Hannah e i suoi camerati
Secondo il concetto di totalitarismo della Arendt, il fascismo non fu tale fino al ’38, mentre lo erano il nazismo e la Russia di Stalin. Ma la tesi non convince
Per la studiosa tedesca un regime non si poteva defìnire totalitario senza il terrore e un dittatore dalla mente criminale
di Emilio Gentile (Il Sole 24 Ore, Domenica 15.06.2008)
Nel suo libro Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, Hannah Arendt dedicava al fascismo poche e sparpagliate osservazioni, che complessivamente superano appena la lunghezza di una pagina. Sui seicentotrenta titoli elencati nella bibliografia, le pubblicazioni che riguardano il fascismo, fra le migliaia di opere che pure erano disponibili in tedesco, inglese o francese, nel periodo in cui la studiosa tedesca compose il suo libro, non superano le dita di una mano, e nessuna è una storia del fascismo o uno studio del suo sistema politico. Nonostante ciò, poche interpretazioni del fascismo hanno avuto tanta ampia e durevole influenza su molti studiosi che, nell’ultimo mezzo secolo, si sono occupati del fascismo e del totalitarismo, quanto l’interpretazione proposta da Arendt nell’ambito del suo studio sul totalitarismo.
Un’ analisi critica del giudizio della Arendt sul fascismo risulta importante se consideriamo che tale giudizio ha segnato una svolta decisiva nell’analisi e nell’interpretazione sia del fascismo sia del totalitarismo, rispetto a tutte le precedenti interpretazioni, che erano state elaborate nei decenni precedenti da studiosi come Luigi Sturzo, Hans Kohn, Michael Florinsky, Raymond Aron, Alfred Cobban, Carlton Hayes, Emil Lederer, Sigmund Neumann. Malgrado le loro differenti e opposte ideologie, tutti questi studiosi, nella loro analisi del totalitarismo, avevano considerato il fascismo un regime totalitario, non perché tale il fascismo si proclamava, ma perché essi riscontravano nel regime fascista le caratteristiche tipiche dei regimi a partito unico sorti in Europa dopo la Prima guerra mondiale. Poiché il problema del totalitarismo e il termine stesso hanno avuto origine dal fascismo, la negazione del carattere totalitario del fascismo, asserita dalla Arendt, investe l’intero problema del totalitarismo. Infatti, gran parte delle idee fondamentali che costituiscono l’interpretazione del totalitarismo elaborata dalla Arendt erano state già esposte dagli studiosi citati, nessuno dei quali escludeva il fascismo dal totalitarismo. L’unica novità, nell’interpretazione della Arendt, era la definizione del terrore come la «vera essenza» della forma totalitaria di governo. Il terrore non era ovviamente ignorato dai precedenti studiosi del totalitarismo, ma nessuno di essi lo aveva considerato l’essenza del totalitarismo.
La Arendt parla genericamente di movimenti totalitari e semitotalitari sparsi nell’Europa dopo la Grande guerra, ma alla fine dalla sua analisi emerge che il nazionalsocialismo era l’unico movimento totalitario, mentre, sostiene senza esitazione la Arendt, la dittatura bolscevica, fino al 1930, non fu la creatura di un movimento totalitario. Fu Stalin, sostiene la studiosa, che trasformò «la dittatura di partito unico in un regime totalitario», e soltanto a Stalin la Arendt attribuisce la colpa di aver predisposto le condizioni per instaurare il totalitarismo, pienamente sviluppato con il terrore di massa. Nel caso della Germania, la Arendt sostiene invece che il nazionalsocialismo fu un movimento totalitario fin dalle origini, ma divenne un regime totalitario soltanto dopo il 1938, anzi, precisa la studiosa, lo divenne soltanto durante la Seconda guerra mondiale, ma neppure allora fu un «totalitarismo pienamente sviluppato» perché, spiega la Arendt, soltanto «se la Germania avesse vinto la guerra avrebbe conosciuto una dittatura totalitaria pienamente sviluppata». Così, neppure il nazionalsocialismo, che secondo la Arendt fu l’unico movimento veramente totalitario prima della conquista del potere, divenne mai un totalitarismo pienamente sviluppato.
Il rapporto fra movimento totalitario e regime totalitario, nell’interpretazione della Arendt, rinlane oscurato da numerose contraddizioni, che vanno oltre il caso della Russia e della Germania. Infatti, occupandosi della Cina comunista la studiosa afferma che le caratteristiche totalitarie del partito comunista cinese erano presenti fin dall’inizio, e si inasprirono negli anni Sessanta durante il conflitto russo cinese, e aggiunge che nel periodo iniziale della dittatura comunista in Cina ci fu un terrore di massa che provocò circa quindici milioni di vittìme, ma, precisa la studiosa, «se questo fu terrore, e lo fu certamente, era un terrore diverso, e qualunque siano stati i suoi risultati, non decimò la popolazione». Quindi, conclude, non si poteva applicare al regime comunista cinese, nonostante quindici milioni di vittime, l’attributo di totalitarismo autentico perché, sostiene la Arendt, «il "pensiero" di Mao Tse-tung non seguiva nella scia lasciata da Stalin (e da Hitler, in questo campo), perché non era un assassino per istinto, e in lui il sentimento nazionalista, tipico in tutti i movimenti di rivolta anticoloniale, fu forte abbastanza da porre dei limiti al dominio totale».
In sostanza, nell’interpretazione della Arendt il totalitarismo appare come una sorta di fenomeno intermittente, che appare e scompare, oppure come una pianta che in un Paese, la Russia, nasce e cresce senza avere radici; in un altro, la Germania, ha radici ma tarda a nascere e a crescere; in un altro, l’Italia, non ha radici, non nasce e non cresce, ma poi la studiosa lascia intendere che comunque il totalitarismo sarebbe apparso anche in Italia dopo il 1938. In tal modo, però, l’intera questione della natura dei movimenti totalitari, dei regimi totalitari, delle loro somiglianze e differenze è avvolta in una nebbia teorica, mentre emergono evidenti, chiari, netti e perentori affermazioni e giudizi non preceduti, né accompagnati, né seguiti da argomentazioni coerenti, e spesso fondati su dati storici inattendibili o inesistenti.
