Violenze anticristiane in Malesia a proposito dell’uso del nome di
“Allah”
di Stéphanie Le Bars (con Reuters)
Le Monde del 12 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Si può considerare la parola araba “Allah” un’esclusività musulmana? Questa domanda apparentemente semantica suscita in Malesia, dall’inizio del 2010, delle tensioni interreligiose, che hanno indotto il governo ad intervenire nel dibattito.
Domenica 10 gennaio quattro chiese e un convento sono stati bersagli di attacchi e danneggiamenti. Già nella notte tra giovedì e venerdì tre luoghi di culto (due protestanti e uno cattolico) erano stati presi di mira da bombe incendiarie. E, all’uscita dalla grande preghiera del venerdì, diverse centinaia di musulmani avevano manifestato la loro opposizione all’utilizzo del termine “Allah” da parte dei cristiani.
Queste violenze sono legate alla polemica sull’uso della parola “Allah” da parte di non musulmani. La disputa è esplosa il 31 dicembre 2009, data nella quale l’Alta Corte della Malesia ha autorizzato un giornale cattolico, Herald-The catholic Weekly, edito in quattro lingue e con una tiratura di 14000 copie, ad usare questa parola per designare Dio.
Il giornale utilizza il termine “Allah” nella sua edizione destinata ai fedeli di lingua malese dell’isola di Borneo. Questo paese di 28 milioni di abitanti, in maggioranza musulmano e malese - il 60% della popolazione - conta anche una forte minoranza di cristiani (9% della popolazione, di cui 850 000 cattolici), di buddisti e di induisti, di origine cinese e indiana. La costituzione vi garantisce la libertà di culto.
Mentre nella maggior parte dei paesi di lingua araba la parola “Allah” designa sia la parola “dio” sia il Dio dell’islam, ed è utilizzato dai non musulmani, i musulmani malesi hanno ritenute che l’uso di questo termine da parte dei cristiani fosse suscettibile di creare confusione e di favorire il proselitismo. “Allah appartiene solo a noi”, scandivano dei fedeli all’uscita dalle moschee di Kuala Lampur, venerdì.
Di fronte al rischio di scontri tra comunità, il governo ha presentato appello contro la decisione della Corte e ottenuto, il 6 gennaio, la sospensione dell’autorizzazione concessa ai cristiani dall’Alta Giurisdizione. “Si tratta di una faccenda di interesse nazionale”, ha detto il procuratore generale per giustificare questa sospensione.
Nel suo appello, il governo del primo ministro, Najib Razak, al potere dall’aprile 2008, ha fatto riferimento ad una decisione dell’Alto Consiglio nazionale della fatwa del 2008, che statuiva che la parola “Allah” potesse essere utilizzata solo dai musulmani.
Dei membri dell’opposizione, in particolare il Pan-Malaysian Islamic Party, hanno accusato il partito al potere, l’Organizzazione nazionale malese unita (UMNO), di cercare di politicizzare l’argomento. Il primo ministro ha condannato gli attacchi di venerdì contro le Chiese e ha annunciato il rafforzamento della sicurezza attorno ai luoghi di culto cristiani. Sabato si è recato in una chiesa che aveva subito danneggiamenti. “L’islam ci proibisce di insultare o di distruggere tutte le altre religioni, sia fisicamente che attaccando i luoghi di culto”, ha dichiarato. Il suo appello alla calma evidentemente non è stato ascoltato.
Eletta con la più bassa percentuale della sua storia nel 2008, la coalizione è al potere da 52 anni. Le minoranze etniche e religiose denunciano regolarmente l’islamizzazione della società e le discriminazioni sociali di cui si dicono vittime. Padre Lawrence Andrew, direttore del giornale cattolico al centro di questa polemica, ha dichiarato venerdì che, anche se non c’era “pericolo immediato”, la situazione restava “preoccupante”.
In Vaticano, Monsignor Robert Sarah, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ha espresso la sua inquietudine a Radio Vaticano: “Penso che esista realmente una volontà di annientare i cristiani, di ignorarli, di rifiutare di ammettere che hanno una fede in Dio. Il fatto che sia loro proibito pronunciare il nome di Dio equivale a considerarli dei pagani che quindi devono essere convertiti all’islam.”
di Aldo Maria Valli (Europa, 12 gennaio 2010)
Quando il papa si rivolge agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede (che sono diventati 178, numero record) tocca moltissimi temi perché getta uno sguardo sull’intera situazione internazionale, ma quest’anno c’è stato un filo conduttore preciso.
