Il testo integrale dei chiarimenti pubblicati dal dicastero vaticano. Nelle Chiese e nelle comunità non ancora in comunione con il Papa «elementi di santificazione e di verità», ma non lo stesso rapporto con l’origine
«Nella Chiesa cattolica la Chiesa di Cristo»
Cinque domande e altrettante risposte dalla Congregazione per la dottrina della fede «Gesù ha costituito sulla terra un’unica Chiesa Ed essa concretamente sussiste intorno al successore di Pietro e ai vescovi che sono in comunione con lui»
Pubblichiamo il testo integrale del documento della Congregazione per la dottrina della fede «Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa». *
INTRODUZIONE
Il Concilio Vaticano II, con la costituzione dogmatica Lumen gentium e con i decreti sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium ecclesiarum), ha contribuito in modo determinante ad una comprensione più profonda dell’ecclesiologia cattolica. Al riguardo anche i Sommi Pontefici hanno voluto offrire approfondimenti e orientamenti per la prassi: Paolo VI nella lettera enciclica Ecclesiam suam (1964) e Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Ut unum sint (1995).
Il conseguente impegno dei teologi, volto ad illustrare sempre meglio i diversi aspetti dell’ecclesiologia, ha dato luogo al fiorire di un’ampia letteratura in proposito. La tematica si è infatti rivelata di grande fecondità, ma talvolta ha anche avuto bisogno di puntualizzazioni e di richiami, come la dichiarazione Mysterium ecclesiae (1973), la Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica Communionis notio (1992) e la dichiarazione Dominus Iesus (2000), tutte pubblicate dalla Congregazione per la dottrina della fede.
La vastità dell’argomento e la novità di molti temi continuano a provocare la riflessione teologica, offrendo sempre nuovi contributi non sempre immuni da interpretazioni errate che suscitano perplessità e dubbi, alcuni dei quali sono stati sottoposti all’attenzione della Congregazione per la dottrina della fede. Essa, presupponendo l’insegnamento globale della dottrina cattolica sulla Chiesa, intende rispondervi precisando il significato autentico di talune espressioni ecclesiologiche magisteriali, che nel dibattito teologico rischiano di essere fraintese.
RISPOSTE AI QUESITI
Primo quesito: Il Concilio ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina s ulla Chiesa?
Risposta: Il Concilio ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.
Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio (1). Paolo VI lo ribadì (2) e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen gentium: «E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione» (3). I vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione (4).
Secondo quesito: Come deve essere intesa l’affermazione secondo cui la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica?
Risposta: Cristo «ha costituito sulla terra» un’unica Chiesa e l’ha istituita come «comunità visibile e spirituale» (5), che fin dalla sua origine e nel corso della storia sempre esiste ed esisterà, e nella quale soltanto sono rimasti e rimarranno tutti gli elementi da Cristo stesso istituiti (6). «Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica [...]. Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui» (7).
Nella costituzione dogmatica Lumen gentium la sussistenza è questa perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica (8), nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra.
Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse (9), la parola «sussiste», invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede (Credo...la Chiesa «una»); e questa Chiesa «una» sussiste nella Chiesa cattolica (10).
Terzo quesito: Perché viene adoperata l’espressione «sussiste nella» e non semplicemente la forma verbale «è»?
Risposta: L’uso di questa espressione, che indica la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica, non cambia la dottrina sulla Chiesa; trova, tuttavia, la sua vera motivazione nel fatto che esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino «numerosi elementi di santificazione e di verità», «che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica» (11).
«Perciò le stesse Chiese e Comunità separate, quantunque crediamo che hanno delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Infatti lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica» (12).
Quarto quesito: Perché il Concilio ecumenico Vaticano II attribuisce il nome di «Chiese» alle Chiese orientali separate dalla piena comunione con la Chiesa cattolica?
Risposta: Il Concilio ha voluto accettare l’uso tradizionale del nome. «Siccome poi quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora uniti con noi da strettissimi v incoli» (13), meritano il titolo di «Chiese particolari o locali» (14), e sono chiamate Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche (15).
