Il Venerdì di Repubblica intervista la scienziata premio Nobel
"Fin da bambina ero sicura di non voler diventare moglie e madre"
Montalcini, quasi cent’anni
"Ma il cervello non ha rughe"
Ogni giorno in laboratorio, la fondazione per le donne africane e un libro in uscita
"Ho più possibilità oggi di quando ero ventenne, per profondità di pensiero e intuito"
di CRISTINA MOCHI *
ROMA - Il cervello non ha rughe. Se continua a lavorare sodo, si rinnova continuamente, anche dopo gli ottant’anni. Anzi, a differenza di altri organi, può perfino migliorare. "Con la mia attività lo dimostro: oggi ritengo di avere più possibilità di quando avevo vent’anni, per profondità di pensiero e intuito", racconta il premio Nobel Rita Levi Montalcini. Poi, da scienziata, spiega che il merito di un tale prodigio è tutto della plasticità neuronale: se non intervengono malattie come l’Alzheimer, il nostro cervello supplisce alla perdita di neuroni con la capacità di quelli rimasti di trovare circuiti alternativi.
A giudicare dal suo caso, la teoria funziona: alla soglia dei cent’anni (li compirà il 22 aprile) la professoressa va in laboratorio all’Ebri (European Brain Research Institute, con sede a Roma) tutte le mattine, ha da poco pubblicato il libro La clessidra della vita e lavora a uno nuovo. Non solo: segue puntualmente i lavori della Fondazione da lei ideata per dare un futuro alle donne africane. "Speriamo di arrivare a diecimila borse di studio assegnate entro aprile" dice Giuseppina Tripodi, da oltre quarant’anni sua fidata collaboratrice. "Per la professoressa sarà senza dubbio questo il regalo più gradito".
Quando si iscrisse a medicina sperava infatti di seguire l’esempio di Albert Schweitzer, che curava "gli ultimi del mondo" in Africa. Ma prima si trovò a combattere contro il volere del padre, ingegnere, proprietario di una fabbrica di ghiaccio, che non approvava che le figlie femmine si dedicassero allo studio: "Mi disse solo ’non posso impedirtelo, ma non ti approvo’". Poi arrivarono le leggi razziali e la giovane Rita, che nel frattempo si era laureata a Torino e lavorava presso l’Istituto di anatomia comparata, venne sospesa dall’attività accademica. "Allestii allora un laboratorio di neuro-embriologia in camera da letto". Dove operava embrioni di pollo con aghi sottilissimi. Renato Dulbecco, suo compagno di studi, ricorda ancora la destrezza e la precisione da artista con le quali la ricercatrice muoveva le mani. Fu in quella camera, di fatto, che pose le basi per la scoperta (realizzata più tardi, negli Stati Uniti) dell’Ngf (Nerwe Growth Factor), il fattore di crescita nervoso, che le valse il Nobel.
Il cervello non ha rughe però qualcuno, forse, è più bello degli altri...
"Non credo, l’intelligenza non è del tutto programmata alla nascita. Insomma, non è genetica. Le donne, per esempio, valgono esattamente quanto gli uomini, anzi, sono dotate di una maggiore flessibilità cerebrale. Purtroppo nel corso della storia sono state tenute lontane dall’istruzione. Ma là dove hanno accesso al sapere, i risultati non mancano. È uscito da poco un libro sulle donne matematiche in Russia: sono tante e hanno capacità che prevalgono anche su quelle degli uomini".
Lei ha faticato a farsi valere?
"Solo all’inizio. Fin da bambina ero sicura di non voler diventare moglie e madre. Vedevo in famiglia una prevalenza assoluta di mio padre e lo temevo molto: due più due non faceva quattro davanti a lui, che pure era un matematico. Mia madre, pittrice, dovette smettere di lavorare dopo il matrimonio. Ma, sul lavoro, c’è sempre stata sintonia con i colleghi maschi. Certo, oggi è tutto cambiato, le donne non sono obbligate a scegliere tra lavoro e famiglia e gli uomini, in casa, sono più collaborativi".
Il mondo le sembra più razionale di ieri?
"Viviamo ancora dominati da bassi impulsi, come cinquantamila anni fa. Perché il nostro cervello ha una componente arcaica e limbica (che ha sede nell’ippocampo) che è aggressiva, emotiva e affettiva ed è quella che ha permesso all’australopiteco di salvarsi, quando è sceso dagli alberi e ha affrontato il mondo. L’altra componente, cognitiva e neocorticale, è molto più recente e corrisponde alla fase dello sviluppo del linguaggio. Purtroppo questa parte non riesce ancora a controllare quella più antica che, anzi, nei momenti estremi (guerre, crisi, carestie) torna dominante. Sono le condizioni ambientali, in definitiva, a metterla in funzione: nei regimi totalitari, per esempio, l’attività del cervello arcaico è al massimo".
Ma lì risiedono anche le emozioni: dobbiamo metterle a tacere?
"Occorre tenerle sotto controllo. Ed è quello che andrebbe insegnato anche a scuola. L’educazione è ancora troppo legata al binomio vittoriano punizione-premio. I bambini non sono cuccioli di cane, hanno una componente cognitiva sulla quale bisogna far leva fin dalla nascita".
Le neuroscienze in questi anni hanno raggiunto molti traguardi. A quando una cura per l’Alzheimer?
"Ci lavoro giorno e notte. L’Ngf da me scoperto nel 1940 è una molecola proteica che trasforma una cellula qualsiasi in un neurone. Provata sui topi, ha dimostrato di essere in grado di bloccare l’Alzheimer e così è stato anche nei pochissimi casi umani nei quali è stata utilizzata. Io sono alla disperata ricerca di fondi perché il farmaco possa essere messo a disposizione di tutti: purtroppo l’industria, finora, non ha voluto investire".
Nonostante il Nobel...
