Ratzinger ai sacerdoti
La fede über alles
Anatema del papa su Nietzsche
«Troppo libero»
Ieri in un’omelia ha lanciato un atto d’accusa contro il filosofo tedesco, la sua «superbia distruttiva» e la sua «presunzione che finiscono nella violenza». Lo avrà letto sul serio?
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 10.04.2009)
C’è ragione e ragione. La scienza ce l’ha «piccola» «Nell’ultimo decennio, la resistenza della creazione a farsi manipolare dall’uomo si è manifestata come elemento di novità nella situazione culturale complessiva. La domanda circa i limiti della scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta inevitabile»: Ratzinger nel ’92. Da Papa non ha cambiato idea: la fede è più verità della scienza
Galileo? «La sentenza della Chiesa fu giusta» L’anno scorso il Papa, usando erroneamente una frase del filosofo agnostico-scettico Feyerabend scrisse nel discorso che avrebbe dovuto tenere alla Sapienza di Roma: «La sua (della Chiesa, ndr) sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione».
L’evoluzionismo ha una «razionalità ridotta» Conferenza di Ratisbona, 2006. Il Papa distingue tra «ragione ristretta» tipica della scienza e «ragione estesa» che coincide con la fede. Alla luce della ragione estesa, il darwinismo diventa dotato di una razionalità inferiore. Il Papa ha aperto quindi un conflitto non tra scienza e fede ma tra due razionalità di rango diverso.
Tutta colpa di Nietzsche. E non solo la crisi delle vocazioni, il rifiuto dell’obbedienza, e della parola di Dio. Ma anche l’omologazione delle coscienze, figlia della «superficialità di tutto ciò che di solito si impone all’uomo di oggi». E tutta colpa di Nietzsche pure «la superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza». Insomma, atto d’accusa globale contro il filosofo tedesco, quello pronunciato ieri da Papa Ratzinger, in occasione della «messa crismale», durante la quale si benedicono gli olii santi prima della Pasqua. Un’accusa esplosa in un’omelia dedicata ai sacerdoti delle Diocesi di Roma, e riuniti in San Pietro. E con toni e accenti davvero inconsueti in un Pontefice. Almeno dai tempi in cui nel Sillabo Pio IX condannava liberalismo e ideologie democratiche e socialiste, come fomite dei mali assoluti di quel tempo.
In realtà mai in passato un Papa si era scagliato con tanta foga contro un solo filosofo, fatto responsabile di tutte le nequizie dell’umanità contemporanea. Come se il filosofo dell’Eterno Ritorno fosse lui stesso, e in prima persona, una sorta di incarnazione del diavolo, e della superbia tentatrice e luciferina che ne caratterizza l’ombra distruttiva all’opera.
Quindi, valore paradigmatico per il Papa delle idee nietzscheane in ordine al fondamento del «male». E inserite in quanto tali in un ragionamento etico e teologico ben preciso. Che mette al centro due colpe ben precise del filosofo: l’aver «dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi». E l’aver «messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo».
Di qui appunto il rifiuto del’Autorità e la violenza distruttiva connesse alla presunzione di un «volere autonomo», svincolato dala fede. E di qui il mito dell’«autorealizzazione», che rifiuta la vera «verità del nostro essere», ovvero «la retta umiltà che si sotomette a Dio». Certo ammette il Papa - con riferimento alla critica nietzscheana dello zelo virtuoso - esistono anche «caricature di una sottomissione e di una umiltà sbagliata».
Ma il rischio più grave per il Pontefice teologo restano la ribellione e la presunzione. Nonché il rifiuto dei «sacrifici» che ci rendono amici di Cristo e che a Lui consacrano la nostra esistenza. Una esistenza che è davvero consacrata, aggiunge il Papa, proprio quando essa è rescissa da «connessioni mondane», come nel sacerdozio obbediente. Che ben per questo può poi diventare «disponibile per gli altri».
Toni demonizzanti, lo abbiamo detto, ma che rivelano altresì molte cose. In primo ruolo il rifiuto da parte di questo Papa di riconoscere dignità autonoma al valore della libera coscienza e della libera indagine a partire dalla «soggettività», moderna o premoderna. Un atteggiamento in flagrante contraddizione sia con l’etica «rischiosa» di Agostino, che prescriveva la ricerca del vero in interiore homine. Sia con quella kantiana, basata sull’autonomia della «ragione pratica», e coincidente con il «regno dei fini», senza necessariamente vederselo prescritto dalle norme positive racchiuse nella fede rivelata. Non parliamo poi del «libero esame luterano» e della «giustificazione individuale per fede e non per le opere». Dimensioni che questo Pontefice evidentemente respinge, e che stante il suo rifiuto programmatico del «dialogo», non riesce a includere nemmeno dentro il semplice ascolto «inter-confessionale».
Paradossalmente, è proprio il principio della libertà interiore - seme germogliato dal cristianesimo stesso e secolarizzatosi nella modernità - ciò che questo Papa rifiuta. A meno che esso non sia inserito dentro il «crisma» dell’Autocritas e delle Chiavi di Pietro - dalla Chiesa detenute. Tutto il resto è relativismo, presunzione. E infine violenza distruttiva. Come tali frutto dell’indebita autonomia della ragione, che lasciata a sé è male. È il Male.
E Nietzsche? Senza dubbio nella sua radicalità libertaria si presta a meraviglia all’intemerata papale. Salvo che la sua «recezione» da parte di Ratzinger è banale e orecchiata. Non è fondata sui testi, e corrisponde piattamente alle interpretazioni più logore dei fascismi e del marxismo-stalinismo. Le prime persuase di trovare nel filosofo un anticipatore della volontà di potenza etnica e imperiale (il Nietzsche riscritto dalla sorella reazionaria e «nordificato» dai nazisti). Le seconde convinte di aver scoperto nel filosofo il volto della «borghesia irrazionalista» nell’epoca dell’«Imperialismo fase suprema del capitalismo». Interpretazione questa avallata oggi da Ernst Nolte, che vede nel Superuomo la rivolta del borghese tedesco minacciato di annientamento da parte socialista e comunista.
Il vero Nietzsche? Fragile, problematico, a modo suo disperato. E in certo senso cristiano, come scrisse con acume Karl Jaspers, capace di scoprire in lui una radicalità etica volta a liberare l’uomo dalle illusioni che lo rendono ipocrita e violento, magari con la scusa di fedi e ideologie. Nietzsche perciò dai mille volti ma teso alla gioia del conoscere (Gaia Scienza). Alla «pienezza del dare» e al grande stile estetico che fa del mondo un giardino. E Nietzsche che scrive: «Dove si dice “ama il prossimo” tuo c’è sempre qualcuno che è escluso da quell’amore, un lontano. Ecco, io amo quel lontano». Già, tra Nietzsche e Cristo ci sono forse più cose in comune che questo Papa non immagini. A leggerlo sul serio.
Alcuni testi base per capire:
Su Nietzsche si vedano almeno
Gilles Deleuze, «Nietzsche e la filosofia» (Einaudi, 2002);
Martin Heidegger, «Nietzsche» (1961, Adelphi);
Karl Jaspers, «Nietzsche» (1936, Mursia);
Gianni Vattimo, «Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione» (1974, Bompiani).
La gaia fede di Nietzsche:
«La nascita della tragedia dallo spirito della musica» (1872);
«Considerazioni inattuali» (1873-76);
«Umano troppo umano» (1878);
«Aurora» (1881);
«La gaia scienza» (1882);
«Così parlò Zarathustra» (1883);
«Al di là del bene e del male» (1886);
«L’anticristo», «Ecce Homo» (postumi).
Tutti nell’edizione Adelphi, a cura di Colli-Montinari.
Contro Nietzsche
L’accusa del papa al filosofo nichilista
Durante la messa del giovedì santo Benedetto XVI ne richiama la figura: "il suo pensiero ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza"
Il suo pensiero è stato considerato una fonte di ispirazione per l’ideologia nazista
Molti stereotipi, tra cui l’idea della morte di Dio hanno condizionato il pensiero
Un tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno
di Franco Volpi (la Repubblica, 10.04.2009)
Povero Nietzsche! È stato l’unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del 1914-1918 in una libreria di Piccadilly erano esposti in vetrina i diciotto volumi delle sue opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: The Euro-Nietzschean-War: leggete il diavolo per poterlo combattere meglio!
Poi venne il nazionalsocialismo, e alcune sue dottrine - il superuomo nel senso della selezione biologica, la volontà di potenza, l’antropologia dell’animale da preda e della bestia bionda - furono considerate alla stregua di una fonte di ispirazione dell’ideologia razzista e del totalitarismo.
Più tardi, dato che egli diagnostica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di Dio», la decadenza dei valori tradizionali o l’avvento del nichilismo, si è prodotto un singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà voleva solo analizzare e superare. Nietzsche è diventato allora il distruttore della ragione, il maestro dell’irrazionale, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo.
