[...] In una lettera inviata a Le Monde, il grande rabbino di Strasburgo, René Gutman, ci invita a rileggere il testo di Albert Camus. In “L’incroyant et les chrétiens” (Actuelles, 1948), l’autore di Lo straniero scriveva: “Ho a lungo atteso in quegli anni spaventosi che una grande voce si levasse a Roma (...). Mi hanno spiegato dopo che la condanna era stata davvero emessa. Ma che era stata espressa nel linguaggio delle encicliche che non è affatto chiaro. La condanna era stata emessa, ma non era stata compresa! [...]
[...] visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i». Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto. Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta [...]
Camus, Pio XII e il linguaggio “chiaro”
di Franck Nouchi (Le Monde, 20 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Sono state alcune immagini intraviste nei telegiornali del fine settimana, appena il tempo di vedere papa Benedetto XVI varcare la soglia della sinagoga di Roma. Atmosfera in apparenza cordiale, niente lasciava trasparire il turbamento suscitato nella comunità ebraica italiana dall’annuncio della prossima beatificazione di Pio XII. Segno che questa visita rivestiva un carattere eccezionale, si notavano tra i presenti personalità come l’arcivescovo di Parigi - il cardinale André Vingt-Trois -, il patriarca di Gerusalemme, il grande rabbino di Haifa e Andrea Riccardi, presidente della comunità di Sant’Egidio.
Evocando l’atteggiamento del Vaticano durante la Shoah, il papa ha detto che la Sede apostolica aveva “condotto un’azione di aiuto, spesso sconosciuta e discreta”. Alla fine della cerimonia, dei discendenti di deportati hanno consegnato a Benedetto XVI una lettere firmata da diversi sopravvissuti: “A quell’epoca, noi siamo stati abbandonati da tutti. Che questo silenzio di tutti non sia un silenzio nel futuro.”
Per il momento, non potendo avere accesso agli archivi del Vaticano sul pontificato di Pio XII, dobbiamo accontentarci del lavoro degli storici e di qualche testimonianza.
In una lettera inviata a Le Monde, il grande rabbino di Strasburgo, René Gutman, ci invita a rileggere il testo di Albert Camus. In “L’incroyant et les chrétiens” (Actuelles, 1948), l’autore di Lo straniero scriveva: “Ho a lungo atteso in quegli anni spaventosi che una grande voce si levasse a Roma (...). Mi hanno spiegato dopo che la condanna era stata davvero emessa. Ma che era stata espressa nel linguaggio delle encicliche che non è affatto chiaro. La condanna era stata emessa, ma non era stata compresa! (...) Quello che il mondo si aspetta dai cristiani è che i cristiani parlino, a voce alta e chiara, e che esprimano la loro condanna in maniera tale che mai il dubbio, mai un solo dubbio, possa sorgere nel cuore dell’uomo più semplice.”
Quattro anni prima, in Combat (datato 29 dicembre 1944), Camus esprimeva già lo stesso sentimento: “Da anni aspettavamo che la più grande autorità spirituale di questo tempo si decidesse a condannare in termini chiari le imprese delle dittature. (...) Il nostro segreto desiderio era che ciò fosse detto nel momento stesso in cui il male trionfava e in cui le forze del bene erano imbavagliate. (...) Diciamolo chiaramente, avremmo voluto che il papa prendesse posizione, proprio in quegli anni vergognosi, e denunciasse quelle che bisognava denunciare.”
In fondo, è questa la grande lezione. Di fronte a degli avvenimenti gravi, dire i fatti, alto e forte, non foss’altro che per semplice spirito di solidarietà. Mai rifugiarsi nell’astruso. Sempre fare in modo di essere compresi da tutti. Un silenzio glaciale accompagnava tutti coloro che era portati via verso i campi di morte.
Se anche Benedetto XVI e Pio XII diventano vittime del pregiudizio
di Bernard Henri-Lévy (Corriere della Sera, 20 gennaio 2010)
Bisognerebbe smetterla con la malafede, il partito preso e, per dirla tutta, la disinformazione, non appena si tratta di Benedetto XVI. Fin dalla sua elezione, si è intentato un processo al suo «ultraconservatorismo», ripreso di continuo dai mass media (come se un Papa potesse essere altra cosa che «conservatore»). Si è insistito con sottintesi, se non addirittura con battute pesanti, sul «Papa tedesco», sul «post-nazista» in sottana, su colui che la trasmissione satirica francese «Les Guignols» non esitava a soprannominare «Adolfo II».