"Il premio non mi ha portato alcun vantaggio economico (è stato devoluto in beneficenza) e devo ringraziare il presidente Ciampi che nel 2001 mi ha nominata senatrice a vita. Non avendo pensione né onorario, mi trovavo in difficoltà economiche".
A proposito di Parlamento, che effetto le hanno fatto i nostri politici quando li ha visti da vicino?
"Escluse poche persone di grande valore, come Anna Finocchiaro, non è un mondo che mi piaccia. Quando c’era Prodi andavo regolarmente in Parlamento. Tra l’altro abbiamo obiettivi comuni: anche lui ora entra nell’attività a favore dell’Africa...".
Lei è a favore del testamento biologico e della ricerca sulle cellule staminali. Crede che ci sia un conflitto insanabile tra scienza e fede?
"Ognuno può essere della religione che vuole: cristiana, musulmana... io sono della religione laica (sorride). Ma non c’è affatto contrasto con la ricerca. Non si possono mettere lucchetti al cervello, perché è la sola cosa che ci differenzia dagli animali. Quanto al testamento biologico, credo che ognuno abbia diritto di uscire con dignità dal mondo".
Lei a suo tempo è stata un cervello in fuga. Cosa consiglia ai giovani universitari di oggi?
"L’Italia è stata suicida: il meglio dei nostri cervelli è sempre andato all’estero da dove, trovandosi benissimo, non fanno ritorno. L’Italia dovrebbe richiamarli, ma solo in base al merito e non per appartenenza ai gruppi di potere. Ma la meritocrazia in Italia non esiste: non è un bel momento".
Più oggi di ieri?
"Il passato non era migliore, tutt’altro. Se pensiamo alla totale subalternità della donna, le cose sono molto migliorate".
Ma le donne hanno raggiunto una piena parità di trattamento, ora che il ministro Brunetta le vuole mandare in pensione a 65 anni? Lei che cosa ne pensa?
"La pensione non si può ritardare perché ci sono molti giovani, e donne soprattutto, che devono entrare nel mondo del lavoro. Detto questo, la nostra aspettativa di vita è ormai tale che almeno dieci anni prima della pensione ognuno dovrebbe pensare a una seconda attività, una seconda passione da sviluppare. Perché altrimenti il cervello si ferma. E con lui il corpo".
E tra le sue, di passioni, ci sono ancora Bach e Schubert?
"Quand’ero ragazza li ascoltavo alle cinque del mattino: i miei vicini mi dicevano: almeno appendi alla porta il programma del giorno. Oggi? Oggi mi manca il tempo...".
* Il Venerdì-la Repubblica, 2 gennaio 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MEMORIA DELLA LIBERTÀ E DELLA COSTITUZIONE: LA LOTTA DI RITA LEVI MONTALCINI.E SIGMUND FREUD.
Antropologia, matematica, filosofia, e "disagio della civiltà" e nella civiltà (Sigmund Freud, 1929).
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana...
Nel breve testo dalla intervista a Rita Levi Montalcini
ci sono straordinarie indicazioni di una strada aperta e di un cammino che non riguarda solo le donne e che riguarda tutti gli ambiti della società ancora oggi (2022) segnata dall’ombra di Platone (Adriana Cavarero, "NONOSTANTE PLATONE figure femminili nella filosofia antica", 1990). Una storia di lunga durata e una questione antropologica all’ordine del giorno...
Per uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dalla matematica della tradizione tragica di Edipo (Freud) e dalla Accademia di Platone, questo è il problema di tutti i problemi, le colonne d’Ercole da superare: riconoscere l’autodeterminazione, la libertà di disporre di sé a ogni essere umano, alla donna come all’uomo.
Non si possono truccare le carte e le regole del gioco per l’eternità!
DIVINA COMMEDIA. Il problema è proprio quello di non perdere la memoria, la coscienza e la ragione, e, non ricadere nel sonno eterno, del Faraone (e della Faraona), del Re e della Regina! In principio era il Logos - la Costituzione, non il logo di una fattoria, di una religione ...
Edipo non solo scioglie l’enigma della sfinge, ma soprattutto vuole sciogliere il nodo più grande che è quello con la madre-regina e di una Legge incestuosa...
La lotta di Rita Levi Montalcini con il padre richiama la lotta di Sigmund Freud con il padre! Alla fine, entrambi hanno saputo distinguere tra la Legge del Faraone e la Legge di Mosè.
Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone, Freud non sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non avrebbe mai vista la luce (1938)!
Ricerca Scientifica
Il ministro Speranza salva il centro calabrese che ha scoperto il gene dell’Alzheimer
Il titolare della Salute ha chiamato la responsabile della struttura comunicandole anche che presto andrà a farle visita a Lamezia Terme
di Donata Marrazzo *
Il centro regionale di Neurogenetica di Lamezia Terme, tenuto a battesimo dal premio Nobel Rita Levi Montalcini nel 1995, è salvo. Il ministro della Salute Roberto Speranza ha informato personalmente nella mattinata di sabato 15 febbraio con una telefonata la neurologa Amalia Bruni che dal 1995 dirige la struttura: «Ho una buona notizia, c’è la soluzione per andare avanti», le ha anticipato il ministro, comunicandole anche che presto andrà a farle visita in Calabria.
Quale soluzione?
Per riattivare il centro calabrese sulle demenze, punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale, paralizzato per mesi dalla mancanza di fondi, il commissario dell’azienda ospedaliera Pugliese Ciaccio e Mater Domini Giuseppe Zuccatelli, con il commissario ad acta al piano di rientro Saverio Cotticelli, hanno disposto che «il centro di Neurogenetica sarà collegato alla Azienda ospedaliera-Universitaria Mater Domini di Catanzaro, che ne assumerà temporaneamente e funzionalmente la gestione, per poi essere incardinato nell’Inrca-Irccs di Ancona-Cosenza».