Tutti questi stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo egli ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia, mode culturali e stili di pensiero, ma anche provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti. Ovviamente anche da parte cattolica.
Benché autorevoli interpreti - padre Paul Valadier, per esempio, o il teologo Eugen Biser - abbiano cercato di mostrare il contrario, non c’è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti insegnamenti fondamentali del cristianesimo ci sia una profonda incompatibilità. Non stupisce perciò che il Papa consideri Nietzsche un cattivo maestro, e che riconduca alla sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo.
Negli ultimi anni egli non si è stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da Nietzsche. Adesso, nel criticare l’ideale di umanità predominante nel mondo attuale, basato sul valore dell’autoaffermazione individuale, egoistica e libertaria, ricorda la responsabilità di Nietzsche: «Egli ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo».
Ora, al di là del fatto che l’opera di Nietzsche è un autentico puzzle, un subisso di frammenti e aforismi la cui combinazione in una dottrina d’insieme è tutt’altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone.
Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo.
Quanto poi alla concezione dell’uomo aristocratica e libertaria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singoli aforismi di Nietzsche. Sarebbe come, in un quadro pointilliste, vedere solo i tocchi cromatici e non l’insieme della pittura.
Ebbene, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende adagiarsi nella negazione dei valori e nel cupio dissolvi. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine auspica un contro-movimento da cui nascano nuovi valori, e lo individua nella creatività dionisiaca dell’arte.
La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all’eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell’abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita.
Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!» E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.
Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell’uomo occidentale è sempre più paganizzata.
Cacciari critico, Reale approva. Vattimo: un cristiano inconsapevole. Severino: nega l’eterno
Il Papa e Nietzsche, duello tedesco
«Libertà assoluta» e «dileggio dell’umiltà»: Ratzinger contesta il filosofo
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 10.4.09)
«Via sulle navi, filosofi!», esclama ne La gaia scienza. E in Aurora: «E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? ». Nietzsche e l’idea di libertà. Dell’andare oltre ogni «miserevole ricetto». Un pensiero che ha una responsabilità grande, riflette Benedetto XVI citando - come già nell’enciclica Deus Caritas est - il filosofo suo compatriota: «Friedrich Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo ».
Parole tanto più significative se si considera che il Papa, ieri mattina nella Basilica di San Pietro, parlava ai sacerdoti durante la Messa crismale: davanti a cardinali, vescovi e presbiteri che «rinnovano le promesse» prima delle celebrazioni di Pasqua. Un’omelia raffinata sul senso della «consacrazione» come «sacrificio» di sé, un «togliere dal mondo e consegnare a Dio» che per i sacerdoti «non è una segregazione» ma un donarsi a tutti, come Gesù «sacerdote e vittima» che «si consegna al Padre per noi» e prega per i discepoli: «Consacrali nella verità».
È a questo punto che Benedetto XVI ha alzato lo sguardo: «Come stanno le cose nella nostra vita? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo?». Di qui il riferimento a Nietzsche e al dileggio dell’umiltà in favore della libertà assoluta.
Il Papa chiede di «imparare da Cristo la retta umiltà», non certo «una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare». E vede un pericolo: «Esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza».
Problema: le cose stanno così? E fino a che punto Nietzsche ne sarebbe responsabile? «Il Papa ha perfettamente ragione nel prendersela con le libertà assolute e le fierezze virili, ma temo che la sua lettura di Nietzsche risenta di un’interpretazione vecchia», commenta Massimo Cacciari, autore di un saggio sul «Gesù di Nietzsche», un tema che compare anche nella sua opera più recente, Della cosa ultima. «La libertà di Nietzsche è problematica, non è quella dei moderni che anzi critica: la sua è una visione presente in Schelling che sarà ripresa da Heidegger, la libertà non come qualcosa che ’tu hai’ ma che ’ti ha’». Ma non basta: «Lo Zarathustra ha pagine in cui indica nella figura dell’Oltreuomo la capacità di donare tutto, di non tenere nulla per sé: amo coloro che sanno tramontare, dice. Ci sono passi in cui l’affinità tra Oltreuomo e Gesù è fortissima. Del resto la polemica di Nietzsche contro il cristianesimo è rivolta alla teologia paolina, peraltro fraintesa, e non alla figura sinottica di Gesù».
Secondo Cacciari, insomma, «la grandezza di un filosofo imprescindibile per la contemporaneità andrebbe compresa in tutta la sua complessità, altrimenti la polemica danneggia la stessa predicazione come capacità di assimilare a sé le voci discordanti. Gesù andava da coloro che lo rispecchiavano, era un narciso? O invece si rivolgeva ai pubblicani, al centurione? ’Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!’. Perché la Chiesa non si sforza di fare lo stesso con Nietzsche e la cultura contemporanea? ».
Emanuele Severino, che al filosofo tedesco ha dedicato L’anello del ritorno, sorride: «Ai cattolici dico sempre che con l’inevitabilità di questi pensieri bisogna fare seriamente i conti». Dal suo punto di vista, capisce il Papa: «Per la tradizione al centro della verità c’è Dio mentre Nietzsche, preceduto da Leopardi, mostra l’impossibilità di ogni eterno e di ogni divino. Conseguenza necessaria è la negazione di ogni ’umiltà’ rispetto al divino. E l’esaltazione di libertà e fierezza». Questo però non c’entra con le idee correnti: «La libertà di Nietzsche presuppone si sappia perché ’Dio è morto’. L’ateismo, il relativismo, l’indifferentismo sono essi stessi superficiali e dogmatici, non hanno nulla a che fare con la radicalità di quel pensiero. Ci vuole ben altro per arrivare a Nietzsche e a Cristo!».
In tutto questo, uno studioso nietzschiano come Gianni Vattimo riconosce a Benedetto XVI di «aver ragione sul dileggio dell’obbedienza », ma non sull’umiltà: «Nietzsche è un cristiano inconsapevole, o che non voleva riconoscere di esserlo: un po’ per via del padre pastore protestante e un po’ perché amava il Vangelo ma non la struttura gerarchica della Chiesa, come me. Penso alle tre metamorfosi che aprono lo Zarathustra: lo spirito da cammello si fa leone e si rivolta alle autorità, ma alla fine si muta in fanciullo, ’occorre un sacro dire di sì’. E non era Gesù a dire che dobbiamo diventare come fanciulli?».
Sarà, ma il filosofo cattolico Giovanni Reale non è convinto: «Nietzsche ha scritto cose molto belle e cose terribili. Ciò che presentava come una conquista si è rivelato terribile, Benedetto XVI ha ragione. La libertà assoluta alla fine l’abbiamo avuta. Però, come diceva Bauman, ci è arrivata con il cartellino del prezzo, un prezzo salatissimo: l’egoismo, la solitudine ». Non è un caso che il Papa si sia rivolto ai sacerdoti: «Loro hanno la responsabilità di dire la Parola. Io non mi capacitavo: perché Gesù non ha lasciato nulla di scritto? L’ho capito grazie a Platone, al finale del Fedro: la verità non si scrive sui rotoli di carta ma nel cuore degli uomini».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO.
IL TESTO DELL’OMELIA *
«Diventare sacerdoti significa essere immersi nella verità»
Ieri mattina in San Pietro, il Papa ha presieduto la celebrazione eucaristica in cui si rinnovano le promesse sacerdotali: «Nel ’sì’ dell’ordinazione abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla ’autorealizzazione’»
Nell’omelia della Messa Crismale, Benedetto XVI ha definito il sacerdozio «un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio». Non è una «segregazione» ma vuol dire «essere posti a rappresentare gli altri». Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e «a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti»
Durante l’Eucaristia il Pontefice ha ripercorso la sua storia. «Alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura» per ricevere una parola del Signore per quel giorno e per il futuro cammino da sacerdote.
