Per lottare contro la pedofilia, aboliamo il celibato dei preti
di Hans Küng
Le Monde, 5 marzo 2010 * (traduzione dal francese: www.finesettimana.org)
I numerosi abusi sessuali che dei membri del clero cattolico hanno commesso su bambini e adolescenti, dagli Stati Uniti alla Germania, passando per l’Irlanda, non portano alla Chiesa cattolica solo un danno di immagine. Sono anche rivelatori della crisi profonda in cui essa si sta dibattendo.
Per la Conferenza episcopale tedesca ha preso pubblicamente posizione il suo presidente, l’arcivescovo di Friburgo, Robert Zollitsch. Il fatto che abbia definito questi casi di abusi sessuali dei “crimini odiosi”e che, di conseguenza, nella sua dichiarazione del 25 febbraio, la Conferenza episcopale tedesca abbia chiesto perdono a tutte le vittime, è certo un primo passo in direzione di un ritorno all’ordine; ma dovrebbe essere seguito da altri passi. La dichiarazione di mons. Zollitsch comporta almeno tre gravi errori di valutazione che bisogna denunciare.
Prima affermazione: gli abusi sessuali dovuti a dei preti non hanno niente a che vedere con il celibato. Obiezione! È certo incontestabile che questo genere di scandali avviene anche in famiglie, scuole, associazioni e anche all’interno di Chiese in cui la regola del celibato dei preti non esiste. Ma perché il fenomeno è così diffuso proprio nelle Chiese cattoliche dirette da uomini non sposati? Beninteso, queste devianze non sono esclusivamente dovute al celibato.
Ma esso è strutturalmente l’espressione più rilevante della relazione distorta che la gerarchia cattolica ha con la sessualità, la stessa che determina il suo rapporto con il problema della contraccezione e molti altri.
Eppure basta aprire il Nuovo Testamento: se Gesù e Paolo hanno preferito, a titolo esemplare, non sposarsi per restare a servizio dell’umanità, non per questo non hanno lasciato all’individuo una libertà di scelta totale in questo ambito. Nel Vangelo, il celibato può essere considerato solo una vocazione liberamente accettata (Charisma) e non una legge universalmente imposta.
Paolo si è opposto a coloro che, già allora, sostenevano che “è bene per l’uomo astenersi dalla donna”: “A causa delle dissolutezze, è bene che ogni uomo abbia la sua donna e che ogni donna abbia suo marito” (1° capitolo della lettera ai Corinti, 7,1 e seguenti), rispondeva loro l’apostolo. Secondo la prima lettera a Timoteo, “bisogna anche che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna”(3,2).
Pietro, come anche gli altri discepoli di Cristo, sono stati sposati durante tutto il periodo del loro apostolato. È stato così, per diversi secoli, per i vescovi e i preti delle parrocchie, il che, come tutti sanno, si perpetua nelle Chiese d’Oriente, anche tra gli uniati rimasti legati a Roma, e nell’ortodossia nel suo insieme, almeno per quanto riguarda i preti. È proprio il celibato elevato a regola che contraddice il Vangelo e la tradizione del cattolicesimo primitivo. È quindi opportuno abrogarlo.
Seconda affermazione: è “totalmente erroneo” ricondurre questi casi di abuso sessuale ad una faglia nel sistema della Chiesa. Obiezione! Il celibato non era ancora in vigore nel primo millennio dell’era cristiana. In Occidente, è stato istituito nell’XI secolo sotto l’influenza dei monaci (che erano celibi per scelta). Lo si deve a papa Gregorio VII, quello stesso che ha costretto l’imperatore del Sacro Romano Impero germanico ad inginocchiarsi davanti a lui a Canossa (1077), e lo ha fatto nonostante la virulenta opposizione del clero italiano e più ancora di quello germanico. In Germania, del resto, solo tre vescovi hanno osato promulgare il decreto papale. I preti che protestavano si contavano a migliaia. In una petizione, il clero tedesco ha chiesto “se il papa non conosceva la parola del Signore: ’Chi può capire, capisca!’” (Matteo 19, 12). In questo unico e solo passo riguardante il celibato, Gesù si esprime a favore del carattere volontario di questa riforma del modo di vivere.
La regola del celibato doveva quindi diventare - insieme all’assolutismo papale e al rafforzamento del clericalismo - un pilastro essenziale del “sistema romano”. Contrariamente a ciò che ha corso nelle Chiese d’Oriente, il clero occidentale, così votato al celibato, appare per questo completamente separato dal popolo cristiano: come una classe dominante singolare, fondamentalmente al di sopra dei laici, ma totalmente sottomessa all’autorità pontificia romana. Ora, l’obbligo del celibato costituisce oggi la causa principale della mancanza catastrofica di preti, dell’abbandono - carico di conseguenze - della pratica della comunione e in molti casi nel crollo dell’assistenza spirituale personalizzata.
Una evoluzione che si cerca di nascondere con la fusione di parrocchie, dietro l’eufemismo di “unità di assistenza spirituale” che vengono affidate a dei parroci già totalmente sovraccarichi. Eppure qual è la migliore formazione per le generazioni future di preti? L’abrogazione della regola del celibato, radice di tutti i mali, e l’apertura dell’ordinazione alle donne. I vescovi lo sanno bene, ma bisognerebbe che avessero il coraggio di dirlo a voce alta e intelligibile. Avrebbero dalla loro parte la stragrande maggioranza della popolazione e anche i cattolici, dei quali i sondaggi recenti mostrano che si pronunciano a favore del matrimonio dei preti.
Terza affermazione: i vescovi si sono addossati abbastanza responsabilità. Che finalmente siano state adottate delle misure di spiegazione e di prevenzione è una iniziativa lodevole. Ma l’episcopato non porta forse la responsabilità di decenni di pratiche di mascheramento dei casi di abuso sessuale, che spesso hanno avuto come unica conseguenza il trasferimento del delinquente, mirando solo a rafforzare la cappa di piombo? Quelli che ieri hanno soffocato gli scandali, sono oggi i più qualificati per fare luce? Non sarebbe meglio una commissione indipendente?
Fino ad oggi, quasi nessun vescovo ha riconosciuto la sua complicità. Eppure, ciascuno potrebbe arguire che si limita a seguire gli ordini di Roma. In Vaticano, sulla base del più assoluto segreto, la discreta Congregazione per la dottrina della fede ha affrontato tutti i casi gravi di devianza sessuale commessi dai membri del clero, che quindi sono arrivati sul tavolo del suo prefetto, il cardinale Ratzinger, tra il 1981 e il 2005. Ancora il 18 maggio 2001, quest’ultimo inviava ai vescovi del mondo intero una lettera solenne sulle penose mancanze (“Epistula de delictis gravioribus”). I casi di abusi sessuali vi erano posti sotto “segreto pontificio” “Secretum pontificium”) e classificati come offesa che esigeva una punizione ecclesiastica.
La Chiesa non dovrebbe quindi attendersi anche dal papa, in collegialità con i vescovi, un mea culpa? E - a guisa di riparazione - a questo dovrebbe essere collegata la possibilità che la regola del celibato, su cui il Concilio Vaticano II non si è espresso, sia finalmente liberamente e apertamente riconsiderata. Quindi, con la stessa franchezza per affrontare di petto la questione degli abusi sessuali stessi, bisognerebbe affrontare la discussione sulla sua causa essenziale e strutturale: la regola del celibato. Ecco quello che i vescovi dovrebbero proporre fermamente e senza giri di parole a papa Benedetto XVI.
* Tradotto dal tedesco da Nicolas Weill
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
Teologia.
Addio ad Hans Küng, voce critica del Papato e protagonista del Novecento
Figura difficile ma centrale nella Chiesa nata dal Vaticano II. Le sue posizioni sono discutibili e sono noti i suoi scontri con l’amico Ratzinger ma non si può negarne la sincera ricerca della verità
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 6 aprile 2021)
Forse il modo più giusto per parlare di Hans Küng, il teologo svizzero scomparso oggi a 93 anni è quello di non considerarlo soltanto uno studioso “contro”. Perché le sue posizioni teologiche e morali, spesso assai discusse, quasi sempre critiche verso la dottrina ufficiale della Chiesa erano certamente mosse da una ricerca sincera della verità. E fu quella la ragione che permise il famoso incontro del 26 settembre 2005 con Benedetto XVI e la lettera che il Papa emerito gli inviò in occasione del 88° compleanno e che si apriva con l’espressione “caro confratello”. I due si conoscevano personalmente dal 1957, e Ratzinger pubblicò una recensione alla tesi di dottorato di Küng. Secondo quanto scrive lo stesso Benedetto XVI nel libro autobiografico La mia vita, il futuro Pontefice non ne condivideva molte delle affermazioni ma nonostante ciò ebbe con lui un buon rapporto.
