva tutta l’aria di una disfatta, ma la cosa non mi quadrava. Allora mi son seduto e ho aspettato. Il gioco è stato vederli cadere uno ad uno, tardivi ma stecchiti. Ci vuole solo pazienza. Alle volte agonizzano molto elegantemente. Alcuni franano a terra tutto d’un colpo. Non la prenderei come una vittoria, probabile che cadano per consunzione loro, non per i miei proiettili: ma certo non avevo mirato male, mi viene da dire, a parziale consolazione.
L’ultimo che ho visto crollare, dopo aver vacillato a lungo con grande lentezza e dignità, mi ha emozionato, perché lo conoscevo bene. Credo di avere in passato anche lavorato per lui (con pistole caricate a parole, come sempre). Più che uno, è una: la profondità. Il concetto di profondità, la pratica della profondità, la passione per la profondità. Forse qualcuno se li ricorda, erano animali ancora in forma, ai tempi dei Barbari. Li alimentava l’ostinata convinzione che il senso delle cose fosse collocato in una cella segreta, al riparo dalle più facili evidenze, conservato nel freezer di una oscurità remota, accessibile solo alla pazienza, alla fatica, all’indagine ostinata. Le cose erano alberi - se ne sondavano le radici. Si risaliva nel tempo, si scavava nei significati, si lasciavano sedimentare gli indizi. Perfino nei sentimenti si aspirava a quelli profondi, e la bellezza stessa la si voleva profonda, come i libri, i gesti, i traumi, i ricordi, e alle volte gli sguardi. Era un viaggio, e la sua meta si chiamava profondità.
La ricompensa era il senso, che si chiamava anche senso ultimo, e ci concedeva la rotondità di una frase a cui, anni fa, credo di aver sacrificato una marea di tempo e luce: il senso ultimo e profondo delle cose.
Non so quando, esattamente, ma a un certo punto questo modo di vedere le cose ha iniziato a sembrarci inadatto. Non falso: inadatto. Il fatto è che il senso consegnatoci dalla profondità si rivelava troppo spesso inutile, e talvolta perfino dannoso. Così, come in una sorta di timido preludio, ci è accaduto di mettere in dubbio che esistesse poi davvero un "senso ultimo e profondo delle cose". Provvisoriamente ci si orientò per definizioni più soft che sembravano rispecchiare meglio la realtà dei fatti. Che il senso fosse un divenire mai fissabile in una definizione ci sembrò, ad esempio, un buon compromesso. Ma oggi credo si possa dire che semplicemente non osavamo abbastanza, e che l’errore non era tanto credere in un senso ultimo quanto il relegarlo in profondità. Quel che cercavamo esisteva, ma non era dove pensavamo.
Non era lì per una ragione sconcertante che la mutazione avvenuta negli ultimi trent’anni ci ha buttato in faccia, emanando uno dei suoi verdetti più affascinanti e dolorosi: la profondità non esiste, è un’illusione ottica. È l’infantile traduzione in termini spaziali e morali di un desiderio legittimo: collocare ciò che abbiamo di più prezioso (il senso) in un luogo stabile, al riparo dalle contingenze, accessibile solo a sguardi selezionati, attingibile solo attraverso un cammino selettivo. Così si nascondono i tesori. Ma nel nasconderlo avevamo creato un Eldorado dello spirito, la profondità, che in realtà non sembra mai essere esistito, e che alla lunga sarà ricordato come una delle utili menzogne che gli umani si sono raccontati. Piuttosto scioccante, non c’è santo.
Infatti uno dei traumi cui la mutazione ci ha sottoposto è proprio il trovarsi a vivere in un mondo privo di una dimensione a cui eravamo abituati, quella della profondità. Ricordo che in un primo momento le menti più avvedute avevano interpretato questa curiosa condizione come un sintomo di decadenza: registravano, non a torto, la sparizione improvvisa di una buona metà del mondo che conoscevano: oltretutto, quella che veramente contava, che conteneva il tesoro. Da qui l’istintiva inclinazione a interpretare gli eventi in termini apocalittici: l’invasione di un’orda barbarica che non disponendo del concetto di profondità stava ridisponendo il mondo nell’unica residua dimensione di cui era capace, la superficialità. Con conseguente dispersione disastrosa di senso, di bellezza, di significati - di vita.