Riprende la ricerca, migliora l’assistenza
Una prospettiva nuova per le importanti attività di ricerca sull’Alzheimer e le altre demenze condotte dello staff della Bruni, la scienziata che ha individuato la “presenilina”, il gene più diffuso dell’Alzheimer.
E una speranza in più per i malati: il centro ha in carico più di 4000 pazienti e valuta 30 nuovi casi ogni settimana.
Il contributo del Governo
«Tale soluzione consentirà da un lato di riconoscere pienamente il ruolo sovraregionale del centro nell’ambito non solo della assistenza ma anche delle attività di ricerca, dall’altro di superare lo stallo causato dalla difficoltà di finanziare annualmente le attività con il Fondo sanitario della Calabria, regione ancora in piano di rientro. Il Centro quindi rientrerà nell’alveo delle istituzioni sanitarie che, oltre a svolgere attività assistenziale, sono anche orientate alla ricerca. È intenzione del Governo fornire un concreto contributo per salvaguardare il patrimonio di conoscenze ed il lavoro appassionato di questa piccola ma operosa comunità scientifica, i cui risultati hanno avuto una eco internazionale facendo fare significativi passi in avanti nella conoscenza e cura dell’Alzheimer», si legge in una nota del ministero.
* IL SOLE-24 oRE, 15 febbraio 2020 (ripresa parziale).
Ieri il compleanno della senatrice Nobel per la medicina. Gli auguri del Presidente Napolitano
Una donna che ci ha insegnato come la ricerca sia un punto di vista democratico sul mondo
Rita Levi Montalcini 103 anni di scienza e di impegno civile
Rita Levi Montalcini ha compiuto ieri 103 anni. Giorgio Napolitano le ha mandato i più affettuosi auguri di compleanno. Lei ha festeggiato con un brindisi insieme ai suoi più stretti collaboratori
di Chiara Valerio (l’Unità, 23.04.2012)
103 è un numero intero positivo, è un «numero primo», il ventisettesimo per la precisione, ed è anche un «numero felice», il che significa che la somma dei quadrati delle sue cifre dà uno. Non che, da matematico, io sia particolarmente legata alla definizione di numero felice, tuttavia, poiché 103 sono gli anni compiuti ieri Rita Levi Montalcini, mi sento di poter festeggiare fin dalla definizione. 103 dunque è un «numero felice», molto. Ho incontrato Rita Levi Montalcini una sola volta, il 21 aprile del 2009, nella sua casa romana. Silvia Bencivelli, Costanza Confessore, Marco Motta e io l’allora redazione di Radio3 Scienza siamo andati a farle un’intervista in occasione dei suoi cento anni. Insieme a Rossella Panarese, il curatore della striscia quotidiana di scienza su Radio3, avevamo costruito la puntata (Voglio una Rita spericolata) intorno all’idea di un secolo di primati divisi tra ricerca scientifica e impegno civile.
Circa due anni prima, il 10 ottobre 2007 dalle pagine della Repubblica Levi Montalcini aveva risposto a Francesco Storace, che proponeva di fornirle delle stampelle per la deambulazione sua e del governo, «A quanti hanno dimostrato di non possedere le mie stesse facoltà, mentali e di comportamento, esprimo il più profondo sdegno non per gli attacchi personali, ma perché le loro manifestazioni riconducono a sistemi totalitari di triste memoria». Impegno civile, sì. Il 21 aprile 2009 pioveva e io mi ero persa con la motocicletta dietro piazza Bologna, credo fossi emozionata. Come tutti quelli della mia generazione infatti, oltre a uno scienziato, a un senatore della repubblica, a un esempio ante litteram di espatrio dei cervelli, Rita Levi Montalcini era anche una elegante icona pop.
In effetti, successivamente all’assegnazione del Nobel nel 1986 per la medicina sulle sue ricerche degli anni cinquanta riguardo il fattore di accrescimento della fibra nervosa e il conseguente disegno da parte dello stilista Roberto Capucci dell’abito per la cerimonia del Nobel, Rita Levi Montalcini, pur non essendo un personaggio mediatico, ha cominciato ad appartenere a un immaginario estetico condiviso e riconoscibile, e in qualche modo, replicabile, non portava solo le sue ricerche, la storia degli ebrei italiani e della sua famiglia, ma pure un modo di vestire.
ICONA POP
Una icona pop, per l’appunto. Sono abbastanza certa di essere rimasta immediatamente colpita dalla sua sottigliezza, di fisico e di intelletto, e dalla sua eleganza. Noi eravamo in jeans e camicia, lei era vestita di raso nero, modello Capucci 1986. Io non la conoscevo personalmente e non la conosco neppure adesso, ma ho letto i suoi libri e le sue interviste. Non perché fosse una donna, perché avesse vinto il Nobel, e neppure perché, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali fosse stata costretta a espatriare, e neanche perché, tornata dopo un breve espatrio a Bruxelles fosse tornata in Italia e avesse impiantato, nella sua camera da letto a Torino, un piccolo laboratorio nel quale continuare le ricerche.
Io ho letto e seguito Rita Levi Montalcini perché nel suo ripetere, anche alla lectio del Nobel, di non avere avuto merito alcuno nella buona riuscita delle sue ricerche, ma solo una grande fortuna, mi ha insegnato che studiare è sinonimo di guardare, di essere (pre)disposti a cogliere le variazioni, di essere perennemente stupiti e grati di quello che accade intorno, nell’infinitamente piccolo degli embrioni di pollo, e fattore di scala dopo fattore di scala, nell’infinitamente umano della politica e della cosa pubblica. Levi Montalcini mi ha insegnato che la scienza è un punto di vista democratico sul mondo, quindi, oltre agli auguri, anche e un’altra volta, grazie.