Circa le relazioni ufficiali la situazione invece era molto differente. Küng era infatti notoriamente il contestatore del dogma sull’infallibilità del Papa. Una posizione resa nota presso il grande pubblico nel 1970 quando uscì il saggio “Infallibile? Una domanda”, testo provocatorio sin dal titolo e il cui contenuto gli valse un richiamo formale della Congregazione per la dottrina della fede e nel 1979 il ritiro del titolo di «teologo cattolico», necessario in Germania per insegnare nelle facoltà di teologia delle università pubbliche.
Küng era nato a Sursee, villaggio nel cantone di Lucerna, il 19 marzo 1928. Ordinato sacerdote nel 1954, nel 1960 a 32 anni divenne professore ordinario presso la Facoltà di Teologia cattolica all’Università di Tubinga in Germania, dove fonderà anche l’Istituto per la ricerca ecumenica. Tra il 1962 e il 1965 partecipò al Concilio Vaticano II in qualità di esperto conoscendo anche Ratzinger presente come teologo consigliere dell’arcivescovo di Colonia. Tornato a Tubinga, invitò l’università ad assumere Ratzinger come professore di teologia dogmatica. Dopo la revoca della possibilità di insegnare la teologia cattolica, la cosiddetta “missio canonica”, conservò tuttavia la cattedra presso il suo Istituto (che viene però separato dalla facoltà cattolica).
Nel corso degli anni pur sempre su posizioni critiche verso il Papato e la gerarchia ecclesiastica ha continuato ad animare e influenzare la discussione teologica, in particolare nell’ottica del dialogo tra le religioni. Sono note le sue posizioni di apertura all’ammissione delle donne a ogni ministero, a una maggiore partecipazione dei laici alla vita religiosa mentre sulla bioetica sosteneva che in caso di utilizzo di "mezzi straordinari" per il mantenimento della vita, la loro sospensione non poteva essere considerata eutanasia. Nel 1993 ha creato la Fondazione Weltethos (Etica mondiale), per rinforzare la cooperazione tra le religioni mediante il riconoscimento dei valori comuni e a disegnare un codice di regole di comportamento universalmente condivise.
Posizioni di frontiera molto dure verso il Papato come si capisce, che però non impedirono un dialogo pacato e amichevole con Ratzinger nel succitato settembre 2005. Un colloquio - riassunse una nota quel giorno - in cui Benedetto XVI «ha riaffermato il suo accordo circa il tentativo del professor Küng di ravvivare il dialogo tra fede e scienze naturali e di far valere, nei confronti del pensiero scientifico, la ragionevolezza e la necessità della Gottesfrage (la questione circa Dio)». Da parte sua, proseguì la nota il professor Küng ha espresso «il suo plauso circa gli sforzi del Papa a favore del dialogo delle religioni e anche circa l’incontro con i differenti gruppi sociali del mondo moderno».
A proposito del celibato per i preti e di una Chiesa che deve abitare il mondo
Comunque celibi?
di Fabrizio Mandreoli (Il Mulino, 06 giugno 2014)
"Ma la Chiesa cattolica ha preti sposati, no? I cattolici greci, i cattolici copti... no? Ci sono, nel rito orientale, ci sono preti sposati. Perché il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita che io apprezzo tanto e credo sia un dono per la Chiesa. Non essendo un dogma di fede, sempre c’è la porta aperta". Così si è espresso il papa nel viaggio di ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa rispondendo a una domanda dei giornalisti. Certo, non pare questo uno dei temi più urgenti dell’agenda di Bergoglio, che in ciò si pone direttamente nella linea di alcune figure profetiche dell’episcopato sud americano, come quella di dom Hélder Camara, che affermava: "Va bene parlare del celibato, ma quando affronteremo i temi della fame e dell’ingiustizia?".
Nondimeno il tema dopo diversi anni torna sul tavolo. La novità probabilmente più significativa non pare essere tanto la res del celibato, ma che se ne torni a parlare in maniera aperta e non drammatizzata. Davvero pochi sono stati gli argomenti più "censurati" nel dibattito pubblico e ufficiale della Chiesa. Probabilmente tale sottrazione dal confronto e dalla possibilità di scambio è originata dalla quantità di questioni ad esso correlate, e spesso dalla debolezza delle argomentazioni teoriche e delle motivazioni esistenziali che sorreggono questa prassi. Quindi la regola non scritta del non-dibattito è stata: visto che molte cose - che toccano direttamente e in profondità la vita della maggioranza dei ministri (presbiteri e vescovi) della Chiesa cattolica di rito latino - sembrano vacillare, non conviene parlarne, né conviene smuoverle dal loro andamento solito, anche se tutt’altro che coerente e adeguato.
Lo stesso neo eletto segretario generale - Nunzio Galantino - della Conferenza episcopale italiana ha accennato al fatto che nel dibattito e nella prassi sinodale della Cei non possono esserci dei tabù, dei non-detti e delle rimozioni strutturali. In questi primi accenni non si prospettano, così, soluzioni o rinnovamenti di prassi, ma semplicemente si afferma che è possibile parlarne, uscendo decisamente da quella situazione descritta negli anni Cinquanta dal teologo Yves Congar: “il problema non è che a Roma condannano le soluzioni, ma condannano le stesse domande”.
Ma qual è, in termini essenziali, la questione? Probabilmente va sottolineata una prima caratteristica: non si tratta qui di una sorta di adattamento della Chiesa cattolica ai tempi moderni, di una concessione - per così dire - alla debolezza umana. Spesso il celibato viene trattato come una materia intrigante o rubricato insieme alle - pur importanti, ma davvero diverse - questioni del sacerdozio femminile, del rapporto con l’omosessualità, delle questioni bioetiche e di morale sessuale.
Di per sé la possibilità di ammettere all’ordinazione presbiterale uomini con moglie e figli è tutt’altro che una questione moderna o post-moderna. Si trova già con chiarezza nel Nuovo Testamento - dove, tra l’altro, è proprio l’essere mariti e padri degni uno dei criteri decisivi per esercitare un ministero nella famiglia di Dio - e si trova nella prassi delle Chiese antiche la chiara possibilità che i ministri siano non sposati, sull’esempio del ministero itinerante e profetico dello stesso Gesù, o che i ministri abbiano responsabilità famigliari. Entrambe le opzioni sono dall’inizio state possibili.
Come affermato dallo stesso Hans Urs von Balthasar - teologo tra i più significativi del Novecento - non è, quindi, un problema di novità teologica, di cedimento al secolo o di adattamento alle esigenze della modernità. Tecnicamente si tratta di una delle possibilità esistenti nella ricca e multiforme tradizione cristiana, a cui la Chiesa può attingere per meglio affrontare i problemi e le esigenze della missione nel tempo presente. Non è un caso che all’interno della stessa tradizione cattolica esista nelle Chiese orientali questa possibilità pacificamente praticata e - come ha bene indagato il teologo Basilio Petrà - sancita dal Codice di diritto canonico per le chiese orientali cattoliche promulgato dalla stessa Santa Sede. Ragionamento simile potrebbe essere fatto per il recente provvedimento per i ministri anglicani e che rientrano nella comunione con Roma e che prevede la possibilità di essere presbiteri cattolici con famiglia.
Oggi non si tratterebbe, dunque, di abolire il celibato, ma semplicemente di sviluppare e allargare le possibilità di accesso al ministero. Questo allargamento - una volta che fosse reintrodotta una duplice opzione nello scegliere i presbiteri tra uomini celibi o sposati - potrebbe suonare come una vera e propria rivalutazione dello stesso celibato. Infatti una volta che la scelta di non sposarsi e di non avere figli non coincida di default con l’essere presbitero, ma sia una scelta più consapevole e libera - ossia non legata semplicemente all’assetto strutturale e istituzionale ecclesiastico - potrebbe davvero divenire un forte appello alla dimensione "altra" e "profetica" del messaggio evangelico e alla estrema libertà talora necessaria al ministero dell’annuncio evangelico.
È chiaro che il tema tocca, direttamente o indirettamente, molte questioni: quella dei ministeri, l’organigramma clericale, le rappresentazioni dei fedeli, la gestione della vita quotidiana di quell’impressionante rete territoriale che sono le parrocchie, le idee e le concezioni sulla sessualità e sull’amore umano, il modo in cui viene gestito e rappresentato il potere, modelli e paradigmi centenari, la relazione tra la giustizia degli affetti e la vita del credente. In definitiva il ripensamento su questo punto - che ne implica molti altri - può arrivare a riconfigurare il ministero dei preti e, quindi, il modo con cui la Chiesa cattolica abita il mondo.
“La porta aperta” ricordata da Francesco è un invito a riaffrontare un tema che, se adeguatamente ponderato, potrebbe aprire possibilità significative per la vita della Chiesa cattolica, in maniera tutta particolare potrebbe aiutare a ripensare la figura - strategica e simbolica - del prete aggiornandone i tratti in umanità e in profondità evangelica. La posta in gioco non è, dunque, da poco.