Si sono falsificati, puramente e semplicemente, i testi: per esempio, a proposito del suo viaggio ad Auschwitz del 2006, si sostenne e - dal momento che col passar del tempo i ricordi si fanno più incerti - ancor oggi si ripete che avrebbe reso onore alla memoria dei sei milioni di morti polacchi, vittime di una semplice «banda di criminali», senza precisare che la metà di loro erano ebrei (la controverità è davvero sbalorditiva, poiché Benedetto XVI in quell’occasione parlò effettivamente dei «potenti del III Reich» che tentarono «di eliminare» il «popolo ebraico» dal «rango delle nazioni della Terra» Le Monde, 30/5/2006).
Ed ecco che, in occasione della visita del Papa alla sinagoga di Roma e dopo le sue due visite alle sinagoghe di Colonia e di New York, lo stesso coro di disinformatori ha stabilito un primato, stavo per dire che ha riportato la palma della vittoria, poiché non ha aspettato nemmeno che il Papa oltrepassasse il Tevere per annunciare, urbi et orbi, che egli non aveva saputo trovare le parole che bisognava dire, né compiuto i gesti che bisognava fare e che dunque aveva fallito nel suo intento...
Allora, visto che l’evento è ancora caldo, mi si consentirà di mettere qualche puntino su qualche «i». Benedetto XVI, quando si è raccolto in preghiera davanti alla corona di rose rosse deposta di fronte alla targa commemorativa del martirio dei 1021 ebrei romani deportati, non ha fatto che il suo dovere, ma l’ha fatto. Benedetto XVI, quando ha reso omaggio ai «volti» degli «uomini, donne e bambini» presi in una retata nell’ambito del progetto di «sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè», ha detto un’evidenza, ma l’ha detta. Di Benedetto XVI che riprende, parola per parola, i termini della preghiera di Giovanni Paolo II, dieci anni fa, al Muro del Pianto; di Benedetto XVI che chiede quindi «perdono» al popolo ebraico devastato dal furore di un antisemitismo per lungo tempo di essenza cattolica e nel farlo, ripeto, legge il testo di Giovanni Paolo II, bisogna smettere di ripetere, come somari, che egli è indietro-rispetto-al-suo-predecessore.
A Benedetto XVI che dichiara infine, dopo una seconda sosta davanti all’iscrizione che commemora l’attentato commesso nel 1982 dagli estremisti palestinesi, che il dialogo ebraico cattolico avviato dal Concilio Vaticano II è ormai «irrevocabile»; a Benedetto XVI che annuncia di aver l’intenzione di «approfondire» il «dibattito fra uguali» che è il dibattito con i «fratelli maggiori» che sono gli ebrei, si possono fare tutti i processi che si vuole, ma non quello di «congelare» i progressi compiuti da Giovanni XXIII. Quanto alla vicenda molto complessa di Pio XII, ci tornerò, se necessario.
Tornerò sul caso di Rolf Hochhuth, autore del famoso «Il vicario», che nel 1963 lanciò la polemica sui «silenzi di Pio XII». In particolare, tornerò sul fatto che questo focoso giustiziere è anche un negazionista patentato, condannato più volte come tale e la cui ultima provocazione, cinque anni fa, fu di prendere le difese, in un’intervista al settimanale di estrema destra Junge Freiheit, di colui che nega l’esistenza delle camere a gas, David Irving. Per ora, voglio giusto ricordare, come ha appena fatto Laurent Dispot nella rivista che dirigo, La règle du jeu, che il terribile Pio XII, nel 1937, quando ancora era soltanto il cardinale Pacelli, fu il coautore con Pio XI dell’Enciclica «Con viva preoccupazione», che ancora oggi continua ad essere uno dei manifesti antinazisti più fermi e più eloquenti.
Per ora, dobbiamo per esattezza storica precisare che, prima di optare per l’azione clandestina, prima di aprire, senza dirlo, i suoi conventi agli ebrei romani braccati dai fascisti, il silenzioso Pio XII pronunciò alcune allocuzioni radiofoniche (per esempio Natale 1941 e 1942) che gli valsero, dopo la morte, l’omaggio di Golda Meir: «Durante i dieci anni del terrore nazista, mentre il nostro popolo soffriva un martirio spaventoso, la voce del Papa si levò per condannare i carnefici».
E, per ora, ci si meraviglierà soprattutto che, dell’assordante silenzio sceso nel mondo intero sulla Shoah, si faccia portare tutto il peso, o quasi, a colui che, fra i sovrani del momento: a) non aveva cannoni né aerei a disposizione; b) non risparmiò i propri sforzi per condividere, con chi disponeva di aerei e cannoni, le informazioni di cui veniva a conoscenza; c) salvò in prima persona, a Roma ma anche altrove, un grandissimo numero di coloro di cui aveva la responsabilità morale. Ultimo ritocco al Grande Libro della bassezza contemporanea: Pio o Benedetto, si può essere Papa e capro espiatorio.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
INDIETRO NON SI TORNA. GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA ...