Secondo Benedetto XVI il vero cancro che sta all’origine di tanti drammi è l’egoismo umano, che nasce dalla negazione di Dio e si manifesta soprattutto sotto forma di uno sfruttamento cieco e autodistruttivo, tanto verso l’ambiente naturale quanto nei confronti di altri esseri umani. Riprendendo i temi al centro del messaggio per la giornata mondiale della pace il papa sostiene che dopo il sostanziale fallimento della conferenza di Copenhagen il mondo deve interrogarsi sui motivi profondi del degrado ambientale.
La salvaguardia del creato non nasce da un’esigenza estetica, ma da un bisogno morale, «perché la natura esprime un disegno d’amore e di verità che ci precede e che viene da Dio». E se non rispetta questo disegno tutto viene compromesso.
L’esempio concreto, dice Benedetto, è fornito dai regimi comunisti. Dopo la caduta del muro di Berlino, quando il materialismo ateo si sgretolò, si vide che un sistema privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo distrugge non solo la dignità e la libertà delle persone ma anche la natura, attraverso l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria. Verso gli appuntamenti di Bonn e di Città del Messico, quando i temi dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale saranno di nuovo affrontati dalla comunità internazionale, è importante tener conto di questo livello morale del problema. La necessità urgente è quella di adottare scelte politiche ed economiche in grado di assicurare forme di produzione rispettose dell’ordine della creazione e motivate da obiettivi di giustizia sociale. Lo si vede bene in Africa, dove gli squilibri determinati dalla lotta per l’accesso alle risorse naturali sono causa di conflitti le cui conseguenze sono devastanti per le fasce più deboli delle popolazioni.
Nella visione del papa la difesa dell’ambiente non è mai separabile da quella della vita umana, e a questo proposito Benedetto ribadisce il no alle politiche demografiche che prevedono la limitazione delle nascite, anche attraverso l’aborto. Il senso di responsabilità verso il creato si manifesta prima di tutto nel rispetto che la persona umana nutre verso se stessa.
Tra le tante sfide elencate dal papa, in primo piano la necessità di invertire la tendenza nella corsa agli armamenti e allo sviluppo degli arsenali nucleari. Nel prossimo maggio a New York è in programma la conferenza per l’esame del trattato di non proliferazione, e il papa chiede «decisioni efficaci in vista di un progressivo disarmo, che porti a liberare il pianeta dalle armi nucleari». E qui la denuncia di Benedetto è senza mezzi termini quando, con lo sguardo rivolto in particolare a Somalia, Darfur e Repubblica democratica del Congo, parla di «incapacità delle parti» nel sottrarsi alla spirale della violenza ma anche di «impotenza» degli altri paesi e delle organizzazioni internazionali e di «indifferenza quasi rassegnata» dell’opinione pubblica mondiale.
Identica concretezza caratterizza l’appello per il Medio Oriente, con la richiesta di dialogo «sia a livello nazionale che sul piano internazionale» nell’affrontare la questione iraniana e la riproposizione della linea sempre seguita dalla diplomazia vaticana nei rapporti fra israeliani e palestinesi: diritto dello stato di Israele di esistere nella pace e nella sicurezza entro confini riconosciuti, ma uguale riconoscimento del diritto del popolo palestinese a una patria sovrana e indipendente, con la garanzia di una vita dignitosa e della libertà di spostamento.
Dopo l’intervento di domenica scorsa, il papa torna sulla questione immigrazione chiedendo alle autorità di seguire «la via della giustizia, della solidarietà e della lungimiranza», e ribadisce il netto no al riconoscimento legale di unioni omosessuali e matrimoni gay denunciando «leggi e progetti che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi». La libertà non può essere assoluta, «perché l’uomo non è Dio» e il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio o il desiderio.
Vibrante, infine, la denuncia di quello che Benedetto definisce «un sentimento di scarsa considerazione e talvolta di ostilità, per non dire di disprezzo, verso la religione, in particolare quella cristiana». Di fronte a questo atteggiamento, che secondo il papa è diffuso soprattutto in Occidente e in particolare nei mass media, è urgente arrivare alla definizione di una «laicità positiva e aperta» che riconosca il ruolo pubblico della comunità dei credenti.
Davanti agli ambasciatori, molte dei quali nei suggestivi abiti tradizionali, una vera summa del pensiero ratzingeriano, ma anche numerose sollecitazioni operative per un mondo che appare sempre più incapace di darsi un nuovo ordine.