Il matrimonio è un diritto anche per i preti
Abolire il celibato per il bene della chiesa
di Vito Mancuso (la Repubblica, 19.05.2014)
CHISSÀ come risponderà il Papa alla lettera indirizzatagli da 26 donne che (così si sono presentate) «stanno vivendo, hanno vissuto o vorrebbero vivere una relazione d’amore con un sacerdote di cui sono innamorate». Ignorarla non è da lui, telefonare a ogni singola firmataria è troppo macchinoso, penso non abbia altra strada che stendere a sua volta uno scritto. Avremo così la prima epistula de coelibato presbyterorum indirizzata da un Papa a figure che fino a poco fa nella Chiesa venivano chiamate, senza molti eufemismi, concubine.
Dai frammenti della lettera riportati sulla stampa risulta che le autrici hanno voluto presentare la «devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento ». Il loro obiettivo, scrivono al Papa, è stato «porre con umiltà ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa». Ecco la posta in gioco, il bene della Chiesa. L’attuale legge ecclesiastica che lega obbligatoriamente il sacerdozio al celibato favorisce il bene della Chiesa? Guardando ai due millenni del cattolicesimo, ritroviamo che nel primo il celibato dei preti non era obbligatorio («fino al 1100 c’era chi lo sceglieva e chi no», così scriveva il cardinale Bergoglio).
MENTRE lo divenne nel secondo in base a due motivi: 1) la progressiva valutazione negativa della sessualità, il cui esercizio era ritenuto indegno per i ministri del sacro; 2) la possibilità per le gerarchie di controllare meglio uomini privi di famiglia e di conseguenti complicate questioni ereditarie. Così il prete cattolico del secondo millennio divenne sempre più simile al monaco.
Si tratta però di due identità del tutto diverse. Un conto è il monaco il cui voto di castità è costitutivo del codice genetico perché vuole vivere solo a solo con Dio (come dice già il termine monaco, dal greco mònos, solo, solitario); un conto è il ministro della Chiesa che determina la sua vita nel servizio alla comunità. Il prete (diminutivo di presbitero, cioè “più anziano”) esiste in funzione della comunità, di cui è chiamato a essere “il più anziano”, cioè colui che la guida in quanto dotato di maggiore saggezza ed esperienza di vita. Ora la questione è: la celibatizzazione forzata favorisce tale saggezza e tale esperienza?
Quando i preti celibi parlano della famiglia, del sesso, dei figli e di tutti gli altri problemi della vita affettiva, di quale esperienza dispongono? Rispondo in base alla mia esperienza: alcuni sacerdoti dispongono di moltissima esperienza, perché il celibato consente loro la conoscenza di molte famiglie, altri di pochissima o nulla, perché il celibato li fa chiudere alle relazioni in una vita solitaria e fredda. Ne viene che il celibato ha valore positivo per alcuni, negativo per altri, e quindi deve essere lasciato, come nel primo millennio, alla libera scelta della coscienza.
Vi è poi da sottolineare che la qualità della vita spirituale non per tutti dipende dall’astinenza sessuale e meno che mai dall’essere privo di famiglia, basti pensare che quasi tutti gli apostoli erano sposati e che il Nuovo Testamento prevede esplicitamente il matrimonio dei presbiteri (cf. Tito 1,6).
Se poi guardiamo alla nostra epoca, vediamo che veri e propri giganti della fede come Pavel Florenskij, Sergej Bulgakov, Karl Barth, Paul Tillich erano sposati. Se i nazisti non l’avessero impiccato, anche Dietrich Bonhoeffer si sarebbe sposato, ed Etty Hillesum, una delle più radiose figure della mistica femminile contemporanea, ebbe una vita sessuale molto intensa. Anche Raimon Panikkar, sacerdote cattolico, tra i più grandi teologi del ‘900, si sposò civilmente senza che mai la Chiesa gli abbia tolto la funzione sacerdotale.
“Non è bene che l’uomo sia solo”, dichiara Genesi 2,18. Gesù però parla di “eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli” ( Matteo 19,12). La bimillenaria esperienza della Chiesa cattolica si è svolta tra queste due affermazioni bibliche, privilegiando per i preti ora l’una ora l’altra. Penso però che nessuno possa sostenere che il primo millennio cristiano privo di celibato obbligatorio sia stato inferiore rispetto al secondo.
Oggi, a terzo millennio iniziato, penso sia giunto il momento di integrare le esperienze dei due millenni precedenti e di far sì che quei preti che vivono storie d’amore clandestine (che sono molto più di 26) possano avere la possibilità di uscire alla luce del sole continuando a servire le comunità ecclesiali a cui hanno legato la vita. La loro “anzianità” non ne potrà che trarre beneficio. Vi sono poi le molte migliaia di preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna (ma che rimangono preti per tutta la vita, perché il sacramento è indelebile) e che potrebbero tornare a dedicare la vita alla missione presbiterale, segnati da tanta, sofferta, anzianità.
Uno psicoterapeuta chiede che il celibato sia facoltativo
di Andreas Ross
in “www.sueddeutsche.de” del 29 dicembre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Wunibald Müller ammonisce insistentemente da anni la Chiesa cattolica. In discussioni e comunicazioni ha spesso sostenuto la necessità di un rinnovamento della sua Chiesa. E in qualità di psicologo e teologo ha messo il dito su un punto particolarmente dolente: l’atteggiamento rigido della Chiesa sulla sessualità umana e l’obbligo del celibato per i preti che nel mondo moderno è ormai poco compreso.
Müller sa di che cosa parla. Come direttore della Recollectio-Haus nel convento benedettino du Münsterschwarzach nella Bassa Franconia, lo psicologo incontra molti preti con problemi psicologici che si rivolgono a lui come terapeuta poiché non sono riusciti a realizzarsi in quella forma di vita e vogliono venire a capo della loro situazione. Però finora né Roma né i vescovi fanno pensare di voler cambiare qualcosa a questa situazione dolorosa per le persone coinvolte. Ora Müller ripone piena speranza in papa Francesco, che in una sua lettera definisce “una benedizione per la nostra Chiesa”. Con il suo aiuto potrebbe aver successo la separazione di presbiterato e celibato. “La porta non è chiusa. È solo accostata. Dipende da Lei che venga aperta. La prego insistentemente di aprire la porta”, scrive Müller.
Müller riferisce al pontefice direttamente senza preamboli della sua esperienza professionale. In circa 25 anni ha avuto il privilegio di conoscere non solo esteriormente, ma anche interiormente molte centinaia di preti. “Ho incontrato un numero incalcolabile di preti che a causa dello stile di vita celibatario loro richiesto si trovano in una situazione di grande difficoltà psicologica”, scrive Müller. Sempre più frequentemente ci sono tra di loro anche giovani preti. “Parto dal presupposto che Lei sappia di queste difficoltà. Lei ha contribuito con la sua azione benefica a far sì che sia aumentata la disponibilità, tra i preti che vivono una relazione, ad affrontare la propria verità e realtà”, continua Müller nella sua lettera al papa. Molti di questi preti vorrebbero mantenere e vivere la loro relazione, ma sarebbe proprio un peccato che fossero persi per la chiesa.
Wunibald Müller si appella nella sua lettera anche al teologo Karl Rahner, che già 40 anni fa aveva sostenuto l’opportunità di una separazione di presbiterato e celibato, se la Chiesa si fosse trovata nella situazione di non avere un numero sufficiente di preti. Un altro motivo per la separazione sarebbe tuttavia il fatto che molti preti non si sentono più di vivere in maniera celibataria. Si troverebbero quindi nell’alternativa o di lasciare il loro ufficio ecclesiale o di rimanere in carica vivendo le loro relazioni sessuali nel segreto.
La sessualità e intimità praticata in tal modo non potrebbe dispiegarsi in modo autentico e sarebbe quindi anche causa “in modo speciale di comportamenti psichicamente e spiritualmente malsani, che offuscano la vita celibataria e le portano discredito”, sostiene Müller.
Lo psicoterapeuta vede “un motivo ancora più profondo” per la separazione di presbiterato e celibato. Si tratta di prendere davvero sul serio la costituzione umana e la forza creatrice, “che Dio ci ha donato nella sessualità”. Müller rinvia in questo contesto a Ildegarda di Bingen, della quale si tramandata la dichiarazione che Dio ci ha donato con la sessualità una forza nella quale non sta solo il lascivo Satana, ma anche la “forza dell’eternità”.
Ancora una volta Müller si appella a papa Francesco, “per amor di Dio, per amore dell’uomo e della nostra Chiesa, di fare tutto ciò che le è possibile, affinché nella nostra Chiesa ci possano ancora essere preti che scelgano seriamente una vita in cui la loro forza sessuale sia investita nell’impegno per gli altri, e in questo modo rendano feconda e realizzino nel modo a loro consono la forza di vita che sta nella sessualità”. Al contempo Müller vorrebbe che in futuro però ci fossero anche preti che possano celebrare e godere la loro sessualità come partner e, arricchiti e nutriti da relazioni intime, “con passione diano il meglio di sé nel loro servizio come preti”.