Non era un modo idiota di leggere le cose, ma ora sappiamo con una certa esattezza che era un modo miope: scambiava l’abolizione della profondità con l’abolizione del senso. Ma in realtà quello che stava accadendo, tra mille difficoltà e incertezze, era che, abolita la profondità, il senso si stava spostando ad abitare la superficie delle evidenze e delle cose. Non spariva, si spostava. La reinvenzione della superficialità come luogo del senso è una delle imprese che abbiamo compiuto: un lavoretto d’artigianato spirituale che passerà alla storia.
Sulla carta, i rischi erano enormi, ma va ricordato che la superficie è il luogo della stupidità solo per chi crede nella profondità come luogo del senso. Dopo che i barbari (cioè noi) hanno smascherato questa credenza, collegare automaticamente superficie e insignificanza è diventato un riflesso meccanico che tradisce un certo rincoglionimento. Dove molti vedevano una semplice resa alla superficialità, molti altri hanno intuito uno scenario ben differente: il tesoro del senso, che era relegato in una cripta segreta e riservata, ora si distribuiva sulla superficie del mondo, dove la possibilità di ricomporlo non coincideva più con una discesa ascetica nel sottosuolo, regolata da un’élite di sacerdoti, ma da una collettiva abilità nel registrare e collegare tessere del reale. Non suona poi tanto male. Soprattutto sembra più adatto alle nostre abilità e ai nostri desideri. Per gente incapace di stare ferma e di concentrarsi, ma in compenso velocissima nello spostarsi e nel collegare frammenti, il campo aperto della superficie sembra la sede ideale dove giocarsi la partita della vita: perché mai dovremmo giocarcela, e perderla, in quei cunicoli nel sottosuolo che si ostinavano a insegnarci a scuola?
Così non sembriamo aver rinunciato a un senso, nobile e alto, delle cose: ma abbiamo iniziato a inseguirlo con una tecnica diversa, cioè muovendoci sulla superficie del mondo con una velocità e un talento che gli umani non hanno mai conosciuto. Ci siamo orientati a formare figure di senso mettendo in costellazione punti del reale attraverso cui passiamo con inedita agilità e leggerezza. L’immagine del mondo che i media restituiscono, la geografia di ideali che la politica ci propone, l’idea di sapere che il mondo digitale ci mette a disposizione non hanno ombra di profondità: sono collezioni di evidenze sottili, perfino fragili, che organizziamo in figure di una certa potenza. Le usiamo per capire il mondo. Perdiamo capacità di concentrazione, non riusciamo a fare un gesto alla volta, scegliamo sempre la velocità a discapito dell’approfondimento: l’incrocio di questi difetti genera una tecnica di percezione del reale che cerca sistematicamente la simultaneità e la sovrapposizione degli stimoli: è ciò che noi chiamiamo fare esperienza.
Nei libri, nella musica, in ciò che chiamiamo bello guardandolo o ascoltandolo, riconosciamo sempre più spesso l’abilità a pronunciare l’emozione del mondo semplicemente illuminandola, e non riportandola alla luce: è l’estetica che ci piace coltivare, quella per cui qualsiasi confine tra arte alta e arte bassa va scomparendo, non essendoci più un basso e un alto, ma solo luce e oscurità, sguardi e cecità. Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e mai tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo reading in rete invece che leggere i libri, facciamo lente code per mangiare al fast food, e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che ci deve apparire estremamente sensata e bella se con tanta urgenza e passione ci preoccupiamo, come mai nessuno prima di noi nella storia del genere umano, di salvare il pianeta, di coltivare la pace, di preservare i monumenti, di conservare la memoria, di allungare la vita, di tutelare i più deboli e di difendere il lardo di Colonnata. In tempi che ci piace immaginare civili, bruciavano le biblioteche o le streghe, usavano il Partenone come deposito di esplosivi, schiacciavano vite come mosche nella follia delle guerre, e spazzavano via popoli interi per farsi un po’ di spazio. Erano spesso persone che adoravano la profondità.