Il grande assalto ai cristiani
di Giordano Stabile (La Stampa, 11 gennaio 2010)
Dall’Algeria alla Malaysia passando per l’Egitto, lungo un fronte immaginario lungo diecimila chilometri, le minoranze cristiane nei Paesi musulmani sono sotto attacco. Dopo la strage del Natale ortodosso a Luxor, nei giorni scorsi è stata la volta di Kuala Lumpur, dove le rappresaglie degli islamici contro in centri di culto cristiani sono state scatenate dal verdetto dell’Alta Corte che difendeva il diritto di un settimanale cristiano di usare la parola «Allah» per riferirsi a Dio.
La maggioranza musulmana, il 60 per cento della popolazione contro il 10 per cento di cristiani, lo ha considerato un’offesa gravissima. Venerdì tre chiese sono state attaccate nella capitale, altre sono state date alla fiamme sabato. Ieri, con le chiese della maggiori città presidiate massicciamente dalla polizia durante le messe della domenica, due bombe molotov sono state lanciate contro un convento cattolico e una chiesa anglicana di Taiping, nello stato di Perak, a 300 chilometri da Kuala Lumpur.
Il governo del premier Najib Razak - in cerca di consensi tra i non musulmani per farsi rieleggere nel 2013 - sembrava propenso ad autorizzare l’uso della parola Allah, come sinonimo di Dio, anche nelle celebrazioni dei culti non musulmani. Adesso il verdetto della Corte Suprema è sospeso, proprio per il ricorso presentato dall’esecutivo in difesa dell’esclusivo uso del termine da parte degli islamici.
Disquisizioni teologiche di questo tipo, in apparenza bizantine, sono cruciali in Paesi dove le minoranze religiose faticano a farsi accettare a pieno diritto. In Indonesia, ma anche in Siria e Egitto, l’uso della parola Allah da parte dei cristiani è già autorizzato. Ma mentre nei primi due l’integrazione sta migliorando, in Egitto la condizioni dei copti è drammatica. Secondo molti dei loro leader, il governo del presidente Hosni Mubarak li sta usando come valvola di sfogo per le tensioni sociali che attraversano un Paese sovrappopolato e con poche risorse, ormai fuori controllo.
Ieri la polizia egiziana ha arrestato 42 persone, 14 musulmani e 28 copti, con la accusa di aver fomentato i disordini dopo la strage nella chiesa di Baghorah, vicino a Luxor, nella notte tra il 6 e il 7 gennaio, giorno di Natale secondo il calendario ortodosso seguito dai copti. Un esito paradossale: pagano i cristiani, dopo che otto di loro sono stati trucidati. Nessuno sviluppo, invece, nelle indagini sul commando che da una automobile aprì il fuoco con fucili mitragliatori sui fedeli, all’uscita dalla chiesa.
Secondo i copti, non c’è la volontà politica di arrivare ai colpevoli. «L’aggressione aveva un obiettivo ben diverso: l’assassinio del vescovo Kirillos . - accusa Ashraf Ramelah, presidente della Voice of Copts -. Kirillos si era rifiutato di accettare le "sedute di pace" organizzate dal governo dopo gli attacchi vandalici contro i beni dei cristiani. Voleva giustizia, non una riconciliazione che equivaleva a una resa». Secondo Ramellah, gli aggressori contro i copti non hanno mai avuto una condanna: «La legge dell’Islam indica che il musulmano non può essere condannato se la vittima non è musulmana - spiega -. Il regime in Egitto ha un unico scopo: la pulizia etnica».
Con oltre otto milioni di fedeli, una storia di 1900 anni che risale a San Marco, la chiesa copta è la più radicata tra le chiese nordafricane. La parola copto deriva da un termine greco, storpiato poi dagli arabi, che significava «egiziani». E i copti si considerano ancora oggi i «veri» egiziani, colonizzati e convertiti a partire dal Settimo secolo dopo Cristo, ridotti a una minoranza sempre più esigua, arroccata nella fede cristiana, un’isola in un mare musulmano.