«Il mio sguardo cadde su questo brano: ’Consacrali nella verità; la tua parola è verità’. Allora seppi: il Signore sta parlando di me e sta parlando a me» «Diventare sacerdoti significa essere immersi nella verità»
Pubblichiamo l’omelia pronunciata ieri mattina dal Papa nella Basilica Vaticana durante la Santa Messa Crismale. Nel corso della celebrazione, dopo il rinnovo delle promesse sacerdotali, sono stati benedetti l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il crisma. Al termine della Messa il Papa ha rivolto un pensiero alle popolazioni terremotate annunciando il dono degli oli santi per l’arcidiocesi dell’Aquila profondamente ferita dal sisma (ne parliamo in un’altra parte del giornale). *
Cari fratelli e sorelle, nel Cenacolo, la sera prima della sua passione, il Signore ha pregato per i suoi discepoli riuniti intorno a Lui, guardando al contempo in avanti alla comunità dei discepoli di tutti i secoli, a «quelli che crederanno in me mediante la loro parola» ( Gv 17, 20). Nella preghiera per i discepoli di tutti i tempi Egli ha visto anche noi e ha pregato per noi. Ascoltiamo, che cosa chiede per i Dodici e per noi qui riuniti: «Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (17, 17ss). Il Signore chiede la nostra santificazione, la nostra consacrazione nella verità. E ci manda per continuare la sua stessa missione. Ma c’è in questa preghiera una parola che attira la nostra attenzione, ci sembra poco comprensibile. Gesù dice: «Per loro io consacro me stesso». Che cosa significa? Gesù non è forse di per sé «il Santo di Dio», come Pietro ha confessato nell’ora decisiva a Cafarnao (cfr Gv 6, 69)? Come può ora consacrare, santificare se stesso? P er comprendere questo dobbiamo soprattutto chiarire che cosa vogliono dire nella Bibbia le parole «santo» e «santificare/consacrare». «Santo» - con questa parola si descrive innanzitutto la natura di Dio stesso, il suo modo d’essere tutto particolare, divino, che a Lui solo è proprio. Egli solo è il vero e autentico Santo nel senso originario. Ogni altra santità deriva da Lui, è partecipazione al suo modo d’essere. Egli è la Luce purissima, la Verità e il Bene senza macchia. Consacrare qualcosa o qualcuno significa quindi dare la cosa o la persona in proprietà a Dio, toglierla dall’ambito di ciò che è nostro e immetterla nell’atmosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma sia totalmente di Dio. Consacrazione è dunque un togliere dal mondo e un consegnare al Dio vivente. La cosa o la persona non appartiene più a noi, e neppure più a se stessa, ma viene immersa in Dio. Un tale privarsi di una cosa per consegnarla a Dio, lo chiamiamo poi anche sacrificio: questo non sarà più proprietà mia, ma proprietà di Lui. Nell’Antico Testamento, la consegna di una persona a Dio, cioè la sua «santificazione» si identifica con l’ordinazione sacerdotale, e in questo modo si definisce anche in che cosa consista il sacerdozio: è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio. Con ciò si evidenziano ora le due direzioni che fanno parte del processo della santificazione/ consacrazione.
È un uscire dai contesti della vita del mondo - un «essere messi da parte» per Dio. Ma proprio per questo non è una segregazione. Essere consegnati a Dio significa piuttosto essere posti a rappresentare gli altri. Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti. Quando Gesù dice: «Io mi consacro», Egli si fa insieme sacerdote e vittima. Pertanto Bultmann ha ragione traducendo l’affermazione: «Io mi consacro» con «Io mi sacrifico». Comprendiamo ora che cosa avviene, quando Gesù dice: «Io mi consacro per loro»? È questo l’atto sacerdotale in cui Gesù - l’Uomo Gesù, che è una cosa sola col Figlio di Dio - si consegna al Padre per noi. È l’espressione del fatto che Egli è insieme sacerdote e vittima. Mi consacro - mi sacrifico: questa parola abissale, che ci lascia gettare uno sguardo nell’intimo del cuore di Gesù Cristo, dovrebbe sempre di nuovo essere oggetto della nostra riflessione. In essa è racchiuso tutto il mistero della nostra redenzione. E vi è contenuta anche l’origine del sacerdozio della Chiesa, del nostro sacerdozio.
Solo adesso possiamo comprendere fino in fondo la preghiera, che il Signore ha presentato al Padre per i discepoli - per noi. «Consacrali nella verità»: è questo l’inserimento degli apostoli nel sacerdozio di Gesù Cristo, l’istituzione del suo sacerdozio nuovo per la comunità dei fedeli di tutti i tempi. «Consacrali nella verità»: è questa la vera preghiera di consacrazione per gli apostoli. Il Signore chiede che Dio stesso li attragga verso di sé, dentro la sua santità. Chiede che Egli li sottragga a se stessi e li prenda come sua proprietà, affinché, a partire da Lui, essi possano svolgere il servizio sacerdotale per il mondo. Questa preghiera di Gesù appare due volte in forma leggermente modificata. Dobbiamo ambedue le volte ascoltare con molta attenzione, per cominciare a capire almeno vagamente la cosa sublime che qui sta verificandosi. «Consacrali nella verità». Gesù aggiunge: «La tua parola è verità». I discepoli vengono quindi tirati nell’intimo di Dio mediante l’essere immersi nella parola di Dio. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell’essere di Dio. E allora, come stanno le cose nella nostra vita? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi? Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio?
Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta umiltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomette alla verità, alla volontà di Dio? «Consacrali nella verità; la tua parola è verità»: questa parola dell’inserimento nel sacerdozio illumina la nostra vita e ci chiama a diventare sempre di nuovo discepoli di quella verità, che si dischiude nella parola di Dio.
Nell’interpretazione di questa frase possiamo fare ancora un passo ulteriore. Non ha forse Cristo detto di se stesso: «Io sono la verità» (cfr Gv 14, 6)? E non è forse Egli stesso la Parola vivente di Dio, alla quale si riferiscono tutte le altre singole parole? Consacrali nella verità - ciò vuol dire, dunque, nel più profondo: rendili una cosa sola con me, Cristo. Lègali a me. Tìrali dentro di me. E di fatto: esiste in ultima analisi solo un unico sacerdote della Nuova Alleanza, lo stesso Gesù Cristo. E il sacerdozio dei discepoli, pertanto, può essere solo partecipazione al sacerdozio di Gesù. Il nostro essere sacerdoti non è quindi altro che un nuovo e radicale modo di unificazione con Cristo. Sostanzialmente essa ci è stata donata per sempre nel Sacramento. Ma questo nuovo sigillo dell’essere può diventare per noi un giudizio di condanna, se la nostra vita non si sviluppa entrando nella verità del Sacramento. Le promesse che oggi rinnoviamo dicono a questo proposito che la nostra volontà deve essere così orientata: «Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes».
L’unirsi a Cristo suppone la rinuncia. Comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi. «Vivo, tuttavia non vivo più io, ma Cristo vive in me», ha detto san Paolo a questo proposito (cfr Gal 2, 20). Nel «sì» dell’ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla «autorealizzazione ». Ma bisogna giorno per giorno adempiere questo grande «sì» nei molti piccoli «sì» e nelle piccole rinunce.
Questo «sì» dei piccoli passi, che insieme costituiscono il grande «sì», potrà realizzarsi senza amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cristo è veramente il centro della nostra vita. Se entriamo in una vera familiarità con Lui. Allora, infatti, sperimentiamo in mezzo alle rinunce, che in un primo tempo possono causare dolore, la gioia crescente dell’amicizia con Lui, tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo amore, che ci dona continuamente. «Chi perde se stesso, si trova». Se osiamo perdere noi stessi per il Signore, sperimentiamo quanto sia vera la sua parola.
Essere immersi nella Verità, in Cristo - di questo processo fa parte la preghiera, in cui ci esercitiamo nell’amicizia con Lui e anche impariamo a conoscerlo: il suo modo di essere, di pensare, di agire. Pregare è un camminare in comunione personale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie - è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui. Ma affinché questo non diventi uno autocontemplarsi, è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa.
Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l’Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole, che la Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo veramente « un corpo solo e un’anima sola » con Cristo.
Essere immersi nella verità e così nella santità di Dio - ciò significa per noi anche accettare il carattere esigente della verità; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mondo; accettare la fatica della verità, perché la sua gioia più profonda sia presente in noi. Quando parliamo dell’essere consacrati nella verità, non dobbiamo neppure dimenticare che in Gesù Cristo verità e amore sono una cosa sola. Essere immersi in Lui significa essere immersi nella sua bontà, nell’amore vero. L’amore vero non è a buon mercato, può essere anche molto esigente. Oppone resistenza al male, per portare all’uomo il vero bene. Se diventiamo una cosa sola con Cristo, impariamo a riconoscerlo proprio nei sofferenti, nei poveri, nei piccoli di questo mondo; allora diventiamo persone che servono, che riconoscono i fratelli e le sorelle di Lui e in essi incontrano Lui stesso.
«Consacrali nella verità» - è questa la prima parte di quella parola di Gesù. Ma poi Egli aggiunge: «Io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati in verità» - cioè veramente ( Gv 17, 19). Io penso che questa seconda parte abbia un suo specifico significato. Esistono nelle religioni del mondo molteplici modi rituali di « santificazione » , di consacrazione di una persona umana. Ma tutti questi riti possono rimanere semplicemente una cosa formale. Cristo chiede per i discepoli la vera santificazione, che trasforma il loro essere, loro stessi; che non rimanga una forma rituale, ma sia un vero divenire proprietà di Dio stesso. Potremmo anche dire: Cristo ha chiesto per noi il Sacramento che ci tocca nella profondità del nostro essere. Ma ha anche pregato, affinché questa trasformazione giorno per giorno in noi si traduca in vita; affinché nel nostro quotidiano e nella nostra vita concreta di ogni giorno siamo veramente pervasi dalla luce di Dio.
Alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura, perché volevo ricevere ancora una parola del Signore per quel giorno e per il mio futuro cammino da sacerdote. Il mio sguardo cadde su questo brano: « Consacrali nella verità; la tua parola è verità». Allora seppi: il Signore sta parlando di me, e sta parlando a me. Precisamente la stessa cosa avverrà domani in me. In ultima analisi non veniamo consacrati mediante riti, anche se c’è bisogno di riti. Il lavacro, in cui il Signore ci immerge, è Lui stesso - la Verità in persona. Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi in Lui, nella Verità. Appartengo in un modo nuovo a Lui e così agli altri, « affinché venga il suo Regno».
Cari amici, in questa ora del rinnovo delle promesse vogliamo pregare il Signore di farci diventare uomini di verità, uomini di amore, uomini di Dio. Preghiamolo di attirarci sempre più dentro di sé, affinché diventiamo veramente sacerdoti della Nuova Alleanza. Amen.
Benedetto XVI
* Avvenire, 10.04.2009, p. 17.
Karl Löwith
Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche
di Maurizio Schoepflin (Il foglio, 21 Marzo 2018) *
Che cosa è successo alla filosofia nei quattro secoli che separano la nascita di Cartesio dalla morte di Nietzsche? Si tratta di una domanda tanto difficile quanto importante per comprendere un periodo decisivo della storia del pensiero occidentale che ha lasciato all’epoca contemporanea un’eredità drammaticamente complessa.
Si può considerare una fortuna che a rispondere a questo interrogativo ci abbia pensato, tra gli altri, uno studioso del calibro di Karl Löwith, le cui teorie interpretative sono sicuramente opinabili ma non certo trascurabili, essendo egli, che nacque a Monaco di Baviera nel 1897 e morì a Heidelberg nel 1973 e fu allievo di Husserl e di Heidegger, una delle voci più interessanti della filosofia novecentesca.
La risposta löwithiana è contenuta in un denso lavoro, del quale recentemente Orlando Franceschelli ha tradotto e curato per la prima volta l’edizione italiana della versione definitiva risalente al 1967. E proprio nel titolo stesso del libro - Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio e Nietzsche - è contenuta una parte significativa di ciò che l’autore vuol dire al lettore, ovvero che per cercare di comprendere l’evoluzione del pensiero moderno bisogna indagarne la componente metafisica, quella che, come ha insegnato Immanuel Kant, ha al centro proprio Dio, l’uomo e il mondo.
A giudizio di Löwith, il pensiero metafisico della modernità è caratterizzato dalla “caduta di Dio”, un evento dal quale il sapere filosofico è rimasto gravemente vulnerato, tanto da non essere in grado di fare a meno del creazionismo e dell’antropocentrismo di ascendenza biblica e da concludere la sua corsa nel devastante nichilismo di Max Stirner.
Secondo Löwith, tuttavia, nell’epoca moderna ha preso forma anche un altro percorso che, pur prendendo atto della fine della metafisica tradizionale, non ha finito per incagliarsi nelle secche del nulla: tale percorso ha avuto come guide Feuerbach, Nietzsche e Spinoza.
Il primo sarebbe stato il maestro di un’antropologia naturalistica non più bisognosa di una divinità creatrice, il secondo avrebbe sconfitto sia Dio che il nulla rinunciando, come afferma Franceschelli, “a tutti i retromondi metafisici e alle speranze sovrannaturali”, il terzo si presenterebbe come colui che, liberandosi dall’antropocentrismo e dal finalismo, sarebbe riuscito a fare a meno del creazionismo biblico.
Interpretato in questi termini, il testo di Löwith diventa una specie di manuale contenente le istruzioni per un saggio svezzamento dall’eredità teologica, nel quale giocano un ruolo decisivo una concezione naturalistica del mondo e una buona dose di scettico disincanto.
Il mezzo secolo che ci separa dalla pubblicazione di questo bel libro ci dice che non tutto è andato “tranquillamente” nella direzione auspicata da Karl Löwith.
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Karl Löwith,
DIO, UOMO E MONDO NELLA METAFISICA DA CARTESIO A NIETZSCHE,
a cura di O. Franceschelli, Donzelli, 200 pp., 23 euro.
ORIENTARSI NEL PENSIERO:"SAPERE AUDE!". KANT, NIETZSHE, E " UN GRANDE GENIO SENZA CORAGGIO" ... *
Il metodo di Heidegger per imparare a pensare
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 23.02.2018)
Adelphi ha ristampato in una “nuova edizione ampliata” il saggio che Martin Heidegger intitolò “Nietzsche” (pp. 1040, euro 28). La prima traduzione italiana risale al 1994 [pp. 1034], l’edizione originale è del 1961.
A dire il vero, questo libro non è una monografia del più grande filosofo del Novecento sul pensatore-chiave del mondo contemporaneo. L’opera, composta da testi scritti tra il 1936 e il 1946, utilizza come titolo il nome di Nietzsche ma indica - usiamo le parole dello stesso Heidegger - “la cosa in questione nel suo pensiero”. Dove “cosa” va intesa come la metafisica dell’Occidente, la gabbia speculativa che è stata adoperata per secoli e che in Nietzsche si manifesta in una sua ultima espressione. O, meglio, in una forma esasperata.
Queste pagine non contengono quindi l’analisi di un particolare sistema utilizzando uno schema tradizionale ma, pur esaminando parti del lascito di Nietzsche (e anche di altri, quali Platone, Protagora, Descartes, Schelling o Kierkegaard), intraprendono una sorta di lotta per svincolarsi dalla ricordata metafisica. Heidegger, insomma, combatte una battaglia ricorrendo al filosofo che per primo l’aveva tentata.
In una nota Roberto Calasso pone in evidenza il fatto che Heidegger, che non ha nulla da condividere con i manipoli dei critici di Nietzsche, sia l’unico che gli “risponda”.
Del resto, come scriveva nella postfazione Franco Volpi, nel secolo scorso Nietzsche ha suscitato al tempo stesso “entusiasmi e attirato anatemi”; ha inoltre ispirato “atteggiamenti, mode culturali e stili di pensiero, ma al tempo stesso provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti”.
Heidegger, è il caso di aggiungere, non è stato da meno. Se si consultano le tante storie della filosofia che circolano, in ciascuna di esse si può trovare una definizione che lo riguardi; ma tutte, ci si accorge ben presto, gli stanno strette.
Anche la recente polemica, che si fondava su un presunto antisemitismo di Heidegger, non ha tenuto conto del fatto che tra i suoi allievi vi sono stati alcuni tra i migliori intellettuali ebrei del secolo scorso, come prova il caso di Karl Löwith; o, guardando oltre, basterà ricordare Leo Strauss, anch’egli esule dalla Germania per le leggi razziali, che applicò il metodo heideggeriano di decostruzione storica in alcuni suoi importanti scritti. Entrambi, insieme a molti altri, tra cui il cattolico Romano Guardini, furono affascinati da Heidegger.
E anche chi leggerà, meditandolo, il suo “Nietzsche” difficilmente potrà restare indifferente. Vi troverà non la descrizione di un pensiero (anche se non manca) ma un metodo per imparare a pensare. Cosa che non si nota in molti filosofi dei nostri talk show.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’APOLOGIA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO E LA FILOSOFIA ITALIANA. Nella scia di Constant, Kant, Hobbes e Mendiola. Una nota di Armando Torno su "una questione oziosa e irrisolta"
ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!! Note di Gian Guido Vecchi e di Armando Torno
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM [1285-1347]
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito. UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”... *
Gli inediti che Nietzsche non si sentì di pubblicare
di Federico Vercellone (La Stampa, 30.11.2017)
Le eredità culturali sono un lascito molto più pesante di quanto forse, a prima vista, verrebbe da pensare. La relazione con il passato, come ben sappiamo, è determinata da una scelta tra memoria e oblio, tra ciò che va ricordato e quanto invece si può dimenticare senza troppo danno o addirittura con vantaggio. Il passato non sta lì, una volta per sempre, come qualcosa di irrevocabile, bensì come ciò che con sforzo ricostruiamo per e nella coscienza del presente. In questo contesto si propone anche la relazione rinnovata che viene fornita dalle edizioni critiche avviate nella seconda meta del secolo scorso dei grandi classici del pensiero filosofico tedesco dell’800: vere e proprie rivisitazioni di un autore, come testimoniano anche le Opere complete di Nietzsche. Lo dimostra egregiamente l’Introduzione a Nietzsche di Carlo Gentili, uno dei massimi specialisti contemporanei del filosofo, comparsa recentemente presso il Mulino.
Siamo stati abituati a vedere in Nietzsche un autore prometeico che propone al centro del suo pensiero concetti paradossali come quelli di Volontà di potenza, Eterno ritorno e Superuomo. Martin Heidegger era arrivato addirittura ad affermare che tutta l’opera edita di Nietzsche non costituiva altro che l’antiporta del suo pensiero consegnato, nel nucleo fondamentale, alla silloge postuma La volontà di potenza.