L’INCHIESTA
Il Belpaese della disuguaglianza metà ricchezza al 10% degli italiani
La crisi ha aumentato le distanze sociali. Classe media frantumata. Peggio di noi fra le nazioni sviluppate solo Messico, Turchia, Portogallo, Usa e Polonia
di ROBERTO MANIA *
ROMA - Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: "La povertà non è più "senza fissa dimora"". La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. "È meno apparente, ma è più profonda", aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l’ha chiamata il premio Nobel per l’economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani.
E l’Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L’eguaglianza non c’è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l’Ocse e la Banca d’Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.
E forse non è neanche più un caso che l’indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un’accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell’abbandonarci, però. "L’esperienza del 1992-93 quando l’economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza", ha scritto l’economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi.
Più basso è l’indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell’uguaglianza, l’Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.
C’è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell’Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): "In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri". E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta.
La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l’ultimo dato della Banca d’Italia contenuto nella periodica indagine su "I bilanci delle famiglie italiane", il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell’intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni.
Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l’alto e affonda i più poveri. "Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas", racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell’attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d’Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell’eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L’eguaglianza è anche questo.
E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l’età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l’incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 - secondo la Fondazione Nord-Est - Trieste manterrà i primati. Perché l’eguaglianza - è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro "La misura dell’anima" (Feltrinelli) - migliora "il benessere psicologico di tutti noi". Di più, secondo i due studiosi: "Tanto la società malata quanto l’economia malata hanno le proprie origini nell’aumento della diseguaglianza". E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all’origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l’aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.
Di certo tra i frutti di questa "economia malata" ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche - lo abbiamo visto - gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch’esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i "poveri" sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il "caso Pomigliano" ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.
Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l’Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: "La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all’anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell’occupazione". Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.
* la Repubblica, 05 luglio 2010
Torino, 1938 "Montalcini sospesa"
di Massimo Novelli (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
È il 18 ottobre del 1938 quando il rettore Azzo Azzi, in base alla legge del 5 settembre di quell’anno, decreta che «la dott. Levi Rita, Assistente volontaria alla Clinica delle malattie nervose e mentali della R. Università di Torino, è sospesa dal servizio, a decorrere dal 16 ottobre 1938-XVI».
Il futuro premio Nobel per la medicina, che di lì a poco sarà costretta a emigrare in Belgio, è una delle vittime nel mondo accademico delle leggi razziali, appena promulgate da Mussolini e da Vittorio Emanuele III. Il documento della sua cacciata dall’insegnamento e dalla ricerca, così come altre carte della vergogna fascista e monarchica, è custodito presso l’Archivio storico dell’Università di Torino. Da domani sarà esposto in Prefettura, nell’ambito di una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia.
Molte altre, però, sono le testimonianze, poco note, della pulizia etnica che i fascisti compirono nelle Università nei confronti del personale di "razza ebraica", nel sostanziale silenzio della maggior parte degli altri docenti. Una seconda esposizione, in questo caso proprio all’Archivio storico dell’ateneo torinese (s’intitola "A difesa della razza" e apre domani), propone leggi, circolari e decreti emanati da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, che chiariscono in che modo il razzismo italiano divenne una materia d’insegnamento, oltre che di lavoro ordinario d’ufficio, da sbrigare senza porsi problemi di sorta. È il caso della nota ministeriale del 20 ottobre ‘40, inviata al rettore di Torino a proposito dell’istituzione di «un nuovo posto di ruolo presso codesta Facoltà di Scienze». Da Roma, Bottai scrive di ritenere «opportuno avvertire che tale posto, come risulta anche dai lavori preparatori della legge, deve intendersi riservato all’insegnamento dell’Antropologia oppure ad altro insegnamento razziale». Due anni prima, l’11 giugno ‘38, sempre il ministro, che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella caduta di Mussolini, rende noto di avere disposto che «nelle sessioni di esami sia osservata netta separazione studenti razza ariana da studenti razza ebraica ed sia data precedenza gruppo studenti ariani negli esami orali».
La burocrazia della persecuzione, che sfocerà nella deportazione nei lager, non si differenzia nella forma da qualsiasi altro atto ministeriale. Anche quando, il 14 ottobre ‘38, nel comunicare i nominativi dei professori torinesi sospesi «si fa riserva d’integrare l’elenco coni i nomi di coloro che, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, eventualmente dovranno essere considerati di razza ebraica e come tali sospesi anch’essi dal servizio». Intanto ne facevano le spese «Cino Vitta, Giuseppe Samuele Ottolenghi, Santorre Zaccaria Debenedetti, Giorgio Falco, Arnaldo Momigliano, Alessandro Terracini, Amedeo Herlitzka, Giuseppe Levi, Gino Fano». E poi «Amos Foà, Luciano Jona, Renato Segre, Marcello Foà, Leonardo Herlitzka, Renzo Olivetti, Sergio Bachi, Raffaele Lattes, Alberto Vita, Vittorio Giulio Segre, Roberto Bolaff, Rita Levi, Walter Momigliano, Mario Nizza, Paolo Ravenna».
Sfratto esecutivo per la Montalcini
-"Distruggono il lavoro di una vita"
Roma, istituto di ricerca senza fondi per la sede. Domani decide il giudice
La sorte di cinquanta tra ricercatori e scienziati è appesa a un filo, anche Napolitano si era detto preoccupato
di Carlo Picozza (la Repubblica, 04.09.2009)
ROMA - Sotto sfratto esecutivo, rischia di chiudere l’Ebri, l’Istituto di ricerca sul cervello, voluto dal premio Nobel per la Medicina, Rita Levi Montalcini, e nato a Roma nell’aprile del 2005. «Lo sfratto», commenta la centenaria fondatrice, «mette in forse tutto ciò che ho fatto, i risultati scientifici ottenuti e l’impegno del capitale umano eccezionale che lavora in Istituto». La sorte della cinquantina tra scienziati e ricercatori dell’European brain research institute è appesa al pronunciamento del giudice, domani mattina. Ma con la chiusura delle utenze, l’attività di ricerca sugli enigmi del cervello aveva già subito una battuta di arresto.
