SUL CONCETTO DI PRESENTE STORICO. Note per le "Tesi" (F. La Sala, 1983) (IN FONDO - PDF)
LO SPIRITO CHE DISORDINA IL MONDO
di Mario Tronti (incontro del 16 Nov. 2006, organizzato dalla Presidenza del Consiglio Prov. di Roma - ADISTA, 6, 20.01.2007))
L’argomento di questo incontro non è certo usuale, ha una sua buona inattualità. Ma l’inattualità è sempre una cosa positiva, rappresenta un momento di accantonamento del discorso di senso comune al fine di sviluppare un discorso di senso vero. Accostare i concetti di “politica” e di “spiritualità” è un’opportunità e nello stesso tempo un rischio. La politica oggi non sembra molto incline ad assumere in sé il tema della spiritualità e, all’opposto, la spiritualità non appare molto motivata ad assumere lo spirito del tempo, a sporgersi sul terreno dell’arena pubblica. Chi coltiva la spiritualità è portato a prendere una buona distanza dalla politica, almeno dalla politica corrente. E quindi si rischia una separazione.
La politica - si dice - è il mio impegno nel mondo e la spiritualità è la cura del mio foro interno: due dimensioni che rischiano di convivere senza incontrarsi. Oggi assistiamo ad uno spettacolo curioso, quello di molti uomini politici - o meglio alcuni, però sempre più numerosi - che dichiarano pubblicamente i loro interessi per i temi della trascendenza, della fede, e parlano di una loro fede nascosta. Lo fanno, possiamo dirlo, con parole molto approssimative. Ma il problema vero è che poi di tutto ciò non si ritrova traccia nei loro comportamenti quotidiani, nei livelli dell’azione e della decisione politica.
Ecco, qui funziona la separazione che, secondo me, richiama molto una classica distinzione - distinzione tutta “borghese” - tra pubblico e privato. In passato era in voga, in alcuni pezzi di ceto politico, la contrapposizione tra virtù pubbliche e vizi privati. Oggi va di moda il rovesciamento del binomio: vizi pubblici e virtù privata, nel senso che, di fronte alla condizione non entusiasmante della politica, a volte ci si vanta, o si è costretti a vantare, la frequentazione di un retroterra di rispetto, di dignità.
Devo però avvertire che con i termini “politica” e “spiritualità” non si vuole intendere “politica” e “religione”: nel caso della seconda coppia concettuale abbiamo a che fare con un ambito diverso di problemi, con i suoi temi specifici, le sue difficoltà da non trascurare. Tra l’altro, oggi, il problema del rapporto fra religione e politica è tornato prepotentemente alla ribalta. Ed è tornato alla ribalta significativamente “dall’alto” e “dal basso” del mondo e dei mondi contemporanei.
Dagli Stati Uniti, per esempio, sono venute le esperienze dei cosiddetti neocons, o teocons, con qualche cattiva imitazione anche nel nostro Paese. La religione torna ad essere - come ai vecchi tempi - un modo per tenere in ordine il mondo, per tenere insieme una società. La società è composta da individui, ed uno dei mezzi per tenere insieme questi individui separati è stato sempre il legame religioso. La religione è qui intesa come instrumentum regni. Ecco, in questo caso la religione si identifica con la politica e quando - come oggi - la politica è in crisi, la prima fa supplenza nella raccolta del consenso intorno al potere.
Il legame religioso sostituisce così il legame sociale. Accanto alla tendenza appena esaminata c’è il bisogno di religione che sale invece “dal basso”, dal mondo degli “esclusi”, di coloro che sono ai margini della civiltà contemporanea. Si tratta di una ricerca di co-appartenenza a un sentire comune capace di fare massa contro coloro che sono considerati gli “inclusi”. Sotto questo aspetto il pericolo è che la religione, più che instrumentum regni, diventi instrumentum belli. Del resto sappiamo per esperienza storica che il regno e la guerra sono andati sempre insieme.
Quando si fa riferimento al “fondamentalismo”, lo si fa seguire spesso dall’aggettivo “islamico”. Ma io credo che ci sia “fondamentalismo” dovunque c’è confusione tra religione e politica. Dovunque l’assoluto della verità diventa anche l’assoluto del potere. E, badate, questa confusione si manifesta in tanti modi che dobbiamo analizzare bene, per essere in grado di individuare il problema anche là dove si nasconde. Abbiamo conosciuto nel passato l’oppressione totalitaria. Oggi siamo di fronte a una forma di servitù volontaria che investe le nostre società liberal-democratiche, nelle quali si chiede di dare un libero assenso a chi comanda. Io mi sento di parlare in questa fase di “fondamentalismo democratico”: la democrazia rischia di diventare oggi la religione dell’Occidente, come del resto aveva profeticamente capito il genio di Tocqueville quando aveva studiato il sorgere della democrazia in America. Ecco, le guerre di esportazione della democrazia sono le guerre di religione dei nostri tempi. Rifletteteci un momento e vedrete che questa cosa si avvicina molto alla verità delle cose.
La “non sufficienza” dell’essere umano
A questo punto io credo sia necessario distinguere la “religione” dal “religioso”. Per fare questo possiamo seguire le nobili orme di autori ormai classici come Bonhoeffer o anche, in un certo senso, Simone Weil. L’espressione “sentimento religioso” secondo me non dice molto. “Sentimento” è una parola troppo leggera per il carico che il religioso pretende giustamente dall’essere umano. L’espressione “sentire religioso” mi piace di più perché evoca una disposizione dell’animo umano. Ci si può chiedere quindi se si tratta di una disposizione naturale. Non lo credo. Qualcuno, fin dall’antichità, ha parlato dell’uomo come “animale politico”; mi pare difficile parlare dell’uomo come “animale religioso”. Tuttavia credo si possa parlare giustamente di una “non sufficienza” dell’essere umano. La verità è che noi non bastiamo a noi stessi, siamo degli esseri fondamentalmente mancanti. Questo ce lo ha mostrato non l’esperienza religiosa ma anche la migliore antropologia moderna e contemporanea. Abbiamo bisogno di qualche cosa che non possiamo darci da soli.
Vi è un senso di fragilità della condizione umana, di insufficienza della volontà che - per me - è un senso da conquistare. Intendo dire che per chi si è formato nell’ambiente teorico e politico da cui provengo io è difficile arrivare oggi alla conclusione che non tutto nella storia è nelle nostre mani e che quindi c’è una zona di mistero da coltivare con cura come una risorsa, di fronte alla quale conviene fermarsi a contemplare.
Dall’esperienza che ho fatto fin qui ho capito che il pensiero - e tanto più il pensiero a cui mi sento legato, cioè il pensiero rivoluzionario - benché sia giustamente costituito dall’analisi, dalla ricerca, dalla progettazione, dall’azione, deve però essere aperto anche alla contemplazione. So che può sembrare strano dire questa cosa, ma penso che si possa cominciare a dirla. Tuttavia non vorrei che il mio discorso fosse frainteso. Non c’è nelle mie parole alcuna forma di intimismo, alcun redire in se ipsum, alcun autobiografismo, come va un po’ di moda adesso.
La mia riflessione nasce invece dall’esperienza storica. Se tiriamo - come si suole dire - i fili del ‘900, noi - noi “movimento operaio”, noi “comunismo novecentesco” - eravamo quelli che dovevano cambiare il mondo. Cambiare il mondo per cambiare l’uomo, anche se non si è mai capito se volevamo cambiare prima il mondo e poi l’uomo, o, viceversa, prima l’uomo e poi il mondo. In ogni caso, non siamo riusciti a fare né l’una né l’altra cosa. Ciò nonostante io credo che era giusto, era sacrosanto, cercare di farlo. Era giusto l’obiettivo, ma i mezzi erano impropri. Ecco, proprio l’insufficienza di quei mezzi mi rimanda all’insufficienza dell’uomo: la ragione non viene dall’interno, piuttosto dall’esterno dell’esperienza storica. In realtà siamo stati subalterni a quell’idea di onnipotenza della ragione umana che non era propria del moderno: non accusiamo il moderno anche delle colpe che non ha. Nel moderno c’è di tutto, c’è la via della crisi, la via del dubbio, tanto quanto c’è la via dello sviluppo, la via del progresso.
Quell’idea dell’onnipotenza della ragione era propria della borghesia moderna. E noi non abbiamo sottoposto a critica il percorso dalla grande ragione rinascimentale istruita dalla scienza alla piccola ragione strumentale comandata dalla tecnica. Se osserviamo l’arco della modernità vediamo proprio questo passaggio dalla sovranità e onnipotenza della scienza alla sovranità e onnipotenza della tecnica con cui oggi abbiamo soprattutto a che fare. Tutto ciò ha provocato e fondamentalmente stabilizzato il dominio della mentalità borghese sulla condizione umana.
Una crescente volgarizzazione della vita
Dunque, perché parlare di spiritualità? Userò delle frasi nette. Mi scuso con voi, ma siccome adesso si parla in genere senza dire niente, io uso il criterio opposto, cioè scelgo delle frasi che dicano il massimo che si possa dire. E allora, perché la spiritualità? Perché il capitalismo ha fatto il deserto all’interno dell’uomo. Perché il capitalismo ha reciso le radici dell’anima all’interno della persona, e questo è un grande motivo culturale di lotta al capitalismo.
Culturale: perché ci sono anche altri motivi di lotta, anche più seri e più fondati. Ma questo è un motivo di lotta che non vedo essere sollevato con efficacia da nessuna delle poche forze anticapitalistiche rimaste. Ci troviamo di fronte ad una crescente volgarizzazione della vita, siamo dentro a un grandioso processo di volgarizzazione che nasce proprio da questo guasto che la mentalità capitalistica ha introdotto all’interno dell’uomo.
Tuttavia, muovendoci su un piano culturale, appunto, capitalismo non è la parola esatta. Io uso sempre questa parola perché è la più eloquente per dire dove siamo, benché non la usi quasi più nessuno. La usano soltanto i capitalisti. Perché? Perché la parola capitalismo, se ci fate caso, ha perso il senso che aveva avuto per molto tempo, il suo senso dispregiativo. Ormai ha soltanto un senso positivo. In questo caso comunque non è la parola giusta, perché è meglio usare l’espressione “mentalità borghese”. Con questa intendo la declinazione borghese della modernità, che ha come chiave, come pietra miliare, la figura dell’individuo neutro, che poi è l’individuo proprietario - anche proprietario di capacità di lavoro, come ci ha insegnato Marx. Individuo libero. Libero però nel senso che ha la libertà di vendere il proprio lavoro al migliore offerente. Potremmo aggiungere oggi: quando è fortunato di trovare un compratore.
Dall’operaio massa al borghese massa
Marx parlava di “proletarizzazione crescente”. Oggi dovremmo rovesciare nel suo contrario quella previsione sbagliata, perché assistiamo ad un fenomeno di “borghesizzazione crescente”. A noi è toccato di vivere un passaggio paradossale, per il punto da cui eravamo partiti, ovvero il passaggio dall’operaio massa al borghese massa. Ci troviamo di fronte ad una composizione sociale, la famosa società dei “due terzi”, in cui la grande maggioranza tende - dall’alto e dal basso - ad avvicinarsi al medio, al livello medio. Il piccolo borghese ha come sua aspirazione massima quella di arrivare ad una condizione di media borghesia; e, se ci fate caso, non esistono più i grandi borghesi: i grandi imprenditori di oggi se li andate a vedere da vicino sono dei borghesi medi. Lo si evince da come si comportano, da come agiscono, anche da come vivono nella loro esistenza quotidiana. Non solo non abbiamo più Rathenau ma non abbiamo più nemmeno Gianni Agnelli: abbiamo i furbetti del quartierino. Poi c’è anche una zona di emarginazione che in Occidente è minoritaria, ed è maggioritaria nel resto del mondo.
È accaduto in sostanza che il bourgeois si è mangiato il citoyen, secondo la classica definizione della duplicità dell’uomo moderno, borghese e cittadino; il denaro si è mangiato lo Stato. O, ricorrendo ad un esempio che abbiamo sotto gli occhi tutti in questi ultimi anni, la moneta si è mangiata l’Europa: noi non abbiamo oggi l’Europa unita, ma abbiamo la moneta unica. Credo che tutto ciò si possa esprimere con la seguente formula: le democrazie occidentali sono le più perfette dittature del denaro. Le vecchie dittature noi le individuavamo nella figura del dittatore, una figura esistenziale, personale che le rendeva riconoscibili. Tutti sapevano di vivere sotto una dittatura. La dittatura del denaro non ha una figura personificata e quindi è difficilissima da essere riconosciuta come tale; si vive nella dittatura del denaro convinti di essere in una democrazia politica, questa è la condizione in cui siamo oggi.