Da queste considerazioni sorge un’ultima questione, forse la più importante, perché investe l’intera interpretazione del totalitarismo proposta dalla Arendt e il suo giudizio sul fascismo. Come abbiamo visto, la studiosa tedesca ripeteva continuamente che il fascismo non era totalitario. Tale giudizio è stato recepito da molti studiosi del fascismo e del totalitarismo, che tuttora lo ripetono come fosse un’interpretazione inconfutabile e definitiva, senza tener in nessun conto i risultati della ricerca storica che ne ha da tempo dimostrato la infondatezza.
Ma tutti costoro trascurano di notare che la stessa Arendt aveva posto le premesse per rimettere in questione il suo giudizio, quando affermava che il fascismo non fu totalitario «fino al 1938». Forse la Arendt intendeva, con questa precisazione, dire che il fascismo dopo il 1938, adottando l’antisemitismo come ideologia di Stato, trasformò la dittatura di «partito al di sopra dei partiti» in un regime totalitario, come era accaduto in Russia dopo il 1930 e in Germania dopo il 1938? E inoltre: se il partito bolscevico non era un movimento totalitario, come poté diventare totalitario per l’iniziativa di un solo individuo, e poi cessare nuovamente di essere totalitario dopo la morte dello stesso individuo, come, secondo la Arendt, avvenne dopo la morte di Stalin? Può un solo individuo dalla mente criminaIe trasformare in un regime totalitario una dittatura di partito, nata da un movimento non totalitario, senza trovare gli strumenti per la trasformazione nella dittatura esistente, la quale, di conseguenza, non può essere esclusa dal totalitarismo? E se il fascismo divenne totalitario dopo il 1938, quali furono le radici e le cause di questa trasformazione: erano nel movimento e nel regime fascista prima del 1938 o dipesero soltanto, come in Russia, dalla volontà di un individuo?
Su tutte queste questioni, che sono decisive per comprendere la natura del totalitarismo e il suo significato nella storia del Novecento, il silenzio della Arendt è rimasto totale.
«La via italiana al totalitarismo»,
di Emilio Gentile,
nella nuova edizione riveduta e ampliata
(pagg. 414, € 26,50), uscirà da Carocci
giovedì 19 giugno.
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«L’eredità? Nei partiti»
di Emilio Gentile
Per molti antifascisti la peggiore eredità del fascismo non era la continuità delle istituzioni statali e pubbliche create dal regime e incorporate nello Stato repubblicano, quanto e soprattutto un certo modo di concepire e praticare la politica, che il partito fascista aveva coltivato per un ventennio, coinvolgendo per la prima volta nella storia degli italiani, milioni di uomini e donne nelle sue organizzazioni di massa...
Il fascismo non aveva creata il conformismo, scriveva De Ruggiero nel 1946, ma l’aveva aggravato «rendendo obbligatoria e coattiva una tendenza che già spontaneamente si affermava vittoriosa. La democrazia, che oggi succede al fascismo, non porta un rimedio a quel male, ma ne racchiude in sé gli stessi germi... La fine del fascismo ha lasciato una società modellata sul conformismo e avvezzata a esso, ma senza più una norma unica e comune cui conformarsi. [...] In sede politica, noi avvertiamo questo fenomeno nei partiti, ciascuno dei quali conserva in sé tracce indelebili del "Partito", nelle sue gerarchie, nelle sue omertà, nelle sue intolleranze».
Per eredità del totalitarismo fascista, la cultura liberale intendeva inoltre «lo spirito e lo stile politico del fascismo», cioè, come precisava «Risorgimento liberale» nel maggio 1945. «la intolleranza, la sopraffazione, l’accettazione supina della mistica di partito con il relativo corollario del fine che giustifica i mezzi, la tendenza di certi movimenti a costituirsi come stati nello Stato e ad agire come gli eserciti in territorio occupato, che hanno come sola legge la propria necessità»... Insieme al misticismo politico, dall’eredità che il totalitarismo fascista lasciava alla neonata democrazia scaturiva la «mistica del Partito», come la definiva il repubblicano Mario Ferrara nel 1949, cioè l’esaltazione del primato del partito come organizzazione alla quale l’individuo deve aderire con disciplina e dedizione integràli: «Anche per coloro che si dicono democratici e liberali il Partito è diventato un mondo chiuso e tirannico del quale non si può fare a meno e in nome del quale si abdica a ogni dignità morale e, talora, alla dignità umana pura e semplice».
Se il conformismo e il misticismo politico erano mali del fascismo trasmessi alla democrazia, altrettanto grave era un’altra tendenza del totalitarismo fascista che pareva avesse contagiato i partiti della democrazia, cioè la tendenza a organizzare le masse con appelli al settarismo fanatico, e la loro propensione a prevaricare lo Stato per i loro interessi, producendo così, dopo l’esperienza del dominio del partito unico, una nuova forma di dominio partitico, che fu definito, fin dai primi anni dell’Italia repubblicana, con il termine "partitocrazia "... L’eredità del fascismo non consiste soltanto nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, che passò senza patire epurazione dallo Stato fascista allo Stato repubblicano.
L’eredità dell’esperienza fascista è stata rintracciata anche nella perpetuazione di un modo di concepire e praticare la politica di massa, nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari, nella propensione a coltivare una prassi di "partitizzazione" delle istituzioni pubbliche.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA COL BAVAGLIO: LA SOLUZIONE FINALE, "I PAPI", E I NIPOTI DI "PILATO" EICHMANN.
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI...
FLS
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE ... *
A) - UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: [...] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico - fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità - ha impedito sinora di far fronte a tali questioni. Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo.” ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia”, Le parole e le cose, 14 aprile 2020);
B) - “UN NUOVO INIZIO”: “[...] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) - ANTROPOLOGIA: KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO, LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT;
D) - CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico e uscire dal letargo e dalla caverna, ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”;
E) - LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
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Hannah Arendt e la banalità del (nor)male
La Germania nazista, l’abisso dell’amore per Heidegger, Scholem e il difficile rapporto con la tradizione ebraica, la vocazione metafisica, lo studio del totalitarismo. Ritratto della donna che voleva "romantizzare il mondo"
di Pietro Citati (la Repubblica, 050.2.2019)
Hannah Arendt (1906-1975) era, secondo Hans Jonas, «una passeggera sulla nave del XX secolo». Era una bellissima donna, una bellissima ebrea, qualcosa di unico e di indefinibile: aveva una straordinaria intelligenza e una volontà tenacissima, che si alternava a una grande vulnerabilità. Sentiva la determinazione ad essere se stessa, e la perseguiva con forza uguale alla volontà. Possedeva un’intensità, una direttiva interiore, una ricerca della qualità inquieta dell’essere, un modo di andare al fondo delle cose, che diffondevano un’aura magica intorno a lei. Studiò Agostino, sotto la direzione di Karl Jaspers, di cui sarebbe rimasta amica; e si innamorò di Heidegger, del quale subì il terribile fascino: una religione amorosa e passiva, a volte angosciosa e disperata. Leggeva con estrema raffinatezza Kant, mentre aveva dimenticato la tradizione cabalistica ebraica del XVI secolo, cara a Scholem.
