TERREMOTO DEI VALORI E CREPUSCOLO DEGLI IDOLI: "DIO NON E’ CATTOLICO" (Carlo Maria Martini). E L’AMORE ( "CHARITAS") NON E’ MAMMONA (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006)!!! Fine del cattolicesimo-romano, del "platonismo per il popolo" ...

TUTTO TREMA. NIETZSCHE DICE A RATZINGER CHE IL SUO DIO (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006) E’ MORTO, MA IL VECCHIO PAPA NON CAPISCE E CONTINUA A PREDICARE CONTRO IL VENTO!!! Note e commenti di Bruno Gravagnuolo, Franco Volpi, Gian Guido Vecchi (e il testo dell’omelia) - a cura di Federico La Sala

Crollo della mente dell’uomo teoretico e fine del "romanzo familiare" edipico della chiesa cattolico-romana
venerdì 10 aprile 2009.
 


-  Ratzinger ai sacerdoti

-  La fede über alles

-  Anatema del papa su Nietzsche

-  «Troppo libero»

-  Ieri in un’omelia ha lanciato un atto d’accusa contro il filosofo tedesco, la sua «superbia distruttiva» e la sua «presunzione che finiscono nella violenza». Lo avrà letto sul serio?

di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 10.04.2009)

C’è ragione e ragione. La scienza ce l’ha «piccola» «Nell’ultimo decennio, la resistenza della creazione a farsi manipolare dall’uomo si è manifestata come elemento di novità nella situazione culturale complessiva. La domanda circa i limiti della scienza e i criteri cui essa deve attenersi si è fatta inevitabile»: Ratzinger nel ’92. Da Papa non ha cambiato idea: la fede è più verità della scienza

Galileo? «La sentenza della Chiesa fu giusta» L’anno scorso il Papa, usando erroneamente una frase del filosofo agnostico-scettico Feyerabend scrisse nel discorso che avrebbe dovuto tenere alla Sapienza di Roma: «La sua (della Chiesa, ndr) sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione».

L’evoluzionismo ha una «razionalità ridotta» Conferenza di Ratisbona, 2006. Il Papa distingue tra «ragione ristretta» tipica della scienza e «ragione estesa» che coincide con la fede. Alla luce della ragione estesa, il darwinismo diventa dotato di una razionalità inferiore. Il Papa ha aperto quindi un conflitto non tra scienza e fede ma tra due razionalità di rango diverso.

Tutta colpa di Nietzsche. E non solo la crisi delle vocazioni, il rifiuto dell’obbedienza, e della parola di Dio. Ma anche l’omologazione delle coscienze, figlia della «superficialità di tutto ciò che di solito si impone all’uomo di oggi». E tutta colpa di Nietzsche pure «la superbia distruttiva e la presunzione, che disgregano ogni comunità e finiscono nella violenza». Insomma, atto d’accusa globale contro il filosofo tedesco, quello pronunciato ieri da Papa Ratzinger, in occasione della «messa crismale», durante la quale si benedicono gli olii santi prima della Pasqua. Un’accusa esplosa in un’omelia dedicata ai sacerdoti delle Diocesi di Roma, e riuniti in San Pietro. E con toni e accenti davvero inconsueti in un Pontefice. Almeno dai tempi in cui nel Sillabo Pio IX condannava liberalismo e ideologie democratiche e socialiste, come fomite dei mali assoluti di quel tempo.

In realtà mai in passato un Papa si era scagliato con tanta foga contro un solo filosofo, fatto responsabile di tutte le nequizie dell’umanità contemporanea. Come se il filosofo dell’Eterno Ritorno fosse lui stesso, e in prima persona, una sorta di incarnazione del diavolo, e della superbia tentatrice e luciferina che ne caratterizza l’ombra distruttiva all’opera.

Quindi, valore paradigmatico per il Papa delle idee nietzscheane in ordine al fondamento del «male». E inserite in quanto tali in un ragionamento etico e teologico ben preciso. Che mette al centro due colpe ben precise del filosofo: l’aver «dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi». E l’aver «messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo».