«Perciò per la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole Chiese, la Chiesa di Dio è edificata e cresce» (16). Siccome, però, la comunione con la Chiesa cattolica, il cui capo visibile è il vescovo di Roma e successore di Pietro, non è un qualche complemento esterno alla Chiesa particolare, ma uno dei suoi principi costitutivi interni, la condizione di Chiesa particolare, di cui godono quelle venerabili comunità cristiane, risente tuttavia di una carenza (17). D’altra parte l’universalità propria della Chiesa, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia (18).
Quinto quesito: Perché i testi del Concilio e del Magistero successivo non attribuiscono il titolo di «Chiesa» alle comunità cristiane nate dalla Riforma del sedicesimo secolo?
Risposta: Perché, secondo la dottrina cattolica, queste comunità non hanno la successione apostolica nel sacramento dell’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo essenziale dell’essere Chiesa. Le suddette comunità ecclesiali, che, specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico (19), non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate «Chiese» in senso proprio (20).
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’udienza concessa al sottoscritto cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha approvato e confermato queste risposte, decise nella sessione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, il 29 giugno 2007, nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, Apostoli.
cardinale William Levada
prefetto
Angelo Amato, S.d.B.
arcivescovo titolare di Sila
segretario
Note
1. GIOVANNI XXIII, Allocuzione dell’11 ottobre 1962:
«... il Concilio... vuole trasmettere pura e integra la dottrina cattolica, senza attenuazioni o travisamenti... Ma nelle circostanze attuali il nostro dovere è che la dottrina cristiana nella sua interezza sia accolta da tutti con rinnovata, serena e tranquilla adesione... È necessario che lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero compia un balzo in avanti, che la medesima dottrina sia conosciuta in modo più ampio e approfondito... Bisogna che questa dottrina certa e immutabile, alla quale è dovuto ossequio fedele, sia esplorata ed esposta nella maniera che l’epoca nostra richiede. Altra è la sostanza del depositum fidei, o le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, ed altro è il modo in cui vengono enunciate, sempre tuttavia con lo stesso senso e significato»: AAS 54 [1962] 791; 792.
2. Cf. PAOLO VI, Allocuzione del 29 settembre 1963: AAS 55 [1963] 847-852.
3. PAOLO VI, Allocuzione del 21 novembre 1964: AAS 56 [1964] 1009-1010 (trad. it. in: L’Osservatore Romano, 22 novembre 1964, 3).
4. Il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica. Ciò si trova nelle discussioni sul decreto Unitatis redintegratio. Lo schema del decreto fu proposto in aula il 23. 9. 1964 con una Relatio (Act Syn III/II 296-344). Ai modi inviati dai vescovi nei mesi seguenti il Segretariato per l’unità dei cristiani risponde il 10.11.1964 (Act Syn III/VII 11-49). Da questa Expensio modorum si riportano quattro testi concernenti la prima risposta.
A) [In Nr. 1 (Prooemium) Schema Decreti: Act Syn III/II 296, 3-6] «Pag. 5, lin. 3-6: Videtur etiam Ecclesiam catholicam inter illas Communiones comprehendi, quod falsum esset. R(espondetur): Hic tantum factum, prout ab omnibus conspicitur, describendum est. Postea clare affirmatur solam Ecclesiam catholicam esse veram Ecclesiam Christi» (Act Syn III/VII 12).
B) [In Caput I in genere: Act Syn III/II 297-301] «4 - Expressius dicatur unam solam esse veram Ecclesiam Christi; hanc esse Catholicam Apostolicam Romanam; omnes debere inquirere, ut eam cognoscant et ingrediantur ad salutem obtinendam... R(espondetur): In toto textu sufficienter effertur, quod postulatur. Ex altera parte non est tacendum etiam in aliis communitatibus christianis inveniri veritates revelatas et elementa ecclesialia»( Act Syn III/VII 15). Cf. anche ibidem punto 5.
C) [In Caput I in genere: Act Syn III/II 296s]
«5 - Clarius dicendum esset veram Ecclesiam esse solam Ecclesiam catholicam romanam...
R(espondetur): Textus supponit doctrinam in constitutione "De Ecclesia" expositam, ut pag. 5, lin. 24-25 affirmatur» (Act Syn III/VII 15). Quindi la commissione che doveva valutare gli emendamenti al decreto Unitatis redintegratio esprime con chiarezza l’identità della Chiesa di Cristo e della Chiesa cattolica e la sua unicità, e vede questa dottrina fondata nella costituzione dogmatica Lumen gentium.