L’agonia dell’Ebri era cominciata il 2 ottobre 2008 con una lettera della fondazione Santa Lucia che ospita nei sui immobili l’Istituto della Montalcini: «Per la nostra fondazione senza scopi di lucro è indispensabile ricercare una sostanziale parità tra entrate e uscite. Ma questo equilibrio è compromesso dal corrente sistema di ripartizione delle spese di gestione da noi anticipate e restituite dall’Ebri nella misura del 24%, con notevoli ritardi, più volte segnalati».
In giugno ai giovani ricercatori dell’Ebri non erano stati corrisposti gli stipendi. Nel mese successivo era stato sospeso l’uso dei telefoni. Gli inadeguati finanziamenti pubblici non sono bastati a coprire i costi delle ricerche né quelle di gestione. E che l’Ebri navigasse in cattive acque lo aveva fatto intuire, nei mesi scorsi, anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: stringendo la mano alla centenaria promotrice dell’Ebri le aveva rivolto l’augurio di una grande possibilità di sopravvivenza per le sue iniziative di ricerca.
«Nel settembre 2001, in un workshop a Cernobbio», racconta Rita Levi Montalcini, «feci la proposta di far nascere un Istituto sull’organo che presiede pensiero e azione, per fornire l’opportunità a tanti scienziati italiani di rientrare nel loro Paese dal quale erano dovuti emigrare per la scarsità dei centri di ricerca». Lo ricorda ripensando al suo "confino" nella stanza da letto dove aveva impiantato un vero e proprio laboratorio per continuare le ricerche «insieme con Giuseppe Levi, dopo la promulgazione delle leggi razziali» e prima di recarsi in America, a guerra finita, nel 1947, invitata dal chairman del dipartimento di Zoologia della Washington University, Vicktor Hamburger.
Il «Polo delle Neuroscienze» è stato per Montalcini «il sogno di una vita». E per l’esplorazione del cervello, l’Ebri partì insieme con il Cnr e il Santa Lucia. In tutto, 255 tra medici, biologi, biochimici, neurobiologi, fisici, matematici, immunologi, genetisti, informatici, cognitivisti, e 44 laboratori su uno superficie di 25 mila metri quadrati, nella coda metropolitana della capitale, tra l’Ardeatina e la Laurentina, per studiare il funzionamento dell’organo più complesso e misterioso anche in presenza di patologie come l’Alzheimer, il Parkinson, l’ictus, la sclerosi laterale amiotrofica.
L’ingiunzione di sfratto è stata comunicata il 22 luglio scorso, con la richiesta del rilascio dei locali entro il 30 settembre. Il ricorso è già partito, ma il premio Nobel, teme che si interrompa «l’ultimo capitolo della mia vita che si sta rivelando il più importante dal punto di vista scientifico, con i formidabili risultati attraverso l’impiego del Nerve growth factor (il fattore di crescita delle cellule nervose da lei scoperto, ndr)». Un impegno alla sopravvivenza dell’Ebri è arrivato dal presidente del Cnr, Luciano Maiani, che «sta esplorando la possibilità» di accogliere la fondazione della Montalcini in ambienti «da noi utilizzati».
Il ministro: "Il lavoro dell’Ebri è troppo importante
le attività di ricerca non possono interrompersi"
Gelmini rassicura la Montalcini
"Il suo istituto non chiuderà"
Non è la prima volta che il centro di ricerche rischia la chiusura
Nei mesi scorsi l’allarme del presidente della Repubblica *
ROMA - "Ritengo troppo importante il lavoro dell’Ebri e del premio Nobel Rita Levi Montalcini per poter pensare che le attività svolte da questo centro di ricerca possano interrompersi. L’Ebri è un centro di eccellenza che va tutelato in qualsiasi modo".
A parlare così è il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini dopo la notizia dello sfratto, dalla sede di Roma, ingiunto all’istituto di ricerca voluto dal premio Nobel per la medicina. A causa dell’assenza di fondi, l’Ebri non riusciva nemmeno a pagare anche gli stipendi dei ricercatori. Il rischio era stato paventato anche dal presidente della Repubblica il 21 aprile scorso, durante i festeggiamenti per i 100 anni della Montalcini. Napolitano infatti si era detto certo che i poteri pubblici non avrebbero fatto mancare le risorse indispensabili per far proseguire le attività del centro.
Per il ministro dell’Istruzione non è ammissibile che l’istituto possa sospendere il proprio lavoro. Gelmini dunque annuncia che "è in via di erogazione il finanziamento del ministero da 485 mila euro, che ho già firmato e che attende il parere delle commissioni parlamentari, per consentire all’Ebri di proseguire gli studi e le attività di ricerca".
Oltre al finanziamento, il ministero sta vagliando anche altre azioni. La prima è la creazione di un tavolo tecnico tra ministero, Ebri e Fondazione Santa Lucia, quella cioè che ospita l’istituto della Montalcini, per verificare la possibilità che l’istituto possa continuare a lavorare nelle strutture che attualmente utilizza. Solo se ciò non dovesse essere possibile, si penserà a un trasferimento in una sede alternativa.
Non è la prima volta che l’Ebri rischia di restare senza finanziamenti. Nell’ottobre del 2007 la Lega Nord aveva minacciato di sospendere i finanziamenti al centro di ricerca.