Gentili rammenta molto opportunamente che questi inediti, risalenti all’ultima fase della vita cosciente del filosofo, non a caso non furono pubblicati da Nietzsche. Si tratta di esperimenti in cui si affacciano prepotentemente concetti come quelli di Superuomo e di Volontà di potenza che hanno molto meno peso negli scritti pubblicati da Nietzsche stesso. Ciò significa che si tratta di tentativi di cui il loro stesso autore non era pienamente convinto.
A questa luce è la stessa immagine del pensiero di Nietzsche a modificarsi profondamente. Non abbiamo più a che fare con l’outsider che sovverte gli ordinamenti stabiliti, ma con un grande classico del pensiero che ben si inserisce nella tradizione filosofica con una cifra scettica e neokantiana che lo rende un geniale anticipatore delle grandi filosofie della crisi di inizio Novecento.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
"Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere“la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
A partire da un saggio di Zolla riflessioni su un mito antichissimo che resiste ancora oggi
Dioniso il ritorno del dio che in realtà non è mai morto
La nostra società si è riappropriata della divinità dell’uguaglianza in termini non più esoterici ma espliciti
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 31.08.2016)
Quando il ragazzo esce all’alba dalla discoteca, stordito dalle droghe e dall’alcol, e con la luce del mattino lo assale lo stupore dell’infanzia; quando nella campagna greca il contadino, assaggiato il vino nuovo, si alza e accenna tra le viti la lenta danza in tondo; quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando fra lo squittìo delle scimmie il suono del tabla annuncia l’inizio di un rave sulla spiaggia di Goa; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità - allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta.
Dioniso, il dio che Ovidio chiamava Puer Aeternus, si appropria della nostra vita all’improvviso, schiacciando le leggi e le abitudini, infrangendo l’identità personale, spezzando le dualità - conscio-inconscio, persona-cosmo -, come spiega Elémire Zolla in uno dei suoi scritti più belli, Dioniso errante, ora integralmente leggibile nel sesto volume dell’opera omnia, curata con abnegazione e sapienza da Grazia Marchianò (Marsilio, pagg. 622, 24 euro).
Il dio dell’ebbrezza, del confondersi dell’anima, come scandisce il coro delle Baccanti di Euripide, il dio divorato, smembrato come i grappoli della vite, il dio plurale e “produttore di tutte le pluralità”, come lo definì Proclo nel commento al Timeo di Platone, il dio dai molti nomi (tra i più noti Bacco, ma anche Iacco, “ululante” nei misteri eleusini, Libero, “liberatore”, senza contare le ipòstasi stellari che lo innalzano al massimo fulgore nella giostra del cielo eternando le sue storie mitiche nel ritorno degli astri), il dio della maschera e del fallo, dai volti maschili e femminili oltreché umani e ferini (infante, uomo barbuto, dama velata, capro, asino, pantera), fu, come racconta Nonno di Panopoli, un mescolatore di popoli, un liberatore di oppressi ma soprattutto un affrancatore delle donne: dalle contadine che per accorrere al richiamo del ditirambo abbandonavano la segregazione domestica alle matrone degli affreschi dionisiaci della Villa dei Misteri a Pompei.
In questa emergenza matriarcale “più civile di quella delle Amazzoni”, come illustrò Bachofen, Dioniso fece della donna la guida del tìaso e la depositaria dei suoi più profondi stati estatici. Le mènadi, a imitazione del movimento vorticoso impresso al tirso, roteavano il capo come dervisci, tenendolo inclinato di fianco come avrebbero fatto nelle loro estasi le mistiche cristiane, da Caterina a Teresa.
Dai soldati della spedizione di Alessandro in India Dioniso fu assimilato, non a torto, a Shiva, «dio dell’hashish, dell’impeto del toro e del fallo, del fremito che scuote chi è solo nella foresta di notte ». E infatti Novalis lo invoca nell’Inno alla notte: «Dal fascio di papaveri / in dolce ebbrezza / fai crescere le pesanti ali del cuore ». Ma era insediato in Grecia fin dall’età minoica, e anche se verso l’India il suo carro trainato da tigri portò Arianna dall’isola di Nasso dov’era stata abbandonata da Teseo (o forse lo aveva abbandonato lei stessa, rapita in un sonno che già preludeva al ratto dionisiaco), a Creta, patria del labirinto, i riti, descritti in seguito da Filone di Alessandria, portavano gli adepti «a uscire da sé e scorgere l’oggetto del desiderio ».
Il grande dio Pan è morto, annunciava Plutarco quando il politeismo dovette cedere il passo al monoteismo dell’eresia giudaica che presto avrebbe dominato il mondo conosciuto. Ma non accadde lo stesso, non proprio, a Dioniso. Il nuovo dio dei cristiani aveva e via via avrebbe assunto tratti del “dio comune”, come lo aveva chiamato Hölderlin.
Al termine della polimorfa vicenda mitologica che lo avvince, Dioniso scese nell’Ade e ne tornò, «con la morte sconfiggendo la morte», come recita l’inno pasquale dell’ortodossia, «sfilando alla morte il suo pungiglione», come scrisse san Paolo: la resurrezione è “il contrassegno di Dioniso”, che non solo la compì (tre volte), ma salì in cielo e sedette alla destra del Padre (Zeus). Fiumi di scrittura sono stati dedicati al dionisismo cristiano, dagli antichi padri della chiesa ai moderni storici delle religioni, provocati da Schelling, che esplicitamente assimilerà Dioniso a Cristo.
Se Gesù è in Giovanni 15, 1-2 “la vera vite” e gli apostoli devono attaccarglisi come i grappoli al tralcio, se il miracolo di Cana è un tipico prodigio dionisiaco (il più noto precedente in Pausania), il sacrificio dell’uomo-vite nell’eucarestia (***) ricalca la tradizione della mitografia dionisiaca (dove il vino è già chiamato “il dolce sangue” e il potere di trasmutare in pane e in vino è già concesso da Dioniso, stando alle Metamorfosi di Ovidio, alle sue fedeli). Se il calendario cristiano si appropriò di date sacre anche a Dioniso, come il 6 gennaio, la Pentecoste ha, sottolinea Zolla, caratteri di festa dionisiaca.
Come scrisse Gregorio di Nazianzo, uno dei massimi teologi bizantini: «Ecco, Gesù nuovamente è qui e insieme a lui è qui un mistero. Ma non è più un mistero dell’ebbrezza, bensì un mistero che proviene dall’alto». Forse per questo fu attribuito a lui uno dei più plateali prodotti del sincretismo bizantino, il Christus patiens, di età più probabilmente posticonoclasta, dove l’uccisione di Gesù è accostata a quella di Penteo da parte delle baccanti. Seguendo le suggestioni di studiosi neogreci, Zolla congettura, forse giocosamente, la persistenza a Bisanzio, e ancora durante la turcocrazia, di tìasi o confraternite segrete dionisiache, contigue a eresie dualiste cristiane i cui adepti portavano tatuata in fronte l’antica foglia di edera.
Al di là delle sopravvivenze, la sostanza della percezione cristiana era antitetica a quella dionisiaca. Con la sua visione antropocentrica e la sua stretta ragion pratica, come avrebbe compreso Nietzsche, il cristianesimo negò il dionisismo, il suo «sprofondamento nella vita animale e vegetale per non dire nella sostanza minerale, la libertà con tutti i suoi rischi». L’escatologia cristiana soppresse il tempo ciclico, sospese l’«abrogazione dionisiaca della coscienza storica», per introdurre a una promessa di giudizio finale e progresso lineare, a una liberazione oltre la vita.
Il grande dio Pan era morto, ma Dioniso, clandestino e represso dalla morale cristiana, fu reimportato dai neoplatonici di Bisanzio e risorse nel Rinascimento anzitutto fiorentino, alla prima corte dei Medici, quando - come intuito da Pound - i bizantini dettavano e Ficino descriveva con precisione «l’estasi e l’abbandono di menti sgombre, che miracolosamente trasformate superano i limiti dell’intelligenza e si inebriano di un’incommensurabile gioia».
Inoculato nel Quattrocento platonico, Dioniso filtrò nella cultura visiva europea, abitò nel nuovo genere pittorico dei baccanali (Bellini e Correggio, Caravaggio e Tiziano), nel più esoterico mistero che pervase i quadri di Leonardo; riemerse nella letteratura dei romantici tedeschi e dei dionisiaci inglesi e francesi (Coleridge e De Quincey oltre a Baudelaire), da cui saranno influenzati, fra gli altri, gli studi di Bachofen, Rohde, Frazer, Otto, Kerenyi.