Il teologo di Münsterschwarzach inoltre si dichiara nella sua lettera a favore del presbiterato femminile. Dal punto di vista dogmatico, non vede nulla in contrario con tale richiesta, si mostra però scettico per quanto riguarda la tempistica. “Questa innovazione assolutamente inedita, noi due non la potremo vivere”, scrive al papa.
di Hans Küng (la Repubblica, 18.03.2010)
Si è detto che dopo aver ricevuto in udienza l’arcivescovo Robert Zollisch il Papa era «profondamente scosso» e «sconvolto» per i numerosi casi di abusi. Dal canto suo, il presidente [della Conferenza episcopale tedesca] ha chiesto perdono alle vittime, citando nuovamente le misure già adottate e quelle previste. Ma nessuno dei due ha risposto a una serie di domande di fondo che non è più possibile eludere. Stando ai risultati dell’ultimo sondaggio Emnid, solo il 10% degli interpellati trova soddisfacente l’opera di rielaborazione della Chiesa, mentre per l’86% dei tedeschi l’atteggiamento degli alti livelli della gerarchia ecclesiastica manca di chiarezza. Le loro critiche troveranno peraltro conferma nell’insistenza con cui i vescovi continuano a negare ogni rapporto tra l’obbligo del celibato e gli abusi commessi sui minori.
Prima domanda: Perché il Papa continua, contro la verità storica, a definire il «santo» celibato un «dono prezioso», ignorando il messaggio biblico che consente espressamente il matrimonio a tutti i titolari di cariche ecclesiastiche? Il celibato non è «santo», e non è neppure una grazia, bensì piuttosto una disgrazia, dal momento che esclude dal sacerdozio un gran numero di ottimi candidati, e ha indotto molti preti desiderosi di sposarsi a rinunciare alla loro missione.
L’obbligo del celibato non è una verità di fede, ma solo una norma ecclesiastica che risale all’XI secolo, e avrebbe dovuto essere sospesa ovunque in seguito alle obiezioni dei riformatori dal XVI secolo.
In nome della verità, il Papa avrebbe dovuto quanto meno promettere un riesame di questa norma, da tempo auspicato dalla grande maggioranza del clero e della popolazione. Anche personalità come Alois Glück, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, o Hans-Jochen Jaschke, vescovo ausiliare di Amburgo, si sono espresse in favore di un rapporto più sereno con la sessualità e della possibilità di far coesistere fianco a fianco sacerdoti celibi e sposati.
Seconda domanda: È possibile che «tutti gli esperti» abbiano escluso l’esistenza di qualsiasi rapporto tra la pedofilia e l’obbligo del celibato sacerdotale, come ha nuovamente asserito l’arcivescovo Zollitsch? Chi mai può conoscere il parere di «tutti gli esperti»!? Di fatto si potrebbero citare innumerevoli psicoanalisti e psicoterapeuti che al contrario hanno sottolineato questo rapporto: mentre l’obbligo del celibato impone ai preti di astenersi da qualunque attività sessuale, i loro impulsi sono però virulenti, col rischio che il tabù e l’inibizione sessuale li induca a ricercare una qualche compensazione.
In nome della verità, la correlazione tra l’obbligo del celibato e gli abusi non può essere semplicemente negata, ma va presa invece in seria considerazione. Lo ha ben chiarito ad esempio lo psicoterapeuta americano Richard Sipe, che a questi studi ha dedicato un quarto di secolo (cfr. «Knowledge of sexual activity and abuse within the clerical system of the Roman Catholic church», 2004): la forma di vita del celibato, e in particolare la socializzazione che la prepara (il più delle volte nei convitti e successivamente nei seminari) può favorire tendenze pedofile. Richard Sipe ha individuato un tipo di inibizione dello sviluppo psicosessuale più frequente nei celibi che nella media della popolazione; ma spesso la consapevolezza dei deficit dello sviluppo psicologico e delle tendenze sessuali si raggiunge solo dopo l’ordinazione al sacerdozio.
Terza domanda. Oltre a chiedere perdono alle vittime, i vescovi non dovrebbero finalmente riconoscere anche le proprie corresponsabilità? Per decenni, dato il tabù sulla norma del celibato, hanno occultato gli abusi, limitandosi a disporre il trasferimento dei responsabili. Tutelare i preti era più importante che proteggere bambini. C’è poi una differenza tra i casi individuali di abusi commessi nelle scuole, al di fuori della Chiesa cattolica, e gli abusi sistemici, spesso reiterati e frequenti, all’interno stesso della Chiesa cattolica romana, in cui vige tuttora una morale sessuale quanto mai rigida e repressiva, che culmina nella norma sul celibato.
In nome della verità, anziché porre un ultimatum di 24 ore al ministro federale della giustizia, sopravvalutando peraltro gravemente l’autorità ecclesiastica, il presidente della Conferenza episcopale avrebbe dovuto finalmente dichiarare con chiarezza che d’ora in poi, in caso di reati di natura penale le gerarchie della Chiesa non cercheranno più di eludere l’azione giudiziaria dello Stato. O dovremo aspettare che per ricredersi, la gerarchia sia costretta a pagare risarcimenti dell’ordine di milioni di euro? Negli Usa la Chiesa cattolica ha dovuto versare a questo titolo, nel 2006, ben 1,3 miliardi di dollari; e in Irlanda, nel 2009 il governo ha stabilito con gli ordini religiosi un accordo - rovinoso per questi ultimi - per un fondo risarcimenti di 2,1 miliardi di euro. Cifre del genere sono assai più eloquenti dei dati statistici sulle percentuali dei celibi tra gli autori di reati sessuali, citati nel tentativo di sdrammatizzare il dibattito.
Quarta domanda: Il papa Benedetto XVI non dovrebbe assumersi a sua volta le proprie responsabilità, anziché lamentarsi di una campagna che sarebbe in atto contro la sua persona? Nessuno finora, in seno alla Chiesa, si è mai trovato sulla scrivania un così gran numero di denunce di abusi. Vorrei ricordare quanto segue:
Per otto anni docente di teologia a Regensburg e in stretti rapporti col fratello Georg, maestro della cappella del Duomo (Domkapellmeister), Joseph Ratzinger era perfettamente al corrente della situazione dei Domspatzen, i piccoli cantori di Regensburg. E non si tratta qui dei ceffoni, purtroppo all’ordine del giorno a quei tempi, bensì anche di eventuali reati sessuali.
Arcivescovo di Monaco per cinque anni, in un periodo durante il quale un prete, trasferito nel suo episcopato, perpetrò una serie di ulteriori abusi che oggi sono venuti alla luce. Anche se Mons. Gerhard Gruber, suo vicario generale (oltre che mio ex collega di studi) si è assunta la piena responsabilità di questi episodi, la sua lealtà non poteva bastare a scagionare l’arcivescovo, responsabile anche sul piano amministrativo.
Per 24 anni Joseph Ratzinger è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel cui ambito si prendeva atto dei più gravi reati sessuali commessi dal clero in tutto il mondo, per raccoglierli e trattarli nel più totale segreto («Secretum pontificium». Il 18 maggio 2001, con una lettera rivolta a tutti i vescovi sul tema delle «gravi trasgressioni», Joseph Ratzinger aveva confermato per gli abusi il «segreto pontificio», la cui violazione è punita dalla Chiesa).
Papa per cinque anni, non ha cambiato di una virgola questa prassi infausta. In nome della verità Joseph Ratzinger, l’uomo che da decenni è il principale responsabile dell’occultamento di questi abusi a livello mondiale, avrebbe dovuto pronunciare a sua volta un «mea culpa». Così come lo ha fatto il vescovo di Limburg, Franz-Peter Tebartz-van Elst, che in un’allocuzione trasmessa per radio il 14 marzo 2010 si è rivolto a tutti i fedeli in questi termini: «Poiché un’iniquità così atroce non può essere accettata né occultata, abbiamo bisogno di cambiare strada, di invertire la rotta per dare spazio alla verità. Per convertirci ed espiare, dobbiamo incominciare col riconoscere espressamente le colpe, fare atto di pentimento e manifestarlo, assumerci le responsabilità e aprire così la strada a un nuovo inizio».
Anacronismo
editoriale di "Le Monde” (14 marzo 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Una cascata di scandali pedofili in Europa - con la rivelazione di abusi sessuali su minori risalenti agli anni 1980-1970 e perfino 1960 - scuote la Chiesa cattolica. Dopo l’Austria, i Paesi Bassi, e prima gli Stati Uniti e l’Irlanda, questi casi riguardano ora la patria di papa Benedetto XVI. In Francia, il fenomeno è ben lungi dall’avere la stessa ampiezza, dato che solo una decina di religiosi sono perseguiti per questi abusi. Deciso a fare piena luce su questi scandali, Benedetto XVI ha reagito con fermezza, e diversi vescovi hanno espresso delle scuse. Tuttavia, il papa non intende cedere all’ingiunzione del suo ex condiscepolo Hans Küng che, su Le Monde del 5 marzo, reclamava “l’abrogazione della regola del celibato, radice di tutti i mali”.Tra le religioni monoteiste, la Chiesa cattolica romana è la sola ad essere fedele a questa disciplina imposta a partire dal Concilio del Laterano, nel 1123. Venerdì 12 marzo, Benedetto XVI ha riaffermato il carattere “sacro” del celibato dei preti, “un’espressione del dono di sé a Dio e agli altri”. Fin dalla sua elezione nel 2005, vi vedeva “una conferma particolare allo stile di vita di Cristo stesso”.