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza San Pietro, il "Logo" del Grande Mercante ....
Il papa in sinagoga e i silenzi di Pio XII
di Emilio Carnevali (Micromega-online, 20 gennaio 2010)
In un saggio pubblicato su un numero speciale di MicroMega di qualche anno fa Joseph Ratzinger descriveva l’atteggiamento dell’uomo contemporaneo nei confronti della religione con la celebre parabola buddista dell’elefante e dei ciechi.
Un re dell’India del Nord radunò i ciechi del suo villaggio attorno ad un elefante. Ad ognuno di loro faceva toccare una parte diversa dell’animale e poi gli chiedeva di descrivere come era fatto. “È come un cesto intrecciato...”; “è come un vaso...”; “è come un pilastro...”: a seconda di quale punto toccavano l’idea che si potevano fare della forma dell’animale era ovviamente diversa. E allora i ciechi cominciarono a litigare: “L’elefante è così”, “No! È così”, ecc.
“La disputa fra religioni”, scriveva Ratzinger, “sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una situazione più favorevole rispetto alle altre”. Il cristianesimo sarebbe quindi “solo il lato del volto di Dio rivolto verso l’Europa” e sarebbe facile “ridurre i contenuti cristiani a simboli, non attribuire loro nessuna verità maggiore di quella dei miti della storia delle religioni - considerarli come una modalità dell’esperienza religiosa che dovrebbe collocarsi umilmente a fianco di altre”.
Ecco, la parabola dell’elefante e dei ciechi serve a spiegare cosa non è il cristianesimo per Ratzinger, a dispetto di quella che tende a essere l’esperienza religiosa, anche l’esperienza cristiana, per l’uomo contemporaneo. Secondo Benedetto XVI il cristianesimo non può essere considerato solo “il lato del volto di Dio rivolto verso l’Europa”: esso non può privarsi di quella “pretesa alla verità”, di quella aspirazione all’essere “la religio vera” e al tempo stesso “la vera philosophia”, che sono proprie dell’universalismo cristiano sin dall’interpretazione che san Paolo dette della figura di Cristo.
Questa impostazione teologica - un “esclusivismo veritativo” che si contrappone al sincretismo della sensibilità contemporanea (l’aborrito relativismo applicato alla spiritualità) - la ritroviamo anche nei testi del più recente magistero ufficiale della Chiesa, dalla Dominus Jesus redatta da Ratzinger nel 2000 in qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, alle “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa” (29 giugno 2007), nelle quali si afferma che le comunità cristiane nate dalla riforma del XVI secolo non possono “essere chiamate ‘Chiese’ in senso proprio”.
È una prospettiva molto distante da quella del Concilio, benché la continuità con esso sia costantemente ribadita a parole. Ma solo tenendo conto di questa prospettiva è possibile comprendere quale sia il grande (e insormontabile) ostacolo che si contrappone ad un autentico dialogo interreligioso ed ecumenico fra la Chiesa di Ratzinger e le altre confessioni religiose (comprese le altre confessioni e denominazioni cristiane).
Quanto al dialogo con il mondo ebraico, a questi limiti generali - dei quali si coglie il riflesso anche nel ripristino della preghiera per la conversione degli ebrei a seguito della reintroduzione del rito tridentino operata dal Motu proprio del luglio 2007 - si sommano una serie di problemi “politici” che sono ancora tutti sul tappeto, nella loro gravità, anche e soprattutto dopo la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma.
Andandosi a sfogliare la stampa israeliana ci si può rendere conto di quanto sia diversa la lettura che di questo incontro è stata data a Gerusalemme rispetto all’Italia. Mentre qui da noi i giornali strillavano “Vince il dialogo” o “Storico incontro alla sinagoga”, Haaretz andava al sodo con questo titolo brusco ma nient’affatto ingannevole. “Alla sinagoga di Roma il Papa difende il Vaticano dell’era nazista”. Il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici ha richiamato con garbo ma con fermezza la questione di Pio XII (del quale è in corso il processo di canonizzazione): “Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah, duole ancora come un atto mancato”, ha detto.
Ma Ratzinger non ha nemmeno pronunciato il nome di papa Pacelli, limitandosi a ribadire che “molti rimasero indifferenti” di fronte alla tragedia della Shoah, “ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne”. “Anche la Sede Apostolica - ha aggiunto Raztinger ribadendo in maniera nemmeno troppo implicita la sua posizione su questo punto - svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta”.
Insomma, aveva ragione il rabbino Giuseppe Laras, quando, dichiarando che non avrebbe partecipato all’incontro, previde che da esso non sarebbe scaturito nulla di positivo.