È Dioniso che nel Novecento ha ispirato la rivoluzione psichedelica, forse quella sessuale, certo la liberazione delle donne, Arianne rapite via dai vincoli borghesi sul suo carro guidato da tigri. La corona della razionalità, gettata in alto, si è impressa come il diadema di Arianna nel cielo notturno della psiche quando l’Es, con la psicoanalisi, ha riconquistato il suo dominio. Dioniso ci ha riconvocato in India, ci ha riproposto la consapevolezza dell’impermanenza, ci ha reinsegnato il mondo animale e la natura vegetale.
Non è solo il carattere orgiastico che nel dissolversi delle religioni esclusive e del folklore tradizionale hanno assunto la sessualità o i riti della vita associata. Non è solo il ritmo del reggae, lo spirito della musica come lo chiamava Nietzsche, che fa da colonna sonora alla tragedia del massacro globale, nel riacutizzarsi della ferocia delle guerre del mondo. È che la nostra società, nella ruota dell’eterno ritorno, si è riappropriata del dio dell’uguaglianza universale in termini non più esoterici ma espliciti e di massa. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal). Una nota di Pietro Citati sulle "Lettere da Torino"
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-PO-LOGIA" ATEA E DEVOTA....
di Federico Vercellone (La Stampa, 10.07.2016)
Tra le poche cose che vanno relativamente bene in Italia c’è la filosofia. Nonostante il totale disinteresse della classe politica nei confronti della ricerca, l’Italian Theory emerge con ottimi risultati anche sul piano internazionale.
La filosofia italiana del secondo Novecento è segnata nel suo percorso dalla presenza influente della grande filosofia classica tedesca. È una vicenda che si avvia da lontano, perlomeno dalla grande rilettura di Hegel prodotta dal neo-hegelismo napoletano e da Benedetto Croce. Successivamente, grazie a Luigi Pareyson, emerge l’altro versante dell’idealismo tedesco, Fichte e Schelling, oltre a Goethe e ai romantici e a Nietzsche, nel quadro di un progetto filosofico volto a superare l’eredità neo-idealistica.
Proprio Nietzsche costituisce un punto di svolta. La grande impresa dell’edizione critica presso Adelphi delle Opere di Nietzsche, avviata nel 1964, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, apre un nuovo capitolo di notevole significato anche sul piano internazionale. È un capitolo che contribuisce a portare alla ribalta alcuni tra i più significativi filosofi italiani, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino a Gianni Vattimo.
Su questo passaggio così significativo si sofferma Emilio Carlo Corriero in un volume ponderoso, equilibrato ed esaustivo uscito ora da Aragno, Il Nietzsche italiano. Il punto di avvio fondamentale, in un quadro per altro estremamente composito in relazione alla ricezione di Nietzsche, è l’idea di Crisi della ragione dibattuta in un volume del 1979 comparso da Einaudi a cura di Aldo Giorgio Gargani. Venuti meno i fondamenti della ragione classica, Nietzsche costituisce un indispensabile punto di riferimento per cogliere i tratti di un tempo di crisi dei fondamenti. Fare i conti con la «morte di Dio» e con il venir meno dei valori trascendenti comporta una rivoluzione del pensiero e dei modi di vita che mette in gioco aspetti fondamentali della nostra civiltà con implicazioni notevoli sul piano della convivenza civile, della morale pubblica, e della nostra provenienza religiosa dal mondo cristiano.
un libro di Marco Vannini
Le vere ragioni delle dimissioni di Ratzinger
di Paolo Rodari (la Repubblica, 04.03.2016)
Quali sono le ragioni delle dimissioni di Benedetto XVI? Gli intrighi di palazzo, la pedofilia, le carte trafugate... Ma cosa, in fondo, lo ha spinto a rinunciare? Se lo chiede il filosofo e teologo Marco Vannini, tra i massimi esperti di mistica cristiana, in All’ultimo Papa con una tesi che fa discutere: l’ultimo Papa è Benedetto. La risposta va oltre eventi contingenti per ritrovarsi nel «venir meno dei fondamenti storici della fede».
In sostanza, dice Vannini, Ratzinger resta l’ultimo difensore di una credenza tradizionale, secondo la quale il «vecchio Dio Padre» è rex tremendae majestatis. È il Dio della tradizione ebraica che oggi, dal pronunciamento di Giovanni Paolo I fino al rilancio operato dalla teologia cosiddetta al femminile, è stato sostituito dal concetto di Dio-Madre.
Secondo Vannini, Ratzinger avrebbe dovuto operare un’azione troppo ardita: far passare il cristianesimo da mitologia (appunto la credenza in un Dio potente e superiore) a conoscenza dello spirito nello spirito, un Dio privo di ogni attributo, pura luce: «Un pensiero che non crea né teologie né chiese, perché esso esprime soltanto l’esperienza di una realtà assolutamente diversa ».
Lo si chiama Dio per consuetudine ma, spiega Vannini, «non intendiamo affatto parlare di un ente supremo, lassù nei cieli», quanto della scoperta di ciò che siamo, «il nostro stesso essere».
Ratzinger avrebbe dovuto spostare il cristianesimo su questo secondo livello. Ma, dice Vannini, l’impresa è sembrata «tale da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa». E per non tradire se stesso, per non abbracciare un «nuovo umanesimo », ha preferito ritirarsi.
L’arte di dire sì alla vita
La morte di Dio e l’«eterno ritorno» riletti alla luce di una nuova accurata edizione della «Gaia scienza»
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.03.2016)
Diceva Karl Kraus che «l’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo». Gli aforismi che Nietzsche presenta ne La gaia scienza (prima edizione 1882, seconda, con importanti aggiunte, del 1887), a parte quelli invischiati in polemiche contingenti, sono per lo più delle verità e mezzo.
La nuova traduzione di Carlo Gentili innova rispetto a quelle già eccellenti di Ferruccio Masini (Adelphi 1965) e di Sossio Giametta (Rizzoli 2000) ed è, soprattutto, dotata di un’ampia introduzione e di un capillare e filologicamente rigoroso commento ai testi. Si avvale, inoltre, di alcuni accorgimenti grafici - come il maggior rispetto della punteggiatura e dei trattini di sospensione - che permettono di separare meglio le citazioni dalle parole di Nietzsche.
In questa «opera laboratorio», che contiene in sé altre opere fondamentali (come Zarathustra e Al di là del bene e del male), i componimenti poetici «Scherzo, malizia e vendetta» e le Canzoni del principe Vogelfrei aprono e chiudono le raccolte di aforismi. Alla maniera dei troubadours provenzali da lui ammirati - lo si vede già dal titolo del libro e dalla scintillante poesia finale Al Mistral - la gioia, e non la seriosità, deve per Nietzsche caratterizzare la scienza: «Libera - sia chiamata l’arte nostra / Gaia - la nostra scienza! // [...] Come trovatori danziamo / Tra santi e puttane, / Tra Dio e il mondo la nostra danza!».
Fra le varie questioni dibattute in questo volume, ne seleziono solo due, quelle che hanno avuto storicamente e teoricamente il peso maggiore: la prima, relativa alla morte di Dio (si veda, soprattutto, l’aforisma 125) e la seconda, che contiene in nuce la dottrina dell’eterno ritorno (l’aforisma 341).
L’affermazione di Nietzsche «Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso» - significativamente messa in bocca all’«uomo folle» - non va intesa come un grido di giubilo. Tale morte annunciata del Creatore e signore dell’universo, del Garante di quei valori morali assoluti e indiscutibili che hanno orientato per millenni le azioni visibili e i pensieri e i desideri invisibili degli uomini, lascia un vuoto difficilmente colmabile, scaricando su di loro la tremenda responsabilità di dare senso a un mondo privo di stabili e credibili punti di riferimento.
Eppure, come mostra opportunamente Gentili, l’annuncio del fatto che Dio è morto non è di per sé scandaloso per gli ascoltatori dell’«uomo folle». Il suo uditorio è, infatti, costituito da una folla di non credenti che a tale comunicazione scoppiano in «una grossa risata». In maniera più o meno consapevole, gli “europei” questo lo sanno già. Ciò che ignorano è l’«ombra», la “traccia” che, scomparendo, Dio ha lasciato, vale a dire le premesse nascoste della fede in lui, che ora vengono erose e vacillano nella coscienza e nella scienza degli uomini. Capita al Dio cristiano quel che è accaduto a Buddha: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò a indicare per secoli la sua ombra in una caverna, - un’immensa, orribile ombra. Dio è morto: ma, data la natura degli uomini, vi saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si indicherà la sua ombra. - E a noi - a noi resta da vincere anche la sua ombra!».
Certo, ai filosofi e agli «uomini liberi» la morte di Dio appare come la fine delle tenebre (»ci sentiamo illuminati dai raggi di una nuova aurora»). E, tuttavia, anche loro si rendono conto che «un qualche sole è tramontato, che una qualche antica e profonda fiducia sia stata rovesciata in dubbio». Per gli altri uomini l’impresa compiuta da loro stessi compiuta nell’uccidere Dio non è ancora entrata nelle «orecchie», perché non si sono accorti dell’enormità del loro atto. Le sue conseguenze si vedranno solo in seguito, quando un nuovo «oscuramento» colpirà l’Europa, disorientando i propri abitanti, ormai privi dei valori tradizionali e ancora incapaci di sostituirli con dei nuovi.