Se il rapporto con Kant la lasciò pacifica, quello con Heidegger, che amò, la sconvolse per tutta la vita, senza riuscire a trovare una quiete intellettuale. Sullo sfondo della sua giovinezza accadevano cose terribili: i tedeschi distrussero il ghetto di Varsavia. Intorno a lei c’erano angosce e suicidi.
Hannah Arendt lasciò la Germania, abbandonando Heidegger, che aveva amato più di tutti. Andò a Parigi e poi negli Stati Uniti. Presto imparò a scrivere benissimo: alternando frivolezza e austerità, procurandosi un’intensità letteraria. Ma non le bastava scrivere stupendamente: volle agire, partendo per gli Stati Uniti, dove diresse il bollettino di studi ebraici della comunità ebraica tedesco-americana, sebbene sostenesse con pervicacia di non comprendere la storia, come del resto tutti gli ebrei. Fu amica di Gershom Scholem, il grande studioso di origine tedesca con cui discorreva a lungo: egli la accusò duramente, di non capire il popolo ebraico, poiché ne ignorava l’immenso passato.
Negli Stati Uniti, curò un’opera fondamentale della sua vita - I Diari di Kafka - che forse non intese perfettamente, perché mancava della forza metafisica necessaria. La passione politica non la abbandonò mai, e talora abolì, in lei, la sua stessa tensione metafisica. Rinunciò a parte della sua cultura tedesca; e presto, anche per via di amicizie, si adattò alla cultura democratica americana.
Diventò amica di Mary McCarthy - autrice di un libro famosissimo, Il gruppo - anche se possedeva più sottigliezza, inquietudine, passione, tenebra, in confronto a lei. Era costante, ironica: piena di angosce e di dubbi. Nel fondale della sua cultura stavano Poe e l’antica tradizione ebraica del Cinque-seicento e del Settecento. Era piena di volontà e di ardore; anche dalle discussioni con Scholem dovette acuminarsi la sua idea di principio: quella del male radicale o del male assoluto, su cui la Arendt costruì la sua profonda natura. Quasi tutto, in lei, discendeva da Sant’Agostino: slancio, espansione, forza, sottigliezza, squisitezza, sopratutto armonia.
Le origini del totalitarismo sono un vero e proprio capolavoro. Il celebre La banalità del male - la stupenda polemica con cui distrusse un nazista, Eichmann, un servo di Hitler, nel processo a Gerusalemme - non raggiunge quella straordinaria altezza.
Quando era andata prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, aveva scoperto se stessa con un’ironia acutissima. Quale espressione! Quale slancio! Amava gli antichi romantici e le romantiche tedesche. Adorava Novalis. Amica di Jaspers, la sua mente era ossessionata dall’idea di Dio: forse un Dio ebraico, forse un Dio cristiano nascosto in lei. Il mondo a cui si opponeva era quello della Putrefazione. Detestava il nazismo e il filosofo geniale e perverso che aveva amato come pochi - Heidegger. Temeva il turbinio della morte e dietro questo turbine c’erano i campi di concentramento e le camere a gas di Auschwitz.
Pur non abbandonandolo, l’interesse politico era, per lei, specialmente giunta negli Stati Uniti, molto meno importante rispetto all’interesse morale. Ormai l’antica teologia o filosofia classica-ebraica del Sedicesimo secolo l’aveva influenzata intimamente, insieme all’antica teologia della sua terra. Andava sempre più indietro: sempre più lontano; e probabilmente la sua vera forza consisteva nei secoli dell’ebraismo classico.
Nel momento in cui rinunciò a qualcosa della sua cultura tedesca, cancellò almeno in parte anche il suo ebraismo, e negli ultimi anni si sentì una specie di libera "europea". Ma non dimenticò di avvertire la presenza, nel mondo, del male assoluto. Diventò quasi una italiana.
Aveva esaurito il romanticismo tedesco, che portava nel sangue. La sua prosa diventò festosa e lieta. Alla fine, sembrò liberarsi di tutto, come se avesse dimenticato sia il suo liberalismo, sia il suo conservatorismo. Diventò incredibilmente libera e leggera: sempre più dolce, sempre più quieta, sempre più mite. Ma non riusciva a cancellare il terrore della storia.
Parlò molto spesso della politica di Stalin, che era morto nel 1953, quando il comunismo non sembrava completamente esaurito - il comunismo che si trasformava in Berja, Malenkov, Krusciov, Breznev e gli altri, fino, forse, al recentissimo Putin, nel quale il male radicale continua probabilmente ad essere vivo. Discorreva a lungo di esperimenti politici, ma, in realtà, la sua vera passione era morale, sentita con un profondissimo ardore.
Non dimenticò mai la storia del Diciottesimo e del Diciannovesimo secolo - e più remotamente la mistica medievale come la studiò mirabilmente Moshe Idel. Aveva un’ideale: «Il vero popolo divino dei tempi moderni». Come diceva Novalis: «Bisogna romantizzare il mondo»; e lei non rinunciò mai a questo proposito. Andava sempre più indietro, sempre più lontano, appunto, fino all’Antico Testamento, ai secoli prima di Cristo e alle ispirazioni ereticali.
Storia.