Di qui appunto il rifiuto del’Autorità e la violenza distruttiva connesse alla presunzione di un «volere autonomo», svincolato dala fede. E di qui il mito dell’«autorealizzazione», che rifiuta la vera «verità del nostro essere», ovvero «la retta umiltà che si sotomette a Dio». Certo ammette il Papa - con riferimento alla critica nietzscheana dello zelo virtuoso - esistono anche «caricature di una sottomissione e di una umiltà sbagliata».

Ma il rischio più grave per il Pontefice teologo restano la ribellione e la presunzione. Nonché il rifiuto dei «sacrifici» che ci rendono amici di Cristo e che a Lui consacrano la nostra esistenza. Una esistenza che è davvero consacrata, aggiunge il Papa, proprio quando essa è rescissa da «connessioni mondane», come nel sacerdozio obbediente. Che ben per questo può poi diventare «disponibile per gli altri».

Toni demonizzanti, lo abbiamo detto, ma che rivelano altresì molte cose. In primo ruolo il rifiuto da parte di questo Papa di riconoscere dignità autonoma al valore della libera coscienza e della libera indagine a partire dalla «soggettività», moderna o premoderna. Un atteggiamento in flagrante contraddizione sia con l’etica «rischiosa» di Agostino, che prescriveva la ricerca del vero in interiore homine. Sia con quella kantiana, basata sull’autonomia della «ragione pratica», e coincidente con il «regno dei fini», senza necessariamente vederselo prescritto dalle norme positive racchiuse nella fede rivelata. Non parliamo poi del «libero esame luterano» e della «giustificazione individuale per fede e non per le opere». Dimensioni che questo Pontefice evidentemente respinge, e che stante il suo rifiuto programmatico del «dialogo», non riesce a includere nemmeno dentro il semplice ascolto «inter-confessionale».

Paradossalmente, è proprio il principio della libertà interiore - seme germogliato dal cristianesimo stesso e secolarizzatosi nella modernità - ciò che questo Papa rifiuta. A meno che esso non sia inserito dentro il «crisma» dell’Autocritas e delle Chiavi di Pietro - dalla Chiesa detenute. Tutto il resto è relativismo, presunzione. E infine violenza distruttiva. Come tali frutto dell’indebita autonomia della ragione, che lasciata a sé è male. È il Male.

E Nietzsche? Senza dubbio nella sua radicalità libertaria si presta a meraviglia all’intemerata papale. Salvo che la sua «recezione» da parte di Ratzinger è banale e orecchiata. Non è fondata sui testi, e corrisponde piattamente alle interpretazioni più logore dei fascismi e del marxismo-stalinismo. Le prime persuase di trovare nel filosofo un anticipatore della volontà di potenza etnica e imperiale (il Nietzsche riscritto dalla sorella reazionaria e «nordificato» dai nazisti). Le seconde convinte di aver scoperto nel filosofo il volto della «borghesia irrazionalista» nell’epoca dell’«Imperialismo fase suprema del capitalismo». Interpretazione questa avallata oggi da Ernst Nolte, che vede nel Superuomo la rivolta del borghese tedesco minacciato di annientamento da parte socialista e comunista.

Il vero Nietzsche? Fragile, problematico, a modo suo disperato. E in certo senso cristiano, come scrisse con acume Karl Jaspers, capace di scoprire in lui una radicalità etica volta a liberare l’uomo dalle illusioni che lo rendono ipocrita e violento, magari con la scusa di fedi e ideologie. Nietzsche perciò dai mille volti ma teso alla gioia del conoscere (Gaia Scienza). Alla «pienezza del dare» e al grande stile estetico che fa del mondo un giardino. E Nietzsche che scrive: «Dove si dice “ama il prossimo” tuo c’è sempre qualcuno che è escluso da quell’amore, un lontano. Ecco, io amo quel lontano». Già, tra Nietzsche e Cristo ci sono forse più cose in comune che questo Papa non immagini. A leggerlo sul serio.