Ho collaborato a un piccolo testo a cura della comunità di Bose - ci ho lavorato insieme ad Enzo Bianchi - che raccoglieva i detti, soprattutto dei padri del deserto, sul denaro, anzi contro il denaro. Prendeva il titolo da un’espressione di Giovanni Crisostomo che dice “il tuo e il mio sono fredde parole”. Ecco, su queste cose non c’è lotta politica - e magari ci fosse - però possiamo introdurre una forma di battaglia culturale. Non voglio impostare il mio intervento semplicemente da un punto di vista politico, perciò adesso cambierò il registro del discorso. Fin qui ho tuttavia cercato di far capire che dietro la scelta del tema, “politica e spiritualità”, ci sono anche queste cose.
Il mondo “di fuori”, un mondo nemico
Tornando alla spiritualità. Che cos’è per me la spiritualità? Hannah Arendt lo ha accennato in un passaggio che anch’io mi sento di condividere: spiritualità è fondamentalmente “interiorità”. È il mondo interiore dell’essere umano, declinato in forma duale, oggi, giustamente, al femminile e al maschile, che sono due modi differenti di essere al tempo stesso complementari e conflittuali. Questo mondo interiore è un mondo vasto - più vasto del mondo esterno - e tendenzialmente infinito. Valgono qui le parole del poeta, o della poetessa: ‘‘per quanto lontano tu possa andare, non potrai mai raggiungere i confini della tua anima”. Ecco qui qualcosa di non misurabile, di non calcolabile, di non sottoponibile alla ragione strumentale. Ma infinito è anche da intendersi come indefinito, e quindi non traducibile in numeri, in leggi, in codici, e soprattutto non traducibile, per fortuna, in immagini, dal momento che viviamo nella società dell’immagine.
Trovo in questa dimensione dell’essere una forte e profonda carica antagonistica nei confronti dell’attuale organizzazione della vita e confesso che a volte mi sembra questa l’ultima e definitiva frontiera della resistenza nei confronti dell’aggressione proveniente dal mondo esterno. Io infatti considero il mondo “di fuori” un mondo nemico. Dunque bisogna stare attenti a considerare la spiritualità come una sorta di “benessere interiore”, insomma la cura di sé per trovare l’armonia con il mondo. Oggi assistiamo anche alla sostituzione dello psichiatra con il filosofo. Si va dal filosofo per raccontare le proprie nevrosi interne e lui ci fornisce le ricette per stare bene. Per non parlare della declinazione del religioso nel senso new age che va un po’ per la maggiore. Ecco: io contrappongo a tutto questo un’altra cosa, molto netta: stare in pace con sé, oggi, vuoi dire entrare in guerra con il mondo.
Ora, la spiritualità ha una storia lunga. Arriva a noi da molto lontano. Panikkar parla di quel terzo senso che è - dice lui - come un barlume più o meno chiaro di consapevolezza che nella vita c’è qualcosa in più di ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla mente. Un qualcosa di più - dice lui - di un ordine diverso: non è un prolungamento orizzontale verso ciò che ancora non sappiamo o che ancora non siamo, è piuttosto un salto verticale verso un’altra dimensione della realtà. Si pone in una direzione terra-cielo, per la quale è necessario lo “stare eretti”; ce lo ha raccomandato il filosofo novecentesco Bloch: stare eretti, che non è un semplice modo fisico, ma è un modo spirituale di essere. Stare sulla terra andando verso l’alto, e cioè non piegati sotto qualcosa. Che è poi la condizione dell’essere liberi, come poi dirò a conclusione del discorso. E tuttavia quella conflittualità della spiritualità - perché io di questo parlo, della conflittualità della spiritualità - credo sia possibile trovarla di più e meglio nella nostra tradizione, la tradizione ebraico-cristiana. Il passaggio dal cosmico allo storico è un passaggio che può essere male inteso, può essere anche falsificato, ma è quello che a me soprattutto interessa. Direi che tutto comincia dai grandi profeti biblici (ma anche i profeti minori non scherzano). I libri profetici, dunque, ma anche i libri sapienziali del primo testamento. E poi i padri del deserto. Vi invito a leggere il testo di Enzo Bianchi, se non lo conoscete già, che si intitola proprio “Le parole della spiritualità”, e ha un sottotitolo che recita “Per un lessico della vita interiore”. Bianchi prende le mosse da quando, all’inizio del quarto secolo, in piena crisi dell’assetto imperiale, comincia a risuonare quell’invocazione “Abbà, dimmi una parola!”. Una parola per la vita, una parola per dare un senso all’esistenza: si cominciava a formare proprio un linguaggio della spiritualità, dei nomi da dare alla realtà dello spirito.
Sparare sugli orologi
Allora, la mia tesi è questa: la spiritualità è un linguaggio della crisi. Ecco perché nella crisi della politica cui assistiamo oggi entrano e devono entrare le parole della spiritualità. Cito alcune di queste parole che Bianchi racconta una per una. Sono molte, ne ho scelte alcune fra quelle che sento più vicine: ascesi, vigilanza, pazienza, ascolto, meditazione, preghiera, silenzio, solitudine. Sono tutte parole oggi alternative a tutto ciò che ci circonda. Noi viviamo nella società della fretta, del movimento accelerato, della corsa quotidiana, dell’arrivare in tempo, dell’orologio. La prima cosa che fecero i comunardi (splendidi!) quando conquistarono Parigi fu di sparare sugli orologi. Credo che sia un’immagine stupenda della rivoluzione.
Vi è un contrasto tra i tempi esterni imposti alla vita e il tempo interno di cui ha bisogno invece la persona umana. E qui nasce una contraddizione fondamentale che è una contraddizione politica. Quelli che comandano non sono, badate, i governi, i parlamenti, i partiti - questi sono attori supplenti, attori flessibili se non precari, infatti ci sono e poi non ci sono più e ce ne sono altri al posto loro -. Quello che ci comanda è la logica di sistema che impone il circuito produzione-circolazione-distribuzione-consumo. Questo è il potere reale che ci comanda. E noi cosiddetti cittadini siamo tutti sudditi di questo potere. Un potere che non vuole che noi ci fermiamo a pensare, non ci concede i tempi tecnici della riflessione interiore. Non appena abbiamo un attimo di tempo libero ce lo riempie. Con che cosa? Con l’intrattenimento, l’intrattenimento televisivo, con i reality show, con il festival del cioccolato o con la festa del cinema, che è più o meno la stessa cosa. Ecco, la notte bianca per me è l’espressione simbolica di questa socialità fasulla: in piazza per una notte, e per il testo dei giorni soli ognuno con la propria nevrosi quotidiana.
Ma riprendiamo il discorso, quello serio. La sapienza monastica di Benedetto Calati, splendido monaco di Camaldoli, ci ha guidato con un magistrale racconto attraverso la spiritualità del primo medioevo, da Gregorio Magno al monachesimo, da Beda il Venerabile e Pier Damiani a Bernardo. È nel quarto volume di una storia della spiritualità pubblicata da Borla ed uscita nel 1988. Quando leggi queste cose della spiritualità dal primo medioevo, ti accorgi che sebbene la modernità abbia certamente guadagnato molto rispetto al medioevo (noi non siamo antimoderni, per carità, siamo dei critici del moderno, che è una cosa ben diversa), tuttavia ha perso anche qualcosa. Ha perso qualcosa che attiene proprio al fondo dell’anima, per dirla con il nostro maestro Eckhart.
Vi sono diversi carismi ma uno solo è lo spirito, dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Questa evocazione viene ripresa ed esaltata per esempio nella mistica femminile medioevale dalla grande Margherita Porete, ma anche da altri. E il femminismo, per esempio - soprattutto il femminismo della differenza, che in Italia ha notevoli interpreti - ha privilegiato nella dimensione trinitaria la figura dello spirito, sottoponendo a critica il percorso che va dalla ruah, che in ebraico è femminile, a pneuma, che in greco invece è neutro, per arrivare a spiritus, che in latino diventa maschile. È un’operazione culturale fatta con intelligenza al fine di evocare una perdita, di sottolineare i limiti di un percorso.
Concludo con una provocazione intellettuale, se ve ne fosse bisogno di un’altra. Dicevo, ma lo ripeto a scanso di equivoci, che a me piacciono le idee forti; non ci sto al fatto che siccome siamo sotto il ricatto della violenza, allora dobbiamo rispondere con pensieri deboli, perché vedo che in questo modo si innesca una trappola capace di bloccare qualsiasi volontà di trasformazione delle cose. Io vengo dalla lotta di classe, dalla teoria e dalla pratica della lotta di classe. Considero una benedizione di Dio aver avuto la possibilità di partecipare a quella vicenda (che mi pare conclusa). Proprio oggi ho riletto una frase di Marx, accusato a volte - da qualche “parroco di campagna” - di essere soltanto un materialista. Una frase di Marx del ‘56: “con la stessa velocità con cui l’umanità diviene padrona della natura, l’uomo pare assoggettarsi ad altri uomini. Tutte le nostre invenzioni e i nostri progressi sembrano risolversi nel fornire una vita spirituale alle forze materiali e nel mettere in ridicolo la vita umana riducendola a una forza materiale”.
Questo è Marx! Ecco, ripensando oggi a quella vicenda che si organizzava intorno alla lotta fra le classi, se cerco quel barlume dello spirito di cui parlava Panikkar, quel qualcosa in più di un ordine diverso, io lo trovo nel salario conquistato dai lavoratori e non lo trovo nei profitti accumulati dai capitalisti. Nella nostra storia, nella storia delle classi che si sono ribellate al loro sfruttamento, al loro dominio, c’è stata una spiritualità profonda, tutta da riconoscere; nella figura del vecchio contadino, nella figura dell’operaio di mestiere, nella figura della madre di famiglia che porta da mangiare agli scioperanti, nel militante di base che fa politica in piena gratuità, e poi nel desiderio, nel bisogno di cooperare, di solidarizzare, di lottare: qui c’è una profonda spiritualità.
Quale altro?
Insomma, la spiritualità per me non è la declinazione buonista del religioso. Quella che dice di essere laici, tolleranti, ecumenici, multietnici, interreligiosi, aperti all’altro, e bla bla. Io non ce la faccio più a sopportare questa “retorica dell’altro”. Perché chiedo sempre: ma quale altro? L’immigrato clandestino che un gommone butta sulla nostra spiaggia come un detrito non umano è lo stesso “altro” del benestante che sale sul suo yacht per andare a fare il giro delle isole? Hanno in comune soltanto lo stesso mare su cui navigano ma io sono per l’uno contro l’altro. Qui a volte lo stesso predicare cristiano mi sembra abbia delle falle, delle mancanze.
Insomma: io dico che bisogna evocare il soffio dello spirito per disordinare il mondo. Voi direte: ma il mondo è già abbastanza disordinato, non c’è bisogno di ulteriore disordine. No, rispondo io, perché l’attuale disordine è conseguenza dell’ordine che ci opprime, non è un disordine spontaneo. È un ordine che dall’alto provoca questo disordine. Noi abbiamo bisogno di disordinare il mondo dal basso. Ora, gli spirituali - si chiamavano così - erano sempre eretici. Gli ordini spirituali nascevano per contestare l’ordine gerarchico della Chiesa. Io credo che dovremmo ripartire da qui, da quando Gesù risorto sta per lasciare i discepoli e dice loro: ricevete lo Spinto. Ecco il lascito inutilizzato che abbiamo ancora tra le mani. Veramente diceva: ricevete lo Spirito Santo. Ma qui sorge un’altra domanda: è necessario che sia Santo questo spirito, non basta che sia - appunto - Spirito?
E ora, veramente, l’ultima battuta. C’è una figura un po’ hegeliana un po’ nietzschiana - più nietzschiana che hegeliana - che io amo molto: è quella del frei geist, dello spirito libero. E’ una figura novecentesca, che Nietzsche ha lasciato al Novecento, perché ha trovato un suo seguito in grandi esperienze teoriche, per esempio nel principio speranza di Bloch o nella coscienza del proletariato del giovane Luckacs, oppure nel comunismo teologico di Benjamin, in quello escatologico di Taubes. Ecco l’ultima frase netta: la spiritualità è libertà. Perché la libertà o è libertà dello spirito, o è soltanto un’altra forma di oppressione. Con questa sentenza da militare concludo il mio discorso.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA", LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO
KARL MARX E WALTER BENJAMIN: L’ "ODIO DI CLASSE" DI EDOARDO SANGUINETI, OGGI.