Processo Eichmann: Fu solo «banalità»? Un saggio corregge Hannah Arendt
Il corposo studio di Bettina Stangneth riporta le parole inedite del gerarca latitante in Argentina: ne emerge un quadro ben più complesso di quello delineato dalla Arendt
di Riccardo De Benedetti (Avvenire, giovedì 20 luglio 2017)
Il libro di Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (Luiss University Press, pagine 604, euro 24,00) è di quelli che si fa fatica a dimenticare. Innanzitutto per la scrupolosità con la quale è stato scritto e l’attenzione a ogni pur piccolo dettaglio di una storia piena di trabocchetti e dissimulazioni. Il lettore, dopo ogni pagina di lettura, sa di avere a che fare con una ricerca scientifica e non con una delle tante ricostruzioni più o meno scandalistiche sul nazismo e la sua opera nefasta. Il libro (1.215 note), ricostruisce gli anni argentini dell’Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS Adolf Eichmann, fuori servizio. Uno dei responsabili diretti della Shoah, coordinatore dello sterminio, fu catturato dal Mossad l’11 maggio del 1960 a Buenos Aires e impiccato la notte tra il 31 maggio e il 1 giugno del 1962 a Gerusalemme dopo un processo che attirò l’attenzione del mondo.
Perché Eichmann in Argentina? Il titolo corregge il sottotitolo del famosissimo saggio di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Prima del processo al criminale nazista c’è l’Argentina, luogo di rifugio per centinaia di nazisti in fuga, nella quale il male non era banale ma rivendicato e, se possibile, analizzato, scrutato nel profondo.
Eichmann, improvvidamente, in quegli anni parla, scrive, registra, con la collaborazione di altri rifugiati nazisti, descrivendo una realtà che non ha nulla a che fare con la burocrazia esecutrice, ma al contrario, con la piena e convinta adesione all’ideologia razzista e antisemita e alla sua più consapevole esecuzione. I nastri e le carte di quella rivendicazione di responsabilità seguirono percorsi tortuosi e allora non riuscirono a raggiungere nella loro completezza i giudici del processo e, soprattutto l’opinione pubblica mondia-le, anche quella più informata e consapevole.
Durante gli anni della detenzione a Gerusalemme Eichmann volle dare di sé l’immagine del mero esecutore di ordini. La sua non era una mossa per ottenere clemenza, che infatti non ebbe, era un modo per proseguire la guerra contro gli ebrei. L’autrice descrive il tortuoso ragionamento con il quale i nazisti, sconfitti nella guerra ma non annientati, contavano di proseguire in un lavoro, così lo chiamavano, che non essendo stati capaci di portare a termine gli sarebbe stato per sempre rimproverato. Dopo la sconfitta in guerra si trattava di ripiegare in ciò che poi sarebbe apparso come negazionismo: la Shoah era un’invenzione e se si era verificata era perché qualcuno, non loro, aveva intrapreso l’azione di sterminio per giustificare la nascita dello Stato di Israele. Apparire banali esecutori di ordini di una gerarchia sconfitta era un modo per ridare una parvenza di legittimità a un programma che doveva proseguire.
Il libro della Stangneth riporta le parole, inedite, pronunciate alla fine delle estenuanti riunioni di nazisti che si svolgevano a casa di Eichmann in Argentina. In particolare la rivendicazione dello sterminio come parte integrante di un dovere morale ed etico (se è lecito usare questi termini per qualcosa che è pura criminalità) da compiersi rigorosamente se si voleva ottenere la vittoria contro il nemico assoluto:
«Non cerchi di confondermi dopo 12 anni, che si chiamasse Kaufmann, o Eichmann, o Sassen o Morgenthau, non me ne importa nulla, a un certo punto mi sono detto: bene, devo smetterla di farmi scrupoli. Prima che il mio popolo tiri le cuoia devono tirare le cuoia tutti gli altri, poi il mio popolo. Ma solo a quel punto! Io ero così [...]. Io, “il burocrate prudente”, ecco cos’ero, sissignore. Ma vorrei ampliare il concetto di “burocrate prudente”, anche se a mio sfavore. Questo burocrate prudente si accompagnava ad un fanatico combattente per la libertà del mio sangue, dal quale discendo, e qui dico, proprio come le ho detto poco fa, il pidocchio che la sta pungendo, camerata Sassen, non mi interessa. A me interessa il mio pidocchio sotto il mio colletto. Quello lo schiaccio. Lo stesso vale per il mio popolo. Ma da quel burocrate prudente che ero, perché certamente lo sono stato, sono anche stato ispirato e guidato: ciò che è utile al mio popolo, per me è un ordine sacro e una legge sacra [...]. Mi si contorcono le budella a dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No. Devo dirle in tutta sincerità che se dei 10,3 milioni di ebrei stimati da Korherr, come sappiamo oggi, ne avessimo uccisi 10,3 milioni, allora sarei soddisfatto e direi “bene, abbiamo sterminato un nemico”. Ora che per un tiro mancino del destino la maggior parte di quei 10,3 milioni di ebrei è rimasta in vita, mi dico: il fato ha voluto così. Devo assoggettarmi al destino e alla provvidenza. Sono solo un piccolo uomo e non è in mio potere contrastarli, né tantomeno posso o voglio farlo. Avremmo compiuto il nostro dovere per il nostro sangue».
Hannah Arendt si è sbagliata? Sì e no. Certamente per quanto riguarda Eichmann, che non corrisponde affatto al ritratto che lui stesso ha fatto in modo che uscisse dal processo, da abile manipolatore qual era. Non del tutto quanto al significato che possiamo dare alla “banalità del male”. Il processo Eichmann è stato solo un punto di avvio per un’analisi approfondita della storia del nazionalsocialismo e la Arendt non aveva a disposizione ciò che con fatica hanno sotto mano gli studiosi di oggi.
Cosa c’è di davvero banale nell’azione di Eichmann e di quelli come lui? C’è la mancanza assoluta di distanza tra la formulazione di un’idea, di un pensiero, di una tesi, e la sua realizzazione. Il pensiero è banale, errato e criminale, ma la sua realizzazione è tragicamente seria. C’è quella che Eric Voegelin, nel suo Hitler e i tedeschi, poco letto, purtroppo, chiamava la stupidità di un intero popolo, insieme alla capacità manipolatoria di attivarla. Una concezione rozza del formarsi e trasformarsi di un popolo attraverso il sangue e la razza, concetto che affonda in profondità nel pensiero scientifico illuminista prima e darwinista poi, con l’accento totalizzante posto sulla lotta per la vita e per la morte di un gruppo umano contro un altro.