Alcuni testi base per capire:

-  Su Nietzsche si vedano almeno

-  Gilles Deleuze, «Nietzsche e la filosofia» (Einaudi, 2002);
-  Martin Heidegger, «Nietzsche» (1961, Adelphi);
-  Karl Jaspers, «Nietzsche» (1936, Mursia);
-  Gianni Vattimo, «Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione» (1974, Bompiani).

La gaia fede di Nietzsche:

-  «La nascita della tragedia dallo spirito della musica» (1872);
-  «Considerazioni inattuali» (1873-76);
-  «Umano troppo umano» (1878);
-  «Aurora» (1881);
-  «La gaia scienza» (1882);
-  «Così parlò Zarathustra» (1883);
-  «Al di là del bene e del male» (1886);
-  «L’anticristo», «Ecce Homo» (postumi).

Tutti nell’edizione Adelphi, a cura di Colli-Montinari.



-  I mali che secondo Ratzinger risalgono al filosofo tedesco, dalla violenza al relativismo

-  Contro Nietzsche
-  L’accusa del papa al filosofo nichilista

-  Durante la messa del giovedì santo Benedetto XVI ne richiama la figura: "il suo pensiero ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza"
-  Il suo pensiero è stato considerato una fonte di ispirazione per l’ideologia nazista
-  Molti stereotipi, tra cui l’idea della morte di Dio hanno condizionato il pensiero
-  Un tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno

di Franco Volpi (la Repubblica, 10.04.2009)

Povero Nietzsche! È stato l’unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del 1914-1918 in una libreria di Piccadilly erano esposti in vetrina i diciotto volumi delle sue opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: The Euro-Nietzschean-War: leggete il diavolo per poterlo combattere meglio!

Poi venne il nazionalsocialismo, e alcune sue dottrine - il superuomo nel senso della selezione biologica, la volontà di potenza, l’antropologia dell’animale da preda e della bestia bionda - furono considerate alla stregua di una fonte di ispirazione dell’ideologia razzista e del totalitarismo.

Più tardi, dato che egli diagnostica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di Dio», la decadenza dei valori tradizionali o l’avvento del nichilismo, si è prodotto un singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà voleva solo analizzare e superare. Nietzsche è diventato allora il distruttore della ragione, il maestro dell’irrazionale, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo.

Tutti questi stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo egli ha suscitato entusiasmi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia, mode culturali e stili di pensiero, ma anche provocato reazioni e rifiuti altrettanto risoluti. Ovviamente anche da parte cattolica.

Benché autorevoli interpreti - padre Paul Valadier, per esempio, o il teologo Eugen Biser - abbiano cercato di mostrare il contrario, non c’è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti insegnamenti fondamentali del cristianesimo ci sia una profonda incompatibilità. Non stupisce perciò che il Papa consideri Nietzsche un cattivo maestro, e che riconduca alla sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo.

Negli ultimi anni egli non si è stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da Nietzsche. Adesso, nel criticare l’ideale di umanità predominante nel mondo attuale, basato sul valore dell’autoaffermazione individuale, egoistica e libertaria, ricorda la responsabilità di Nietzsche: «Egli ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uomo».

Ora, al di là del fatto che l’opera di Nietzsche è un autentico puzzle, un subisso di frammenti e aforismi la cui combinazione in una dottrina d’insieme è tutt’altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere Nietzsche non per le risposte che dà, ma per le domande che pone.

Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono forse anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo.

Quanto poi alla concezione dell’uomo aristocratica e libertaria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singoli aforismi di Nietzsche. Sarebbe come, in un quadro pointilliste, vedere solo i tocchi cromatici e non l’insieme della pittura.

Ebbene, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende adagiarsi nella negazione dei valori e nel cupio dissolvi. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine auspica un contro-movimento da cui nascano nuovi valori, e lo individua nella creatività dionisiaca dell’arte.

La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all’eccellenza», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizione, dell’abnegazione e della rinuncia, che mortificano la vita.

Nietzsche vuole che la vita si realizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamento «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal senso la sua nuova morale è una sorta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diventa quello che sei!» E anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.

Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell’uomo occidentale è sempre più paganizzata.