Nessuno pensa, nemmeno Küng, che l’abrogazione del celibato sia un rimedio miracoloso contro la pedofilia. Nella grande maggioranza dei casi, questi abusi sessuali hanno luogo all’interno della cerchia familiare o in scuole o associazioni assolutamente laiche. Ma non si sono mai rilevati fenomeni di tale ampiezza nelle religioni in cui i pastori sono sposati. La Chiesa cattolica dovrebbe rivedere la sua visione della sessualità, invece di favorire l’immaturità sessuale dei suoi chierici.
Il dibattito sul celibato dei preti è legittimamente rilanciato. In Austria, l’arcivescovo di Salisburgo, mons. Alois Kothgasser, ha dichiarato, il 12 marzo, che “la Chiesa deve chiedersi se può mantenere questo modo di vita o che cosa vi deve cambiare”. Nel 2008, il capo della Chiesa tedesca, mons. Robert Zollitsch, aveva assicurato che “il rapporto tra presbiterato e celibato non è un imperativo teologico”.
Non ci si può aspettare alcuna evoluzione da parte di Benedetto XVI, che ha già chiuso la porta all’ordinazione di uomini sposati. In Francia, la metà dei 161 preti che hanno lasciato la Chiesa tra il 1996 e il 2005 hanno scelto un legame etero o omosessuale. Il celibato è una delle cause della penuria di vocazioni - anche se scarsità di vocazioni c’è anche per pastori e rabbini, che possono sposarsi. La Chiesa non è fuori dal mondo. Se vuole sposare l’umanità del suo tempo, sarebbe ben ispirata nel metter fine a questo anacronismo.
Pedofilia, un caso a Monaco quando Ratzinger era vescovo *
MONACO DI BAVIERA Un prete tedesco con precedenti di abusi sessuali ai danni di minori fu assegnato per questo motivo a lavorare nella comunità della chiesa locale a Monaco di Baviera, durante il periodo in cui Papa Benedetto XVI era arcivescovo di Monaco e di Baviera e di Freising. Lo scrive il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung in un articolo che verrà pubblicato domani. Il caso, sottolinea il giornale in un’anticipazione diffusa oggi, assume una «forza particolarmente esplosiva» poichè vede «coinvolto l’attuale Papa». Benedetto XVI, prosegue il giornale, «siedeva allora come arcivescovo di Monaco di Baviera e Freising nel consiglio dell’ordinariato della diocesi».
* La Stampa, 12/3/2010 (18:22)
intervista a mons. Luciano Pacomio
“Nessuna immunità, siamo tutti uguali”
a cura di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 13 marzo 2010)
«Tutti i battezzati sono uguali davanti alle leggi della Chiesa. Anche il Papa». Il vescovo Luciano Pacomio, commissario Cei per la Dottrina della fede è sicuro che «Joseph Ratzinger saprà fornire tutte le necessarie spiegazioni», ma chiarisce che «per il diritto canonico non esiste immunità a nessun livello della gerarchia ecclesiastica».
Il Papa può essere chiamato a rispondere della propria condotta quand’era arcivescovo di Monaco?
«Per il diritto canonico sì. La distinzione giuridica per la Chiesa è tra chi è battezzato e chi non lo è. Per il resto si è tutti uguali davanti alla legge. L’uguaglianza nell’umanità e nella fede rende tutti i battezzati soggetti di diritti e di doveri, incluso il Pontefice. In questa bufera viene coinvolto il periodo in cui il Santo Padre era in Germania alla guida dell’arcidiocesi di Monaco di Baviera. E di questo è chiamato ora a rendere conto Joseph Ratzinger».
Anche se ora è il Pontefice?
«Tecnicamente, il fatto che venticinque anni dopo quelle vicende Joseph Ratzinger sia stato eletto Papa, non lo esime dal dover rendere conto della sua condotta da arcivescovo di Monaco. E nessuno più di lui ha le carte in regola per far luce su ciascuna fase storica del suo servizio alla Chiesa. Come responsabilità a qualunque livello, l’immunità nella Chiesa non esiste. Il problema è accertare se da arcivescovo Joseph Ratzinger fosse a conoscenza o no dello scandalo finito oggi sotto i riflettori dei “mass media”. Il punto è verificare se abbia avuto o meno la responsabilità di una omissione, di un mancato avviso, di una decisione non presa».
Qual è il suo giudizio?
«Io sono sicuro che fosse all’oscuro di tutto, altrimenti sarebbe intervenuto nel modo più intransigente e limpido. In genere queste cose aberranti avvengono all’insaputa di chi ha autorità. Basta che il sacerdote direttamente colpevole non parli dell’accaduto e il vescovo suo superiore non viene a saperlo. Non si tratta però di fare distinzioni tra chi resta vescovo e chi diventa Papa».
Perché?
«Il diritto canonico vale sempre. Il Papa assomma in sé i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Chi è il legislatore non può andare contro la legge, anche se è superiore alla legge. Nello scandalo esploso a Monaco va stabilita la verità dal punto di vista della responsabilità, bisogna accertare come siano andate veramente le cose. Deve essere lo stesso Joseph Ratzinger a chiarire la sua posizione rispetto al presidente della conferenza episcopale tedesca perché la vicenda risale a quando era arcivescovo in Germania».
In che modo?
«Ciascun vescovo è responsabile del periodo in cui regge una diocesi nella misura in cui abbia fatto qualcosa o abbia omesso di intervenire o, pur essendo avvisato, non abbia agito. Per la tipologia di persona che è Joseph Ratzinger ritengo che non fosse a conoscenza degli abusi perpetrati a Monaco nei suoi anni. Da sempre il Santo Padre è rigoroso e molto attento alle forme di giustizia, come attestano le singole, durissime decisioni che ha assunto anche quando riguardavano autorevoli personalità della Chiesa. L’ipotesi più probabile è che non fosse stato avvisato, che non ne fosse cosciente e che perciò non abbia coinvolto altri nelle decisioni».
E’ tecnicamente possibile un Papa «sotto processo»?
«Joseph Ratzinger, come tutti, non può essere soggetto del diritto canonico e sottoposto alla giustizia ecclesiastica se non per un’autentica, comprovata omissione o, peggio, per una vera azione di tacitazione degli abusi sessuali commessi da esponenti del clero a Monaco negli anni di sua responsabilità. In teoria è previsto anche per il Papa l’istituto delle dimissioni volontarie. A livello di diritto canonico può darle, ma nessuno può con autorità imporle. Ma non è ovviamente questo il caso».
Se sapeva e ha taciuto ne risponderebbe anche adesso?
«Dovrebbe attestare i fatti e rendere conto della la situazione in cui si trovava da arcivescovo. Serve cautela. Non perché ora è Papa ma perché in queste cose chiunque diventa responsabile solo di fronte alla vera omissione o, peggio ancora, se ha manovrato per nascondere gli avvenimenti. Dal punto di vista giuridico il Papa non è sciolto dalla legge. Anche lui è tenuto al rispetto delle norme canoniche. Tutti siamo soggetti alla legge e dobbiamo rispondere per aver omesso interventi chiarificatori o denunce dei colpevoli. Ognuno di noi porta le proprie responsabilità per il momento storico in cui le ha vissute».
Il silenzio è il rimedio peggiore
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 12 marzo 2010)
Quello che sta accadendo nella Chiesa cattolica tedesca, dopo l’inattesa esplosione e l’apparente incontrollabilità dello scandalo della pedofilia e della violenza sui minori in alcuni istituti religiosi, è molto serio.
Con risonanze profonde e riflessi diretti in Vaticano, perché Papa Ratzinger reagirà tenendo conto di come si svilupperà il caso in Germania. Ci si aspetta una risposta non soltanto disciplinare ma anche e soprattutto di natura religiosa e teologica.
Mi spiego. Cardinali, ecclesiastici e difensori d’ufficio rispondono o reagiscono alla vergogna pubblica appellandosi a patologie psicologiche, a pedagogie sbagliate, ad esistenze umane infelici. Nessuna argomentazione religiosa.
Apparentemente è un sollievo per tutti poter dire che «la religione non c’entra», che il problema non
è religioso ma pedagogico. Certo. Ma non è proprio la Chiesa a presentare se stessa come la vera ed
unica educatrice affidabile? Specificatamente nella gestione della «sana sessualità»?
Accompagnandola con le polemiche continue contro il modernismo laicista licenzioso e permissivo
soprattutto in tema di omosessualità?