Il libro della Stangneth è un libro di filosofia, più di tanti altri che sull’argomento hanno intinto per infiniti, e in molti casi pedanti e stucchevoli, esercizi ermeneutici. Una filosofia che lascia al lettore il compito di rintracciare la triste filiera del formarsi di un orrore e del suo realizzarsi. Non fu l’unico nel Novecento, ma fu quello al quale dobbiamo un obbligo di spiegazione razionale che ha rischiato, e il caso dell’abbaglio di Hannah Arendt sta a dimostrarlo, di sfuggirci.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). *
Così Hannah Arendt descrisse (nel ’51) i populismi del Terzo millennio
L’inquietante attualità di “Le origini del totalitarismo”
di Christian Rocca (La Stampa, 23.08.18)
Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché.
Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne».
Fuori e contro il sistema dei partiti, indifferenti agli argomenti degli avversari
Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».
Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».
Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (...) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».
Una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico guidato dalla postverità
Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».
E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale».
In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero».
La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».
Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. -Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Totalitarismi: Nolte contro Habermas
di Paolo Simoncelli (Avvenire, 09.07.2016)
Fu una scintilla quel Passato che non vuole passare di Ernst Nolte, pubblicato il 6 giugno ’86 sulla liberale ’Frankfurter Allgemeine Zeitung’; una scintilla che accese le discussioni della cultura europea, divampate allora forse per l’ultima volta nell’estate di trent’anni fa. Ne derivò l’Historikerstreit, la controversia tra gli storici, che la ’New York Review of Books’ del 17 gennaio ’87 definì più pragmaticamente la ’guerra’ degli storici tedeschi.
Non era allora giuridicamente morto lo Stato nazionale, non era ancora nata l’unione europea, e non era ancora caduto il muro di Berlino; dunque tutto l’apparato politico sovietico e ideologico marxista era attivo e reattivo. E Nolte, allievo di Heidegger, già ben noto per i suoi studi sul fascismo europeo, la guerra fredda, e la rivoluzione industriale, ancora insegnava.
Cosa conteneva di tanto incendiario quell’articolo? «L’Arcipelago Gulag - aveva scritto Nolte - non precedette Auschwitz? Non fu lo ’sterminio di classe’ dei bolscevichi il prius logico e fattuale dello ’sterminio di razza’ dei nazionalsocialisti?». Nolte, si noti, non indicava con ciò una precedenza semplicemente cronologica del 1917 rispetto al 1933, ma un ’nesso causale’ tra il ’precedente’ bolscevico e un susseguente effetto nazionalsocialista. Con cui il nazionalsocialismo veniva visto come fenomeno reattivo al male, e certo nel male; ma come una delle manifestazioni del male, non più come l’unica. E già questo era un problema: se infatti gli stermini praticati dai nazionalsocialisti non erano più gli unici, venivano allora ’relativizzati’?
Nolte non aveva affatto negato una pratica di sterminio; piuttosto ne aveva denunciate due, una sola delle quali pero’ storicamente condannata. Ma con ciò, il male non era più assoluto? Evidentemente Nolte aveva infranto il grande tabù del dopoguerra: il divieto di ’comparabilità’ tra i due tragici totalitarismi del ’900, alla luce dei genocidi da entrambi compiuti (per giunta prima dai comunisti). Questa dunque la inaccettabile violazione del canone. Disincagliava la Germania dalla sua colpa?
Passo’ più di un mese prima che l’11 luglio sul ’Zeit’ rispondesse acremente uno dei maggiori esponenti della cultura europea di sinistra, Juergen Habermas, con l’articolo Una sorta di risarcimento danni, vedendo in Nolte il rappresentante delle «tendenze apologetiche della storiografia tedesca », accusandolo di neo revisionismo liquidatorio di giudizi etico-morali sul passato tedesco e, senza entrare nel merito delle questioni sollevate da Nolte, di oscuri progetti politici: fondare un nuovo partito nazionale-conservatore, essere a servizio della Nato per assolvere il passato tedesco rivendicando ruolo e potenza della Germania contemporanea ecc.
Nelle settimane seguenti intervennero con articoli e lettere ai direttori di vari quotidiani tedeschi, numerosi altri storici, da Fest a Hildebrand, da Jaechel a Mommsen, a Hillgruber, sia pro che contro Nolte. Una discussione che se manifestò reazioni a tratti isteriche, aprì prospettive nuove e coraggiose: perché dimenticare tra le vittime le popolazioni civili (donne, anziani e bambini) della Germania orientale travolta dall’avanzata dell’Armata rossa? E perché non dire che la guerra, anziché esser sempre stata ’antifascista’, aveva avuto il suo esordio all’insegna dell’alleanza tedescosovietica (1939-1941)?
Nolte non a caso aveva ricordato come prima del 1945, mai i vincitori avessero «controllato il passato dei vinti in maniera così completa».
E tornarono dunque a intervenire anche i due maggiori protagonisti della controversia. Habermas accuso’ ulteriormente Nolte di aver dato il via alla «politica del pareggiamento» tra i due regimi, e di trasposizione politica del revisionismo «caldeggiato con impazienza dai politici del governo della svolta» (accusando con ciò anche la politica estera dell’allora cancelliere Kohl e la sua particolare sensibilità per la questione del peso sul presente del tragico passato tedesco); Nolte non rispose ad Habermas, dato che non era entrato nel merito delle questioni sollevate, scegliendo di integrare e correggere le sue posizioni, accettando alcune critiche ad esempio sulla ’connessione’ non più diretta ma mediata del rapporto tra Gulag e Auschwitz.
La questione dell’incidenza del passato storico sulla politica contemporanea coinvolse altri intellettuali europei. Furet dopo la pubblicazione del Passato di un’illusione (1995) avrebbe scritto a Nolte riconoscendogli il coraggio intellettuale per aver superato il «divieto di paragonare comunismo e fascismo», che inevitabilmente avrebbe creato «troppi problemi essenziali per l’intelligenza del XX secolo».
Mentre De Felice, parimenti plaudendo al grande coraggio di Nolte, si trovò in contrasto con la tesi ’reattiva’ del fascismo al comunismo, cogliendo nel fascismo una forte componente di sinistra, propriamente eversiva, antiborghese, antiliberale e antiparlamentare. La disputa continuava fuori dagli schemi del politically correct.