Nel resto dell’Africa del Nord rimangono solo piccole comunità, anche loro sotto attacco. Ieri la chiesa protestante di Tizi Ouzou, la capitale della regione berbera della Cabilia, in Algeria, è stata incendiata da un gruppo integralisti islamici. Nella regione berbera è presente una delle più importanti comunità protestanti dell’Algeria, circa un migliaio di fedeli. I «barbuti», come vengono chiamati gli islamisti fanatici, la vogliono far sparire.«La violenza verso i cristiani in varie parti del mondo suscita sdegno». Queste le parole di condanna pronunciate dal Papa davanti ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’Angelus, facendo riferimento alla strage in Egitto e ad altri episodi di violenza di questi giorni. «La diversità religiosa non può mai giustificare la violenza, e non può esserci violenza in nome di Dio - ha continuato Benedetto XVI -. Occorre che le istituzioni sia politiche, sia religiose non vengano meno alle proprie responsabilità». «La violenza - ha aggiunto Ratzinger - non sia mai per nessuno la via per risolvere le difficoltà. Il problema è anzitutto umano. Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un animo, una storia e che Dio lo ama, come ama me».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ALLAH (Wikipedia)
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
FINE DEL CATTOLICESIMO E DELLA CASTA ATEA E DEVOTA VATICANA.
EGITTO: DISCORSO DI BARACK HUSSEIN OBAMA ALL’UNIVERSITA’ DEL CAIRO.
ASIA/MALAYSIA - SCHEDA:
La disputa sul nome “Allah” *
Kuala Lumpur (Agenzia Fides) - La controversia giuridica sull’uso del nome “Allah” nelle pubblicazioni cristiane è iniziata tre anni fa ed è esplosa all’inizio del 2010. Probabilmente, notano fonti di Fides in Malaysia, durerà ancora a lungo, dato che nel paese vi sono tre gradi di giudizio: l’Alta Corte, la Corte di Appello (a cui il governo malaysiano ha annunciato il ricorso) e la Corte Suprema. L’Agenzia Fides pubblica una cronologia con le tappe principali della disputa, segnata da incertezze e dietro-front del governo:
1995 - Il settimanale dell’Arcidiocesi di Kuala Lumpur, The Herald (http://www.heraldmalaysia.com), inaugura le sue pubblicazioni in “Bahasa Malaysia”, la lingua maggioritaria del paese, traducendo il nome “Dio” con “Allah”, come accade nella Bibbia in lingua araba. Il settimanale ha anche edizioni in Inglese, Tamil, Cinese, per raggiungere tutti i segmenti della popolazione malaysiana.
2006 - Il governo malaysiano del Fronte Nazionale (Barisan National) - coalizione guidata dall’UMNO (United Malays National Organization), il partito maggioritario nel paese, espressione della comunità malay, di religione musulmana - dichiara pubblicamente che intende impedire alle pubblicazioni cristiane in lingua malay di utilizzare il termine “Allah” per indicare Dio.
18 ottobre 2007 - Dopo mesi di disputa verbale (i cristiani non accettano l’imposizione), The Herald riceve la prima notifica del Ministero degli Interni, seguita da una seconda lettera, datata 1° novembre, che impone il fermo alle pubblicazioni in lingua malay, sospendendo la licenza al settimanale. La Chiesa cattolica decide di ricorrere all’Alta Corte, il primo grado di giudizio.
12 febbraio 2008 - Il Ministero degli Interni invia una nuova lettera, esponendo le condizioni per restituire il permesso di pubblicare il giornale: non utilizzare il temine “Allah”.
25 aprile 2008 - Udienza dell’Alta Corte: sono presenti il Direttore del settimanale, p. Lawrence Andrei, e S. Ecc. Mons Murphy Pakiam, Arcivescovo di Kuala Lumpur ed editore del giornale. La Chiesa presenta ufficialmente il suo ricorso.
5 maggio 2008 - L’Alta Corte statuisce l’ammissibilità del ricorso e avvia il procedimento giudiziario, entrando nel merito della questione.
8 gennaio 2009 - Il governo revoca il bando e consente le pubblicazione dell’edizione dell’Herald in lingua malay, confermando il divieto di utilizzare il termine “Allah”.
26 febbraio 2009 - Il Ministro degli Interni della Malaysia, Syed Hamid Albar, diffonde un ordinanza che consente ai cristiani di utilizzare il termine “Allah” per riferirsi al proprio Dio, quando esso compare su pubblicazioni che sono “espressamente destinate ai fedeli cristiani”.
2 marzo 2009 - Dietro-front del governo, che revoca l’autorizzazione concessa solo pochi giorni prima. Dopo le proteste dei gruppi fondamentalisti islamici, il Ministro degli Interni Syed Hamid Albar, dichiara pubblicamente che “il governo ha commesso un errore”, annunciando che il divieto resta in vigore fino al pronunciamento della Corte.