Cacciari critico, Reale approva. Vattimo: un cristiano inconsapevole. Severino: nega l’eterno

Il Papa e Nietzsche, duello tedesco

«Libertà assoluta» e «dileggio dell’umiltà»: Ratzinger contesta il filosofo

di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 10.4.09)

«Via sulle navi, filosofi!», escla­ma ne La gaia scienza. E in Au­rora: «E dove dunque voglia­mo arrivare? Al di là del ma­re? ». Nietzsche e l’idea di libertà. Dell’andare ol­tre ogni «miserevole ricetto». Un pensiero che ha una responsabilità grande, riflette Benedet­to XVI citando - come già nell’enciclica Deus Caritas est - il filosofo suo compatriota: «Frie­drich Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbe­dienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al lo­ro posto la fierezza e la libertà assoluta dell’uo­mo ».

Parole tanto più significative se si considera che il Papa, ieri mattina nella Basilica di San Pie­tro, parlava ai sacerdoti durante la Messa cri­smale: davanti a cardinali, vescovi e presbiteri che «rinnovano le promesse» prima delle cele­brazioni di Pasqua. Un’omelia raffinata sul sen­so della «consacrazione» come «sacrificio» di sé, un «togliere dal mondo e consegnare a Dio» che per i sacerdoti «non è una segregazione» ma un donarsi a tutti, come Gesù «sacerdote e vittima» che «si consegna al Padre per noi» e prega per i discepoli: «Consacrali nella verità».

È a questo punto che Benedetto XVI ha alzato lo sguardo: «Come stanno le cose nella nostra vi­ta? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo?». Di qui il riferimento a Nietzsche e al dileggio dell’umiltà in favore della libertà assoluta.

Il Papa chiede di «imparare da Cristo la retta umiltà», non certo «una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare». E vede un pericolo: «Esiste anche la superbia distrutti­va e la presunzione, che disgregano ogni comu­nità e finiscono nella violenza».

Problema: le cose stanno così? E fino a che punto Nietzsche ne sarebbe responsabile? «Il Papa ha perfettamente ragione nel prendersela con le libertà assolute e le fierezze virili, ma te­mo che la sua lettura di Nietzsche risenta di un’interpretazione vecchia», commenta Massi­mo Cacciari, autore di un saggio sul «Gesù di Nietzsche», un tema che compare anche nella sua opera più recente, Della cosa ultima. «La libertà di Nietzsche è problematica, non è quel­la dei moderni che anzi critica: la sua è una vi­sione presente in Schelling che sarà ripresa da Heidegger, la libertà non come qualcosa che ’tu hai’ ma che ’ti ha’». Ma non basta: «Lo Za­rathustra ha pagine in cui indica nella figura dell’Oltreuomo la capacità di donare tutto, di non tenere nulla per sé: amo coloro che sanno tramontare, dice. Ci sono passi in cui l’affinità tra Oltreuomo e Gesù è fortissima. Del resto la polemica di Nietzsche contro il cristianesimo è rivolta alla teologia paolina, peraltro fraintesa, e non alla figura sinottica di Gesù».

Secondo Cacciari, insomma, «la grandezza di un filosofo imprescindibile per la contemporaneità an­drebbe compresa in tutta la sua complessità, al­trimenti la polemica danneggia la stessa predi­cazione come capacità di assimilare a sé le voci discordanti. Gesù andava da coloro che lo ris­pecchiavano, era un narciso? O invece si rivolge­va ai pubblicani, al centurione? ’Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!’. Perché la Chiesa non si sforza di fare lo stesso con Nietzsche e la cultura contempora­nea? ».

Emanuele Severino, che al filosofo tedesco ha dedicato L’anello del ritorno, sorride: «Ai cat­tolici dico sempre che con l’inevitabilità di que­sti pensieri bisogna fare seriamente i conti». Dal suo punto di vista, capisce il Papa: «Per la tradizione al centro della verità c’è Dio mentre Nietzsche, preceduto da Leopardi, mostra l’im­possibilità di ogni eterno e di ogni divino. Con­seguenza necessaria è la negazione di ogni ’umiltà’ rispetto al divino. E l’esaltazione di libertà e fierezza». Questo però non c’entra con le idee correnti: «La libertà di Nietzsche presup­pone si sappia perché ’Dio è morto’. L’ateismo, il relativismo, l’indifferentismo sono essi stessi superficiali e dogmatici, non hanno nulla a che fare con la radicalità di quel pensiero. Ci vuole ben altro per arrivare a Nietzsche e a Cristo!».