D) [In Nr. 2 Schema Decreti: Act Syn III/II 297s]
«Pag. 6, lin. 1- 24: Clarius exprimatur unicitas Ecclesiae. Non sufficit inculcare, ut in textu fit, unitatem Ecclesiae.
R(espondetur): a) Ex toto textu clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica, quamvis, ut oportet, efferantur elementa ecclesialia aliarum communitatum».
«Pag. 7, lin. 5: Ecclesia a successoribus Apostolorum cum Petri successore capite gubernata (cf. novum textum ad pag. 6, lin.33-34) explicite dicitur "unicus Dei grex" et lin. 13 "una et unica Dei Ecclesia"» (Act Syn III/VII).
Le due espressioni citate sono quelle di Unitatis redintegratio 2.5 e 3.1.
5. Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.1.
6. Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 3.2; 3.4; 3.5; 4.6.
7. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.
8. Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Mysterium ecclesiae, 1.1: AAS 65 [1973] 397; Dich. Dominus Iesus, 16.3: AAS 92 [2000-II] 757-758; Notificazione sul libro di padre Leonardo Boff, OFM, «Chiesa: carisma e potere»: AAS 77 [1985] 758-759.
9. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Ut unum sint, 11.3: AAS 87 [1995-II] 928.
10. Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.
11. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium, 8.2.
12. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 3.4.
13. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 15.3; cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 17.2: AAS, 85 [1993-II] 848.
14. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 14.1.
15. Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 14.1; GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Ut unum sint, 56 s : AAS 87 [1995-II] 954 s.
16. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 15.1.
17. Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lett. Communionis notio, 17.3: AAS 85 [1993-II] 849.
18. Cf. ibid.
19. Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. Unitatis redintegratio, 22.3.
20. Cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich. Dominus Iesus, 17.2: AAS 92 [2000-II] 758.
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* Avvenire, 11.07.2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
L’unico segno, la necessaria chiarezza.
Il falso mito dei "due Papi"
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 15 gennaio 2020)
Per quanto suggestivo possa apparire nelle serie televisive e in un film di un certo successo, quello dei "due Papi" è un falso mito, che è necessario smascherare, anche perché viene sempre più spesso rappresentato in certe cronache che fanno specchio a vere o presunte polemiche e manovre, innescate da interventi intorno a temi scottanti per l’oggi della Chiesa e l’avvenire del cristianesimo.
A smentire la possibilità che nella Chiesa odierna vi siano due Papi è lo stesso Benedetto, il pontefice emerito, che ha sempre dichiarato «incondizionata reverenza e obbedienza» all’attuale Vescovo di Roma e ieri ha eliminato ogni equivoco, chiedendo di togliere il proprio nome sia dalla copertina sia dall’introduzione e dalle conclusioni dal volume del cardinal Robert Sarah sul celibato dei preti al quale aveva concesso un proprio saggio (uniche pagine che intende firmare). Questa chiarezza era indispensabile, così il lettore sa e comprende quale sia la posizione di Benedetto XVI e quanto invece non gli appartenga, perché scritto e divulgato da altri.
Finiscono con l’alimentare la falsa mitologia dei due Papi sia quelle rappresentazioni che sottolineano amicizia e continuità fra i due personaggi in questione, senza evidenziare l’obbedienza dell’emerito all’attuale Papa, ma molto più quelle che li contrappongono in maniera subdola e ideologicamente contrassegnata. La riflessione si impone, perché i credenti non vengano disorientati più di quanto non siano dal contesto culturale e sociale in cui vivono.
Il Papa è il segno tangibile e concreto dell’unità della Chiesa, altro ruolo oltre questo non gli compete. In questo senso non può essere che uno e unico. Le epoche, da questo punto di vista certamente buie, in cui sono convissuti contemporaneamente Papi e antipapi, non hanno prodotto nulla di buono per il tessuto ecclesiale e spirituale della comunità credente. E solo quando qualcuno, come Giovanni XXIII (l’antipapa quattrocentesco), ha saputo con umiltà farsi da parte, si è ricostituita l’unità ecclesiale e ha ripreso vigore l’evangelo nel mondo.