* la Repubblica, 4 settembre 2009
DISCORSI
Data: 20-04-2009
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO ALLA CERIMONIA PER IL GENETLIACO DELLA SENATRICE A VITA RITA LEVI MONTALCINI
Palazzo del Quirinale, 20 aprile 2009 *
Cara professoressa, senatrice Rita Levi-Montalcini,
siamo qui - e saluto, i Presidenti Scalfaro e Ciampi, i rappresentanti del Parlamento e del governo, il Presidente della Corte Costituzionale, i Sindaci di Torino e di Roma, una folta rappresentanza delle nostre istituzioni culturali e del mondo della ricerca, i Premi Nobel professori Rubbia e Ciechanover, e ancora, colleghi e collaboratori a lei cari - siamo qui per festeggiarla e onorarla : innanzitutto, cara amica, per rivolgerle auguri ammirati e affettuosi. Ammirati anche per il traguardo che lei ha raggiunto e per il modo in cui l’ha raggiunto : perché questo non è stato un puro dono della natura e della Provvidenza, ma il frutto del suo invincibile amore per la vita e della sua disciplina di vita, della sua ininterrotta operosità, della molteplicità e del fervore dei suoi interessi scientifici, culturali, sociali.
Quando nel 2001 il Presidente Ciampi fece la scelta che gli era consentita nominandola senatore a vita, apparve a tutti evidente come per la cittadina Rita Levi-Montalcini risultasse pienamente appropriato il riferimento dell’art. 59 della nostra Costituzione all’avere illustrato la Patria per altissimi meriti e non solo nel campo scientifico ma in quello sociale e in altri ancora.
La nostra festeggiata è, in primo luogo, certo, per universale riconoscimento, ben oltre i confini dell’Italia, una grande donna di scienza, e personalmente mi rammarico grandemente in questo momento di non potere, per i limiti della mia formazione, per la povertà delle mie conoscenze scientifiche, dire di più su quel che Rita Levi-Montalcini rappresenta nella storia e nell’evoluzione, ancora in pieno svolgimento delle neuroscienze, della neurobiologia, delle ricerche sul cervello. Ma di ciò si è detto puntualmente ancora in questi giorni, nei luoghi giusti e con competenza, come anche qui poc’anzi.
Vorrei piuttosto sottolineare come nel chiamarla grande donna di scienza, si voglia mettere in evidenza il fatto essenziale che Rita Levi-Montalcini, nell’ingaggiare ancora giovanissima la battaglia per la ricerca della verità scientifica abbia nello stesso tempo ingaggiato quella per l’emancipazione e la valorizzazione della donna. Ella è divenuta un esempio non solo per la comunità scientifica ma per il mondo femminile. E una proiezione altamente significativa di questa dimensione del suo impegno è d’altronde rappresentata dalla scelta di dedicare risorse e passione - attraverso la Fondazione che porta il suo nome - alla causa dell’accesso delle donne all’istruzione e del loro avanzamento civile nei paesi emergenti e segnatamente nel continente africano.
Ma di “altissimi meriti nel campo sociale” si deve parlare anche in rapporto ad altro. In rapporto - non è superfluo ricordarlo - alle sue virtù civili : al coraggio civile con cui reagì appena trentenne alla violenza delle leggi razziali del fascismo, opponendovi la serena, stoica fermezza del non lasciarsi annullare come ricercatrice di talento, del continuare tra le mura di casa, mirabilmente, il perseguimento del suo progetto scientifico. Fu uno degli esempi della forza intellettuale e morale insopprimibile degli uomini e delle donne che impersonavano il patrimonio della cultura e dei valori dell’ebraismo.
Rita Levi-Montalcini mostrò il suo profondo attaccamento all’Italia, alla libertà, alla democrazia, resistendo alla dittatura, sottraendosi al destino dell’esilio, accogliendo dopo la Liberazione dell’Italia l’occasione che le fu offerta nel più grande paese amico, presidio di vita democratica e di progresso scientifico, gli Stati Uniti d’America, per portare più avanti le sue ricerche. Ma volle e seppe tornare a casa, tornare da noi e trasmettere al nostro paese il suo sapere, la sua esperienza, il suo magistero morale.
Vorrei egualmente ricordare oggi quale lezione ella ci abbia dato di senso delle istituzioni e dei doveri istituzionali dedicando il suo tempo, le sue energie, le sue risorse di modestia e di pazienza, alla presenza e all’impegno sui banchi del Senato. Anche di questo è giusto ringraziarla, e voglio personalmente ringraziarla.
Non sembri infine fuori luogo il riferimento alla sua operosità e ai suoi meriti nel campo letterario. Rita Levi-Montalcini ha scritto molto, in special modo negli ultimi 10 anni, trasmettendoci con i suoi libri messaggi umani e di pensiero ricchi ed intensi, mettendo a fuoco temi fondamentali come quello del rapporto tra scienza ed etica, e anche assumendosi un compito di divulgazione - specie in rapporto al suo campo di ricerca - e di diffusione in generale dell’interesse per la scienza, sempre importante in un paese nel quale il limite di una formazione strettamente umanistica pesa su intere generazioni, compresa la mia.
Cara amica, le auguriamo di tutto cuore buon lavoro, e successo : successo per il suo progetto di ricerca, successo per le sue creature, la Fondazione Levi-Montalcini e l’EBRI, un istituto al quale sono certo che i poteri pubblici, se necessario lo stesso Parlamento, non faranno mancare le risorse indispensabili per conseguire risultati importanti. E le auguriamo successo anche nella sua battaglia per lo sviluppo in Italia della ricerca scientifica, per la valorizzazione dei talenti e della passione in special modo delle giovani generazioni di ricercatori. E’ questa una causa di vitale importanza per il nostro paese : contiamo su di lei per l’apporto che ancora una volta vorrà darvi nell’interesse generale.
E per tutti gli apporti che lei ha già dato alle cause più nobili, vorrei rimetterle ora, con grande rispetto ed affetto, un piccolo segno del nostro comune riconoscimento.