Ottobre 2009 - 15mila bibbie provenienti dall’Indonesia e destinate a fedeli cristiani in Malaysia sono sequestrate dalla polizia malaysiana. Le autorità confiscano le Bibbie perché, nella traduzione del testo, esse contengono il temine “Allah” per riferirsi a Dio. Le Bibbie erano destinate ai fedeli cristiani nella regione malaysiana di Sarawak e sono in lingua indonesiana (“Bahasa Indonesia”), molto simile a quella malese.
16 dicembre 2009 - Udienza davanti all’Alta Corte della Malaysia. Le parti illustrano le loro ragioni. La Chiesa spiega che, in lingua malay, esiste solo il termine “Allah” per riferirsi a Dio, affermando che è incostituzionale applicare restrizioni linguistiche o di culto ai cristiani malaysiani che si esprimono in lingua malay. Gli avvocati del governo rimarcano che ogni abuso del termine “Allah”, costituisce un insulto alla religione ufficiale del paese (l’islam) e alla Costituzione federale. Secondo l’esecutivo malaysiano, il mancato uso del termine “Allah” non lede la libertà di culto o di religione dei cristiani. L’Alta Corte rende noto che emetterà il verdetto entro la fine del 2009.
31 dicembre 2009: l’Alta Corte di Giustizia della Malaysia, nella persona del giudice Lau Bee Lan, emette un verdetto favorevole alla Chiesa, affermando il diritto del settimanale cattolico Herald di usare il termine “Allah” per riferirsi al proprio Dio.
4 gennaio 2010 - Iniziano a diffondersi gruppi sul social network Facebook che invitano i fedeli musulmani alla protesta per difendere il nome di “Allah”
6 gennaio 2010 - Il governo annuncia che ricorrerà in appello contro il verdetto della Corte. La sentenza è sospesa, con l’accordo delle parti. La Chiesa cattolica, per una questione di “interesse nazionale”, accetta di non utilizzare il termine Allah nelle pubblicazioni finchè la vicenda sarà sub judice.
8 gennaio 2010 - Attacchi di haker ai siti Internet di diverse Chiese cristiane in Malaysia con scritte “Allah è riservato ai musulmani”. Nelle prime ore del mattino iniziano gli attacchi alle chiese. Assembramenti davanti alle due moschee principali di Kuala Lumpur per la preghiera del venerdì con slogan di protesta contro i cristiani.
* (PA) (Agenzia Fides 12/1/2010)
A chi appartiene il nome di Dio l’eterna battaglia fra le religioni
di Guido Ceronetti (la Repubblica, 24.06.2014)
UNO Stato religiosamente intollerante, che voglia respingere ai margini la presenza cristiana, non può che proibire l’uso del termine Allah in invocazioni o citazioni della Divinità. Come è successo in Malaysia, la cui Corte Federale ha vietato a un giornale cattolico di utilizzare la parola Allah.
LO ha fatto sostenendo che «non è parte integrante della fede cristiana». Nei monoteismi non ci può essere pace: tra loro e nel loro interno la pace non può essere che provvisoria, o creazione politica, regola di convivenza. Dai secoli della loro prevalenza, la loro eredità è la guerra.
Dio e Allah sono un incontro di étimi diversi: l’origine del latino Deus è persiana; l’origina di Allah, termine fisso della rivelazione coranica, è nei deserti semitici. Quando diciamo bethél (termine biblico) dobbiamo tradurre Casa di Dio; in una semplice pietra ritta in mezzo a una pietraia, dei visionari lontani videro l’abitazione di un Dio che escludeva ogni altra divinità, e addirittura la porta del cielo. EL, il Forte, è per alcune tribù Eloàh (compare nel libro di Giobbe); nel profeta Mohámmad (Maometto da noi, ma ha cattivo suono; nel poema dell’Ariosto diventa addirittura Macone) discende immutabilmente come Allah.
Tra le versioni occidentali del libro sacro dell’Islam, numerosissime, Allah, nominato infinite volte nelle sûre coraniche, è tradotto solitamente Dio; in verità è intraducibile. Soltanto la versione bellissima di Régis Blachère, nel francese del XX secolo, usa Allah per creare, se mai fosse possibile, un legame tra le nostre lingue romanze e una irriducibile realtà linguistica semitica. La versione italiana, classica, quella del Bonelli (Hoepli) usa, secondo la nostra tradizione, Dio.