In tutto questo, uno studioso nietzschiano come Gianni Vattimo riconosce a Benedetto XVI di «aver ragione sul dileggio dell’obbedien­za », ma non sull’umiltà: «Nietzsche è un cristia­no inconsapevole, o che non voleva riconosce­re di esserlo: un po’ per via del padre pastore protestante e un po’ perché amava il Vangelo ma non la struttura gerarchica della Chiesa, co­me me. Penso alle tre metamorfosi che aprono lo Zarathustra: lo spirito da cammello si fa leo­ne e si rivolta alle autorità, ma alla fine si muta in fanciullo, ’occorre un sacro dire di sì’. E non era Gesù a dire che dobbiamo diventare come fanciulli?».

Sarà, ma il filosofo cattolico Giovan­ni Reale non è convinto: «Nietzsche ha scritto cose molto belle e cose terribili. Ciò che presen­tava come una conquista si è rivelato terribile, Benedetto XVI ha ragione. La libertà assoluta al­la fine l’abbiamo avuta. Però, come diceva Bau­man, ci è arrivata con il cartellino del prezzo, un prezzo salatissimo: l’egoismo, la solitudi­ne ». Non è un caso che il Papa si sia rivolto ai sacerdoti: «Loro hanno la responsabilità di dire la Parola. Io non mi capacitavo: perché Gesù non ha lasciato nulla di scritto? L’ho capito gra­zie a Platone, al finale del Fedro: la verità non si scrive sui rotoli di carta ma nel cuore degli uo­mini».


* Sul tema, nel sito, si cfr.:

IL "GRANDE RACCONTO" EDIPICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E’ FINITO.

L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!! OBIEZIONE DI COSCIENZA !!! L’OBBEDIENZA NON E’ PIU’ UNA VIRTU’. LETTERA AI CAPPELLANI MILITARI. LA LEZIONE DI DON LORENZO MILANI

SOVRANITA’ E OBBEDIENZA. "DICO": DI CHI, DI QUALE LEGGE - A CHI, A QUALE LEGGE OBBEDIRE?!! ALLA LEGGE DEL PAPA - "COME UN CADAVERE" o ALLA LEGGE DEL "PAPA’-PADRE NOSTRO" (Amore-Charitas, dei nostri "padri" e delle nostre "madri") - COME UN FIGLIO E UNA FIGLIA, UNA CITTADINA SOVRANA E UN CITTADINO SOVRANO?!


IL TESTO DELL’OMELIA *

«Diventare sacerdoti significa essere immersi nella verità»

Ieri mattina in San Pietro, il Papa ha presieduto la celebrazione eucaristica in cui si rinnovano le promesse sacerdotali: «Nel ’sì’ dell’ordinazione abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla ’autorealizzazione’»

Nell’omelia della Messa Crismale, Benedetto XVI ha definito il sacerdozio «un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio». Non è una «segregazione» ma vuol dire «essere posti a rappresentare gli altri». Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e «a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti»

Durante l’Eucaristia il Pontefice ha ripercorso la sua storia. «Alla vigilia della mia ordinazione sacerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura» per ricevere una parola del Signore per quel giorno e per il futuro cammino da sacerdote.