La superficie è tutto, e in essa è scritto il senso. Meglio: in essa siamo capaci di tracciare un senso. E da quando abbiamo maturato questa abilità, è quasi con imbarazzo che subiamo gli inevitabili sussulti del mito della profondità: oltre ogni misura ragionevole patiamo le ideologie, gli integralismi, ogni arte troppo alta e seria, qualsiasi sfacciata pronuncia di assoluto.
Probabilmente abbiamo anche torto, ma sono cose che ricordiamo saldate in profondità a ragioni e sacerdozi indiscutibili che ora sappiamo fondati sul nulla, e ne siamo ancora offesi - forse spaventati. Per questo oggi suona kitsch ogni simulazione di profondità e in fondo sottilmente cheap qualsiasi concessione alla nostalgia. La profondità sembra essere diventata una merce di scarto per i vecchi, i meno avveduti e i più poveri.
Vent’anni fa avrei avuto paura a scrivere frasi del genere. Mi era chiaro perfettamente che stavamo giocando col fuoco. Sapevo che i rischi erano enormi e che in una simile mutazione ci giocavamo un patrimonio immenso. Scrivevo I barbari, ma intanto sapevo che lo smascheramento della profondità poteva generare il dominio dell’insignificante.
E sapevo che la reinvenzione della superficialità generava spesso l’effetto indesiderato di sdoganare, per un equivoco, la pura stupidità, o la ridicola simulazione di un pensiero profondo. Ma alla fine, quel che è accaduto è stato soltanto il frutto delle nostre scelte, del talento e della velocità delle nostre intelligenze. La mutazione ha generato comportamenti, cristallizzato parole d’ordine, ridistribuito i privilegi: ora so che in tutto ciò è sopravvissuta la promessa di senso che a suo modo il mito della profondità tramandava. Sicuramente tra coloro che sono stati più svelti a capire e gestire la mutazione ce ne sono molti che non conoscono quella promessa, né sono capaci di immaginarla, né sono interessati a tramandarla. Da essi stiamo ricevendo un mondo brillante senza futuro. Ma come sempre è successo, ostinata e talentuosa è stata anche la cultura della promessa, e capace di estorcere al disinteresse dei più la deviazione della speranza, della fiducia, dell’ambizione.
Non credo sia stolto ottimismo registrare il fatto che oggi, nel 2026, una cultura del genere esiste, sembra più che solida, e spesso presidia le cabine di comando della mutazione. Da questi barbari stiamo ricevendo un’impaginazione del mondo adatta agli occhi che abbiamo, un design mentale appropriato ai nostri cervelli, e un plot della speranza all’altezza dei nostri cuori, per così dire. Si muovono a stormi, guidati da un rivoluzionario istinto a creazioni collettive e sovrapersonali, e per questo mi ricordano la moltitudine senza nomi dei copisti medievali: in quel loro modo strano, stanno copiando la grande biblioteca nella lingua che è nostra. È un lavoro delicato, e destinato a collezionare errori. Ma è l’unico modo che conosciamo per consegnare in eredità, a chi verrà, non solo il passato, ma anche un futuro.
* la Repubblica, 26 agosto 2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
STORIA D’ITALIA(1994-2010): IL GRANDE INCIUCIO. NEL 1994 IL MINISTERO DELL’INTERNO AUTORIZZA E REGISTRA IL SIMBOLO DEL PARTITO "FORZA ITALIA". CHE GRANDE SILENZIO: "LA GRANDE RECITA" COMINCIA ...
Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
I barbari non ci leveranno la nostra profondità
La nostra è l’età degli imbarbariti che devastano il presente. Ma la profondità non è destinata a scomparire "Rassegnati, caro Alessandro, siamo due moderni consapevoli. E descrivi una civiltà che ancora non esiste"
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 02.09.2010)
Mi ha molto intrigato l’articolo di Alessandro Baricco pubblicato da Repubblica il 26 agosto con il titolo "2026 - La vittoria dei barbari". Mi ha intrigato fin dalle prime righe: «Ci crediate o no, quest’articolo l’ho scritto nel luglio 2026, cioè tra sedici anni. Diciamo che mi sono portato un po’ avanti col lavoro. Prendetela così».
Baricco è un maestro di scrittura, ne conosce i trucchi e i modi per attirare il lettore e incatenarlo al testo e così ha fatto anche stavolta. Con me c’è riuscito.
Quattro anni fa scrisse una serie di articoli sul nostro giornale e ne trasse poi un libro che ebbe molto successo intitolandolo I barbari. Da allora questo tema è stato al centro del dibattito sull’epoca che stiamo vivendo e sulle caratteristiche che la distinguono. Ne ho parlato anch’io nel mio ultimo libro Per l’alto mare aperto dove ho sostenuto la tesi che la modernità ha concluso il suo percorso culturale durato mezzo millennio ed ha aperto la strada ai nuovi barbari. Sarà compito loro porre le premesse dell’epoca nuova, del nuovo linguaggio artistico che le darà la sua impronta, dei nuovi significati che motiveranno le sue istituzioni.
I barbari in questa accezione non rappresentano necessariamente una fase oscura ma un’epoca diversa da quella che noi moderni abbiamo costruito e vissuto.
Fin qui Baricco ed io ci siamo mossi più o meno sullo stesso binario. Ma lui, nell’articolo che ho citato, va oltre. Sostiene che i moderni inventarono la profondità della conoscenza e vi collocarono il senso, mentre i barbari - tra i quali si colloca ed è per questo che data il suo articolo nel luglio del 2026 - hanno smantellato il concetto di profondità e l’hanno sostituito con quello di superficialità e lì hanno collocato il senso. Baricco non giudica affatto come negativa questa operazione culturale, anzi ne enumera tutte le positività e per quanto lo riguarda si pone tra quelli che l’hanno condotta a compimento.
Il passaggio dalla cultura della profondità a quella della superficialità lo descrive così: «Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e non tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo letture in rete senza più leggere libri e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che appare sensata e bella. La superficie è tutto e in essa è scritto il senso».
Sembra di leggere una delle lezioni americane di Italo Calvino, un messaggio al futuro millennio, le idee-guida che lo ispireranno. Calvino parlava di leggerezza, rapidità, esattezza, consistenza; Baricco parla di profondità e superficialità.
Forse Calvino coltivò illusioni; lui era immerso nella modernità, i suoi referenti erano ancora Voltaire e Diderot pur avendo egli portato molto più avanti la sua ricerca letteraria. Baricco invece compie un’operazione concettuale in apparenza assai più radicale: mette la superficialità al posto della profondità come il nuovo canone di conoscenza e disloca il senso della vita collocandolo in superficie.
Esalta la bellezza del nomadismo: «Andare senza radici e senza peso». Avrebbe potuto aggiungere: senza responsabilità.
E’ questa la nuova epoca che i barbari stanno costruendo? Sarà già realtà nel 2026? Anzi è già realtà oggi, al punto che Baricco è in grado di descriverla?
* * *
Mi trovo in una curiosa condizione: in molte cose (l’ho già detto) concordo con Baricco ma nella sostanza no, non sono d’accordo con lui. Forse dipende dal fatto che ho quasi il doppio della sua età anche se sono curioso almeno quanto lui di conoscere il futuro e di reinterpretare il passato.