Leggiamo - o rileggiamo - con calma parte dell’aforisma 341 (che preannuncia l’idea dell’eterno ritorno, più diffusamente elaborata nello Zarathustra e nei Frammenti postumi), anche per assaporare la prosa di Nietzsche nell’efficace traduzione di Gentili. L’argomentazione utilizzata è, significativamente, al condizionale: «Come sarebbe se, un giorno o una notte, un demone s’insinuasse di soppiatto nella tua solitudine e ti dicesse: ’Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla almeno una volta e ancora innumerevoli volte; e non vi sarà in ciò nulla di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto l’indicibilmente piccolo e l’indicibilmente grande della tua vita deve fare ritorno a te, e tutto nella sequenza e successione - e altrettanto questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e altrettanto quest’attimo e io stesso’ [...] Se questo pensiero ti prendesse in suo potere produrrebbe in te, quale tu sei, una trasfigurazione e forse ti annienterebbe [...]».
Da notare come l’esperienza dell’eterno ritorno abbia in Nietzsche un carattere inquietante e quasi sinistro e conservi il sapore di un ricordo infantile, di un déjà vu. Lo si può costatare in un passo dello Zarathustra, anche questo da gustare e perciò degno di una citazione abbastanza estesa: «E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti essere stati un’altra volta? - e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno? [...] E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: - tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, - tacita sul tetto piatto, come su roba altrui [...]».
Contrariamente a quanto si può supporre, l’idea dell’eterno ritorno non possiede un significato cosmologico, non si riferisce - alla maniera dei pitagorici e degli stoici - all’esatto ripresentarsi dei medesimi eventi, ma costituisce invece uno strumento per selezionare gli uomini, distinguendo chi accetta la decisione suprema di assumersi «il peso più grande» e chi la respinge. Anche se questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzioni o le azioni di ciascuno. Volere l’eterno ritorno significa, infatti, determinare il corso della propria vita, così come accade nel cristianesimo, dove la prospettiva della dannazione o della salvezza eterne dirige i comportamenti effettivi in questo mondo. Per Nietzsche, a differenza della fede cristiana nell’al di là, la decisione di sopportare lo spostamento del centro di gravità dal paradiso o dall’inferno all’eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzione che quest’ultimo aiuta a sviluppare maggiormente la vita (anche se, per certi aspetti, rappresenta una condanna), mentre il cristianesimo la deprime.
SCHEDA EDITORIALE *
Marco Vannini, All’ultimo papa. Lettere sull’amore, la grazia e la libertà, il Saggiatore, pagine 208, euro 17,00
Le dimissioni di Benedetto xvi sono uno dei gesti più sconvolgenti della storia del cristianesimo e dell’epoca contemporanea: un atto che vuole ricondurre una religione alla sua vera essenza, allo svuotamento dell’io, al nunc dimittis. A coglierne pienamente la potenza è Marco Vannini, tra i massimi esperti europei di mistica cristiana, da mezzo secolo impegnato a scandagliarne i protagonisti, da Meister Eckhart a Sebastian Franck.
Nelle dimissioni di Benedetto xvi Vannini riconosce un fatto indipendente da eventi contingenti e causato invece dalla crisi di un’intera religione, che mostra lo sgretolarsi dei fondamenti delle Scritture sotto i colpi della storia. Nel tentativo estremo di conciliare credenza religiosa e verità oggettiva, il professor Ratzinger ha steso una vita di Gesù, ma la sua fatica è destinata al fallimento: la Chiesa sta percorrendo una strada diversa da quella «religione del Logos» che Benedetto xvi aveva appassionatamente difeso nel discorso a Ratisbona del settembre 2006.
La straordinaria figura di Benedetto xvi è un’occasione, una cifra della storia occidentale, che mostra all’opera l’«ultimo papa» prefigurato nello Zarathustra di Friedrich Nietzsche, che lo ritrae a riposo, anziano ma non sfibrato. Filosofica e appassionante nella sua radicalità, la riflessione di Vannini appare vertiginosa, incardinando il sentimento della fede in un movimento che fa trasalire per intimità e precisione. Nello scrivere queste lettere indirizzate all’«ultimo papa» - lettere insieme accorate e acutamente analitiche, urgenti e profondamente meditate, fortemente cristiane - Vannini non perde mai di vista la particolarità del nostro crocevia storico. Così, le sue riflessioni sul tesoro nascosto e sull’amore, sulla grazia e sulla libertà, sulla fede, sulla giustizia e la fine delle menzogne, sulla vita eterna, sfondano i confini della teologia dogmatica per rivolgere un invito a tutti i cristiani a uscire da ciò che è accessorio e a entrare nel regno della ragione più profonda e abissale, riscoprendo l’essenza autentica del messaggio evangelico: la consapevolezza di sé.
Indice:
Prologo
Lettera prima
Sul tesoro nascosto
Lettera seconda
Sull’amore
Lettera terza
Sulla verità della fede
Lettera quarta
Sulla grazia e la libertà
Lettera quinta
Sulla giustizia e la vita eterna
Lettera sesta
Sulla fine delle menzogne
Lettera settima
Congedo
Riferimenti bibliografici
ZARATHUSTRA E IL VECCHIO, ULTIMO PAPA
(cit.: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte IV, "A riposo" - Edizioni Adelphi, pp. 314-318).
[...] Zarathustra afferrò la mano del vecchio papa e stette a lungo a guardarlo ammirato.
Vedi là, tu, santità - esclamò poi - che mano bella e lunga! È la mano di un individuo che ha sempre dispensato benedizioni. Ma ora la tiene stretta colui che tu cerchi, cioè io, Zarathustra.
Io stesso sono l’ateo Zarathustra, che parla, e chi è più ateo di me che io possa rallegrarmi di quanto egli mi dice?
Così parlò Zarathustra e penetrava con i suoi sguardi i pensieri e i segreti interiori del vecchio papa.
Infine questi incominciò a dire: Chi più lo amava e possedeva, ecco che più lo ha perduto: ecco, sono forse ora io stesso di noi due il più ateo? Ma chi potrebbe di ciò rallegrarsi?
Tu l’hai servito fino in fondo - chiese Zarathustra pensoso, dopo un profondo silenzio. - Sai tu come morì? È vero ciò che si dice, che sia morto di compassione, per aver visto come l’uomo pendeva sulla croce, e non aver sopportato che l’amore per l’uomo divenisse il suo inferno e infine la sua morte?
Il vecchio papa non rispose, ma guardò obliquo con un’espressione dolorosa e cupa.
Lascialo andare - disse Zarathustra dopo una lunga meditazione, durante la quale sempre teneva l’occhio fisso nell’occhio del vecchio.
Lascialo andare; ormai non c’è più. E anche se ti fa onore che tu non dica se non bene di questo morto, tuttavia sai altrettanto bene quanto lo so io chi egli era, e che percorse degli strani sentieri.
Detto a tre occhi - disse argutamente il vecchio papa (perché era cieco da un occhio) - nelle cose di Dio ne so più io dello stesso Zarathustra; e può ben essere così. Il mio amore ha servito a lui per tanti anni, la mia volontà ha fatto sempre quanto lui voleva. Un buon servitore sa tutto, e sa anche le cose che il suo padrone spesso nasconde a se stesso.
Era un Dio nascosto, pieno di segreti. Per dir la verità, ad avere un figlio ci arrivò per vie traverse. Alla soglia del suo Credo ci sta un adulterio.
Chi lo celebra come un dio d’amore non ha una grande opinione dell’amore. Non voleva forse questo dio fare anche il giudice? Ma chi ama, ama al di là del premio e della pena.
Quando era giovane, questo dio asiatico era duro e vendicativo e si costruì un inferno a tutto divertimento dei suoi cari.
Alla fine divenne vecchio e tenero e frollo e compassionevole, più simile ad un nonno che ad un padre, ma rassomigliante più di tutto ad una vecchia nonna tentennante. - Stava lì, cadente, nell’angolo della sua stufa, lamentandosi delle sue gambe deboli, stanco di tutto, senza più volontà, finché un giorno venne meno per la sua troppa compassione.
Tu, vecchio papa - insinuò a questo punto Zarathustra - hai visto tutto ciò con i tuoi occhi? Perché potrebbe essere andata così: così, ma anche in altro modo. Quando gli dèi muoiono, muoiono sempre di specie diverse di morte.
Tuttavia! Così o in altro modo, così o cosà, è finito! A me faceva schifo sia a sentirlo che a vederlo; non potrei dir niente di peggio su di lui.