«Il mio sguardo cadde su questo brano: ’Consacrali nella verità; la tua parola è verità’. Allora seppi: il Signore sta parlando di me e sta parlando a me» «Diventare sacerdoti significa essere immersi nella verità»

Pubblichiamo l’omelia pronunciata ieri mat­tina dal Papa nella Basilica Vaticana durante la Santa Messa Crismale. Nel corso della ce­lebrazione, dopo il rinnovo delle promesse sacerdotali, sono stati benedetti l’olio dei ca­tecumeni, l’olio degli infermi e il crisma. Al termine della Messa il Papa ha rivolto un pensiero alle popolazioni terremotate an­nunciando il dono degli oli santi per l’arci­diocesi dell’Aquila profondamente ferita dal sisma (ne parliamo in un’altra parte del gior­nale). *

Cari fratelli e sorelle, nel Cenacolo, la sera prima della sua passione, il Si­gnore ha pregato per i suoi discepoli riuniti intorno a Lui, guardando al contem­po in avanti alla comunità dei discepoli di tutti i secoli, a «quelli che crederanno in me mediante la loro parola» ( Gv 17, 20). Nella preghiera per i discepoli di tutti i tempi Egli ha visto anche noi e ha pregato per noi. A­scoltiamo, che cosa chiede per i Dodici e per noi qui riuniti: «Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, per­ché siano anch’essi consacrati nella verità» (17, 17ss). Il Signore chiede la nostra santi­ficazione, la nostra consacrazione nella ve­rità. E ci manda per continuare la sua stes­sa missione. Ma c’è in questa preghiera una parola che attira la nostra attenzione, ci sem­bra poco comprensibile. Gesù dice: «Per lo­ro io consacro me stesso». Che cosa signifi­ca? Gesù non è forse di per sé «il Santo di Dio», come Pietro ha confessato nell’ora de­cisiva a Cafarnao (cfr Gv 6, 69)? Come può ora consacrare, santificare se stesso? P er comprendere questo dobbiamo so­prattutto chiarire che cosa vogliono dire nella Bibbia le parole «santo» e «santificare/consacrare». «Santo» - con que­sta parola si descrive innanzitutto la natu­ra di Dio stesso, il suo modo d’essere tutto particolare, divino, che a Lui solo è proprio. Egli solo è il vero e autentico Santo nel sen­so originario. Ogni altra santità deriva da Lui, è partecipazione al suo modo d’essere. Egli è la Luce purissima, la Verità e il Bene senza macchia. Consacrare qualcosa o qual­cuno significa quindi dare la cosa o la per­sona in proprietà a Dio, toglierla dall’ambi­to di ciò che è nostro e immetterla nell’at­mosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma sia totalmente di Dio. Consacrazione è dunque un togliere dal mondo e un consegnare al Dio vivente. La cosa o la persona non appartiene più a noi, e neppure più a se stessa, ma viene immer­sa in Dio. Un tale privarsi di una cosa per consegnarla a Dio, lo chiamiamo poi anche sacrificio: questo non sarà più proprietà mia, ma proprietà di Lui. Nell’Antico Testa­mento, la consegna di una persona a Dio, cioè la sua «santificazione» si identifica con l’ordinazione sacerdotale, e in questo mo­do si definisce anche in che cosa consista il sacerdozio: è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio. Con ciò si evidenziano ora le due direzioni che fanno parte del processo della santificazio­ne/ consacrazione.

È un uscire dai contesti della vita del mondo - un «essere messi da parte» per Dio. Ma proprio per questo non è una segregazione. Essere consegnati a Dio significa piuttosto essere posti a rappre­sentare gli altri. Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti. Quando Gesù dice: «Io mi consacro», Egli si fa insie­me sacerdote e vittima. Pertanto Bultmann ha ragione traducendo l’affermazione: «Io mi consacro» con «Io mi sacrifico». Com­prendiamo ora che cosa avviene, quando Gesù dice: «Io mi consacro per loro»? È que­sto l’atto sacerdotale in cui Gesù - l’Uomo Gesù, che è una cosa sola col Figlio di Dio - si consegna al Padre per noi. È l’espressio­ne del fatto che Egli è insieme sacerdote e vittima. Mi consacro - mi sacrifico: questa parola abissale, che ci lascia gettare uno sguardo nell’intimo del cuore di Gesù Cri­sto, dovrebbe sempre di nuovo essere og­getto della nostra riflessione. In essa è rac­chiuso tutto il mistero della nostra reden­zione. E vi è contenuta anche l’origine del sacerdozio della Chiesa, del nostro sacer­dozio.