Linguisticamente, e in profondità, Allah e Dio non sono la stessa entità divina, come il Deus dell’Etica di Spinoza non è il Dio della sinagoga di Amsterdam della sua infanzia. Terrorizzati dal ricordo delle guerre intercristiane e di quelle col mondo islamico i cristiani si sono convinti che lo stesso Dio li accomuna con quello dell’Inviato di Allah ( rasulullàh ) ma erano più nel giusto i guerrieri di Poitiers e il monco di Lepanto, Miguel de Cervantes, nel tenere distinte le due Scritture sacre. Allah e Dio sono reciprocamente inassimilabili
ASIA/MALAYSIA
“No all’uso politico della religione”, chiedono cristiani e musulmani della Malaysia
Kuala Lumpur (Agenzia Fides) - La disputa sul nome “Allah” nasconde ragioni politiche, piuttosto che teologiche. E’ il tentativo del partito al governo, l’UMNO (United Malays National Organization), di riguadagnare i consensi che ha progressivamente perduto, come avvenuto nella ultime elezioni del 2008: è quanto emerge dagli interventi, dalle riflessioni e dal dibattito in corso fra i cristiani malaysiani e fra le Chiese di diverse confessioni presenti in Malaysia. Come l’Agenzia Fides apprende da fonti locali, questa idea è condivisa anche dai partiti di opposizione, molti dei quali musulmani, che hanno condannato “il tentativo di polarizzare la società malaysiana su base religiosa”.
Subito dopo i primi attentati alle chiese, il PAS (Parti Islam Se-Malaysia), influente partito islamico all’opposizione, si è dichiarato favorevole all’uso del temine “Allah” per i cristiani. Il Partito, noto per abbracciare una visione dell’islam tradizionalista e integralista, sembra aver virato su posizioni più moderate, come si è visto in questo frangente. Negli ultimi due anni il PAS ha proposto un’agenda di tipo “welfarista”, puntando su una interpretazione dell’islam più egalitaria e favorevole alla giustizia sociale. E ha accusato l’UMNO di confondere l’islam con l’appartenenza etnica, strumentalizzandolo per la sua formula di “supremazia malay”.
Ieri il capo dell’opposizione, Anwar Ibrahim, leader del People Justice Party, ha reiterato la dura condanna alle bombe contro le chiese. “Come nazione dobbiamo lottare per mantenere lo spirito di unità dei padri fondatori e per difendere l’articolo 11 della Costituzione federale, che garantisce la libertà di religione”, ha detto, invitando a isolare “quanti incitano all’odio religioso per motivi politici”. Anwar ricorda che “il temine Allah viene usato normalmente da musulmani, ebrei e cristiani di lingua araba da 14 secoli”. Il modo per risolvere la questione, secondo Anwar, è “l’impegno nel dialogo interreligioso”: urge rinverdire la tradizione malaysiana della pacifica coesistenza delle comunità religiose. Anwar ha indicato le responsabilità dell’esecutivo, condannando “l’incessante propaganda e la retorica incendiaria dei mass-media controllati dal governo”, dicendosi incoraggiato dalla condanna di molti leader musulmani. La Pakatan Rakyat, coalizione di opposizione - ha concluso - farà di tutto perché “i nostri fratelli cristiani si sentano salvi e sicuri nel loro paese”. Mentre la polizia sta indagando sugli attacchi, cercando di rintracciare i colpevoli, i cristiani hanno reso noto che non cambieranno le loro abitudini liturgiche. La questione della parola “Allah” tocca soprattutto i cristiani della Malaysia orientale, cioè i due stati del Borneo malaysiano, Sabah e Sarawak, dove vivono la maggior parte degli indigeni cristiani di lingua malay. Secondo informazioni raccolte da Fides, le comunità locali notano che “i musulmani del Borneo non si sono mai opposti all’uso corrente del temine Allah per i cristiani”. Sebbene la polizia abbia confiscato materiale pastorale e pubblicazioni contenenti il nome Allah, le chiese cristiane di diverse confessioni, presenti in Borneo, hanno detto che esso continuerà ad essere utilizzato nella liturgia.
* (PA) (Agenzia Fides 12/1/2010)
Le domande che i ragazzi rivolgono a Gesù
di Vito Mancuso (la Repubblica, 12 gennaio 2010)
Il Sermig di Torino, movimento cattolico fondato da Ernesto Olivero, ha sottoposto un esteso questionario a migliaia di giovani sulla figura di Gesù. Alla domanda numero 7, che chiedeva «Cosa diresti a Gesù se potessi parlare con lui oggi?», le principali risposte dei giovani furono le seguenti: Perché si deve morire? Che senso ha la mia vita? Perché esiste il male? Perché muoiono tanti giovani? Cosa mi aspetta dopo la morte? Perché mi hai creato?