E’ iniziata la festa per il secolo del Nobel Rita Levi Montalcini *
Un’enorme torta di fragole e cioccolato, con un’enorme scritta in inglese: ’Celebrating Rita Levi Montalcini 100th birthday’, ovvero ’Per celeberare il centesimo compleanno di Rita Levi Montalcini’. Con il taglio ben augurale di questa prima torta - in un calendario denso di eventi e festeggiamenti fino al giorno di nascita del Nobel, il 22 aprile - la senatrice ha accolto la stampa per presentare la conferenza scientifica sul cervello che si svolgerà a Roma proprio il 22 aprile.
«A 100 anni sono ancora profondamente ottimista. E penso che anche i periodi difficili, e ne ho avuti, possano portare grande progresso. La mia vita è stata un continuo sviluppo. Sono grata di essere ancora qui. Di essere ancora viva».
Per la scienziata, auguri di compleanno anche al Quirinale per il Nobel Rita Levi Montalcini: la senatrice, lunedì 20 aprile, verrà infatti ricevuta dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per festeggiare il suo secolo.
«La professoressa - ha sottolineato Piergiorgio Strata, direttore scientifico dell’Istituto Europeo per le Ricerche sul Cervello (Ebri), voluto e presieduto dalla stessa Montalcini - per il suo centesimo compleanno ha detto che non avrebbe voluto feste rituali o champagne, ma ha lanciato l’idea di un grande e importante convegno scientifico sul cervello. Così, sin da ottobre, abbiamo messo in moto l’organizzazione».
Al convegno internazionale sulle neuroscienze, che si svolgerà in Campidoglio, ha detto Strata, prenderanno parte vari ricercatori internazionali, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e il ricercatore Stanley Cohen che nel 1986 ha diviso il Nobel con la scienziata per la scoperta del fattore di crescita delle cellule nervose (Ngf).
Nel 1986, ha sottolineato Strata, «qualcuno mise addirittura in dubbio il merito della professoressa per il Nobel. Ma già allora, almeno 10.000 ricercatori erano al lavoro sulla molecola ngf e oggi si registrano almeno tre pubblicazioni al giorno collegate alla sua scoperta». La scienza voluta dal Nobel Montalcini «è sempre stata - ha concluso Strata, citando le parole del presidente Usa Barak Obama sull’importanza della ricerca - una ricerca ’libera dalle manipolazioni, ascoltando la sua voce anche quando è scomoda’».
* l’Unità, 18 aprile 2009
Ansa» 2009-04-16 11:31
MONTALCINI: A 100 ANNI LA VITA MI EMOZIONA
ROMA - E’ emozionata? "No, non sono per niente emozionata, né spaventata. L’unica cosa che mi emoziona ancora è la vita": il Nobel Rita Levi Montalcini vive così i 100 anni che si prepara a festeggiare il 22 aprile. "Sono profondamente commossa di essere arrivata a 100 anni dopo una vita vissuta con una gioia che, penso, ben pochi hanno avuto": il Nobel Rita Levi Montalcini ha aperto così il suo discorso, nella cerimonia organizzata per i suoi 100 anni dall’Istituto Superiore di Sanità.
Con la voce ferma e forte, Rita levi Montalcini ha fatto un bilancio positivo di una vita che più volte ha definito "lunghissima". "Non ho paura della morte - ha aggiunto - per me non conta quando arriverà, potrebbe essere domani". Nei suoi ricordi, ha detto ancora, non c’é posto per rimpianti o rammarichi: "per fortuna non l’ho l’Alzheimer o almeno, se non mi illudo, posso dire che oggi le mie capacità mentali sono maggiori di quelle che erano a 20 anni perché sono state arricchite da tante esperienze, così come non sono diminuite né la curiosità né il desiderio di essere vicino a chi soffre". La sua è una vita vissuta ancora così intensamente che "non c’é tempo per dormire perché ho vissuto esperienze talmente belle nella mia lunghissima vita, poco importa se finirà domani".
Montalcini, Montessori, Fallaci, donne del secolo
Rita Levi Montalcini, Maria Montessori e Oriana Fallaci. Ecco le tre donne più importanti del secolo secondo un’indagine svolta, in occasione dell’8 marzo, dal giornale online «Quinews.it» su 500 donne italiane, di cui il 50 per cento universitarie.
Al primo posto, con il 35 per cento delle preferenze, Rita Levi Montalcini, la scienziata che fra un mese compie 100 anni. È ricordata per aver vinto il Premio Nobel per la Medicina, nel 1986, e per essere senatrice a vita. Piace per la sua «intelligenza», il suo essere donna «semplice», «non presuntuosa» e «per nulla saccente». Il suo «impegno» umanitario è la cosa che più viene apprezzata dalla intervistate.
Al secondo posto, Maria Montessori, che raccoglie il 30 per cento delle preferenze. Viene ricordata per aver «influenzato» e «segnato» la psicologia e la pedagogia, italiana e non solo, del ’900, come la «prima» e più «importante artefice» dei «metodi per il recupero dei soggetti portatori di handicap», per l’educazione dei bambini delle scuole materne e di quelle elementari, e per essere stata la «prima» donna «laureata» in medicina.
Infine, al terzo posto c’è Oriana Fallaci, che con il 18 per cento delle preferenze è considerata una «grande» scrittrice e giornalista. Molte delle intervistate la ricordano come la «prima» donna ad andare al fronte come «inviata speciale». È ricordata anche per la «caparbietà», «l’intelligenza» e per le «decise», anche se «non del tutto condivise» battaglie «contro l’Islam».
Nell’indagine, al quarto posto, con il 7 per cento delle preferenze, si colloca la «straordinaria» letteraria Grazia Deledda vincitrice del Nobel per la Letteratura nel 1926. Al quinto, con il 6 per cento delle simpatie, si piazza «l’indimenticabile» Anna Magnani, personaggio «popolano», «sensibile» e «generoso».