A "ISRAELE"! RIPENSARE L’"AMERICA" E IL SOGNO DEL "NUOVO MONDO". LA LEZIONE DI KAFKA.
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’ "EDIPO".
Il mondo dell’infanzia /
A scuola da Walter Benjamin
di Giulio Schiavoni (Doppiozero, 19 Novembre 2020)
È nota la sensibilità di Benjamin per il mondo dell’infanzia e per la Kinderliteratur, aspetti ai quali peraltro non sempre si è dedicata opportuna attenzione. In un momento come l’attuale, sotto l’impatto delle restrizioni imposte dal coronavirus, è parsa venir meno per i bambini e i ragazzi post lockdown la gioia di divertirsi con mezzi di fortuna, in un giardino, in un cortile, su un marciapiede, in un’aula scolastica, e il gusto di stare insieme. Essi sono stati costretti a limitare a ritmi e abitudini quotidiane (o addirittura a rinunciarvi) e a veder modificati i rapporti scolastici che ne scandivano l’esistenza e che erano parte essenziale della loro identità. Perché non chiedersi allora se Benjamin non abbia ‘qualcosa da dire’ anche sul piano formativo e pedagogico, offrendo preziose indicazioni persino a qualche incuriosito maestro di scuola?
Theodor Adorno ha osservato nel suo Profilo di Walter Benjamin (1972): «Ciò che Benjamin diceva e scriveva sembrava far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto. (...) Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorgesse attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di Natale». Con tali parole egli metteva in luce un’importante componente del pensiero benjaminiano: il lasciar baluginare uno spiraglio che appariva rimandare a uno spazio utopico (che per Benjamin è poi la «tensione verso il messianico»), ben espresso nell’immagine delle luci dell’albero natalizio.
E il suo amico Gershom Scholem scrisse addirittura che il mondo dell’infanzia «faceva parte degli obiettivi su cui più durevoli e pertinaci indugiavano le sue riflessioni, e tutto ciò ch’egli ha scritto in proposito appartiene alle sue cose più perfette». Benjamin stesso del resto osservò: «Ci sono poche altre espressioni del mondo librario verso le quali io sia legato da un vincolo così stretto».
Per tanti anni, queste riflessioni specifiche sono state considerate marginali, forse perché andavano controcorrente rispetto alle leggi del mercato. (Anche se va detto che ci sono però state delle eccezioni al riguardo: in particolare, durante gli anni della rivolta studentesca a Berlino Ovest si ebbe un interessamento alle riflessioni pedagogiche di Benjamin da parte del «Consiglio centrale degli Asili socialisti», che nel 1969 stampò un’edizione pirata del suo Programma di un teatro proletario di bambini, tradotto in italiano e commentato quello stesso anno dallo psicoanalista Elvio Fachinelli, in una provocatoria Nota a Benjamin pubblicata su un numero della rivista “quaderni piacentini”).
L’attenzione per l’infanzia e le tematiche del mondo infantile si configura, nel pensiero di Walter Benjamin, come una specie di “terra d’approdo”. Negli anni intorno alla Prima Guerra mondiale, infatti, egli aveva idealizzato la gioventù (descritta come una Bella addormentata che occorreva far ridestare) e aveva militato nella Jugedbewegung, nel ‘movimento della gioventù’, ricalcando un po’ la retorica idealistica del suo maestro Gustav Wyneken, una figura carismatica di impostazione liberale. Ma poi si era ricreduto e s’era distaccato da Wyneken, rimproverandogli di aver reso cieca la «teoria», al punto da lasciare che la gioventù andasse ad arruolarsi, verso un’inutile immolazione.
È ipotizzabile che Benjamin abbia sviluppato l’interesse per le problematiche pedagogiche e per il mondo non ancora deformato dell’infanzia e l’abbia recuperato in chiave anti-idealistica e materialistica dopo questa delusione nei confronti della Jugendbewegung.
In tal senso si potrebbe idealmente ravvisare nel percorso benjaminiano uno spostamento d’interesse dalla «Jugend» alla «Kindheit», ossia dalle potenzialità della Gioventù a quelle dell’Infanzia. Complice di questo spostamento d’interesse fu probabilmente anche l’incontro con Asja Lacis, Georg Lukács, Ernst Bloch e successivamente Bert Brecht, che favorirono in lui l’apertura verso il pensiero marxista.
Nella ricca produzione di Benjamin sulla “letteratura per l’infanzia” rientra in particolare una serie di brevi articoli a carattere “pedagogico”, pubblicati fra il 1924 e il 1932 sulla «Frankfurter Zeitung» e in altre riviste dell’epoca weimariana. Essi sono reperibili in italiano nell’edizione einaudiana delle Opere complete di Benjamin nei volumi II-V (Torino 2001-2003) e sono stati ora riproposti in parte significativa anche nella raccolta Orbis pictus, Giometti & Antonello (Macerata 2020). A queste cosiddette «recensioni pedagogiche» vanno poi aggiunti i numerosi interventi benjaminiani alla radio tra il 1929 e il 1932 oggi noti come Racconti radiofonici per i ragazzi, alcune sezioni del libro di aforismi Strada a senso unico (1928) e dell’Infanzia berlinese (1932-1933) e la predilezione per l’opera di Proust, in cui il mondo dell’infanzia e quello degli adulti gli apparivano singolarmente intrecciati.
In parallelo Benjamin parve accostarsi al mondo infantile e accedere ad esso (“sbirciarvi”, secondo le sue stesse parole) anche attraverso l’uscio secondario e magico della sua passione collezionistica. Egli fu infatti anche un raffinato e ostinato collezionista di libri per l’infanzia, un genere che a suo giudizio si trattava di riabilitare e di «restituire alla vita».
Era una letteratura che il suo contemporaneo Karl Hobrecker aveva cominciato a togliere dall’oblio pur senza riuscire a spingersi oltre lo spirito di uno zuccheroso archivismo. L’intenzione di Benjamin era invece piuttosto quella di ricongiungersi - tramite il libro d’infanzia abbandonato e logoro - a un’esperienza della «felicità» a cui i bambini, a differenza di tanti adulti, gli apparivano ancora aperti. In tal senso tornava a riaccendersi in lui (come già nei surrealisti a lui contemporanei che condivisero un progetto di critica radicale della borghesia) l’esperienza suscitata in Baudelaire dalla contemplazione di giocattoli, ben espressa nella sua Morale del giocattolo.
Era una passione per i relitti di un passato ormai privo di contesto, per quelli che egli chiamava «avanzi di un mondo di sogno», rovine per le quali non c’era più spazio nella storia dei moderni, verso le quali - da Rimbaud e Baudelaire al Dada e ai surrealisti - il pensiero europeo si stava volgendo, alle quali egli tendeva per una «testarda protesta sovversiva contro il tipico e il classificabile» e che egli «salvava» per coinvolgerle nella strategia di distruzione della continuità storico-culturale. Ciò che è anacronistico conservò per Benjamin il carattere di ricettacolo dell’autentico emarginato dalla storia dei grandi eventi e, di conseguenza, la capacità «anarchica» di testimoniare contro la piattezza di chi sa soltanto proporre l’apologia dell’esistente e la logica del profitto. «Il collezionista d’arte» - si legge in un passo del suo saggio Parigi. La capitale del XIX secolo (1935) - «non si limita a sognare di essere in un mondo remoto nello spazio o nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili».
Capaci di restare refrattari alle leggi del mercato che non risparmiano la cultura e il libro, i collezionisti autentici orientano cioè - secondo Benjamin - il proprio sguardo verso il testo ormai introvabile intendendolo non già come un ennesimo articolo di scambio (come una merce) ma come il luogo in cui è assopito il «ricordo» di un’originaria «felicità» e «innocenza» che nel mondo adulto parrebbero rimosse. L’affermazione di Benjamin annuncia non soltanto la sua totale incompatibilità con la storiografia di impronta storicistica e idealistica che glorifica l’accadere come unilinearità di eventi irreversibili in cammino verso un indubitabile «progresso», ma anche la sua inclinazione e sensibilità per il lato rivoluzionario inerente all’arcaico e all’emarginato, la sua fiducia nel collezionismo come passione anarchica per la realtà, giacché ogni recupero del singolo oggetto proveniente dalla «lontananza» si tramuta, tra le sue mani, in un atto di «distruzione»: «La vera, disconosciutissima passione del collezionista» - soggiunge in Elogio della bambola - «è sempre anarchica, distruttiva». Il mondo dell’infanzia si delinea, sotto questo profilo, come il regno in cui la «maledizione di essere utili» potrebbe essere sospesa, data la marginalità - se non la totale irrilevanza - che l’infanzia riveste nel sistema produttivo degli adulti.
Tale passione è comprensibile a partire dalla biblioteca materna e dai libri da lui letti da bambino. Egli ebbe infatti la fortuna di trovare in casa tutta una serie di pregiati libri per l’infanzia, dato che sua madre disponeva di una ricca biblioteca di famiglia e che sua moglie Dora era appassionata di libri per bambini. E quindi poté nutrirsi di letture di tutto rispetto, che solo un bambino della buona borghesia come lui poteva permettersi. -Questa passione è documentata dalla folta “Collezione di libri per bambini” (Kinderbuchsammlung) benjaminiana, che vanta oggi 204 titoli e il cui Indice completo si può trovare nel già ricordato volume antologico di suoi testi Orbis pictus. Scritti sulla letteratura infantile (2020). Non molti anni fa tale Collezione, che andò incontro a varie traversie, è stata acquisita dall’Università di Francoforte e accolta presso l’«Istituto per la ricerca sul libro per la gioventù» di quest’ultima, dove tuttora è conservata.
Tra gli aspetti più significativi che emergono dalle riflessioni benjaminiane sulla letteratura infantile spicca anzitutto l’idea che chi legge è sovrano, che egli non può avere modelli pedagogici che lo terrorizzino o lo imbriglino. Quando legge, il bambino s’immerge interamente nella vicenda, fa un tutt’uno con i personaggi descritti e anche con le illustrazioni, lasciando scomparire tutto il resto. Nell’indicare questa modalità di lettura propria dei bambini Benjamin si discosta nettamente dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco e anche da buona parte dei pedagogisti suoi contemporanei. Egli intravede negli spauracchi inventati - nei secoli - dagli educatori per imbrigliare la fantasia infantile l’implicito venir meno di un’«autorità» autenticamente capace di mantenere il bambino aperto sull’orizzonte della «felicità».
A ciò si abbina un altro grande tema benjaminiano, connesso con l’amore per i libri «vecchi e dimenticati»: quello dell’elogio della fantasia, che deve restare libera dalla responsabilità e che si alimenta di materiali informi, di residui, di scarti che i bambini salvano dalla distruzione e riutilizzano in un’operazione di montaggio. In questo contesto è decisiva per Benjamin l’importanza del colore e del linguaggio delle antiche immagini colorate presenti nei libri illustrati, che invitano il bambino a un’immersione onirica in se stesso e nel regno della fantasia, ad abbandonarsi ai propri sogni.
«Solo i bambini» - egli scrive già in gioventù, nel dialogo L’arcobaleno (1915) - «dimorano interamente nell’innocenza, e quando arrossiscono ritornano nell’essenza del colore. In loro la fantasia è così pura, che ci riescono». A suo parere, è come se alimentando la propria fantasia a confronto con il libro illustrato il bambino viva una sorta di anamnesi in senso platonico. In un frammento relativo all’apprezzato illustratore ottocentesco Johann Peter Lyser, ragionando della «bellezza delle immagini a colori nei libri per bambini» (testo che a detta di Scholem rappresenta il punto di partenza dello splendido scritto Sbirciando nel libro per bambini, 1926), egli fa infatti un rimando esplicito proprio a Platone, annotando: «Se esiste qualcosa di simile all’anamnesi platonica, allora si attua nei bambini, per i quali il libro illustrato è il Paradiso. Essi apprendono mediante il ricordo».