Tanto per cominciare, Baricco non è affatto un barbaro. Presume di esserlo ma non lo è e questo cambia molto il significato di ciò che dice.
I barbari, nella nostra comune definizione, sono coloro che parlano un linguaggio diverso dal nostro. Aggiungo: rifiutano di conoscere la nostra cultura di moderni. Non leggono libri, non leggono giornali, non ascoltano le nostre musiche. Vogliono ripartire da zero, contrariamente alle generazioni che li hanno preceduti e che pur contestando i valori dei padri ne avevano però appreso i contenuti e i significati.
Il passaggio da un’epoca ad un’altra è sempre avvenuto in questo modo; il solco che segna questo salto di civiltà ha sempre coinciso con la mancata trasmissione della memoria storica.
Dico che Baricco non è e non può essere un barbaro perché è intriso di memoria storica, conosce perfettamente quanto è accaduto, ha studiato i testi, ha ascoltato le musiche, ha addirittura messo in scena l’Iliade e Achille, usa a meraviglia ed anzi insegna il nostro linguaggio. Ha capito che i barbari sono arrivati, questo significa che sa leggere la realtà nel suo profondo.
Del resto tutta la sua analisi sulla sostituzione della superficialità alla profondità è tipicamente profonda, scava fino alla radice per poter affermare che si sta creando una vita senza radici.
Baricco è dunque un moderno che in quanto tale constata la fine della modernità. In questo concordo. Rassegnati, caro Alessandro, siamo due moderni consapevoli.
Tu elenchi le caratteristiche della nuova epoca e le riassumi con la parola e il concetto di superficie. In realtà non stai descrivendo la civiltà dei barbari che ancora non esiste. Ci vogliono molto più di trent’anni. Ricordi la scomparsa della civiltà greco-romana che durò quasi due secoli, da Teodosio fino al regno longobardo? Oggi il tempo corre più veloce ma trent’anni non bastano.
In realtà Baricco non sta descrivendo i barbari ma gli imbarbariti, che è cosa profondamente diversa. Gli imbarbariti parlano ancora il nostro linguaggio ma lo deturpano; usano ancora le nostre istituzioni ma le corrompono; non vogliono affatto preservare il pianeta dalla guerra, dal consumismo, dall’inquinamento e dalla povertà, ma al contrario vogliono affermare privilegi, consorterie, interessi lobbistici, poteri corporativi, dissipazione di risorse e diseguaglianze intollerabili.
I barbari, quelli che tu ed io vediamo come un’incombente realtà, sono ancora alla ricerca del futuro; gli imbarbariti stanno devastando il presente e contro di loro noi dobbiamo combattere per preservare il deposito dei valori che la modernità ha accumulato e dei quali l’epoca futura potrà usufruire quando avrà finalmente raggiunto la sua plenitudine e la sua autocoscienza.
* * *
Io non credo nella contrapposizione tra profondità e superficialità come una conquista e un avanzamento. Tanto meno credo che questa contrapposizione caratterizzerà il futuro e non lo credo perché c’è sempre stata in tutte le epoche.
Guarda, caro Alessandro, alla Grecia a te giustamente cara: lì nacque la tragedia e con essa il teatro cinque secoli prima di Cristo e lì otto secoli prima di Cristo era nata la poesia con Omero e ancora prima i miti e i misteri ma anche il gioco, la danza, i numeri, la geometria, la cura del corpo e la cura delle anime. Quella che tu chiami la profondità.
Ma essa conviveva con la superficialità così, con le emozioni, con la vita senza radici, con l’adorazione dei fenomeni, delle apparenze, con i mutamenti immediati di prospettiva, con un prisma conoscitivo continuamente cangiante.
E non è stato sempre così? Non è stato così nella Roma di Cicerone, di Ovidio, di Virgilio, di Seneca e infine di Boezio, mentre accanto ad essi il popolo delle taverne e delle suburre godeva dei giochi e della loro sanguinosa violenza?