Solo adesso possiamo comprendere fi­no in fondo la preghiera, che il Signore ha presentato al Padre per i discepoli - per noi. «Consacrali nella verità»: è questo l’inserimento degli apostoli nel sacerdozio di Gesù Cristo, l’istituzione del suo sacerdozio nuovo per la comunità dei fedeli di tutti i tempi. «Consacrali nella verità»: è questa la vera preghiera di consacrazione per gli apo­stoli. Il Signore chiede che Dio stesso li at­tragga verso di sé, dentro la sua santità. Chie­de che Egli li sottragga a se stessi e li prenda come sua proprietà, affinché, a partire da Lui, essi possano svolgere il servizio sacer­dotale per il mondo. Questa preghiera di Ge­sù appare due volte in forma legger­mente modificata. Dobbiamo am­bedue le volte ascoltare con molta attenzione, per cominciare a capire almeno vagamente la cosa sublime che qui sta verificandosi. «Consacrali nella verità». Gesù aggiunge: «La tua parola è verità». I discepoli vengono quindi tirati nell’intimo di Dio me­diante l’essere immersi nella parola di Dio. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il po­tere creatore che li trasforma nell’essere di Dio. E allora, come stanno le cose nella no­stra vita? Siamo veramente pervasi dalla pa­rola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La cono­sciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vi­ta e forma il nostro pensiero? O non è piut­tosto che il nostro pensiero sempre di nuo­vo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinio­ni predominanti i criteri secondo cui ci mi­suriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi? Ci lascia­mo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio?

Nietzsche ha dileggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero sta­ti repressi. Ha messo al loro posto la fierez­za e la libertà assoluta dell’uomo. Orbene, esistono caricature di un’umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vo­gliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta u­miltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell’obbedienza, che si sottomet­te alla verità, alla volontà di Dio? «Consacrali nella verità; la tua parola è verità»: questa parola dell’inserimento nel sacerdozio illu­mina la nostra vita e ci chiama a diventare sempre di nuovo discepoli di quella verità, che si dischiude nella parola di Dio.

Nell’interpretazione di questa frase possiamo fare ancora un passo ul­teriore. Non ha forse Cristo detto di se stesso: «Io sono la verità» (cfr Gv 14, 6)? E non è forse Egli stesso la Parola vivente di Dio, alla quale si riferiscono tutte le altre sin­gole parole? Consacrali nella verità - ciò vuol dire, dunque, nel più profondo: rendili una cosa sola con me, Cristo. Lègali a me. Tìrali dentro di me. E di fatto: esiste in ultima a­nalisi solo un unico sacerdote della Nuova Al­leanza, lo stesso Gesù Cristo. E il sacerdozio dei discepoli, pertanto, può essere solo par­tecipazione al sacerdozio di Gesù. Il nostro essere sacerdoti non è quindi altro che un nuovo e radicale modo di unificazione con Cristo. Sostanzialmente essa ci è stata do­nata per sempre nel Sacramento. Ma questo nuovo sigillo dell’essere può diventare per noi un giudizio di condanna, se la nostra vi­ta non si sviluppa entrando nella verità del Sacramento. Le promesse che oggi rinno­viamo dicono a questo proposito che la no­stra volontà deve essere così orientata: «Do­mino Iesu arctius coniungi et conformari, vo­bismetipsis abrenuntiantes».

L’unirsi a Cristo suppone la rinuncia. Comporta che non vo­gliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare que­sto o quest’altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi. «Vivo, tuttavia non vivo più io, ma Cri­sto vive in me», ha detto san Pao­lo a questo proposito (cfr Gal 2, 20). Nel «sì» dell’ordinazione sa­cerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla «autorea­lizzazione ». Ma bisogna giorno per giorno adempiere questo grande «sì» nei molti piccoli «sì» e nelle piccole rinunce.

Questo «sì» dei pic­coli passi, che insieme costituiscono il gran­de «sì», potrà realizzarsi senza amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cri­sto è veramente il centro della nostra vita. Se entriamo in una vera familiarità con Lui. Al­lora, infatti, sperimentiamo in mezzo alle ri­nunce, che in un primo tempo possono cau­sare dolore, la gioia crescente dell’amicizia con Lui, tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo amore, che ci dona continua­mente. «Chi perde se stesso, si trova». Se o­siamo perdere noi stessi per il Signore, spe­rimentiamo quanto sia vera la sua parola.