Applicando tale suggestione anche agli oggetti di scarto, ai materiali desueti e alla letteratura dimenticata (in un certo senso finiti - o posti - ‘fuori della storia’) si potrebbe dunque ipotizzare che a tali materiali inerisca una particolare prossimità all’Idea platonica. Benjamin era convinto che, salvando libri negligentemente votati alla distruzione o alla scomparsa (ad esempio i libri di malati di mente, o di un ribelle e antimilitarista berlinese come Paul Scheerbart), egli restasse in sintonia con una «tradizione vivente», con voci che avevano da dire sulla loro epoca «cose assai più notevoli di molti degli autori affermati», assurti a «classici», divenuti ormai «canonici e perciò inefficaci» (aggiungeva ironicamente). In qualche modo era come se quegli ‘scarti’ librari, proprio perché messi fuori circolo, dimenticati e rifiutati, fossero più vicini di altre espressioni culturali al platonico Mondo delle Idee che non a quello della Storia.
In generale emerge nella riflessione benjaminiana la costante distanza nei confronti dei modelli pedagogici e ideologici che gli adulti tendono a far passare in maniera più o meno subdola nei confronti dell’infanzia. In questo senso il saggista berlinese si pone al di fuori della pedagogia razionalistica, discostandosi da quanti badavano a utilizzare i materiali didattici per «additare mete» o «sciorinare un sapere prefissato». È irrisoria, a suo giudizio, la preoccupazione di produrre «oggetti adatti ai bambini», in quanto i bambini giocano con oggetti di uso comune, che essi trasformano e tra cui scoprono nessi inediti. Essi mettono in rapporto tra loro questi materiali di scarto, ricomponendoli in modi nuovi e imprevedibili. Si tratta di una serie di prodotti che si potrebbero circoscrivere con l’espressione «avanzi di un mondo di sogno». Con tale espressione, da lui coniata nello stile dei surrealisti, Benjamin designa ciò che - come i vecchi libri per bambini - è finito fuori del circuito commerciale, proprio quegli ‘scarti’ che fanno la gioia del bibliofilo e del collezionista. L’espressione può però valere anche per i materiali residui dei lavori del muratore, del giardiniere, del falegname, del sarto e così via, che i bambini manipolano e trasformano, ponendoli in un «rapporto reciproco nuovo e discontinuo» mediante il gioco e l’immaginazione, e in cui essi «riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge soltanto a loro».
Analogo è, a giudizio di Benjamin, il comportamento del bambino nell’uso delle fiabe: nel suo scritto Vecchi libri per l’infanzia (1924) egli afferma non a caso che il bambino «può lavorare in modo naturale e sovrano con il materiale fiabesco, allo stesso modo con cui dispone pezzi di stoffa o mattoncini delle costruzioni». Riflessioni - queste - che andrebbero rimeditate anche in un momento come quello odierno in cui anche i bambini sono in libertà vigilata, assediati dal clima di paura nei confronti del contatto ravvicinato e della vicinanza sociale, forse impediti - a scuola - di manipolare o trasformare qualunque cosa capiti loro tra le mani.
Uno dei grandi modelli o riferimenti cari a Benjamin è stato l’Orbis Sensualium Pictus, (Universo dipinto delle cose sensibili) di Jan Amos Comenio, un educatore boemo considerato come uno dei pionieri della pedagogia moderna. Questo celebre testo illustrato fu pubblicato a Norimberga nel 1658. Esso si prefiggeva di insegnare ai bambini l’uso dei vocaboli associando una parola (o meglio il suono che vi corrispondeva) a un’immagine. Gli oggetti delle illustrazioni erano numerati e i numeri corrispondevano alle parole poste al fondo del testo: in latino, seguìto dal tedesco (perlomeno nella seconda edizione).
Benjamin fu colpito dal modo di insegnare auspicato da Comenio e dalla sua utilizzazione pedagogica delle immagini, in particolare dall’idea che l’insegnante, più che riempire di nozioni precostituite la mente del bambino, doveva destarne l’interesse, accenderne l’intelligenza e aiutarlo ad acquisire una conoscenza essenziale del mondo riflettendo da solo. A questo dovevano servire le immagini dell’Orbis sensualium Pictus e i vocaboli ad esse abbinati. Ogni illustrazione ritraeva un aspetto del mondo naturale o della vita umana in un linguaggio semplice, adeguato a chi era agli inizi della formazione. Comenio sconsigliava vivamente il ricorso alle punizioni corporali. Nella sua visione era importante anche il gioco, soprattutto il gioco di gruppo: nulla era così bello come imparare divertendosi; l’insegnante doveva incoraggiare la partecipazione degli allievi. Benjamin naturalmente conosceva bene tale testo, che figura nella sua “Collezione di libri per bambini”.
Il mondo dell’infanzia /
A scuola da Walter Benjamin
di Giulio Schiavoni (Doppiozero, 19 Novembre 2020)
La passione per l’universo figurale dei vecchi libri illustrati fa un tutt’uno in Benjamin con la sua sensibilità per l’emblematica, per le associazioni di immagini, una tematica alla quale egli si appassionò trattandone diffusamente nell’Origine del dramma barocco tedesco, edito nel 1928, il libro con cui sperava di ottenere l’abilitazione presso l’Università di Francoforte. Comunque ad essa fa riferimento qua e là anche nei suoi interventi sui libri per bambini.
Com’è noto, l’emblematica è un genere letterario caratterizzato dal ricorso a immagini allegoriche contenenti solitamente un motto o una scritta collocati al di sopra della figura e un epigramma o una spiegazione in prosa o in poesia posti sotto alla figura stessa. È cioè una forma di comunicazione che combina materiale visuale e materiale verbale e che ebbe fortuna a partire dal Rinascimento e fu molto in voga nel Seicento.
Nel teatro barocco tedesco gli emblemi rivelavano un significato che riguardava la condizione creaturale e storico-sociale del mondo. Ad esempio un emblema particolarmente pregnante per l’epoca era quello del corpo senza vita, che rimandava alla caducità e fragilità, elementi che a giudizio di Benjamin contraddistinguevano un periodo storico segnato da eventi come la Guerra dei Trent’anni.
Altra caratteristica è la sensibilità di Benjamin per gli Abbecedari, per il fascino delle lettere. A suo giudizio, le lettere alfabetiche dei vecchi abbecedari (arricchite «con cura ornamentale» dapprima da ghirlande e arabeschi, successivamente da oggetti) apparivano invitanti e inducevano i bambini a inoltrarsi nel mondo che esse rappresentavano, e davano all’apprendimento il carattere di un’avventura. Con esse i bambini vivevano una gioiosa e giocosa identificazione mimetica, sperimentavano un momento di liberazione dalla paura. Erano il primo momento dell’ingresso in un mondo avventuroso, erano come «gli stipiti di una porta» che occorreva attraversare. Giacché, per Benjamin (in ciò davvero lungimirante), ai libri scolastici deve inerire un aspetto ludico, atto a incrementare la fiducia in sé del bambino.
Benjamin è stato tra i primi a individuare i rischi di una pedagogia invasiva della psiche infantile, una pedagogia che si prefigge tutt’altro che il fine di risvegliare nei bambini e nei ragazzi il giudizio autonomo e che mira invece a tessere un’apologia dell’esistente. Con le sue riflessioni sull’opportuna distanza nei confronti dei modelli pedagogici e ideologici che gli adulti tendono a far passare in maniera più o meno subdola, egli si poneva - così - al di fuori della pedagogia razionalistica, discostandosi da quanti badavano a utilizzare i materiali didattici per finalità precostituite.
In proposito val la pena menzionare la sua acuta recensione intitolata Kolonialpädagogik (Pedagogia coloniale), in cui stigmatizza i comportamenti di quanti considerano disinvoltamente l’educazione «in un’ottica coloniale volta allo smercio di beni culturali» e tendono a trasformare la «delicata e riservata fantasia del bambino» in una sorta di serbatoio da riempire.
A una simile impostazione Benjamin aveva già opposto - nel suo Programma di un teatro proletario di bambini, redatto nel 1928-29 su invito di Asja Lacis (l’importante pioniera del teatro sovietico per l’infanzia che subito dopo la Rivoluzione del ’17 aveva fondato a Orel un teatro di besprisorniki - ragazzi sbandati corrispondenti all’incirca ai nostri sciuscià - e che egli aveva incontrato a Capri nel 1924 invaghendosene perdutamente) una sorta di pedagogia alternativa, immaginata al di là delle modalità drammaturgiche di tipo ‘borghese’. In tale Programma da realizzare a Berlino, su proposta di Richard Becher e Gerhard Eisler, egli aveva prospettato un teatro in antitesi a quello borghese, un luogo (un luogo-teatro) inteso come spazio di un collettivo in cui il bambino poteva esprimere se stesso e si trovava a proprio agio perché improvvisava senza essere gestito dall’esterno, e in cui l’adulto aveva l’opportunità di imparare dal bambino: poteva ascoltare e osservare quanto il bambino stesso faceva, perdendo così la sua posizione di vantaggio (un po’ come avviene nello psicodramma, il teatro della spontaneità che negli stessi anni Jacopo Levy Moreno ideava a Vienna).
Non si può del resto non ricordare il giudizio sprezzante che Benjamin esprime nei confronti di certa pesantezza moralistica riscontrabile in non pochi pedagogisti della sua epoca, nei confronti delle «aberrazioni» perpetrate allora «grazie alla pretesa immedesimazione nella natura infantile» mediante «i racconti in rima e i ghignanti ceffi infantili che squallidi amici dei bambini dipingono per illustrarli».
Recensendo nel 1924 il libro Alte vergessene Kinderbücher [Libri per l’infanzia vecchi e dimenticati] del collezionista berlinese Karl Hobrecker egli taglia corto scrivendo in proposito: «Il bambino chiede all’adulto una rappresentazione chiara e comprensibile, ma non infantile. Meno che mai ciò che l’adulto è solito considerare tale».
Invita così a prendere le distanze da metodi pedagogici moralistici (edificanti o terrorizzanti), e da forme di catechesi che si erano sviluppate a partire dall’Illuminismo e che venivano riproposte - sotto altra forma e veste - nel presente. Il suo è un richiamo a rispettare cioè l’autonomia e la spontaneità del bambino, a non voler mettere il cappello su ogni gesto del bambino immaginando figure e forme a sua misura, ideali per lui. Sarebbe già sufficiente - osserva Benjamin - prendere le mosse da ciò che offre la terra, con la sua pienezza di «materie pure, non adulterate», da cui i bambini sono tanto attratti...
Analogo interesse meritano i vari interventi da Benjamin dedicati al giocattolo, davvero istruttivi. In vari testi egli affronta in particolare la problematica dell’uso dei giocattoli, di cui peraltro sottolinea il carattere ambivalente. Essi infatti - sostiene - in quanto opera degli adulti sono pensati per indurre modelli di comportamento nel bambino. Al medesimo tempo, però, permettono al bambino stesso di riscattarsi proprio nel gioco, perché giocando egli può usarli in modo personale, fuori dagli schemi.
Nel ribadire le distanze dalle modalità di una pedagogia dai tratti «coloniali» Benjamin si rivela originale anche nell’approccio al mondo della fiaba. A tale riguardo nello scritto Fertili rudimenti degli inizi (del 1931), recensendo due volumi dell’illustratrice di libri per bambini Tom (alias Martha Gertud) Seidmann-Freud, nipote di Sigmund Freud, dedicati alle valenze dei sillabari, in maniera assai stimolante egli sottolinea la refrattarietà all’ideologia borghese dominante attraverso in particolare i meccanismi dell’esagerazione e della ripetizione, tipici delle fiabe. Nella lettura, i bambini gli appaiono dunque animati e guidati proprio da queste due costanti della letteratura fiabesca.
E il bello è che si tratta - a giudizio del saggista berlinese - di meccanismi che finiscono per coinvolgere in positivo anche gli adulti. Quali effetti produce nel bambino l’esagerazione? Essa lo rende capace di sfuggire in qualche modo alle violenze di adulti che gli propinano o gli destinano storie atroci come quelle narrate nel celebre Pierino Porcospino (1844) di Heinrich Hoffmann, e di discostarsi così dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco del «Sii educato, ordinato e pio!» Quanto poi alla ripetizione che si lega al raccontare fiabe e all’invito che solitamente il bambino rivolge agli adulti a «raccontare di nuovo», nel suo scritto Giocattolo e gioco (1928) Benjamin ritiene che grazie alla ripetizione sia il bambino che l’adulto che narra vengano messi in condizione di superare il terrore istillato da certi racconti. Insomma: un provare paura, ma per liberarsene.
Si direbbe che - riletti oggi - gli interventi benjaminiani sulla Kinderliteratur non abbiano perso nulla dell’attualità vera di cui il saggista berlinese è parso unicamente curarsi: l’attualità di ciò che contribuisce a schiudere la porta dei sogni e il libro della felicità, anziché a mettervi i sigilli forse definitivamente.