Comprensibili le reazioni pavloviane al solo discutere di dogmatica ideologica. Se si attenta al dogma, ci dev’essere un disegno politico sottostante; il coraggio della ricerca della verità fine a se stessa e dunque della libertà di ricerca è inconcepibile.
Renzo De Felice (1929 - 1996) / 1
Preoccupato per l’Italia
di Emilio Gentile 22 maggio 2016
«A più di un mese dalle elezioni ... i dati più significativi mi sembrano due. Il primo ... è quello rappresentato dal nuovo aumento delle astensioni di vario genere ... Il secondo dato più significativo è costituito a sua volta dalla conferma dell’esistenza di un consistente voto fluttuante. In una situazione normale, entrambi questi dati non mi sembrerebbero preoccupanti e, assai probabilmente, li considererei positivi. ... Il fatto è che la situazione italiana non è normale, per cui entrambi questi dati, piuttosto che indici di salute, sono indici di malattia: di una sfiducia diffusa e crescente nel sistema politico-partitico esistente, di una sfiducia che, sotto lo stimolo di accavallantisi stati d’animo, certo indebolisce la democrazia italiana e può persino sfociare in situazioni non dico senza ritorno (ché in un Paese economicamente e socialmente sviluppato e integrato nel sistema politico-economico occidentale come l’Italia ciò è impensabile), ma certo tali da mettere irreparabilmente a terra l’economia nazionale e far cadere l’Italia nel girone dei dannati al sottosviluppo»; «oltre tutto, il processo di integrazione dell’Europa segna il passo e addirittura regredisce, sicché, a livello di massa, da un lato le speranze in essa ... si attenuano e tendono a trasformarsi in sfiducia e, da un altro lato, acquista ancora maggior consistenza la tendenza a occuparsi e preoccuparsi veramente solo dei problemi di casa».
Le parole ora citate, che paiono descrivere l’attuale situazione italiana ed europea, sono state scritte trentadue anni fa, dopo le elezioni europee del giugno 1984, dallo storico Renzo De Felice.
Noto in Italia e all’estero per gli studi sul fascismo e la biografia di Mussolini (e per le aspre polemiche di quanti lo accusarono di subdoli intenti apologetici), a venti anni dalla morte avvenuta il 25 maggio 1996, De Felice è meno conosciuto, se non addirittura sconosciuto, come osservatore della crisi della democrazia. Interamente dedito al lavoro storiografico, egli non era solito commentare l’attualità politica, ma ogni tanto, con qualche intervista, entrava nelle acque dell’attualità, e contribuiva ad agitarle con qualche dichiarazione eterodossa, provocando scandalizzate reazioni. Come quando, alla fine del 1987, propose di cancellare dalla Costituzione le norme transitorie che vietavano la ricostituzione del partito fascista. La vera minaccia per la democrazia italiana non era nel Movimento sociale italiano, che ormai esisteva da decenni, ma si annidava nei cambiamenti della società moderna.
«Nelle società moderne - argomentava la sua proposta De Felice - si sviluppano oggi processi che vanno in direzione contraria a quella della democratizzazione», perché «il potere si concentra al vertice, con tratti di vero oligarchismo, e si frammenta alla base, con tratti di vero anarchismo. Il risultato è che crescono le concentrazioni di autorità e decresce invece, alla base della piramide, la governabilità». Con la burocratizzazione di apparati sempre più incontrollabili, l’avanzamento della tecnocrazia, l’«estrema specializzazione delle conoscenze necessarie a mandare avanti la macchina sociale», era «in atto una sottile riduzione del potere dei cittadini, del loro massimo potere: quello di essere informati sui termini della scelta, e poi di scegliere». Per far fronte alle disfunzioni della democrazia italiana, lo storico riteneva utile una revisione della Costituzione, che doveva essere venerata come «monumento archeologico», ma rispettata come «cosa viva e vivificabile».
È però probabile che per lo storico, la revisione costituzionale per sanare le disfunzioni della democrazia non sarebbe stata efficace senza aver risolto prima la “questione morale”, che fin dal 1984 egli definiva «il nodo della vita democratica italiana», sostenendo che per i partiti veramente democratici un «aspetto non secondario» della questione morale era costituito «dalla chiarezza delle posizioni, dal rifiuto pregiudiziale - educativo direi - dei tatticismi volti a presentarsi nel modo, nei panni ritenuti più accetti alle masse, agli elettori, anche se ciò vuol dire adeguarsi ai pregiudizi, ai miti, alle mode correnti, alla cultura meno viva e, addirittura, di tipo vietamente giornalistico». Scivolando sulla china demagogica, concludeva De Felice, anche i settori più avanzati del Paese sarebbero stati spinti «o a rassegnarsi all’immobilismo o a puntare sulla roulette russa di nuovi esperimenti politici destinati ad aggravare la situazione».
De Felice tornò a esporre le sue preoccupazioni sulla situazione italiana in un convegno a Trieste nel settembre 1993. Trattando il tema del rapporto fra democrazia e Stato nazionale, abbozzò una nuova riflessione sulla crisi della democrazia in Italia, divenuta ormai cronica, considerandola sia come «aspetto fondamentale della crisi degli Stati nazionali e della stessa idea di nazione, oggi sempre più a rischio di far naufragio», sia come manifestazione «della crisi funzionale che travaglia la democrazia (non come principio cioè, ma come effettiva capacità di far fronte a un numero crescente di problemi)». De Felice estendeva la sua riflessione alla crisi della democrazia occidentale, individuandone le disfunzioni nella concentrazione del potere al vertice e della sua frammentazione alla base: due processi «che gli strumenti classici della democrazia non sono in grado di fronteggiare, o lo sono sempre meno (a seconda del grado del “senso nazionale” ancora vivo nei vari Paesi)».
Ventitre anni fa, De Felice ammoniva che le disfunzioni della democrazia occidentale «denunciano ogni giorno di più il rischio o di una demotivazione collettiva, che equivarrebbe alla fine della democrazia stessa, o di un prevalere di gruppi, economici o di mero potere, che non possono che essere un ostacolo mortale sulla via, già tanto accidentata, di una progressiva integrazione di Stati nazionali, in grado di esprimere valori, tradizioni, esperienze ed energie comuni, necessarie a perpetuare una civiltà che - almeno per ora e, credo, ancora per molto tempo - è l’unica che possa farsi carico dei problemi dell’umanità».