* l’Unità, 07 marzo 2009
Così Einstein arrivò alla relatività
Il premio Nobel rievoca il suo percorso lungo quasi un secolo di scienziata e di donna. La famiglia, Primo Levi, Carlo Levi. I metodi per fare buona ricerca
Pubblichiamo un brano da La clessidra della vita, scritto dalla Levi Montalcini e da Giuseppina Tripodi (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 199, euro 16,50). Il volume è in libreria in questi giorni.
di Rita Levi Montalcini (la Repubblica, 4.11.2008)
Nella sua autobiografia Einstein, o ancora più precisamente, come lui stesso la definisce, nel suo autonecrologio scientifico scritto a 67 anni, ricorda la forte impressione ricevuta all’età di 4-5 anni nell’osservare l’orientamento costante dell’ago magnetico di una bussola. Questa capacità di voler dare una spiegazione in base alle proprie esperienze di bambino, di adolescente e uomo maturo, è il primo segno di una grande attitudine all’indagine e al sottoporre al vaglio del proprio giudizio concetti che, in genere, vengono accettati senza difficoltà dalla grande maggioranza, quali la caduta dei gravi, la rotazione della luna, la differenza tra vivente e non vivente, ecc.
La seconda esperienza che Einstein ricorda come fondamentale in età infantile riguarda la comprensione dell’assioma che le tre altezze di un triangolo si intersecano in un solo punto. Ricorda l’indescrivibile impressione non tanto per il fatto che l’assioma potesse essere accettato senza dimostrazione, quanto per l’evidenza e la certezza della sua enunciazione. Dai 12 ai 16 anni Einstein prese familiarità con le nozioni fondamentali del calcolo differenziale e integrale e con le scienze naturali. Diciassettenne si iscrisse alla Facoltà di Fisica al Politecnico di Zurigo, ebbe maestri come Hurwitz e Minkowski, entrambi matematici. Ma fu affascinato dalla fisica e per questa scienza trascurò la matematica in quanto non si sentiva di distinguere, in questo settore, con esattezza e con un’intuizione sicura, ciò che ha importanza fondamentale rispetto ad altre nozioni non ugualmente essenziali.
Emerge quindi il secondo aspetto caratteristico di Einstein che permarrà tutta la vita, cioè il senso di direzionalità e importanza della ricerca perseguita. E si rivelò anche la sua riluttanza alla coercizione e cioè all’obbligo di studiare secondo regole prefisse, riluttanza che manifestò per tutta la vita al pensiero ortodosso e coercitivo. Nel campo della fisica trovò estremamente agevole distinguere, malgrado l’enorme accumulo di dati, ciò che poteva condurre a concetti fondamentali da quello che non è essenziale. (...)
La circostanza che doveva portare alla formulazione del concetto della relatività speciale sorse a seguito di considerazioni sull’esperimento di Michelson, il quale aveva provato che la luce che attraversava due tubi ad angolo retto, l’uno in direzione del movimento della terra e l’altro perpendicolare a questo, percorreva i due tubi alla stessa velocità. Questo risultato appariva in contraddizione con il fatto che il tubo disposto parallelamente alla direzione di movimento della terra doveva essere percorso in un tempo più breve di quello perpendicolare. Lorentz aveva avanzato l’ipotesi di una contrazione del tubo parallelo che compensasse la differenza.
Einstein si pose innanzitutto il problema della relazione tra spazio e tempo rispetto a una costante: quella della luce è la massima velocità possibile, la forza necessaria per aumentarla dovrebbe essere infinita. Einstein nel formulare questo metodo riconobbe l’ambiguità del concetto di simultaneità che, se è valido per due fatti avvenuti nello stesso luogo nell’identico momento, non lo è più per due fatti che avvengano «contemporaneamente» in due luoghi diversi: concetto di tempo. Lo scienziato, commentando con Wertheimer il processo mentale che lo portò alla formulazione della teoria della relatività, disse: «Io penso assai di raro con parole, prima ho un pensiero, e solo in seguito posso cercare di esprimerlo con parole. Naturalmente è molto difficile esprimere a parole quella sensazione, ma decisamente le cose stanno così. L’impressione di procedere in un determinato senso in me è sempre sotto forma di una specie di sguardo generale in un certo senso in modo visivo». Durante l’intero processo creativo prevalse in lui il senso della «direzionalità» del suo modo di pensare verso un determinato fine e cioè di procedere verso qualcosa di concreto.
In quello definito da Wertheimer «un appassionato desiderio di chiarezza», Einstein affrontò direttamente la relazione tra la velocità della luce e il movimento di un sistema e mise a confronto la struttura teorica della fisica classica con il risultato di Michelson. Esaminando il fenomeno scoprì una grave lacuna nella trattazione classica del tempo: nella concezione tradizionale i valori spaziali sono indipendenti dal tempo e dagli elementi fisici. Stabilì invece tra loro una intima relazione: lo spazio non fu più recipiente di fatti fisici, vuoto e completamente indifferente.
La geometria spaziale veniva integrata con la dimensione tempo in un sistema a quattro dimensioni che a sua volta formò una nuova struttura unitaria con gli eventi fisici reali. La velocità della luce, considerata prima di Einstein come una tra le tante altre, seppure la più elevata, venne da lui posta in una fondamentale relazione con il modo in cui venivano misurati tempo e spazio. Il suo ruolo mutò da quello particolare, in mezzo a molti altri, a un fattore centrale del sistema. Nel processo cambiò il significato di altri elementi, quali massa ed energia. Tutto ciò ebbe luogo di fronte a una costruzione granitica, quale la fisica classica, che sino ad allora si era adattata a un numero enorme di fatti.
Noi, costretti a regalare il cervello all’estero
È il momento di cambiare
di Renato Dulbecco (la Repubblica, 19.11.2008)
HO LASCIATO il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel ’75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all’appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all’estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l’immobilismo di un’Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c’è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l’organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all’innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L’Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.