Walter Benjamin. La febbre
di Valentina Maurella (Doppiozero, 21.09.2017)
«L’inizio di ogni nuova malattia mi insegnava, immancabilmente, con quale sicuro tatto e con quanta abilità il contrattempo mi venisse a trovare. Lungi da esso l’idea di farsi notare. Tutto aveva inizio con qualche chiazza sulla pelle, con un malessere. Ed era come se la malattia fosse abituata ad aspettare fino a quando il medico non le avesse procurato una collocazione. [...] cominciavo a riflettere su quanto mi stava per accadere. Calcolavo la distanza tra il letto e la porta e mi chiedevo per quanto tempo ancora la mia voce avrebbe potuto superarla. Già mi immaginavo il cucchiaio dal brodo colmo di esortazioni materne [...]. E come una persona che nell’ebbrezza prova a fare un calcolo o un ragionamento solo per vedere se ci riesce, così io contavo i riflessi che il sole faceva balenare sul soffitto della stanza e ordinavo sempre in nuovi gruppi le losanghe della tappezzeria. Mi sono ammalato spesso. Da qui forse proviene quella che altri definiscono pazienza, ma che in realtà non ha alcunché di virtuoso: la tendenza a vedere ciò che mi preme avvicinarsi a me da lontano, come le ore nel mio letto da ammalato. Per questa ragione, quando faccio un viaggio mi viene a mancare la gioia più grande se non ho potuto aspettare a lungo l’arrivo del treno in stazione e così si spiega anche perché, per me, fare regali sia diventata una passione; io, infatti, come colui che dona, scorgo in anticipo ciò che per l’altro rappresenta una sorpresa.»
Benjamin tratteggia una situazione nota pressoché a tutti, ossia l’avvicinarsi, inesorabile, della malattia. Riesce a rendere palpabile e reale quella sensazione di imminente disfatta del corpo di fronte all’avanzata del malessere, che pian piano incede, avvinghiandosi alla pelle in forma di chiazza. Non si tratta però solo di una realistica ed efficace descrizione della malattia. Benjamin, infatti, fa di questa condizione, ripetutasi numerose volte nel corso della sua infanzia, la possibile causa di un modo d’essere che rimarrà una costante di tutta la sua vita.
L’attesa della malattia, preannunciata dai sintomi più lievi, diviene per il cagionevole Benjamin bambino un’occasione per constatare l’incalzare della necessità naturale e, allo stesso tempo, questa attesa rappresenta una lenta e faticosa lotta interiore contro quella stessa, fisiologica, necessità. Benjamin non descrive la sofferenza, né la ribellione contro la malattia, ma, attraverso l’immagine dell’ubriaco che cerca di mettere alla prova la propria lucidità, restituisce quella sensazione di angoscia che si prova nel sentire la mente sull’orlo del precipizio. L’equilibrio instabile tra coscienza e incoscienza è tracciato dalle linee sottili del sole sul soffitto e dai disegni della tappezzeria.
È nella malattia che il bambino misura se stesso per la prima volta e, nello scontrarsi con una forza esterna che si abbatte su di lui, percepisce il proprio essere e la propria salute come indipendenti dalle amorevoli cure materne. Così, l’attesa del malanno imminente, si traduce in una riflessione sul modo di rapportarsi agli eventi futuri. Per il bambino essa rappresenta la conquista della familiarità con il tempo. Nelle ore in cui attende l’acuirsi dei sintomi che lo costringeranno a letto, il mondo intorno a lui diviene improvvisamente leggibile. Lo scettro per dominare il tempo è nascosto nell’anticamera di ogni evento. Sulle banchine della stazione, nelle ore di febbricitante attesa prima della consegna di un regalo. L’istante decisivo viene previsto e calcolato minuziosamente dall’immaginazione del bambino. Il momento in cui un sorriso riconoscente si disegnerà sul volto del destinatario; in cui il corpo soccomberà definitivamente alla febbre; in cui un interminabile fischio annuncerà la partenza del treno.
L’attesa è un atto di divinazione, in cui la mente del bambino si esercita a interpretare il rapporto tra la necessità degli eventi e la propria capacità di incidere sull’accadere di questi ultimi. La divinazione è un concetto di cui Benjamin si serve, nella XVIII tesi di filosofia della storia, per stigmatizzare l’ideologica contemplazione di un futuro preordinato, che mortifica e inibisce la capacità umana di agire all’interno della storia. Invece ciò che preme a Benjamin, in questo passo, è evidenziare come l’attesa di un evento preannunciato si carichi di un valore soggettivo irrinunciabile, che supera il senso stesso del compimento.
L’attesa così concepita rappresenta quella coloritura individuale che è capace di riempire un momento oggettivo della vita quotidiana. Benjamin, con lo sguardo di bambino, caratterizza una concezione qualitativa dell’esistenza, ribaltando la tradizionale immagine di attesa quale interminabile successione di istanti e considerandola, invece, come lo spazio entro cui il bambino sperimenta se stesso in maniera autentica e individuale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Pace, giustizia, e libertà nell’aiuola dei mortali
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Capitalismo come religione
di Walter Benjamin *
Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo - e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso - condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.
Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.
Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione - che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa - e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso - che è il capitalismo - resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura - ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.
Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è - per una profonda analogia ancora da esaminare - il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.
Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene - con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) - Socialismo.
Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Il capitalismo si è sviluppato in Occidente - come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse - in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.
Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.
Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.
Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.
Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.
Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.
Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.
[metà 1921]
Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).
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Il teologo dell’economia
L’attualità straordinaria di un pensatore che indicò nel capitalismo la religione della nostra epoca
Un culto basato sull’indebitamento generale che non conosce tregua né perdono e cancella la differenza tra il giorno e la notte
Tra i suoi sacerdoti c’è anche Marx, il cui socialismo ne è in fondo l’erede diretto
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 24.01.2016)
È la stella polare della filosofia continentale. Ne traccia la rotta, ne indica la tendenza, la orienta. Da tempo ormai fa quasi ombra a Heidegger e a Wittgenstein. Come se lui, il figlio ribelle, il lucido sognatore, il filosofo malinconico, il critico spietato della modernità, il profeta rivoluzionario che, come un nuovo Isaia, aveva scelto di osservare il mondo dalla soglia del giudizio ultimo, trovasse un riscatto postumo a più di settant’anni dalla morte. Occhiali spessi, sguardo penetrante, espressione interrogativa: non c’è quasi dipartimento di Filosofia, dall’Argentina agli Stati Uniti, dalla Corea, al Giappone, all’Australia, in cui non si stagli la sua foto. Ben riconoscibile, è lui: Walter Benjamin.
La sua immagine è assurta a simbolo di un pensiero che resiste, che non si lascia soffocare nella vuota analitica, né rinchiudere negli steccati di una innocua ricostruzione storica, che non si adatta a diventare normativo, né tanto meno si piega a elogiare le fantomatiche libertà del progresso. Ecco perché nel nome di Benjamin si legge la promessa di una filosofia capace di essere filologicamente rigorosa e, al tempo stesso, aperta alla sperimentazione, in grado di descrivere i particolari apparentemente più irrilevanti, senza per questo rinunciare alle visioni ampie e ardite.
Ha contribuito al riscatto postumo di Benjamin l’uscita dei suoi scritti presso l’editore tedesco Suhrkamp. In Italia la pubblicazione delle Opere complete, avviata da Einaudi nel 2001, si è conclusa nel 2014. La disponibilità degli scritti di Benjamin, tradotti ormai in molte lingue, spiega l’aumento drastico degli studi, il profluvio di monografie, articoli, saggi critici. Il che, peraltro, non vuol dire che non vi siano motivi da scoprire. E in genere la ricerca, in fondo frammentaria, dovrà ancora trovare i nessi segreti che tengono insieme una filosofia più complessa di quanto si immagini, i legami, talvolta sfuggenti, tra i suoi molteplici aspetti. Risponde già a questa esigenza Walter Benjamin. Una biografia critica, di Howard Eiland e Michael W. Jennings (Einaudi).
Ma che cosa rende Benjamin così attuale nella sua dirompente inattualità? Perché i suoi scritti, talvolta brevi frammenti, aneddoti autobiografici, lettere, serbano un potenziale esplosivo? Al punto da indirizzare perfino la riflessione contemporanea? Certo, contribuisce il suo straordinario stile, la prosa costellata di immagini seducenti. Prediligendo i «passaggi», Benjamin ha dischiuso alla filosofia ambiti inconsueti: dai nuovi mezzi di comunicazione al cinema, dalla fotografia ai movimenti di avanguardia, dalla vita nevrotica nella metropoli all’esistenza degli esclusi, dalla letteratura per l’infanzia ai giocattoli, dal gioco d’azzardo all’esperienza dell’hashish, al viaggio. Quel che emerge, però, sempre più chiaramente, è che Benjamin, già molto presto, ha presagito gli esiti del capitalismo, ne ha scrutato i segreti, gli arcana reconditi.
Che un giorno la politica, scaduta a mera amministrazione, esercizio di governance , si sarebbe dissolta nell’economia, è un pensiero che Benjamin condivide con altri filosofi. Ma lui osa un passo ulteriore: quella forma economica, divenuta globale, si sarebbe rivelata per quello è: una religione. Non è forse il capitalismo una religione del debito?
Benjamin è stato il primo grande teologo dell’economia nella modernità. Non ha colto solo i legami strutturali fra teologia e politica, indagati negli stessi anni anche da Carl Schmitt. Né si è limitato a ricostruire la provenienza religiosa del capitalismo. Qui si misura, anzi, la sua distanza da Max Weber, che nel capitalismo aveva indicato l’esito dell’etica protestante.
Per Benjamin le cose stanno diversamente: il capitalismo non è una religione secolarizzata, bensì una religione in senso stretto. Perciò non se ne comprenderebbe la portata, il ruolo e il funzionamento, se non lo si considerasse come un fenomeno religioso. Questa è la tesi delineata nel suo ormai celebre frammento del 1921 Capitalismo come religione, la cui riscoperta ha dato avvio, negli ultimi anni, a una nuova riflessione sulla teologia economica. A prendervi parte sono filosofi non di rado anche distanti fra loro, da Peter Sloterdijk a Giorgio Agamben, da Slavoj Žižek a Thomas Macho, da Norbert Bolz a Roberto Esposito - per ricordarne solo alcuni. Il che conferma l’intuizione di Benjamin, che sembra assumere oggi ulteriore validità.
Esistono alternative? Non appare forse il capitalismo il nostro orizzonte ultimo e insuperabile? Questa società crede nel capitalismo, lo accetta come proprio ineluttabile destino. E come nel passato si pregavano gli dei, se ne indagava l’umore, se ne temeva il volere, così oggi una società dichiaratamente illuminata e secolare è pronta a offrire ogni sorta di sacrifici alle imponderabili potenze del mercato.
«Il capitalismo - scrive Benjamin nel suo testo sibillino - è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai stata data», dove il culto, che non sa né di teologia né di dogmatica, può contare su una «durata permanente». Non c’è tregua né perdono. La pompa sacrale del marketing, il rito del guadagno, il fasto del consumo, sono inarrestabili. Non si distingue più tra il giorno e la notte là dove il tempo è sempre e solo denaro. Il capitalismo è così un culto che ha annullato persino la settimana, perché richiede una celebrazione ossessiva. Apparentemente è sempre festa - e invece non lo è mai. Se il culto è ininterrotto, è grazie all’apoteosi del debito, Schuld, che nella sua «demoniaca ambiguità» in tedesco significa anche colpa. «Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non lascia espiare, ma colpevolizza indebitando».
Se Marx aveva visto nel debito pubblico il sigillo dell’era capitalistica, e in fondo il suo terribile lascito ai popoli, Benjamin presagisce l’indebitamento planetario. Non potrebbe essere diversamente per una religione, come il capitalismo, che non permette salvezza né redenzione. Sotto il cielo del capitale resta solo «disperazione cosmica». Perfino Dio sembra venir implicato nel gorgo di questa colpa, nella rovina di questo debito.
Pur evitando una «smisurata polemica universale», Benjamin punta l’indice contro il cristianesimo che si è mutato nei secoli, convertendosi in capitalismo. Ha ceduto cioè al paganesimo, quella tentazione che da sempre lo affligge - e Benjamin avvicina le icone delle banconote alle immagini sacre. Il capitalismo, questo nuovo paganesimo, è l’ordine in cui si stagliano fato e sventura nella circolarità violenta e ripetitiva del mito. Come interromperla?