Senza questo unico segno di unità, il cristianesimo vivrebbe una frammentazione devastante e la divisione regnerebbe sovrana, laddove al contrario, nella lettera agli Efesini leggiamo che «vi è [e quindi vi deve essere] un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti» (4, 4-6). Il dualismo non appartiene al cristianesimo cattolico, e quindi neanche alla fede cristiana tout court, è piuttosto frutto dello gnosticismo storico e perenne, che costituisce una costante tentazione per coloro che credono.
Per passare dalla Bibbia e dalla storia all’oggi, non possiamo dimenticare che il pontificato interrotto di papa Benedetto sia stato il vero gesto rivoluzionario che ha consentito la stagione di papa Francesco, con le sue innovazioni e la sua vivacità, sempre nel solco della tradizione della Chiesa cattolica. Abitare tale gesto, stupefacente e drammatico allo stesso tempo, significa rendersi conto che nella Chiesa vi è un solo Vescovo di Roma, ossia un solo Papa. Parlare di due Papi è insensato, come impegnarsi per contrapporre le due figure più significative dell’attuale contesto cattolico. E c’è da sospettare che dietro operazioni che adottano tale modalità, ci sia chi intende distruggere la Chiesa stessa, attentando alla sua prima nota costitutiva, che - come recitiamo nel Credo - è l’unità. Certo demitizzare i "due Papi" significa andare contro corrente e avere meno audience, ma non per questo ci si può esimere da tale compito.
Ritenere che la tradizione sia da una parte e l’innovazione dall’altra significa non comprendere il senso autentico della tradizione stessa, che è radicalmente innovativa, in quanto non guarda solo al passato, ma si innesta nel presente e si apre al futuro. Questo vale per le strutture costitutive di quella religione che pone a suo fondamento la fede cristiana. In primo luogo il culto e la liturgia, che, ininterrottamente, ma con linguaggio sempre nuovo, fa sì che il mistero si renda presente nell’oggi della sacramentalità. Qui il gesto e le parole fondamentali sono sempre le stesse: il pane che si spezza, l’acqua che si versa, le mani che si impongono, l’unzione con le parole che accompagnano e rendono sacramento il segno. Su questi fondamentali la Chiesa non ha alcun potere, in quanto le sono consegnati dalla rivelazione stessa, ma le modalità celebrative le sono affidate, perché la memoria non sia pura nostalgia e il presente non si rattrappisca in un passato preconfezionato. In secondo luogo la dottrina, che è chiamata a svilupparsi, secondo la feconda indicazione del santo cardinale John Henry Newman.
Uno sviluppo organico ed omogeneo, che, quando non è tale (o non è stato tale) ha prodotto i peggiori mali della Chiesa, ossia l’eresia e lo scisma. In terzo luogo le strutture, chiamate a trasformarsi e modificarsi, nello spirito di quanto disegnato da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019). I binari di tale trasformazione sono stati indicati nell’evangelizzazione e nella promozione umana, cardini portanti dell’agire ecclesiale nel presente e nel futuro, su cui devono poggiare e di cui devono nutrirsi le sovrastrutture o impalcature giuridiche e istituzionali.
Il falso mito dei due Papi veniva smascherato dallo stesso Benedetto XVI, quando, in un famoso discorso alla curia romana (22 dicembre 2005), riflettendo sul Concilio Vaticano II, contrapponeva un’ermeneutica della ’discontinuità’, ovvero dell’innovazione per l’innovazione, che avrebbe di fatto offerto il fianco al dualismo, non a quella della ’continuità’, come ci si sarebbe aspettato da un Papa ritenuto conservatore, ma a quella della ’riforma’. Una riforma che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione, ma significa sviluppo e vita, apertura al futuro nel necessario e sempre fecondo radicamento nel passato, con attenzione vigile a un presente certamente problematico, ma anche affascinante e provocatorio per la fede.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
«Sconcertati per le parole della Congregazione per la dottrina della fede, e per il vostro silenzio»
Chiese, Valdesi e metodisti scrivono ai vescovi e ai credenti cattolici di Palermo *
Palermo, 30 luglio 2007 - «Le chiese evangeliche valdesi e metodista di Palermo manifestano il proprio sconcerto per le chiusure espresse dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nelle Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa. Il documento non enuncia nulla di nuovo rispetto all’enciclica Dominus Iesus (2000), e il fatto che sia stato ribadito che quelle che affondano le proprie radici nella Riforma del XVI secolo non siano Chiese, perché non possiedono il sacerdozio ministeriale e non conservano la sostanza del ministero eucaristico, non ci meraviglia più di tanto». Lo scrivono in documento, inviato ai vescovi e ai fedeli cattolico-romani della città, le chiese valdesi e metodiste che aggiungono: «Noi siamo convinti che: viviamo della promessa, finora mantenuta dal Signore, che la testimonianza dei profeti e degli apostoli continuerà a far nascere e conserverà la sua chiesa di peccatori perdonati; non abbiamo il sacerdozio ministeriale perché viviamo dell’unico sacerdozio di Cristo; abbiamo la promessa che, nel pane e nel vino della Cena del Signore, siamo in piena comunione con Lui».