Profondità e superficialità hanno sempre convissuto, quali che fossero le epoche e le latitudini, e sempre convivranno.
Tu poni - ed hai ragione di porla - la questione del senso e della sua dislocazione. E non credi nel senso ultimo. Neppure io credo nel senso ultimo, anche se ho grande rispetto per quanti ripongono nella trascendenza di un dio e nella vita futura ed eterna nell’oltremondo le loro speranze. Chi ha una fede mette in essa il suo riposo e il senso della sua vita. E non si avvede che il senso è altrove anche per lui.
Anche chi ha fede appoggia infatti la sua vita a quelli che io chiamo segmenti di senso, che ci vengono dalla vita pratica, dalla vita creativa, dalla socievolezza senza la quale non potremmo vivere.
Il senso della vita cioè non è altro che la vita stessa che si dipana momento dopo momento, che conserva memoria di quanto è avvenuto e progetta ad ogni istante il futuro. Questo è ciò che avviene in ogni persona e in ogni angolo di mondo: segmenti di senso che l’"io" vive senza soluzione di continuità, attimi fuggitivi, tempo futuro che transita nel presente con la velocità della luce e sprofonda nel passato; e tempo ritrovato attraverso quella meravigliosa facoltà della memoria che la nostra mente possiede.
Caro amico, ti dedico queste riflessioni perché tu sei tra quelli che meglio si oppongono all’imbarbarimento che rischia di sovrastarci. Questa battaglia non riguarda i barbari che stanno ancora cercando se stessi. Questa battaglia riguarda noi e soltanto noi possiamo e dobbiamo
di ENZO BIANCHI (La Stampa, 5/9/2010)
Un’interessante discussione sui barbari ha avuto luogo tra Alessandro Baricco ed Eugenio Scalfari sulle colonne di Repubblica nei giorni scorsi, quasi in concomitanza con gli interrogativi e le polemiche suscitati dalla politica francese di espulsione dei rom e con l’imbarazzante visita di un capo di Stato nordafricano a Roma. L’intersecarsi di questi elementi - un’arguta riflessione che potrebbe restare sul piano della dialettica intellettuale, una drastica misura di polizia che accredita l’equazione immigrati-delinquenti e una preoccupante abdicazione della difesa dei diritti umani di fronte agli interessi economici - mi suggerisce di tornare ad alcune considerazioni che da tempo cerco di approfondire sulla pericolosa china del ritorno alla barbarie che la nostra società ha imboccato da tempo. Sì, la barbarie devasta già il presente.
L’identificazione che Baricco suggerisce dei barbari, presenti e futuri, con quanti cercano il senso in superficie anziché in profondità, e non più con coloro che parlano una lingua incomprensibile, è indubbiamente una trovata stimolante, che tra l’altro conferisce un’accezione positiva - o almeno neutra - al termine barbaro, ma non mi pare regga a un esame più approfondito. E questo non solo per i rilievi mossi da Scalfari, che mette in luce come anche questo muoversi leggeri sulla superficie delle cose sia reso possibile dalla conoscenza di quanto si trova in profondità.
Ritengo infatti che la barbarie - e quando si usa questo sostantivo anziché l’aggettivo «barbaro» l’accezione torna univocamente negativa - non nasca e non emerga dalla sua superficialità, bensì proprio dal lasciar venire in superficie istinti profondi che abitano il cuore umano. Del resto, chi abbia una minima conoscenza del lavoro dei contadini sa bene che quanto cresce sulla superficie così come i frutti che si possono raccogliere sono imprescindibilmente legati con quanto avviene in profondità, con il nutrimento che le radici traggono dal terreno e con il paziente lavoro compiuto sul terreno stesso.