Chiariamo subito un possibile equivoco: nessuno intende mettere sotto accusa o sotto sospetto le istituzioni educative dirette da religiosi come tali. Assolutamente no. Abbiamo troppo rispetto della Chiesa per non essere sinceramente dispiaciuti per quanto sta accadendo. Ma proprio per questo ci aspettiamo una reazione rigorosa e forte.
Invece in Germania accanto ad impressionanti confessioni pubbliche spontanee di alcuni educatori implicati, accanto a coraggiose autodenunce da parte di responsabili di istituti coinvolti, al massimo livello gerarchico si è sentita la voce irritata dell’arcivesovo di Ratisbona contro la ministra della Giustizia, che aveva lamentato la mancata collaborazione della Chiesa nel fare sistematicamente piena luce sugli episodi.
In Germania sembra profilarsi una certa tensione tra la Chiesa cattolica e lo Stato che si sente in dovere di rispondere ad un’opinione pubblica sconcertata, che ogni sera viene informata dai telegiornali (spesso come prima notizia) dell’ultima rivelazione di abusi su minori.
Giustamente il governo non può rimanere indifferente quasi si trattasse di una questione che possa risolversi privatamente tra psicologi, avvocati e magistrati. Si è davanti ad una emergenza pubblica che esige la piena e leale collaborazione dell’istituzione ecclesiale. Si fanno così varie proposte di «tavole rotonde pubbliche», sulle quali tornerò più avanti.
Riprendendo la problematica generale, l’unico nesso evocato per ora - ad alto livello - per spiegare i comportamenti patologici di alcuni uomini di Chiesa è la questione del celibato. Nel mondo cattolico questo tema solleva notoriamente sempre molto rumore. Ma esso diventa davvero significativo e discriminante soltanto se si riconosce che le sue radici scendono in profondità nella visione religiosa e teologica cattolica tradizionale.
Ciò che manca è una sorta di rivoluzione teologica in tema di sessualità, di cui non si vedono ancora i segni. Lo stesso vale per la richiesta che le donne abbiano finalmente un ruolo più significativo e riconosciuto nella Chiesa. Anche questo è vero. Ma sin tanto che non si rompe il tabù del sacerdozio femminile, la questione rimane irrisolta. Insomma gli scandali di oggi non sollevano semplicemente un problema di disciplina ecclesiastica ma la necessità di una revisione teologica radicale.
Ma qui urtiamo contro l’insuperata incapacità degli uomini di Chiesa di coniugare il dato religiosoteologico tradizionale con la (post) modernità. Avendo ossessivamente interpretato quest’ultima come quintessenza della licenza, del libertinismo, del laicismo, non hanno capito l’originale moralità che sta al fondo del moderno. E si ritrovano con le peggiori patologie in casa propria, nelle proprie istituzioni pedagogiche.
Nel mondo pluriconfessionale tedesco ci sono fortunatamente anche episodi di segno opposto. Alcune settimane fa la Presidentessa delle Chiese evangeliche, il vescovo-donna Margot Kaessmann, è incappata in un increscioso incidente. Con cattivo gusto da sagrestia la nostra stampa (anche quella che si ritiene laica) si è limitata a scrivere che la «papessa ubriaca» era stata beccata dalla polizia e costretta alle dimissioni. Da noi tutto è finito lì.
In Germania invece per alcuni giorni il pubblico ha assistito sui giornali e nei grandi mezzi televisivi ad una straordinaria manifestazione di dignità, di senso di responsabilità e di altissima religiosità della donna-vescovo che ha considerato il suo errore incompatibile con il suo ruolo istituzionale. Molti hanno avuto la conferma paradossale che la Chiesa evangelica tedesca - matura anche per quanto riguarda la teologia della sessualità - meritava proprio quella donna al suo vertice.
Tornando alla questione degli scandali sui minori può darsi che nelle prossime settimane si arrivi a due tavole rotonde pubbliche. Una, proposta dalla ministra della Giustizia, dovrebbe essere riservata ai rappresentanti delle istituzioni coinvolte e alle vittime. Bisognerà parlare anche di risarcimenti.
L’altra iniziativa promossa dalla ministra della Famiglia e da quella dell’Istruzione (e caldeggiata dalla stessa cancelliera Merkel) dovrebbe essere aperta anche alle associazioni dei genitori e avere come obiettivo la prevenzione degli abusi e l’aiuto psico-pedagogico alle vittime.
La strada della discussione pubblica aperta è la più giusta e coraggiosa. Ne aspettiamo gli esiti. Mentre da noi in Italia si tace.
MALEDETTO CELIBATO
di don Aldo Antonelli
E’ una litania infernale che non finisce più: violenze e stupri, ricatti e terrorizzazioni, pedofilie e adescamenti.
Tutto nei luoghi più impensati, sacrestie e confessionali, chiese e canoniche, conventi e seminari. Un dilagare senza confini: in Irlanda come in Germania, in America come in Italia, nel sud come nel nord del mondo.
Una vergonga trasversale che impiastra ogni categoria: preti, frati, suore, seminaristi, coristi e sacrestani. E chi più ne può più ne metta; tanto la realtà, temo, sorpassa ogni immaginazione.
Di fronte a questo sfacelo cosa fanno i nostri vescovi?
Dapprima cercano di coprire, serrare sotto il silenzio spesso omertoso e connivente il pus maleodorante dell’infezione. Poi, costretti dalle denunce delle vittime e, soprattutto, dal clamore della stampa, cominciano a chiedere perdono e a "saldare" in denaro contante i danni psichici e morali inferti e a punire e a reprimere. Mai che mai cominciassero ad interrogarsi: incapaci di ogni ripensamento, vanno avanti come i muli, ciechi e testardi, insensibili al grido delle vittime e schiavi solo delle loro fissazioni e delle loro fobie. Questo sono i vescovi che ci ritroviamo.
A questo moloch della legge celibataria sono disposti ad immolare persone e istituzioni. Ad un numero sempre più ristretto di sacerdoti sempre più anziani e con doppio e triplo incarico partorale corrispondono parrocchie sempre più vuote e senza una guida. Di una legge transitoria ne hanno fatto un principio teologico. "Queste sono cose transitorie, sono cose determinate nel medioevo, quando per un principio di potere mondano si imposero le leggi del monacato al clero diocesano" soleva dire la buon’anima del monaco Benedetto Calati.
Personalmente sono celibe, ma state sicuri che anche a ottant’anni se decidessi di sposarmi non ci penserei due volte. Sono celibe ma sul mio celibato sento che questa legge pesa più che una mannaia: quella che è una scelta volontaria, libera e personale diventa imposizione da caserma. La bellezza della scelta viene deturpata dalla maschera arcigna della costrizione.
Così mi sento defraudato della mia libertà sì da apparire agli occhi del popolo come quello che, poverino, "non può sposarsi"!
Al diavolo questa legge e quanti continuano testardamente a difenderla!
Papa o cardinali, vescovi o monsignori: sono ladri di libertà e di dignità. Peggio: sono seviziatori di coscienze.
Dice bene il Vangelo di loro: "Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili" (Luca 11,46).
Sì il celibato è un peso insopportabile se non si è animati da un più grande amore che non tutti possono avere. Farne una legge generale è come voler tenere il fuoco dentro un vaso di cera.
So che c’è molto altro ancora dietro questa deriva morale da una parte e questa cecità ottusa dall’altra; c’è per esempio tutta una tradizione sessuofobica nella chiesa che non fa onore.
Non molti anni fa Umberto Galimberti su Repubblica si poneva questa domanda:"Come mai proprio la ’religione dell’incarnazione’, l’unica fra tutte le religioni del mondo, ad aver incarnato Dio, ha così paura del corpo e della carne?".
Se se lo chiedessero i nostri vescovi e si facessero un bell’esame di coscienza, non sarebbe male. A meno che la coscienza non l’abbiano ormai imbalsamata dentro le bende del fariseismo istituzionalizzato.
Aldo
Le ferite d’Irlanda
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 5 marzo 2010)
Era una bambina di otto anni, quando la strapparono dalle braccia della madre, giudicata incapace di provvedere ai suoi bisogni, e la rinchiusero in orfanotrofio. «Ho vissuto prigioniera di un incubo fino alla maggiore età», ricorda Kathleen O’Sullivan, una delle vittime delle violenze e degli abusi sessuali perpetrati per decenni nelle scuole, nei riformatori, nelle parrocchie di tutta l’Irlanda. «Le suore ci affamavano, mangiavo la carne, una salsiccia, soltanto a Natale, e ricevevo un uovo sodo per Pasqua. Ma questo era il meno. Ci picchiavano per un nonnulla. Ci seviziavano fisicamente e psicologicamente. Facevo la pipì a letto dalla paura tutte le notti, e loro per punizione mi costringevano a sfilare nuda per la camerata con in testa le lenzuola bagnate di urina. Era un sistema sadico, satanico. I giornali hanno scritto che è stato il nostro Olocausto».