Queste domande dei giovani a Gesù (ipotetiche quanto alla possibilità di raggiungere il destinatario, ma assolutamente reali quanto a valore esistenziale) mostrano un intenso bisogno di significato, si potrebbe dire di filosofia. Più che a Gesù quale singolo personaggio storico, le interpellanze dei giovani si rivolgono al Cristo, al Figlio di Dio in quanto Dio, a Dio, all’Assoluto. Sono tre infatti le questioni capitali: 1) chi sono io e perché sono qui; 2) perché questo mondo è colmo di ingiustizia; 3) che cosa ne sarà di me dopo la morte.
Oggi la teologia e la predicazione della Chiesa sono concentrate sul Gesù storico, sulla sua esistenza, la sua predicazione, il suo messaggio, la sua morte e la sua risurrezione. I corsi biblici organizzati dalle parrocchie non si contano più. Ma queste domande mostrano chiaramente che l’interesse degli uomini d’oggi non è per una storia lontana, destinata ogni anno a divenire sempre più lontana, ma per il senso di questa vita qui e ora.
Gesù non interessa come singolo personaggio storico a cui accadono delle cose speciali (emblematico che nessuno tra i giovani gli avrebbe chiesto lumi sul suo concepimento verginale, sulla veridicità dei suoi miracoli, sui responsabili della sua morte, sulla realtà della sua risurrezione) ma interessa come il maestro a cui chiedere spiegazioni su questa vita e sui suoi conti che faticano a tornare. Una risposta di un ragazzo di quindici anni metteva addirittura in crisi il sacrificio espiatorio di Gesù, o meglio la teologia tradizionale che interpreta Gesù quale «vittima immolata per la nostra redenzione» (come viene definito da alcune parole del canone della Messa).
Che cosa appare allora da queste domande dei giovani? Appare quello che già Hegel vedeva come il limite della coscienza cristiana tradizionale, cioè l’essere una «coscienza infelice». Da questi giovani emerge chiaramente un disorientamento sulla loro identità di uomini, segno dell’inefficacia delle risposte tradizionali della fede ascoltate nelle lezioni di catechismo. A differenza di quanto avveniva al tempo di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino, dalla fede cristiana di oggi non emerge più una veritiera e affidabile visione del mondo. Da qui il senso diffuso di infelicità, da qui il disagio rispetto al proprio essere al mondo. I credenti adulti suppliscono questa incertezza teoretica con il ricorso al principio di autorità (è così perché è stato sempre insegnato che è così), ma con i giovani questo principio (se purtroppo o se per fortuna, non lo so) non funziona.
C’è un detto medievale che dice: «Vengo non so da dove; sono non so chi; muoio non so quando; vado non so dove; mi stupisco di essere lieto». Il filosofo Karl Jaspers, che lo cita all’inizio del libro La fede filosofica di fronte alla rivelazione, dice che per questa unione di ignoranza e di gioia tale detto non può essere cristiano. E poi aggiunge un affondo terribile, affermando che, al contrario, la coscienza cristiana ha sì le risposte a tutte le questioni perché sa da dove viene, perché sa chi è, perché sa che morirà quando lo deciderà Dio (non prima e non dopo), perché sa dove andrà, ma, sapendo tutto ciò, non è per nulla lieta, per nulla serena, ma è immersa nella macerazione e in una continua tensione con il mondo con cui non riesce a riconciliarsi. A mio avviso ha ragione: la coscienza cristiana troppo spesso appare come una coscienza infelice, a tratti risulta persino aggressiva, soprattutto in coloro che coltivano sopra ogni cosa l’adesione alla dottrina stabilita dalle gerarchie ecclesiastiche e che coniugano il verbo "credere" sempre accanto a "obbedire e combattere".
Da dove nascono invece quell’essere lieti in profondità, quella gioia inestirpabile verso la vita, quella quiete dello spirito e della mente, che sono il contrassegno di una autentica esperienza spirituale e che sole possono dare risposte convincenti alle inquietudini dei giovani? Nascono dal sapere di essere a casa in questo mondo di Dio, dal senso di intima comunione con l’essere e con la natura che portò Francesco d’Assisi a scrivere il "Cantico delle creature", e dalla certezza che l’incarnazione di Dio non riguarda solo un giorno lontano di tanti anni fa ma è la dinamica che si avvera ogni giorno, in tutti gli uomini che amano il bene e la giustizia. Gesù è l’uomo che cessa di fare di se stesso il centro del mondo e si pone al servizio di una realtà più importante di sé. Anche la Chiesa deve cessare di fare di se stessa il centro del mondo e si deve porre al servizio di qualcosa di più grande di sé, del bene comune e di ogni singolo individuo di questa nostra società, credente o non credente, bianco o nero, etero o omosessuale.