Nietzsche, Freud, lo stesso Marx appaiono agli occhi di Benjamin i «gran sacerdoti» del culto capitalista, perché le loro teorie sono il prodotto di un potenziamento del capitalismo - non ne costituiscono la rottura. Il socialismo di Marx non è che l’erede diretto del capitalismo. È un socialismo che non conosce Umkehr, che non sa di «inversione», né di rivolta né di rivoluzione, e prosegue lungo il tragitto rettilineo truccato da progresso.
Ma Umkehr è la traduzione tedesca dell’ebraico teshuvà, ritorno - un tornare indietro per andare avanti, una con-versione che è una inversione di rotta, una interruzione. Marx, quel nipote di un rabbino, sembrava averlo dimenticato. E così Benjamin guarda a Gustav Landauer, l’ebreo anarchico, protagonista della Repubblica dei Consigli di Monaco, che aveva scritto: Sozialismus ist Umkehr , il socialismo è inversione, è cambiamento che spezza il «sempreuguale» della storia.
La polemica di Benjamin investe la socialdemocrazia, questa idolatria della modernizzazione, questa cattiva politica incapace - scrive in Strada a senso unico - di darsi scadenze. Nel suo afflato escatologico Benjamin guarda invece al limite estremo, lì dove si consumerà l’apocalissi ultima del capitalismo. Che sia sul modello dello «sciopero generale» di Sorel, o meglio, su quello dell’interruzione anarchica che si impone nel Giubileo ebraico, la rivoluzione va ripensata.
Marx aveva detto che le rivoluzioni sono le «locomotive» della storia. A questa celebre immagine Benjamin oppone nelle sue Tesi sul concetto di storia , scritte nel 1940, una figura speculare. «Forse le rivoluzioni sono il freno d’emergenza azionato dal genere umano che viaggia sul treno». La rivoluzione è una fenditura nella storia, è arresto, cesura, interruzione nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno della catastrofe. Si comprende allora la prossimità di questo «outsider di sinistra» - così Benjamin amava definirsi - alla fronda anarchica.
Come per Landauer, anche per Benjamin la «rivoluzione» non è solo un concetto politico. D’altronde la filigrana dei suoi scritti è un vocabolario teologico, il filo rosso è il messianismo ebraico. Perciò la rivoluzione non riguarda una salvezza dell’anima nell’aldilà, ma la liberazione nella giustizia sociale adesso, jetzt . Quanto al Messia, Benjamin non ha mai dimenticato quell’antico detto rabbinico: «Quando verrà, cambierà nello stato del mondo solo qualcosa di impercettibile, non lo trasformerà con la violenza, ma lo aggiusterà solo di pochissimo».
Il capitalismo, nella sua sacralità, appare non profanabile. Tentare, malgrado ciò, una profanazione? Non è la via d’uscita a cui pensa Benjamin. Non si deve infatti fraintendere: la critica al capitalismo non è una critica alla religione. E la sua teologia, che per quanto eretica resta teologia, attira sempre più l’attenzione degli interpreti per la sua portata sovversiva - come mostrano gli studi più recenti.
L’ateismo di massa si riduce per Benjamin alla ripetizione del culto capitalista, agevolato dalla perdita di ogni contenuto utopico. In tal senso questo «teologo trasferito in campo profano», come l’ha chiamato Scholem, è tra i primi a mettere sotto accusa il vuoto progresso che non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata. Il capitalismo è fra l’altro il culto di una emancipazione infelice. Così, accanto al benessere e alla libertà, Benjamin rivendica la felicità.
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Il personaggio
Filosofo e critico letterario, l’ebreo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) è una delle figure intellettuali più originali del Novecento. Esule a Parigi dopo l’avvento al potere di Hitler, si uccise in seguito all’invasione della Francia, temendo di cadere nelle mani dei nazisti
Bibliografia
L’editore Einaudi ha pubblicato tra il 2001 e il 2014 le Opere complete di Walter Benjamin in otto volumi, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Hellmut Riediger, Enrico Ganni, Rolf Tiedemann. Nel 2015 è uscito, sempre da Einaudi, il libro di Howard Eiland e Michael W. Jennings Walter Benjamin. Una biografia critica (traduzione di Alvise La Rocca, pp. 695, e 90). Da segnalare anche il volume di Uwe-Karsten Heye I Benjamin. Una famiglia tedesca (traduzione di Margherita Carbonaro, Sellerio, pp. 333, e 18). In Francia è uscito l’anno scorso il saggio di Stéphane Mosès Walter Benjamin et l’esprit de la modernité (Éditions du Cerf), mentre quest’anno uscirà negli Stati Uniti il volume Walter Benjamin and Theology , a cura di Colby Dickinson e Stéphane Symons (Fordham University Press)
Così il Cristianesimo salverà la borghesia
Per Mario Tronti il capitalismo ha omologato la società: solo la religione può arginare la volgarizzazione della vita
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 7.11.2015)
Se mezzo secolo fa, nel 1966, Operai e capitale fu sul piano ideologico il segnale d’inizio di una stagione di scontro sociale con al centro l’operaio-massa - una stagione in cui avvenne la più grande trasformazione sociale e politica attraversata dal nostro Paese - quest’ultimo libro di Mario Tronti (Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore) appare innanzi tutto il referto dell’esito di quello scontro: alla fine, tra gli operai e il capitale ha vinto il capitale (sebbene oggi in vesti assai diverse da quelle di ieri). O meglio, e per dirla con maggiore completezza, ha vinto quella che l’autore trascina sul banco degli accusati senza alcun tabù reverenziale: ha vinto la democrazia.
Con toni che suonano a metà tra Tocquevile (esplicitamente richiamato) e un radicalismo di sapore francofortese, Tronti descrive la democrazia come la tirannia del senso comune che concede la libertà di pensiero per meglio impedire un «pensiero di libertà», un regime nemico di ogni differenza perché in realtà animato dalla tendenza al più totale organicismo. Non a caso, dopo aver «fatto del popolo una borghesia, e non (come avrebbe dovuto) della borghesia un popolo, (...) essa è riuscita dove là dove è fallito il socialismo reale: ha creato l’uomo nuovo», il «borghese-massa».
Non solo, ma paradossalmente, mentre il socialismo reale, che in teoria doveva produrne l’estinzione, ha provocato di fatto la crescita esponenziale dello Stato, è proprio la democrazia, invece, che attraverso la progressiva spoliticizzazione della società sta lentamente realizzando l’antico obiettivo del marxismo. Certo, Tronti pure riconosce che è meglio avere diritti che non averne. Ma chi l’ha detto, osserva, che non essere democratico voglia dire per forza essere antidemocratico?
Al nostro autore evidentemente non sembra interessare molto il problema, forse non proprio trascurabile, che solo la democrazia, però, si è dimostrata capace storicamente di assicurare i diritti ora detti. La storia, del resto, è la grande assente di questo libro, il cui procedere, invece, si svolge per intero entro il recinto chiuso di una dozzina di «grandi pensatori» (per lo più filosofi) e dei loro sistemi concettuali chiamati a testimoniare del fallimento del Moderno e del Progresso, e dunque del fallimento del Novecento, «il secolo in cui tutto finisce». Nel quale il trionfo della Zivilisation sulla Kultur («qui sta il fondo della nostra sconfitta», si legge) annuncia una «devastazione spirituale» senza pari.
La storia dicevo è la grande assente: nella crisi del politico e nella vittoria della vituperanda democrazia qui lamentate nulla sembrano contare, ad esempio, cose come - enumero le prime che mi vengono alla mente - la sconfitta dell’Europa nel 1945, la sua nessuna tradizione culturale di tipo realmente liberale, il ruolo del Welfare State , la qualità delle nuove élite postbelliche e della loro cultura, lontana ormai anni luce dagli alti orizzonti umanistici d’un tempo. Tutto in queste pagine, infatti, sembra ridursi a una sorta di arena metafisica in cui si affrontano in singolar tenzone il Movimento Operaio, il Moderno, il Politico, il Capitalismo e quant’altro, astratti da ogni loro specificità storica, cioè da ogni loro concreta e vivente realtà.
«Stiamo dentro una storia nemica» scrive Tronti, con un pessimismo culturale davvero molto novecentesco. Una conclusione che nella sua prospettiva si spiega, innanzitutto, con la sconfitta della Rivoluzione: a cominciare da quella del 1917, la rivoluzione per antonomasia, la cui presenza da sola, si dice, segnerebbe comunque positivamente il Novecento rispetto al nostro tempo.
È a questo proposito soprattutto che l’indifferenza per la storia, per la storia vera, rischia di divenire accecamento: che cosa s’intende per rivoluzione? In che senso quella russa lo fu? E quando e perché smise di esserlo o «fallì»? E per fare un esempio: i massacri di migliaia di ostaggi (non controrivoluzionari: ostaggi) ordinati da Lenin, o le camere di tortura della Ceka, erano la rivoluzione? O in che rapporto erano con essa?
Sono domande e questioni che l’autore non si cura neppure di porsi, perduto com’egli è dietro una raffigurazione mitica del Movimento Operaio quale agente della Storia Universale. Agente che viene presunto tuttora all’opera (magari a dispetto dell’esistenza degli operai veri) e comunque senza prendere mai nella minima considerazione l’ipotesi che forse il suddetto Movimento, più che esistere in quanto tale, spesso sia consistito in qualcuno che credeva di parlare e agire in nome e per conto del medesimo. (Ma non a caso: infatti l’idea che il Novecento possa, anzi debba, essere necessariamente letto anche in chiave di rapporti massa/élite è un’idea che Tronti non si pone mai neppure come ipotesi).
Ci si chiederà a questo punto, perché mai occuparsi di un libro così pieno di contraddizioni. Perché si tratta a suo modo, io credo, di un libro che ha il valore di un sintomo. Il sintomo di un fuoco che cova sotto la cenere, di un’insofferenza che sta crescendo nelle società secolarizzate dell’Occidente per un modello di vita che, enfatizzando all’estremo tutti gli aspetti materiali dell’esistenza, facendo dell’economia e delle sue compatibilità un metro pressoché assoluto, relegando nell’insignificanza le grandi domande di senso, infligge quotidianamente ferite profonde a quella sostanza umana che ancora è la nostra. Ferite tanto più profonde in quanto non sembrano aver diritto ad alcuna adeguata rappresentazione pubblica.
Certamente ha il forte valore di un sintomo la direzione verso cui Tronti spinge la sua ricerca di una possibile alternativa. Verso la lotta, verso la speranza rivoluzionaria, com’è ovvio: in una parola verso la politica. Ma - e sta qui la parte a mio giudizio più nuova e interessante del libro - verso una politica che si dimostri capace di accettare come sua parte essenziale la spiritualità. La spiritualità oggi, infatti, si presenterebbe come l’unico argine possibile alla «crescente volgarizzazione della vita»; di più: essa costituirebbe la sostanza per eccellenza di un vero e proprio «linguaggio della crisi». Dove alla fine spiritualità significa null’altro che la religione, e per essere più chiari il Cristianesimo.
La contrapposizione tra l’orizzonte cristiano e il comunismo, si legge, «è stata una sciagura per la modernità: una differenza è stata trasformata in una incompatibilità»; e la colpa è stata del comunismo stesso, il quale invece di scegliere Feuerbach - come esso ha fatto seguendo Marx (il cui vero e massimo errore fu secondo Tronti quello di prevedere per l’appunto la fine della religione) - avrebbe piuttosto dovuto scegliere Kierkegaard. Sta di fatto che la libertà dal potere promessa dai liberali, leggiamo, non porterà mai alla libertà dello spirito, e dunque non sarà mai «vera libertà umana». Solo la libertà del cristiano è, sì, «libertà dei moderni rispetto a quella degli antichi, ma, nel Moderno, è libertà radicale, dirompente degli equilibri dati, sovversiva dell’ordine costituito, libertà liberante l’umanità fin qui oppressa».
Poco varrebbe obiettare che la «liberazione» cristiana o la metanoia predicata dal Vangelo sono di una sostanza fondamentalmente diversa dalle rotture richieste dal Comunismo. Ciò che importa agli occhi di Tronti è che Cristianesimo e Rivoluzione abbiano un’identica sostanza di «follia», com’egli scrive - a quella cristiana della morte di Dio per la resurrezione dell’uomo corrispondendo la «follia» dell’abbattimento del dominio per la liberazione umana. Due follie non integrabili dall’omologazione democratico-capitalistica, e che per questo si contrappongono radicalmente al «buon senso borghese progressista» a cui oggi si è ridotta la Sinistra.