«Tuttavia - sottolineano - ci preoccupa il fatto che la Chiesa Cattolica, negli ultimi tempi, si stia avviando verso una nuova Controriforma. Ci riferiamo alla riproposizione della messa in latino, alla reintroduzione della preghiera per la conversione degli ebrei e ora la Dichiarazione sulla Lumen gentium. Assistiamo oggi, e questo ci delude molto, a un ridimensionamento delle aperture ecumeniche del Concilio che intravediamo nell’affermazione, non certo nuova, che la Chiesa di Cristo sussiste unicamente nella Chiesa Cattolica. Il Concilio Vaticano II aveva sostituito l’est di tale affermazione con “subsistit in” dichiarando così che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica, in senso non esclusivo».
«Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede - concludono - distrugge la cattolicità (universalità) della chiesa quando per chiesa cattolica intende quella “cattolico-romana”. Noi affermiamo invece che “Ogni chiesa è la chiesa cattolica (universale) e non semplicemente una parte di essa. Ogni chiesa è la chiesa cattolica, ma non nella sua interezza. Ogni chiesa realizza la propria cattolicità quando è in comunione con le altre chiese” (Documento “Chiamati ad essere una sola Chiesa” della IX Assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Porto Alegre - Brasile - 2006)».
* Il dialogo, Lunedì, 30 luglio 2007
MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
di Elio Rindone *
Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore - prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria - dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.
a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni - la parola é degli uomini, il servizio é delle donne - risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).
b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica platonica o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere platonica o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).
c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato platonico, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).
Fonte: ITALIA LAICA, 9-7-2007
Sul nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede
Un’altra interpretazione restrittiva ed inaccettabile
di Noi Siamo Chiesa
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Comunicato Stampa
Il decreto dell’ex-S.Ufficio è un’altra interpretazione restrittiva ed inaccettabile del Concilio ed uno stop al cammino ecumenico delle Chiese
Il portavoce di “Noi Siamo Chiesa” Vittorio Bellavite ha rilasciato la seguente dichiarazione in merito al testo su “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa” diffuso il 10 luglio dalla Congregazione per la dottrina della fede:
“Dopo il motu proprio sulla liberalizzazione della Messa tridentina dei giorni scorsi, ora è un documento dell’ex-S.Ufficio che cerca di imporre una interpretazione restrittiva del Vaticano II, ignorando tutti i dialoghi e gli approfondimenti teologici e pastorali avvenuti negli ultimi quaranta anni nella Chiesa cattolica, nella Chiesa ortodossa e nelle Chiese evangeliche nella direzione di un comune cammino ecumenico.
In questo testo si ribadiscono le posizioni contenute nella Dichiarazione Dominus Jesus del 2000 senza tenere in nessun conto che esse furono respinte dalle altre Chiese e che furono vivacemente criticate anche all’interno della Chiesa cattolica.
L’orientamento di questo Pontificato mette in gravi difficoltà il cammino ecumenico, in particolare alla vigilia dell’Assemblea Ecumenica Europea di Sibiu del prossimo settembre e dell’incontro di ottobre della Commissione mista cattolico-ortodossa di ottobre. Ritengo del tutto giustificabili l’amarezza, lo sconcerto e le reazioni critiche degli esponenti della Chiesa ortodossa e delle Chiese evangeliche.