Io amo tutto ciò che guarda e parla schietto e chiaro. Ma lui - tu lo sai, vecchio prete, perché qualcosa del tuo tipo, del tipo del prete, in lui c’era - era malfido.
Ed anche poco chiaro. E come se la prendeva con noi, quel borbottone, perché non lo comprendevamo bene! E allora, perché non parlava più chiaro?
E se la colpa era delle nostre orecchie, perché non ci aveva dato delle orecchie più adatte a cornprenderlo? E se dentro ci avevamo il cerume, chi ce l’aveva messo?
Troppe cose gli sono andate male a quel vasaio; si vede che non ci sapeva fare abbastanza!
Ma che poi si vendicasse anche sui suoi vasi e sulle sue creature, perché gli erano riusciti male, questo poi è proprio un peccato contro il buon gusto.
C’è il buon gusto anche nella pietà religiosa: alla fine, esso esclamò: ’Via, con un dio di questo genere! Meglio nessun dio, meglio crearsi il destino con le proprie mani, meglio esser pazzo, meglio esser noi stessi dio!
Ma che sento! disse a questo punto il vecchio papa aguzzando le orecchie. - O Zarathustra, tu sei più religioso di quanto credi, con la tua miscredenza! Qualche dio dentro di te ti ha convertito al tuo ateismo.
Non è la stessa tua religiosità che non ti lascia più credere ad un dio? La tua enorme schiettezza ti condurrà anche al di là del bene e del male!
Vedi un po’ che cosa ti fu mai risparmiato? Tu hai occhi e mani e bocca, che sono predestinate a benedire dall’eternità. Non si benedice soltanto con la mano.
In tua prossimità, anche se tu vuoi essere il più ateo di tutti, io subodoro un sentore dolciastro d’incenso che proviene da lunghe benedizioni: e mi fa sentire bene e male insieme.
Lasciami essere tuo ospite, o Zarathustra, per una sola notte! In nessun luogo della terra potrò star tanto bene come con te!
Amen! Così sia! soggiunse Zarathustra con grande meraviglia. - Lassù è la strada che conduce alla caverna di Zarathustra.
Volentieri ti condurrei io stesso, santità, perché amo tutti gli uomini religiosi, ma ora un grido angoscioso mi richiama lontano da te.
Nel mio regno nessuno deve trovarsi male; la mia caverna è un buon porto. E mi è molto caro accogliere ogni essere triste rimettendolo in piedi e su saldo terreno.
Ma chi può togliere dalle spalle la tua malinconia? Sono troppo debole per questo. A lungo invero dovremmo aspettare, finché qualcuno ti risvegliasse il tuo dio.
Questo vecchio dio appunto non vive più: è definitivamente morto.
IDEE. Dopo le parole del Papa al Giovedì santo, un excursus sulla critica dei pensatori cristiani all’autore di «Così parlo Zarathustra»
Dioniso contro il Crocifisso
I più severi furono il teologo De Lubac e il filosofo Maritain, che videro nel pensatore tedesco incarnato il dramma dell’umanesimo ateo
Più aperto e dialettico il fondatore del personalismo Mounier, pronto ad accettare le domande inquietanti poste al cristianesimo. Sulla sua scia Marcel
DI ROBERTO RIGHETTO (Avvenire, 14.04.2009).
L a disputa fra Dioniso e il Crocifisso ha contraddistinto la storia del pensiero del secolo scorso, segnato così profondamente da Nietzsche e Heidegger.
Giustamente le parole di papa Ratzinger del Giovedì santo hanno fatto discutere, ma come i pensatori cristiani durante il ’ 900 si sono confrontati con l’ateismo del filosofo autore di Così parlo Zarathustra? Quel Nietzsche che ha decretato la morte della metafisica in nome però di un delirio d’onnipotenza ancora più profondo; quel Nietzsche che si esalta autodefinendosi « il nuovo destino » o scrivendo: « Solo a partire da me ci sono di nuovo speranze » ( Ecce homo); quel Nietzsche che vede se stesso « assiso al letto di morte del cristianesimo», affascinato da questo spettacolo « che è riservato ai prossimi due secoli d’Europa » ( Aurora) e che può soddisfatto proclamare: « Cosa sono mai ancora queste chiese, se non le tombe, i monumenti funebri di Dio? » ( La gaia scienza); quel Nietzsche, infine, la cui « dottrina dell’assenza della compassione del superuomo » è sensibilmente contraddetta dalla sua biografia: come pochi altri egli dovette ricorrere alla pietà nei confronti del prossimo.
La critica cattolica al filosofo tedesco comincia con lo scrittore Giovanni Papini, che accusa il superuomo di Nietzsche di volersi sostituire all’umanità di Gesù, ma finendo per proclamare il declino e la morte dell’uomo stesso. Più profonda la riflessione operata da Emmanuel Mounier: per il fondatore del personalismo la sfida che Nietzsche porta al cristianesimo è essenziale ed egli si rammarica che i cristiani non la prendano sul serio. Nietzsche penetra come nessun altro all’interno della crisi della civiltà occidentale e dell’humus cristiano che l’ha permeata, rivela crudelmente ai credenti la loro infedeltà all’annuncio evangelico, la loro incapacità di vivere una fede vigorosa e piena. Mounier vede Nietzsche come un visionario incompreso: solo un cristianesimo all’altezza delle inquietanti domande nicciane può risolvere, o meglio « dissolvere, trasfigurare nella fede vissuta l’angoscia terribile posta da Zarathustra nel cuore della coscienza contemporanea » ( L’affrontement chrétien, 1945).
Anche per l’esistenzialista cristiano Gabriel Marcel la morte di Dio è un punto di partenza, « qualcosa come un trampolino per un balzo prodigioso, per uno slancio creatore » ( L’homme problématique, 1955). Il Dio di cui Nietzsche ha sancito la morte è il Dio primo motore, il Dio della tradizione aristotelica: di ciò, dice Marcel, non si può che essere felici e trarre la conseguenza che il rapporto fra l’uomo e Dio deve passare da un legame formale e puramente causale a una relazione di libertà. L’opera di Nietzsche, la sua malattia è il simbolo dell’inquietudine lacerante del nostro tempo e rinvia all’immagine spezzata dell’uomo moderno. La proclamazione della morte di Dio non è altro che il segno della « tendenza dell’uomo a glorificare se stesso partendo dalle realizzazioni della tecnica » . Nietzsche fallisce il suo disegno di superare il nichilismo del pensiero moderno e il suo appello al superuomo non fa che aggravare la crisi.
Anche per Jacques Maritain, che a Nietzsche dedicò meno attenzione rispetto a Mounier e Marcel, il filosofo tedesco ha contribuito a svelare « la religiosità senza fede della ragione hegeliana » ( La philosophie morale, 1960). Altri cristiani si sono fatti interrogare dal visionario di Sils- Maria arrivando a conclusioni di più aperta condanna. È il caso del teologo Henri de Lubac: Nietzsche non ha solo dissolto il Dio della metafisica, ma ha portato un attacco frontale al Dio cristiano. Egli va considerato un nemico del cristianesimo e purtroppo « continua a drenare a sé anime nobili, a volte anche anime cristiane il cui accecamento fa fremere » ( Il dramma dell’umanesimo ateo). Per De Lubac Nietzsche propugna il neopaganesimo, che è la vera malattia spirituale del nostro tempo. La sua confutazione di Dio precipita l’umanità nella barbarie e De Lubac ne vede la prova nell’avvento del nazismo che immerge l’Europa nella notte più sicura. Il teologo è allarmato perché il pensiero di Nietzsche non solo sfida il cristianesimo, ma lo corrode dall’interno. Lo stesso Marcel d’altronde, nell’ultima fase del suo pensiero, studierà insieme Nietzsche e Heidegger giungendo a respingerli entrambi e leggendo il loro itinerario come emblematico, della deriva di tutta una civiltà ( si vedano i Cahiers pubblicati postumi nel ’ 79). Anche il pensatore russo Vladimir Solov’ev, noto per un suo scritto sull’Anticristo, ispiratore di Dostoevskij e contemporaneo di Nietzsche ( curiosamente, sono morti ambedue nell’agosto del 1900, a pochi giorni di distanza l’uno dell’altro), dipingeva già quest’ultimo come il precursore dei nemici del Dio cristiano della fine dei tempi. Come si vede, il pensiero cristiano ha guardato con scrupolosità al filosofo tedesco.
Per venire a tempi più vicini a noi, basti citare il filosofo francese Maurice Clavel, per cui il postmoderno è segnato soprattutto da Heidegger. Ecco il vero avversario del cristianesimo: il ritorno del neopaganesimo, il « conglomerato niccianoheideggeriano » al quale si convertono, fra l’altro, molti marxisti. Non lontane appaiono le riflessioni dell’ultimo Luigi Pareyson, il maggior filosofo italiano dal dopoguerra, che ha immaginato un cristianesimo tragico come alternativa reale al nichilismo consolatorio.