Essere immersi nella Verità, in Cristo - di questo processo fa parte la preghie­ra, in cui ci esercitiamo nell’amicizia con Lui e anche impariamo a conoscerlo: il suo modo di essere, di pensare, di agire. Pre­gare è un camminare in comunione perso­nale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie - è un semplice presentare noi stessi da­vanti a Lui. Ma affinché questo non diventi uno autocontemplarsi, è importante che im­pariamo continuamente a pregare pregan­do con la Chiesa.

Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l’Eucaristia in mo­do giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole, che la Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo in­teriormente uniti alle parole della preghie­ra, se da esse ci lasciamo guidare e trasfor­mare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo ve­ramente « un corpo solo e un’anima sola » con Cristo.

Essere immersi nella verità e così nella santità di Dio - ciò significa per noi anche accettare il carattere esigente della verità; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mon­do; accettare la fatica della verità, perché la sua gioia più profonda sia presente in noi. Quando parliamo dell’essere consacrati nel­la verità, non dobbiamo neppure dimenti­care che in Gesù Cristo verità e amore sono una cosa sola. Essere immersi in Lui signi­fica essere immersi nella sua bontà, nell’a­more vero. L’amore vero non è a buon mer­cato, può essere anche molto esigente. Op­pone resistenza al male, per portare all’uo­mo il vero bene. Se diventiamo una cosa so­la con Cristo, impariamo a riconoscerlo pro­prio nei sofferenti, nei poveri, nei piccoli di questo mondo; allora diventiamo persone che servono, che riconoscono i fratelli e le sorelle di Lui e in essi incontrano Lui stes­so.

«Consacrali nella verità» - è que­sta la prima parte di quella pa­rola di Gesù. Ma poi Egli ag­giunge: «Io consacro me stesso, perché sia­no anch’essi consacrati in verità» - cioè ve­ramente ( Gv 17, 19). Io penso che questa se­conda parte abbia un suo specifico signifi­cato. Esistono nelle religioni del mondo mol­teplici modi rituali di « santificazione » , di consacrazione di una persona umana. Ma tutti questi riti possono rimanere semplice­mente una cosa formale. Cristo chiede per i discepoli la vera santificazione, che trasfor­ma il loro essere, loro stessi; che non riman­ga una forma rituale, ma sia un vero diveni­re proprietà di Dio stesso. Potremmo anche dire: Cristo ha chiesto per noi il Sacramen­to che ci tocca nella profondità del nostro essere. Ma ha anche pregato, affinché que­sta trasformazione giorno per giorno in noi si traduca in vita; affinché nel nostro quoti­diano e nella nostra vita concreta di ogni giorno siamo veramente pervasi dalla luce di Dio.

Alla vigilia della mia ordinazione sa­cerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura, perché volevo rice­vere ancora una parola del Signore per quel giorno e per il mio futuro cammino da sa­cerdote. Il mio sguardo cadde su questo brano: « Consacrali nella verità; la tua pa­rola è verità». Allora seppi: il Signore sta parlando di me, e sta parlando a me. Pre­cisamente la stessa cosa avverrà domani in me. In ultima analisi non veniamo con­sacrati mediante riti, anche se c’è bisogno di riti. Il lavacro, in cui il Signore ci im­merge, è Lui stesso - la Verità in persona. Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi in Lui, nella Verità. Appartengo in un modo nuovo a Lui e così agli altri, « af­finché venga il suo Regno».

Cari amici, in questa ora del rinnovo delle promesse vo­gliamo pregare il Signore di farci diventa­re uomini di verità, uomini di amore, uo­mini di Dio. Preghiamolo di attirarci sem­pre più dentro di sé, affinché diventiamo veramente sacerdoti della Nuova Alleanza. Amen.

Benedetto XVI

* Avvenire, 10.04.2009, p. 17.


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