Chiediamoci tutti che cosa Cristo si aspetta da noi piuttosto che porci il problema delle delimitazioni e dei confini tra i credenti e le loro Chiese. Preghiamo perché i cristiani , uniti nella fede nel Vangelo di Gesù, pur nella diversità del modo di praticarla, esprimano una voce concordante nei confronti di ogni fondamentalismo, per un rapporto positivo con le altre religioni e perché insieme siano affrontati i grandi problemi dell’umanità, quelli del rapporto tra il Nord ed il Sud del mondo, del riarmo e delle guerre, della tutela ovunque dei diritti umani e della tutela dell’ambiente.”
NOI SIAMO CHIESA
(aderente all’International Movement We Are Church-IMWAC)
Roma, 11 luglio 2007
* Il Dialogo, Giovedì, 12 luglio 2007
E’ solo quella cattolica la «vera Chiesa»? *
Che cosa pensare, gentile direttore, di un signore che abitando nei dintorni di Roma, nei pressi della via Tiburtina, dicesse a coloro che abitano sempre nei dintorni della Capitale, ma nelle adiacenze della Cassia o della Nomentana, o della Prenestina, che l’unica strada per recarsi a Roma è la Tiburtina? Con tutte le approssimazioni del paragone, il Papa, che ha approvato il documento della Congregazione della Dottrina della Fede, secondo il quale la Chiesa Cattolica è l’unica Chiesa voluta da Gesù Cristo, in qualche modo è come quel signore.
Che utilità ha una dichiarazione del genere? E soprattutto: a chi può giovare? Con tutto il rispetto, però ho la vaga impressione che il nostro Pontefice non sappia che cosa escogitare per uscire dall’ombra stesa inevitabilmente sui suoi successori, dalla quercia (altro paragone con limiti) Giovanni Paolo II.
Io un suggerimento lo avrei: lasciar perdere i libri su Gesù (niente di veramente originale, se non le vendite), la messa in latino, ecc., e mettersi di buona lena, dopo il Papa che secondo alcuni ha cambiato la storia, per cambiare radicalmente la Chiesa. Il rischio è di morire martire; ma in fondo per il Vicario di Cristo, dovrebbe essere quasi una fortuna.
Renato Pierri
* L’Unità, 12 luglio 2007
CHI DÀ LE PATENTI DI ECCLESIALITÀ?
Le chiese evangeliche non si considerano chiese di "serie B" perché la Chiesa romana le considera tali e non da ora.
di Past. Roberto Mazzeschi (*)
Nessun cristiano dev’essere turbato dal recente documento della Congregazione per la Dottrina della fede della Chiesa cattolica che ribadisce il fatto che le chiese protestanti, tra le altre, non sono "chiesa" per il fatto di non essere unite alla Chiesa cattolico-romana. Si tratta di un convincimento già ampiamente esposto dal magistero cattolico: ad esempio, dal Vaticano II (Lumen Gentium), e ribadito nella Dominus Iesus del 2000.
Il punto non è la novità di questa visione, che può dare fastidio al movimento ecumenico, ma non ai credenti in Gesù Cristo. La questione in gioco è un’altra. ed è questa: nessuna istituzione umana ha l’autorità di dare patenti di ecclesialità ad altre. Questa prerogativa spetta a Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo sulla base della Scrittura. In altre parole, la chiesa è stabilita dal Signore Gesù dove due o tre persone sono riunite nel Suo nome, dove la Sua Parola è annunciata integralmente, dove gli ordinamenti (battesimo e cena) sono amministrati fedelmente e dove il discepolato è vissuto in modo confessante. Quando ciò accade, è del tutto ininfluente che un’istituzione umana detti altri criteri autoreferenziali.
Le chiese evangeliche rifiutano di considerarsi chiese di "serie B" perché la Chiesa romana le considera tali. Sanno che i conti si fanno con Dio, non con il papa e la gerarchia.
In fondo, questo documento è più “romano” che “cattolico”.
Ma, chiediamoci, il genio del Cattolicesimo Romano non è proprio quello di tenere insieme il centralismo e l’universalità, spostando il pendolo ora di qua ora di là? L’Evangelo invita ogni persona e ogni chiesa a riformarsi continuamente alla luce della Parola di Dio, non a mantenere i propri equilibri malsani.
Evidentemente, il Cattolicesimo tiene più a consolidare la propria identità che ad assecondare il soffio dello Spirito Santo.
Roma, 11 luglio 2007
(*) Alleanza Evangelica Italiana www.alleanzaevangelica.org
presidenza@alleanzaevangelica.org
Fonte: Italia laica, 11-7-2007