Come ho dimostrato altrove (E. Gentile, Renzo de Felice. Lo storico e il personaggio, Laterza 2003), la riflessione sulla crisi della democrazia, svolta con un realismo che appare oggi preveggente, fu per De Felice l’assillo dei suoi ultimi anni, mentre nello stesso periodo studiava da storico la tragedia del popolo italiano nella guerra civile del 1943-45. Egli si definiva uno «storico puro», ma in realtà fin dall’inizio la sua storiografia ebbe una motivazione etico-politica: storico esordiente a ventiquattro anni (era nato a Rieti l’8 aprile 1929), De Felice riteneva che «gli interessi storiografici fioriscano e rinverdiscano sia in funzione di intendere storicamente il presente, sia sulla base degli ideali, dei problemi, degli interessi della società nella quale lo storico vive».
Renzo De Felice (1929 - 1996) / 2
Il misticismo dei giacobini
di Francesco Perfetti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.5.16
L’immagine di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura.
Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il misticismo rivoluzionario (1960).
Emersero subito, da questi scritti, sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti riconducendoli nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la sua tendenza a rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.
Al dibattito sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo.
Per De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata, mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice «intransigente come un domenicano».
La polemica accompagnò sempre la pubblicazione degli studi di De Felice. All’inizio degli anni Sessanta non fu risparmiata da critiche una sua antologia del giornalismo giacobino italiano (I giornali giacobini), che richiamò l’attenzione sul ruolo politico e di rinnovamento sociale della stampa giacobina e fece emergere temi che avevano agitato il mondo giacobino: libertà di stampa e diritto di «censura pubblica», rapporti con i francesi, diffidenza delle masse, difficoltà di formare uno «spirito pubblico» rivoluzionario e via dicendo. Dagli studi di De Felice - come dimostrò anche il volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a Cantimori - emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente variegato e composito.
La pubblicazione, nel 1965, di Italia giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano» avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato».
Gli avvenimenti successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario», venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione», ma come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo per appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi territori utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse dell’erario, sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella d’Italia. Invece, Bonaparte aveva presentato la campagna come «guerra rivoluzionaria», ma lo aveva fatto per facilitarsi le operazioni militari e impostare una politica personale da imporre a Parigi.
In conclusione, De Felice faceva vedere come sia la politica del Direttorio sia quella di Bonaparte, diverse nelle premesse, avessero finito, dal punto di vista italiano, per risultare identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle ricchezze italiane e a impedire la creazione di governi popolari dotati di prestigio e forza propri e capaci di opporsi alla politica di sfruttamento economico della penisola o a scambi franco-austriaci o franco-spagnoli di territori italiani. Il che spiegava perché le amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati dai francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese.
Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il triennio giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva invece che «il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».
Gli scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria del fascismo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
ORIGINI DEL TOTALITARISMO. LA TESI DI HANNAH ARENDT NON CONVINCE.
Emilio Gentile, con "La via italiana", lo dimostra e getta luce sul nostro stesso presente
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
Novecento
Lo sterminio sotto la lente
Abram de Swaan fa una ricognizione della violenza di massa, analizzando la mentalità che si cela dietro l’orrore: dissente dalla tesi di Hannah Arendt sulla «banalità del male»
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.15)
Il Novecento ha una pessima reputazione fra la gente comune e fra gli studiosi. Teatro delle carneficine di due guerre mondiali, di genocidi e di stermini per motivi razzisti, etnici, religiosi, politici, ideologici, è considerato il secolo più violento della storia umana. «Nel secolo scorso, la violenza di massa nei confronti di persone inermi ha causato un numero di vittime oscillanti tra il triplo e il quadruplo di quelle della guerra: almeno cento milioni, ma verosimilmente assai di più». Con questo macabro calcolo Adam de Swaan, sociologo e psicanalista, inizia l’analisi della mentalità dell’omicidio di massa, in un libro che lascia nel lettore un senso di orrore, imponendogli però gravi riflessioni sulla natura dell’uomo e sulla sua disponibilità a diventare un carnefice.
De Swaan ha studiato le pratiche di annientamento collettivo messe in atto con sistematica crudeltà da forze armate organizzate, sostenuto dallo Stato, contro popolazioni inermi, che sono state prima «compartimentate» e «disidentificate», secondo la terminologia di de Swaan, cioè sono state separate, isolate e condannate dalla propaganda di regime come persone nocive alla comunità razziale, etnica o ideologica, con la quale si identificano i carnefici.
Chi sono i carnefici di massa? Cosa li spinge a compiere efferate violenze su civili indifesi, donne e bambini compresi, fino a sterminarli? Secondo alcuni studiosi, i carnefici sono persone ordinarie, che in determinate situazioni diventano criminali perché sottoposte agli ordini o perché incapaci di pensare e di agire consapevolmente. La filosofa Hannah Arendt, che seguì a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, giudicò il criminale nazista un burocrate dell’ingranaggio genocida, zelante esecutore perché incapace di pensare: nella sua insignificante mediocrità, Eichmann incarnava, secondo la Arendt, «la banalità del male».
Altri studiosi attribuiscono la genesi dello sterminio di massa alla modernità: «L’età moderna è fondata sul genocidio ed è nutrita di genocidi», afferma il sociologo Zygmunt Bauman. Nell’età moderna, non solo le dittature militari e i regimi totalitari hanno praticato l’assassinio in massa: lo hanno fatto anche le democrazie imperialiste contro le popolazioni indigene. «La pulizia etnica omicida è un problema della nostra civiltà», «il lato oscuro della democrazia», secondo il sociologo Michael Mann, il quale asserisce inoltre che sono «le normali strutture sociali a spingere la gente comune a commettere omicidi e a partecipare alla pulizia etnica».
Da queste interpretazioni de Swaan dissente in modo deciso e chiaro, perché finiscono per assolvere i carnefici reali, negando la loro personale responsabilità. Egli critica il giudizio della Arendt sulla «banalità del male», osservando che non può esser considerato “banale” un convinto fanatico nazista come Eichmann, «che mostrò una grande pervicacia nell’organizzare e attuare espulsione, deportazione e sterminio di milioni di ebrei infierendo talvolta sulle vittime più di quanto richiedessero gli ordini ricevuti».