Sarebbe facile concludere ironizzando sul comunismo che, cacciato dal mondo, si rifugia in sacrestia. Troppo facile, ma soprattutto sbagliato. Infatti - a parte le perduranti ingenuità della mitografia leninista, a parte tutte le ormai francamente insopportabili supponenze «rivoluzionarie» che le costellano - le pagine di Tronti esprimono al fondo, come ho già detto, qualcosa di profondamente vero: un disagio, un malessere, che ormai appaiono i tratti di un’intera fase storica. Quella che stiamo vivendo.
Sopra le nostre società, infatti, la democrazia sembra avere steso una cappa di grigio buon senso, sembra ormai identificarsi con l’assenza di speranze, di ideali e di progetti forti, con una sorta di narcosi della mente e dello spirito che troppo spesso ci impedisce di vedere il male e l’ingiustizia che sono tra noi, e di chiamarli con il loro nome. Ma una fase storica che, proprio per questo, forse prepara un’inaspettata ripresa del pensiero antagonista, della divisione e dell’opposizione politiche oggi spente. E insieme prepara, forse, un ruolo nuovamente attivo del Cristianesimo sul piano sociale, una sua rinnovata capacità di richiamo. La storia non è finita, ogni partita può essere sempre riaperta.
Ben venga allora chiunque ci riporti a pensare tutto questo: anche se mostra di credere tuttora a fallite utopie dei cui misfatti è solito disfarsi con un po’ troppa facilità, chiamandoli pudicamente «fallimenti».
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Politico e filosofo, senatore e docente ha fondato i «Quaderni rossi» *
Mario Tronti (Roma, 1931) filosofo e politico, è senatore del Pd (era già entrato a Palazzo Madama nel 1992 con il Pds) e presidente della Fondazione Centro per la riforma dello Stato. Considerato il padre dell’operaismo italiano, ha insegnato per trent’anni Filosofia politica all’Università di Siena. Militante del Partito Comunista durante gli anni Cinquanta, con Raniero Panzieri è stato tra i fondatori della rivista «Quaderni Rossi», da cui si separò nel 1963 per fondare e dirigere la rivista «Classe operaia». Operai e capitale, il suo libro del 1966 (Einaudi), ha profondamente influenzato la contestazione giovanile ed è stato inserito tra le 2.250 opere del Dizionario delle opere della Letteratura Italiana Einaudi .
* Corriere della Sera, 07.11.2015
Mario Tronti.
Una battaglia «messianica»
«Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica» di Mario Tronti. Un pamphlet che raccoglie quattro lezioni tenute a Napoli, ragionando su Schmitt, Benjamin e Edgar Allan Poe
di Francesco Marchianò (il manifesto, 15.01.2016)
Cambiare il corso della Storia: istruzioni per l’uso. Potrebbe chiamarsi così un recente pamphlet di Mario Tronti pubblicato da Castelvecchi che raccoglie quattro sue lezioni tenute presso l’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli nel marzo del 2010. Certo, un titolo del genere suonerebbe oltremodo ambizioso e presuntuoso, specialmente per un volume di poche pagine, eppure è al fondo questo l’obiettivo politico e intellettuale insieme di questo lavoro (Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi, pp. 60, euro 7,50).
L’interrogativo, va da sé, è come riuscire a cambiare la Storia, con quali strumenti, con quali modalità. Perché ciò accada, occorre qualcosa che vada di traverso al meccanismo negli avvenimenti e ne modifichi il corso. Ci vuole, cioè, la politica che per Tronti «è un comportamento di pensiero e di azione scorretto rispetto alla Storia: perché si contrappone ad essa, non accetta il suo corso e si propone di deviarlo». Il problema è che oggi si assiste a una forte crisi della politica, o per lo meno di come si è sviluppata lungo tutto il corso del novecento, e per scrutare meglio questa crisi e risolverla è necessario l’apporto che viene dalla teologia politica, «indispensabile strumento ermeneutico del Novecento», sia come metodo per interpretare il potere, sia come strumento per rovesciarlo.
Al centro di questo ragionamento ci sono tre autori, Carl Schmitt, coniatore della teologia politica (al quale sono dedicate due lezione), Walter Benjamin e Jacon Taubes. I loro contributi sul tema sono intrecciati da Mario Tronti secondo uno schema ben preciso che partendo dall’alto, cioè dalla teoria schmittiana, che esalta il sovrano decisore e individua il potere come ordine, arriva alla teologia politica dal basso, vista come strumento delle classi dominate per liberarsi dal potere dei dominanti.
Il passaggio teorico più importante è particolarmente influenzato dal Benjamin delle Tesi sul concetto di storia. E non ha caso è proprio dalla prima tesi di Benjamin che Tronti prende spunto per il titolo al volumetto, quando, ispirato da un racconto di Edgar Allan Poe, il pensatore tedesco parla di un automa che giocava a scacchi e aveva sempre la mossa giusta perché al suo interno si celava un nano gobbo (la teologia) che ne manovrava il funzionamento.
Tronti, che è stato tra i primi in Italia a leggere da sinistra Schmitt, ne sintetizza il pensiero recuperando, come fa il giurista tedesco, la lezione di De Maistre e ancor più Donoso Cortés. La sua preoccupazione principale di fronte alla politica attuale è la stessa che aveva Schmitt nei primi decenni del Novecento. Allora, con parole quasi profetiche, Schmitt registrava la spoliticizzazione della politica a causa dell’imporsi del pensiero tecnico-economico. Oggi, la globalizzazione dei mercati, la finanziarizzazione dell’economia, la vittoria del tecnico sul politico, ben sintetizzata dall’ideologia dell’austerity, ripropongono le stesse problematiche e la stessa esigenza della politica per risolvere la crisi.
Allora, di fronte all’impotenza della Repubblica di Weimar, la soluzione fu trovata nel grande decisore che Schmitt vide, per alcuni anni, nel partito nazista. Oggi, invece, per Tronti, la soluzione va trovata altrove e certamente non è sufficiente per la sua ricerca il materialismo storico che, fondato anch’esso sull’importanza dell’economico, resta all’interno dell’ordine costituito. Qui gli viene in aiuto Benjamin con la sua visione messianica della Storia nella quale si apre la prospettiva di una vittoria per gli oppressi. L’avvento del Messia, infatti, è un elemento esterno alla Storia che ne scompagina le carte, che non appartiene a essa, non è un suo fine, semmai ne determina la fine.
Il Messia ha il compito di redimere chi è oppresso e, facendo ciò, «disordina l’ordine degli oppressori». Per riuscire in questa impresa, però, deve portare a termine un altro obiettivo: sconfiggere l’Anticristo, cioè l’ordine costituito. Per questa ragione il messianico porta con sé sempre l’elemento della lotta ed è, in quest’ottica, una componente rivoluzionaria. Volendo, con prudenza, semplificare si potrebbe dire che una rivoluzione che modifichi il corso degli eventi non si fa da sé, per ragioni storiche, ma solo se interviene qualcosa di esterno a compiere e guidare il mutamento.
Nelle pagine finali del libro compare la teologia di Paolo di Tarso interpretata da Taubes che per Tronti va collocato tra Schmitt e Benjamin. La lezione che viene tratta è la seguente: «nell’attualità nemica, nel qui e ora, tutto in mano agli oppressori, nel processo oggettivo della Storia che accompagna e conferma l’oppressione, è necessario andare a trovare quel “volto interno”, quel nocciolo irriducibile che testimonia, cioè che salva, la libertà dei figli di Dio». Questa è la lezione declinata in senso paolino. In senso politico, invece, ciò si traduce in una possibilità rivoluzionaria che elimini l’oppressione e porti a compimento «il progetto antico della liberazione».
Pur nella sua brevità, Il nano e il manchino è un testo che richiede una buona dose di impegno da parte del lettore. L’ampio spazio dato agli autori trattati, dei quali sono citati molti brani, non impedisce di cogliere l’originalità trontiana del volume nel quale la teologia politica è seguita come un’ombra dal tema dell’autonomia del politico. Entrambe non dipendenti dalle leggi della Storia e anzi orientate alla lotta contro di essa.
Mario Tronti
Il marxista eretico libero come un monaco
di Enzo Bianchi, priore di Bose (La Stampa/TuttoLibri, 05.09.2015)
«Dire chiaro il complesso». E questo a partire da tanti «frammenti di vita e di pensiero» perché ormai la realtà appare sempre più esplosa in mille pezzi e ricomporla richiede sì la pazienza del mosaicista (o dell’appassionato di puzzle), ma richiede anche avere le idee chiare sull’insieme che si vuole ricomporre. Mario Tronti nel suo Dello spirito libero (Il Saggiatore) si cimenta nell’impresa di «dare al pensiero difficile uno stile facile» e, per ricostruire concettualmente le vicende del Novecento, usa un linguaggio dai molteplici livelli: la dimensione autobiografica è stemperata in un inseguirsi di metafore, rimandi e citazioni ad autori di ogni epoca e cultura, a sostegno di quella che potremmo chiamare un’apologia del «secolo breve» e delle sue categorie che aiutano a capire anche ciò che è accaduto dopo e che si prepara per il nostro futuro.
Tronti è stato definito «marxista eretico», ma direi che è stato e resta soprattutto un appassionato di utopie cui, paradossalmente e tenacemente, trovare un posto nella storia. Così forse si spiega anche il suo rapporto empatico con i tentativi mai realizzati di vivere il radicalismo evangelico, in particolare attraverso la forma antica e sempre nuova dei padri del deserto e del monachesimo: del resto il suo desiderio di andare in profondità per ritrovare nel pensiero e nell’azione un’unità perduta ricorda molto da vicino il faticoso cammino di semplificazione, di unificazione interiore che il monaco combatte ogni giorno.
Così non mi sorprende ritrovare nelle pagine di Tronti un detto di abba Antonio da me sovente citato: «Viene un giorno in cui tutti gli uomini impazziranno e, vedendo uno che non è pazzo, lo assaliranno dicendogli: “Sei pazzo”, per il solo fatto che non è come loro». È per questa sintonia di lucida controcultura che volli chiamarlo a Bose a parlare delle criticità intrinseche dell’euro ben prima che la moneta unica venisse adottata; è per il suo piglio di rigoroso osservatore dei fenomeni umani implicati in ogni scelta economica e politica che volli affidare a lui una sapiente postfazione alla raccolta di testi patristici che Qiqajon dedicò a Povertà e condivisione nella chiesa; è per questa passione di Tronti per l’umano che il lettore si sentirà chiamato a esporsi in prima persona nel ripercorrerne le pagine ricche di vita e di pensiero.
Mario Tronti è un uomo che da sempre pensa quello che dice e dice quello che pensa - accoppiata quanto mai rara e preziosa - un militante anomalo che ha combattuto e combatte non nemici personali ma un insieme che cosidera letale per l’umanità: «una realtà nemica [che nel libro è] individuata sin dall’inizio: il Moderno occupato dal capitalismo, storia che ha portato al fallimento del progetto moderno». Di fronte a tutte le sconfitte che Tronti ha sperimentato e che rievoca con indomita fierezza verrebbe da chiedersi se ne valeva la pena. E la risposta, ancora una volta, è solo quella di Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola!».
intervista di Antonio Gnoli (la Repubblica, 28.09.2014)
SOTTO la suola delle sue scarpe è ancora riconoscibile il fango della storia. «È tutto ciò che resta. Miscuglio di paglia e sterco con cui ci siamo illusi di erigere cattedrali al sogno operaio ». Ecco un uomo, mi dico, intriso di una coerenza che sfonda in una malinconia senza sbavature. È Mario Tronti, il più illustre tra i teorici dell’operaismo. Ha da poco finito di scrivere un libro su ciò che è stato il suo pensiero, come si è trasformato e ciò che è oggi. Non so chi lo pubblicherà (mi auguro un buon editore). Vi leggo una profonda disperazione. Come un diario di sconfitte scandito sulla lunga agonia del passato che non passa mai del tutto, che non muore definitivamente. Ma che non serve più. «Sono gli altri che ti tengono in vita», dice ironico. Quando la vita, magari, richiede altre prove, altre scelte. Forse è per questo, si lascia sfuggire, che ha cercato un diversivo nella pratica del Tai Chi: «I gesti di quella tecnica orientale rivelano, nella loro lentezza, un’armonia segreta. Tutto si concentra nel respiro. L’ho praticato per un po’. Con curiosità e attenzione. Ma alla fine mi sentivo inadatto. Fuori posto. L’Oriente esige una mente capace di creare il vuoto. La mia vive di tutto il pieno che ho accumulato nel tempo».