Così gli atteggiamenti esterni, anche quelli apparentemente più superficiali, nascono dal profondo e in questo senso la deriva cui assistiamo appare ancor più drammatica. Se infatti si trattasse solo di eventi epidermici, avrebbero vita effimera e non lascerebbero tracce nel sentimento comune. Invece è come se dall’interiore degli esseri umani fuoriuscissero le infezioni a lungo covate. Cosa è venuto meno, nei singoli e nella collettività, perché alcuni atteggiamenti di cui un tempo ci si vergognava vengano oggi non solo assunti come possibili, ma addirittura additati come esemplari? Perché sentimenti viscerali che eravamo consapevoli di dover domare ora vengono non solo tollerati ma sovente incoraggiati? Com’è possibile fingere di ignorare che nelle società non imbarbarite esistono diritti delle persone in quanto tali, indipendentemente dal loro essere cittadini di un determinato Stato? Cosa è accaduto perché a livello di istituzioni come di mezzi d’informazione si torni a contabilizzare le statistiche della criminalità suddivise per nazionalità o etnie? Il venir meno delle ideologie sembra aver trascinato con sé anche la morte di ogni ideale, la crisi delle motivazioni dell’agire personale e del progettare comune la convivenza: l’interesse particolare, la difesa della tribù, il vantaggio a breve termine, il successo a scapito della giustizia sembrano dettare legge, e ogni appello al senso di responsabilità verso le generazioni future o al debito verso quelle passate è irriso come dabbenaggine.
Quando, ormai alcuni anni fa, additavo come autentica emergenza non la sicurezza o l’immigrazione, ma piuttosto la sopravvivenza della nostra stessa civiltà, in via di smarrimento, non mi auguravo certo di essere confermato nei miei timori. Eppure, non ci si rende conto che ferendo la dignità di una persona - povero, immigrato, debole o straniero che sia - si ferisce l’intera condizione umana, così come, specularmente, il salvare una sola vita significa mettere in salvo l’umanità. È vero che i problemi complessi suscitati dalla globalizzazione non possono essere affrontati e risolti dai singoli e nemmeno da uno Stato da solo, ma ciò di cui c’è bisogno non è una semplice alleanza strategica, ma un soprassalto di consapevolezza del nostro esistere solo in rapporto con gli altri. Perché la barbarie inizia quando alle persone manca il senso, l’orientamento, il significato delle loro esistenze: l’insignificanza della vita, del lavoro, della convivenza non traccia cammino ma genera barbarie.
Solo se ciascuno riscopre in sé e nel suo «prossimo» un vicino che non ci è dato di scegliere, la profonda natura di essere umano, solo se si intraprende quotidianamente un’opera di autentica umanizzazione di se stessi e dell’altro, solo se si aiuta l’essere umano a essere tale sarà possibile condividere un futuro migliore. Il «noi» senza «gli altri» è totalmente depersonalizzato e l’umanizzazione non è possibile se non si rinuncia all’alternativa individuo-società attraverso il progetto di una communitas in cui la responsabilità è innanzitutto responsabilità verso l’altro. Responsabilità che nasce dall’atto umano del credere: nell’altro, nella terra, nel domani.
Ed è dal profondo, dal cuore dell’uomo che bisogna ripartire, perché senza vita interiore, senza spessore etico nessuna pianta potrà sopravvivere: né il fiore leggiadro che rallegra gli occhi e profuma la vita, né l’albero rigoglioso che nutre con i suoi frutti abbondanti. Da lì, dall’interiorità di essere umani degni di tal nome potrà trarre linfa anche una rinnovata coesione della nostra società: una coesione non ideologica, ma tesa all’ideale di giustizia, uguaglianza, solidarietà sarà in grado di raccogliere la sfida della post-modernità e di leggere e interpretare i fenomeni epocali cui ci troviamo confrontati in modo «sensato», cioè orientato a una spiegazione che è già principio di soluzione. Per tutti ci sono solo segmenti di senso nello spazio della conoscenza; per alcuni e nello spazio della convinzione ci può essere anche il senso dei sensi o il senso ultimo. Grazie alle sorgenti profonde dell’umanità sarà possibile fermare la barbarie che avanza come il deserto.