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
NESSUNO PUÒ FARSI PADRONE DEL NOME DI DIO
di GIORGIO PAOLUCCI (Avvenire, 13.01.2010)
Quello che sta accadendo in Malaysia sull’uso della parola ’Allah’ riflette le fibrillazioni politiche e religiose presenti nel Paese, ma è anche indicativo di una certa mentalità diffusa nel mondo islamico. Come noto, con una sentenza emessa lo scorso 31 dicembre la Corte costituzionale malese ha accolto il ricorso del settimanale cattolico The Herald, edito dalla diocesi di Kuala Lumpur, che contestava il divieto imposto ai non musulmani di utilizzare il termine ’Allah’ per indicare Dio. La vittoria dei ricorrenti è stata però di breve momento: tredici ong islamiche si sono sollevate contro la sentenza e il governo ha chiesto la sospensione della sua esecutività in attesa dell’appello.
E in questi giorni, come Avvenire ha puntualmente documentato, le chiese sono state prese di mira da gruppi di estremisti musulmani. La giustificazione che accompagna gli attacchi, sostanzialmente condivisa dalle autorità di governo, è che l’uso del termine Allah «può far crescere tensioni e creare confusione tra la popolazione musulmana», fino alla ’classica’ accusa di proselitismo.
Ma la storia (e la ragione) parlano un linguaggio di tutta evidenza. Da secoli in Malaysia i fedeli islamici e cristiani, che rappresentano rispettivamente il 60 e il 10 per cento della popolazione, si rivolgono a Dio chiamandolo Allah, un termine di origine araba importato in quelle terre in seguito all’arrivo dei seguaci di Maometto. Nella lingua malese non c’è altro termine per indicare Dio. E lo stesso termine viene usato nella vicina Indonesia, il più popoloso Paese musulmano del mondo (180 milioni di abitanti), come pure nei Paesi arabi dove vivono minoranze cristiane più o meno numerose.
Lì, nelle moschee come nelle chiese, si prega Dio chiamandolo Allah. Del resto, la parola è antecedente alla nascita dell’islam. Con essa, molto tempo prima di Maometto, si indicava una delle divinità più potenti tra quelle adorate dai politeisti che popolavano la penisola arabica. E, come ricorda Samir Khalil, uno dei massimi conoscitori del patrimonio letterario arabo-cristiano, il suo uso è attestato nella poesia pre-islamica anche da autori cristiani. Dunque Allah non è affatto una ’invenzione’ di Maometto o della religione musulmana. Ma è indicativo di una certa mentalità ’esclusivista’ il fatto che i musulmani quando traducono il Corano nelle lingue occidentali, per indicare la divinità usano questa parola, rifiutando di ricorrere ai termini Dio, God, Dieu, Gott, eccetera.
Quello che sta accadendo in Malaysia è dunque in qualche modo inquadrabile in un costume più generale, che potremmo definire ’appropriazione indebita’, anche se risente della particolare situazione politica che il Paese sta vivendo. Il partito al potere da quarant’anni attraversa un momento di grande difficoltà, e secondo molti analisti la decisione di impugnare la sentenza della Corte costituzionale favorevole ai cristiani risponde al tentativo di guadagnare consensi nell’elettorato islamico, qui come altrove sempre più sensibile alle parole d’ordine del fondamentalismo. Paradossalmente il partito di opposizione, che ha radici religiose molto più forti di quello maggioritario, contesta la decisione di sospendere la decisione dei supremi giudici. E in questi giorni da alcune associazioni musulmane ’moderate’ è partita la proposta di organizzare ’ronde’ per proteggere le chiese dagli attacchi dei gruppi radicali, a dimostrazione di quanto la vicenda stia dividendo la popolazione.
La posta in gioco non è, con ogni evidenza, di tipo lessicale. Dietro la possibilità di usare la parola Allah per riferirsi a Dio sta la grande questione del rispetto della persona, dei diritti individuali e delle minoranze, che lì come altrove vede i cristiani nel mirino. E che, lì come altrove, ripropone la sfida più bruciante per un islam chiamato a fare i conti con la modernità e con la libertà.