Come è nata la curiosità per il Tai Chi?
«Grazie a mia figlia che ama e pratica la cultura orientale. Avrebbe voluto farsi monaca, poi ha scelto con la stessa profonda coerenza quel mondo che io ho solo sfiorato».
E come ha vissuto quella decisione familiare?
«Con il rispetto che occorre in tutte le cose che ci riguardano e ci toccano da vicino».
C’è un elemento di imprevedibilità nei figli?
«C’è sempre: negli individui, come nella storia».
Si aspettava che la storia - la sua intendo - sarebbe finita così?
«Ci si aspetta sempre il meglio. Poi giungono le verifiche. Sbattere contro i fatti senza l’airbag può far male. Sono stato comunista, marxista, operaista. Qualcosa è caduto. Qualcosa è rimasto. Ho capito e applicato la lezione del realismo politico: non si può prescindere dai fatti».
E i fatti parlano oggi di una grande crisi.
«Grande e lunga. Ci riguarda, a livelli diversi, un po’ tutti. Dura da almeno sette anni e non c’è nessuno in grado di dire come se ne uscirà. Viviamo un tempo senza epoca».
Cosa vuol dire?
«C’è il nostro tempo, manca però l’epoca: quella fase che si solleva e rimane per il futuro. La storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, le banalità».
L’epoca è il tempo accelerato con il pensiero.
«Non solo. È il tempo che fa passi da gigante. Si verifica quando accadono cose che trasformano visibilmente i nostri mondi vitali».
Nostalgia delle rivoluzioni?
«No, semmai del Novecento che fu anche il secolo delle rivoluzioni. Ma non solo. Dove sono il grande pensiero, la grande letteratura, la grande politica, la grande arte? Non vedo più nulla di ciò che la prima parte del Novecento ha prodotto».
Quando termina l’esplosione di creatività?
«Negli anni Sessanta».
I suoi anni d’oro.
«Ironie della storia. C’è stato un grande Novecento e un piccolo Novecento fatto di una coscienza che non è più in grado di riflettere su di sé».
È un addio all’idea di progresso?
«Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima».
Fu una delle fedi incrollabili del marxismo.
«Fu la falsa sicurezza di pensare che la sconfitta fosse solo un episodio. Perché intanto, si pensava, la storia è dalla nostra parte».
E invece?
«Si è visto come è andata, no?».
Si sente sconfitto o fallito?
«Sono uno sconfitto, non un vinto. Le vittorie non sono mai definitive. Però abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del ‘900».
E chi ha prevalso?
«Il capitalismo. Ma senza più lotta di classe, senza avversario, ha smarrito la vitalità. È diventato qualcosa di mostruoso».
Si riconosce una certa dose di superbia intellettuale?
«La riconosco, ma non è poi una così brutta cosa. La superbia offre lucidità, distacco, forza di intervento sulle cose. Meglio comunque della rinuncia a capire. In tutto questo gran casino vorrei salvare il punto di vista ».
Il punto di vista?
«Sì, non riesco a mettermi sul piano dell’interesse generale. Sono stato e resto un pensatore di parte».
Quando ha scoperto la sua parte?
«Ero giovanissimo. Alcuni l’attribuiscono al mio operaismo degli anni Sessanta. Vedo in giro anche degli studi che descrivono il mio percorso».
In un libro di Franco Milanesi su di lei - non a caso intitolato Nel Novecento ( ed. Mimesis) - si descrive il suo pensiero. Quando nasce?
«Ancor prima dell’operaismo sono stato comunista. Un padre stalinista, una famiglia allargata, il mondo della buona periferia urbana. Sono le mie radici».
In quale quartiere di Roma è nato?
«Ostiense che era un po’ Testaccio. Ricordo i mercati generali. I cassisti che vi lavoravano. Non era classe operaia, ma popolo. Sono dentro quella storia lì. Poi è arrivata la riflessione intellettuale».
Chi sono stati i referenti? Chi le ha aperto, come si dice, gli occhi?
«Dico spesso: noi siamo una generazione senza maestri ».
Lei è stato, a suo modo, un maestro.
«Trova?».
Operai e capitale , il suo libro più noto, ha avuto un’influenza molto grande. Lo pubblicò Einaudi.
Cosa ricorda?
«Fu un caso fortunoso. Non avevo rapporti con la casa editrice torinese. Mi venne in mente di inviare il manoscritto senza immaginare nessuna accoglienza positiva. So che ci fu una grossa discussione e molti dissensi tra cui, fortissimo, quello di Bobbio».
Era prevedibile.
«Assolutamente, viste le posizioni. A quel punto scrissi direttamente a Giulio Einaudi spiegando quale fosse il senso del mio libro».
E lui?
«Lo comprese pienamente. Contro il parere di quasi tutta la redazione si impuntò e il libro venne pubblicato. L’edizione andò rapidamente esaurita. Era il 1966. Avevo 35 anni. Quel testo, poi rivisto con l’aggiunta di un poscritto, ancora oggi gira per il mondo».
Ne è soddisfatto?
«È un libro nel quale sono tutt’ora rimasto intrappolato. Per la gente rimango ancora quella roba lì. È difficile far capire che, nel frattempo, sono cambiato. Pensano che sia restato l’operaista di una volta».
Non è così?
«L’operaismo per me ricoprì una stagione brevissima. Poi è iniziata quella, maledetta da tutti, dell’autonomia del politico».
Maledetta perché?
«Mi resi ostile anche alle generazioni post-operaiste ».
Allude al Sessantotto?
«Lì ha inizio il piccolo Novecento. Dove è cominciata la deriva».
Fu un grande equivoco?
«Ammettiamolo: fu un fatto generazionale, antipatriarcale e libertario. Non sono mai stato un libertario».
Dove ha fallito il ‘68?
«C’è stata una doppia strada, entrambe sbagliate. Da un lato si è radicalizzato in modo inutile e perdente giungendo al terrorismo. Per me che sono appassionato del tragico nella storia lì ho visto l’inutilità e l’insensatezza della tragedia».
E dall’altro?
«Alla fine il ‘68 fu il grande ricambio della classe dirigente. La corsa a imbucarsi nell’establishment».
Niente male come ironia della storia.
«Sono i suoi paradossi e le sue imprevedibilità».
E il mito della classe operaia? La “rude razza pagana” come disse e scrisse.
«Non era certo quella che noi pensavamo. Gli operai volevano l’aumento salariale, mica la rivoluzione. Fu una delle ragioni che mi spinsero a scoprire le virtù del realismo politico».
Fu un addio alle illusioni?
«Vedevamo rosso. Ma non era il rosso dell’alba, bensì quello del tramonto».
Dove si colloca lo “sconfitto” Mario Tronti?
«Sono un uomo fuori da questo tempo. Ho sempre condiviso la tesi del vecchio Hegel che un uomo somiglia più al proprio tempo che al proprio padre. Il mio tempo è stato il mondo di ieri: il Novecento. Che comunque non sarà mai la casa di riposo per anime belle ».
Con quale riverbero affettivo lo ricorda?
«La mia tonalità è oggi quella di una serena disperazione. Forse per questo motivo non vado quasi mai a incontri pubblici. È troppo patetico andare in giro per parlare di quel mondo. E poi, dico la verità, la sua fine non è all’altezza della sua storia. Non c’è niente di tragico ».
Lei è passato dall’operaismo a Machiavelli e Hobbes e ora alla teologia politica, ai profeti, alla figura di Paolo.
«Se me lo avessero pronosticato trent’anni fa non ci avrei creduto. Però, vede, Paolo è stato il grande politico del cristianesimo. Nelle sue Lettere c’è il Che fare? di Lenin. Guardo molto alla dimensione cattolica, al suo aspetto istituzionale. C’è forza e lunga durata».
L’accusano di flirtare un po’ troppo con il pensiero reazionario.
«Dal punto di vista intellettuale trovo molto stimolante l’orizzonte che comprende figure come Taubes, Warburg, Benjamin, Kojève, Rosenzweig. Una costellazione anomala e irriferibile alla tradizione ortodossa. Uomini postumi».
Lo chiamerebbe eclettismo?
«Non lo è. Prendo quello che mi serve. La mia bussola mentale è molto spregiudicata. Mi chiedeva del pensiero reazionario. Ebbene, non rinuncio ai filosofi della restaurazione se mi fanno capire la rivoluzione francese molto più degli illuministi».
Si sente ancora un uomo di sinistra?
«È una bella contraddizione, me ne rendo conto. Ma come potrei essere di sinistra con il pessimismo antropologico che ricavo dal mio realismo? Dichiararsi illuministi, storicisti, positivisti - come fa in qualche modo la sinistra - è illudersi che i problemi che abbiamo di fronte siano semplici».
Dove si collocherebbe oggi?
«Dalla parte sconfitta. In un senso benjaminiano. Ha presente la figura dell’Angelo? Egli guarda indietro con le ali che si impigliano nella tempesta».
È una bella immagine. Fa pensare al Dio terribile e inclemente della Bibbia. Lei in cosa crede o ha creduto?
«A chi divide il mondo fra credenti e non, rispondo che non sono né l’una cosa né l’altra. Sto, per così dire, su di una specie di confine che ha ben descritto Simone Weil: non attraversare, ma non tornare neppure indietro. Al tempo stesso, penso che il “legno storto” dell’umano per sopravvivere abbia bisogno di qualche forma di fede».
E lei l’ha incontrata?
«In un certo senso sono stato credente anch’io. Ho creduto che si poteva abbattere il capitalismo, fare il socialismo e poi il comunismo. Niente di tutto questo aveva la benché minima parvenza scientifica».
Non è rimasto niente di quella fede?
«Sono più cauto. Avverto molto chiaramente il nesso tra realismo e passione. Il realismo da solo è opportunismo, puro adattamento alla realtà. Per correggere questa visione occorre una forma di passione».
Viviamo il tempo delle passioni tristi e spente.
«Tristi, certamente. Ma non spente del tutto. Il guaio è che oggi la storia non si controlla».
Ossia?
«La fase è molto confusa. Ogni cosa va per conto proprio. Agli inizi del ‘900 si parlava della grande crisi della modernità. Poi questa è arrivata. E ora che ci siamo dentro fino al collo non sappiamo in che direzione andare. È lo stallo. Si guarda senza vedere realmente».
Le sue preoccupazioni sembrano quelle di un uomo superato.
«In un certo senso è così. Ma non mi preoccupo. Perché dovrei? Ricordo certi vecchi che in prossimità della morte dicevano: purtroppo me ne devo andare. Mio padre credeva in un mondo migliore. Avrebbe voluto vederlo. Beato lui. Io dico ai giovani: meno male che non ho la vostra età. E sono contento che tra un po’ non vedrò più questo mondo. Questo dico».
Non si aspetta altro?
«Il futuro è tutto catturato nel presente. Non è possibile immaginare niente che non sia la continuazione del nostro oggi. Questo è l’eterno presente di cui si parla. E allora ben lieto di essere superato. Mi consola sapere che chi corre non pensa. Pensa solo chi cammina».
Walter Benjamin. Aria Fresca
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 13.11.2011)
A meno di non essere folli, o criminali, nessuno si augurerebbe la distruzione di un paese, di un individuo, di una società. Ma ci sono momenti della storia in cui assistiamo alla rottamazione di pezzi di mondo, al loro lento o rapido disgregarsi. Un’economia che frana, una classe politica che sparisce, un partito che implode, una verità indiscussa che si cancella. Improvvisamente ci troviamo sulla soglia di un nuovo di cui, tuttavia, sappiamo ben poco.
Ottant’anni fa, Walter Benjamin in un succinto articolo, dal titolo eloquente "Il carattere distruttivo" (ora in Scritti politici degli Editori Internazionali Riuniti), scriveva che "Il carattere distruttivo conosce una sola parola d’ordine: fare spazio; una sola attività: sgombrare. Il suo bisogno di aria fresca e di spazio libero è più forte di ogni odio".
Ecco. Ci sono momenti in cui occorre aprire strade, farsi largo tra le macerie (anche tra quelle mentali), sospettare che dal vecchio non arrivi sempre la saggezza ma l’impotenza, non l’esperienza ma la rigidità, non l’altruismo ma l’egoismo. Siamo un paese intasato. E alla fine di un ciclo, se non proprio di un’epoca. L’idea benjaminiana di fare spazio giunge a proposito.