«Ma se è così, aspettiamo ancora la Norimberga che faccia piena luce e giustizia su quel mostruoso abominio». Luce e giustizia dovevano venire con l’inchiesta ordinata dal governo, durata dieci anni e conclusa nel maggio scorso da un voluminoso rapporto. Cinquemila pagine di testimonianze e indagini sull’attività di 216 istituti gestiti da preti, frati, suore, dai quali tra il 1914 e il 2000 sono passati 35 mila minorenni.
La pubblicazione ha sconvolto l’Isola di Smeraldo. Il 90 per cento dei testimoni hanno riportato di avere subito violenze fisiche. La metà hanno raccontato di avere sofferto abusi sessuali. Molti erano orfani. Altri, come Kathleen O’Sullivan, venivano strappati a famiglie povere senza alcuna ragione, per essere trasformati in schiavi del lavoro.
Malnutrizione, percosse, terrore e stupri erano il loro pane quotidiano. Tra gli irlandesi, lo shock è stato immenso. E’ perfino diminuito, secondo le statistiche, il numero dei fedeli a messa. Molta gente ha perso la fede: nella Chiesa, nello Stato, nel prossimo. L’Irlanda si è guardata allo specchio, e quel che ha visto l’ha fatta rabbrividire.
Eppure, a sei mesi di distanza dalla pubblicazione, si moltiplicano le accuse secondo cui il rapporto è stato una «copertura», un «insabbiamento» o «solo la punta dell’iceberg», come sostiene Kathleen, una delle poche vittime che è riuscita a ricostruirsi un’esistenza: oggi fa il giudice di pace e ha scritto un libro, "Childhood interrupted" (Infanzia interrotta), sulla tragedia vissuta da lei e da migliaia di suoi compatrioti. Il processo di riparazione e di espiazione, affermano le associazioni formate dai "superstiti", è stato sommario, sbrigativo, riduttivo. Per cominciare, il rapporto non fa nomi, né delle vittime, e questo è in parte comprensibile, né dei carnefici - a meno che non siano già stati condannati in sede giudiziaria, e questo protegge decine o centinaia di individui non solo dalla giustizia penale ma dall’essere almeno identificati in pubblico.
«Due delle suore che mi hanno torturato per anni sono ancora vive, libere», dice la signora O’Sullivan, «io vorrei ritrovarmi con loro in un’aula di tribunale, guardarle in faccia, sentire cosa rispondono alle accuse, e non è possibile». In secondo luogo, soltanto una parte delle vittime sono state rintracciate e interrogate: «Nessuno ha interrogato me, e chissà quante altre non sono state ascoltate», accusa Kathleen. E inoltre, per effetto di un accordo con i Christian Brothers, la più vasta associazione religiosa nazionale, è soprattutto lo stato, non la Chiesa, a pagare risarcimenti alle vittime che fanno causa, 12 mila delle quali hanno finora ricevuto compensazioni per un totale di un miliardo di euro. La Chiesa irlandese se l’è cavata con un indennizzo una tantum di 34 milioni di euro e l’accordo la mette al sicuro da ulteriori rivendicazioni legali.
Se non in denaro, la Chiesa ha pagato in mortificazioni. Un cardinale irlandese è andato in pensione in anticipo. Quattro vescovi, su pressioni del Vaticano, sono stati costretti a dimettersi. Un pugno di sacerdoti sono finiti in prigione. Uno si è suicidato. E a Roma Benedetto XVI ha chiesto che siano prese misure per impedire che "accadano di nuovo simili abusi». Ma è abbastanza? Non per le vittime.
Il rapporto rivela che l’Archidiocesi di Dublino ha «ossessivamente» nascosto gli abusi per almeno trent’anni. Tredici vescovi erano a conoscenza delle violenze e non le denunciarono. Un prete ammise di avere abusato sessualmente di oltre cento bambini, e non venne rimosso dall’incarico. Un altro confessò di avere abusato sessualmente di un bambino alla settimana per venticinque anni, e non perse il posto. «Non ci sono stati arresti o dimissioni di massa, né tra i religiosi, né tra le autorità che ne sono diventate complici, coprendone i crimini», dice Kathleen O’Sullivan. La commissione d’inchiesta è stata creata sull’onda dello scandalo suscitato da un coraggioso documentario televisivo che rivelò per la prima volta cosa si nascondeva dietro le mura di chiese e conventi, accusano le associazioni delle vittime, ma lo scopo era «voltare pagina, chiudere il doloroso capitolo, se non insabbiare». Dice ancora Kathleen nel suo j’accuse senza più lacrime da spargere: «Il primo presidente della commissione si è dimesso dopo tre anni affermando che non aveva libertà di manovra, insomma che non poteva lavorare. Il presidente che ne ha preso il posto era un giudice legato all’establishment religioso. Il risultato si vede».
Beninteso, le cinquemila pagine del rapporto non sorvolano su quello che accadeva dentro le «case degli orrori», come le definiscono le vittime. I giornali ne hanno finora riassunto il contenuto ed è bastato per farli sommergere di lettere che dicono: «Mi vergogno di essere irlandese». Non è una lettura facile, ma bisogna farla, per cercare di capire. E’ come se da quegli edifici adornati dal crocefisso su cui è morto il Signore, da quelle case di Dio in cui vigeva, per gran parte della giornata, la regola del silenzio, tutto a un tratto fuoriuscissero le urla disperate di generazioni di bambini. Ascoltiamoli.
I bambini venivano «presi a pugni, a calci, frustati, accoltellati, obbligati a inginocchiarsi o a restare in piedi per giorni, costretti a dormire all’aperto in inverno, a fare docce gelate, appesi a un palo, assaliti da cani, legati per essere picchiati meglio». Dice uno: «Non feci bene il letto. Il prete mi fece denudare e mi frustò lungamente con una frusta di cuoio a cui erano attaccate delle monete». Un altro: «Appena arrivato, il frate mi fece spogliare, piegare a gambe larghe su una scrivania, mi ordinò di dire il Padre Nostro e si mise a frustarmi». Un terzo: «Non dimenticherò mai il gatto a nove code». Un altro: «Il prete lasciava la frusta di cuoio all’aperto di notte, perché si gelasse e facesse più male». Ancora: «Mi mettevano sale nelle ferite perché bruciassero di più». Un altro: «Gli piaceva tenermi la testa fra le gambe e frustarmi nel sedere».
Ancora: «La notte era la cosa peggiore, se non venivano a prendere te, sentivi che portavano via un altro e le urla risuonavano per tutto l’edificio». Elenco di abusi sessuali in un istituto religioso: «89 masturbazioni forzate, 68 stupri anali, 6 penetrazioni digitali». Un ragazzino: «Il prete mi prese la mano, e se la mise nelle parti private. Scoppiai a piangere. Mi schiaffeggiò. La notte dopo tornò e feci come voleva». Un altro: «Mi chiudeva a chiave nella sua stanza, mi spogliava, si faceva toccare, mi picchiava e poi mi stuprava». Un terzo: «Un frate guardava mentre l’altro mi stuprava, poi facevano cambio». Una bambina: «La suora mi frustava con una cintura dalla fibbia di metallo». Un’altra: «La suora mi faceva mangiare il mio vomito». Una terza: «Mi legò al letto e mi diede cento frustate».
Elenco di abusi sessuali, stavolta su femminucce: «27 stupri vaginali, 22 masturbazioni forzate, 10 contatti genitali». Un esempio per tutti: «La suora mi portò da un uomo. Lei mi spogliò, mi lavò, mi toccò, poi mi diede a lui perché mi stuprasse».
Tutti i giorni, tre volte al giorno, i rintocchi della campana dell’Angelus risuonano sul primo canale della televisione nazionale irlandese, come a scandire il tempo del paese più ferventemente cattolico d’Europa. Ma oggi gli irlandesi si chiedono angosciosamente per chi suona davvero quella campana. Per le migliaia di vittime dell’abominio, che hanno ottenuto solo una parvenza di giustizia? Per la chiesa cattolica irlandese, avvilita da dimissioni e processi? Oppure per il Vaticano e per papa Benedetto XVI, che le associazioni di sopravvissuti alla tragedia accusano di una condanna tardiva e troppo debole? O suona per l’Irlanda intera, per le sue istituzioni, sospettate di avere lanciato l’inchiesta più per nascondere che per fare emergere fino in fondo le dimensioni dell’orrore e le responsabilità collettive?
«Ecco cosa mi fa più orrore», dice Kathleen O’Sullivan. «L’idea che così tanti abbiano potuto fare così tanto male, o almeno l’abbiano tollerato, abbiano preferito non vederlo e anche oggi preferiscano dimenticare. Viene da chiedersi se erano tutti mostri o se questa è la normalità umana». Non solo per vittime e carnefici, non solo per preti e suore, per politici e poliziotti, suona a Dublino la campana dell’Angelus. Essa suona per tutti.
COSTITUZIONE E ORIENTAMENTO SESSUALE.
La sfida del cardinale Schoenborn
"Gli abusi dei preti colpa del celibato"
di MARCO ANSALDO *
CITTÀ DEL VATICANO - Le cause degli abusi operati dai sacerdoti? Vanno ricercate "sia nell’educazione dei preti, sia negli strascichi della rivoluzione sessuale fatta dalla generazione del 1968". Un problema che riguarda "il tema del celibato, così come la formazione della persona". Proprio sul celibato, anzi, ci vuole "un cambiamento di visione".
A sostenere questa tesi che non mancherà di suscitare reazioni è l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn. L’alto prelato, un cardinale giovane, ma autorevole e aperto, messo a capo della Chiesa viennese dopo gli scandali degli abusi sessuali per cui fu cacciato il suo predecessore Hans Hermann Groer, ritiene che il celibato ecclesiastico spieghi in parte gli atti di pedofilia commessi da religiosi cattolici, emersi ultimamente a cascata in Germania e in Austria.
In una pubblicazione della sua diocesi, l’arcivescovo di Vienna ha fatto appello al "cambiamento" sul celibato, argomento che invece per il Vaticano non è in discussione. "Basta scandali - ha detto Schoenborn - come è possibile che veniamo considerati sospetti di infrazioni che non abbiamo commesso? Perché è sempre la Chiesa nel suo insieme che viene messa in dubbio".
La questione del celibato verrà più volte affrontata oggi e domani a Roma, all’Università Lateranense, in un interessante convegno promosso dalla Congregazione per il clero. Sarà presente il prefetto Hummes, autore all’inizio del suo incarico di una dichiarazione che suscitò qualche perplessità. "Il celibato non è un dogma", disse. Tesi poi mai più affermata pubblicamente. Ci saranno poi il vescovo di Ratisbona, Gerhard Mueller, il primo a parlare dei casi nella città tedesca, e una serie di alti esponenti del mondo ecclesiastico.
Il tema delle violenze in chiese e sacrestie, imposto dalle cronache, sta conquistando spazio anche sulla stampa vaticana. L’Osservatore Romano ieri ha affrontato in prima pagina l’argomento con un articolo della saggista Lucetta Scaraffia. Una maggiore presenza femminile nella Chiesa, è la tesi della studiosa, "avrebbe potuto squarciare il velo di omertà maschile che spesso in passato ha coperto con il silenzio la denuncia dei misfatti". "I cambiamenti delle società occidentali - continua la storica - che hanno aperto alle donne gli spazi prima riservati agli uomini, cambiamenti che stanno influenzando le altre culture del mondo, hanno provocato una rivoluzione nella configurazione dei ruoli sessuali, ponendo anche per la Chiesa cattolica la questione di ampliare il ruolo delle donne". Un problema che si pone non solo in termini di "pari opportunità", ma al fine di "fare fruttare energie e contributi spesso di primaria importanza".
Oggi intanto i vescovi tedeschi partono per Roma. L’incontro fra la loro delegazione, guidata dal presidente della Conferenza episcopale locale, Robert Zollitsch, e Papa Benedetto XVI, è previsto per domani. Sul tavolo lo scottante dossier dei casi di pedofilia scoppiati nella Chiesa tedesca. In Germania, lo scandalo è arrivato a coinvolgere, secondo i dati conosciuti, 19 diocesi su 27.
© la Repubblica, 11 marzo 2010
di Vito Mancuso (la Repubblica, 18 marzo 2010)
«Non è bene che l’uomo sia solo», dice Dio di fronte al primo uomo. Per rimediare crea gli animali, ma l’uomo non è soddisfatto. Allora gli toglie una costola, plasma la donna e gliela presenta. A questo punto l’uomo non ha più dubbi: «Questa è osso delle mie ossa e carne della mia carne. La si chiamerà išà (donna) perché da iš (uomo) è stata tolta». Una voce fuori campo commenta: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (Genesi 2,23-24).
Questa scena mitica, mai avvenuta in un punto preciso del tempo perché avviene ogni giorno, insegna che la relazione uomo-donna è scritta dentro di noi e che, ben prima dei genitali, riguarda la carne e le ossa. La Sacra Scrittura esprime così nel modo più intenso che noi siamo relazione in cerca di relazione, che viviamo con l’obiettivo di formare "una carne sola" e di compiere l’uomo perfetto, quello pensato da subito nella mente divina come maschio+femmina, secondo quanto insegna Genesi 1,27: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». La vera immagine di Dio, che è comunione d’amore personale, non è né il monaco né il prete celibe e neppure il papa, ma è la coppia umana che vive di un amore reciproco così intenso da essere "una carne sola". Per questo, secondo un detto rabbinico, «il celibe diminuisce l’immagine di Dio».
Lo stesso si deve dire della paternità e della maternità. Se Dio è padre che eternamente genera il Figlio e che temporalmente genera gli uomini come figli nel Figlio, la sua immagine più completa sulla terra sono gli uomini e le donne che a loro volta generano figli e spendono una vita di lavoro per farli crescere. Per questo la Bibbia ebraica considera la scelta celibataria di non avere figli qualcosa di innaturale che trasgredisce il primo comando dato agli uomini cioè "crescete e moltiplicatevi".
Naturalmente tutti sanno che Gesù era celibe, e così anche san Paolo. Ma mentre Gesù conservava una visione positiva del matrimonio, san Paolo giunge a ribaltare quanto dichiarato da Dio al principio dei tempi («non è bene che l’uomo sia solo») scrivendo al contrario che «è cosa buona per l’uomo non toccare donna» (1Cor 7,1). Per lui il matrimonio è spiritualmente giustificabile solo «a motivo dei casi di immoralità», nulla più cioè che un remedium concupiscentiae per i deboli di spirito che non sanno controllare le passioni della carne. L’apostolo non poteva essere più esplicito: «Se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che ardere» (1Cor 7,9). Da qui sorge la visione che domina la tradizione occidentale che assegna una schiacciante superiorità morale e spirituale al celibato e solo un valore secondario al matrimonio. Da qui la chiesa latina del secondo millennio sarà portata a legare obbligatoriamente il sacerdozio alla condizione celibataria.
Ma su che cosa si fondava l’idea di Paolo? Qualcuno parla di sessuofobia, ma a mio avviso il motivo è un altro e si chiama escatologia: ovvero la sua ferma convinzione che «il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29), che «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31), che quanto prima cioè giungerà la fine del mondo con il ritorno di Cristo. La Prima Corinzi, lo scritto decisivo in ordine alla fondazione del celibato ecclesiastico, è dominata dall’attesa dell’imminente parusia (vedi 15,51- 53): se Cristo tornerà a momenti, «al suono dell’ultima tromba», a che serve sposarsi e mettere al mondo figli?
Il mancato ritorno di Cristo al suono dell’ultima tromba ha portato naturalmente a moderare l’impostazione già nelle lettere deuteropaoline, tra cui in particolare quella agli Efesini i cui passi si leggono spesso durante le cerimonie nuziali, ma questo avrà solo l’effetto di giustificare il matrimonio in quanto sacramento, non di ritenerlo spiritualmente degno almeno quanto il celibato.
Anzi, la tradizione ascetica e mistica dei padri della chiesa e della scolastica è unanime nell’affermare la superiorità indiscussa del celibato rispetto al matrimonio. Tommaso d’Aquino la sintetizza col dire che «indubitabilmente la verginità deve essere preferita alla vita coniugale» (Summa theologiae II-II, q. 152, a. 4), e il decreto del Concilio di Trento del 1563 arriva persino a scomunicare chi osi dire che «non è cosa migliore e più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio» (DH 1810). Una scomunica che, a ben vedere, colpisce lo stesso Dio Padre per quella sua frase imprudente all’inizio della Bibbia!
Oggi assistiamo alla fine abbastanza ingloriosa del modello di vita sacerdotale sancito dal Concilio di Trento, e in genere portato avanti nel secondo millennio cristiano, con il legare obbligatoriamente alla vita sacerdotale la scelta celibataria. I crimini legati al clero pedofilo (che la gerarchia conosceva e copriva per anni) stanno scavando la fossa, anzi hanno già scavato la fossa, alla falsa idea della superiorità morale e spirituale del celibato.
Naturalmente non intendo per nulla cadere nell’eccesso opposto di chi ritiene la vita celibataria alienante e disumana a priori. Conosco preti celibi straordinari, modelli integerrimi di vita serena, pura, felicemente realizzata.
Voglio piuttosto esprimere la mia ferma convinzione che ciò che conta per un uomo di Dio (perché nulla di meno il prete è chiamato a essere) sia avere l’anima piena della luce e della gioia del vangelo, e che a questo scopo la condizione migliore sarà per uno vivere nel celibato e per un altro metter su famiglia, a seconda del temperamento e dell’attitudine personali.
Il che è esattamente quello che avveniva tra gli apostoli, come ci fa sapere san Paolo quando scrive che, a differenza di lui, «gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa» vivevano con una donna (1Cor 9,5). I capi della Chiesa non avevano ancora dimenticato che «non è bene che l’uomo sia solo».