L’isolamento, la deportazione, lo sfruttamento bestiale, lo sterminio di milioni di persone, aggiunge de Swaan, «non hanno nulla di banale. Definirli tali è una pura sciocchezza». Nello stesso senso, egli giudica «piuttosto sorprendente» definire «normali strutture sociali» i campi di sterminio di Hitler, i campi di eliminazione di Pol Pot, i massacratori hutu del Ruanda. Infine, de Swaan contesta l’attribuzione di una congenita vocazione genocida alla modernità, ricordando che sin dalle loro origini «gli esseri umani hanno massacrato i propri simili. Ogni guerra, ogni battaglia si concludeva con saccheggi, incendi, stupri di donne sconfitte, e con la riduzione in schiavitù o con lo sterminio dei nemici sopravvissuti».
Basta sfogliare i grandi libri delle antiche civiltà per leggervi frequenti descrizioni di stermini di popolazioni inermi da parte di eserciti conquistatori. Narra l’Iliade che Agamennone ordinò che nessuno dei troiani doveva «sfuggire all’abisso di morte, per nostra mano, neanche chi è ancora nel ventre della madre, se è maschio, ma tutti spariscano insieme con Troia». I libri del Vecchio Testamento raccontano una sequela ininterrotta di carneficine di donne e bambini, compiute per volere del Signore nelle città conquistate da Israele. Quando Giosuè attaccò Gerico, i suoi soldati «sterminarono tutto quanto era nella città, uomini e donne, giovani e vecchi, perfino i buoi e gli asini passarono a fil di spada». Poi Giosuè conquistò Azor e «passò a fil di spada tutti quelli che vi si trovavano, votandoli allo sterminio». E quando gli israeliti fecero guerra alla tribù di Beniamino ebbero l’ordine di uccidere «gli abitanti di Iabes di Galaad, comprese donne e bambini».
Le cronache medievali raccontano numerosi gli omicidi di massa. Al tempo della prima crociata, nel 1096, i soldati di Cristo massacravano gli ebrei in tutte le città che attraversavano: a Magonza, in un solo giorno «mille e cento anime sante furono uccise e massacrate, bambini e lattanti»; poi, conquistata Gerusalemme nel 1099, i crociati, presi da «divino furore», passarono a fil di spada i musulmani, uomini e donne: «Nelle strade della città si potevano vedere mucchi di teste, mani e piedi», «gli uomini cavalcavano con il sangue fino alle ginocchia e alle redini».
Lo sterminio degli inermi viene dalla notte dei tempi. Secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, attraversando tutti i continenti, è giunto fino ai giorni nostri. E minaccia di continuare nei giorni che verranno. L’età moderna non ha inventato l’omicidio di massa, non ha iniettato la crudeltà genocida nell’essere umano, ma certamente ha messo a disposizione dei carnefici nuovi mezzi organizzativi, tecnici, culturali, per rendere lo sterminio degli inermi più vasto ed efficiente.
Nessun male è banale, e non si può dimostrare che in ciascuno di noi, persone ordinarie, dorme un potenziale carnefice di massa. Dopo tutto, se moderni sono i genocidi, moderna è anche l’indignazione che essi suscitano e la volontà di condannare chi li compie. Fra questi due opposti aspetti della modernità, c’è posto per la speranza, che è l’ultima a morire, come si dice. Purché non sia uccisa prima, inerme com’è.
Esce un saggio dello storico che rilegge quello che è accaduto 90 anni fa “Fin dal principio Mussolini ebbe una chiara intenzione totalitaria”
La marcia del dittatore
Gentile: “De Felice aveva torto, il regime fascista iniziò nel 1922"
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 27.10.2012)
«La marcia su Roma è stato uno degli eventi più tragici del Novecento, ma a distanza di novant’anni si tende a caricaturizzarla in “opera buffa”. Ma come è possibile che da una goffa kermesse sia scaturita la tragedia del fascismo italiano?». Emilio Gentile è appena rientrato dall’Università di Harvard, dove ha tenuto una lezione sulla marcia che approdò nei dintorni della capitale il 28 ottobre del 1922. Degli storici italiani è il più tradotto all’estero, e tra gli studiosi del regime fascista vanta un indiscusso prestigio. Il suo ultimo lavoro è una ricomposizione insolita di materiali raccolti nel corso di quarant’anni di ricerche, una sorta di narrazione storica dal ritmo incalzante che sin dal titolo - E fu subito regime (Laterza, pagg. 320, euro 18) - enuncia una tesi storiografica in contrasto con quella di molti storici, incluso il suo maestro Renzo De Felice. E ridimensiona il ruolo di Mussolini, ridotto da protagonista a comprimario.
Molti storici fanno nascere il regime con le leggi liberticide del 1925. Lei non è d’accordo.
«No. Fin dal principio Mussolini ebbe una chiara intenzione totalitaria. E il regime s’impose immediatamente dopo la marcia. Basta leggere le testimonianze dei contemporanei - Amendola o Salvatorelli - che da subito cominciarono a usare la parola regime in un’accezione nuova, intendendo la sottomissione dello Stato a un partito armato».
Secondo De Felice, invece, il duce non aveva allora una chiara volontà autoritaria.
«De Felice scrisse anche che il fascismo al principio, pur se contrario alla libertà che aveva contrassegnato lo Stato postunitario, non aveva una nitida alternativa a questo Stato. Anche Alberto Aquarone ne rimarcò “l’incertezza” e Roberto Vivarelli riferendosi al primo anno di governo arriva a definirlo una “nebulosa”. Tesi che mi lasciano molto perplesso. Certo Mussolini non aveva allora un dettagliato programma di trasformazione dello Stato, ma era consapevole della natura irrevocabile del suo regime. Anche nel celebre discorso nell’aula “sorda e grigia” annunciò: questa rivoluzione ha i suoi diritti e sarà implacabile. Qualcuno l’ha voluta liquidare come pura retorica, in realtà rifletteva azioni concrete - l’istituzione della Milizia della Sicurezza Nazionale, la violenza squadrista perpetrata con arroganza - che segnavano la rottura irreversibile con le istituzioni liberali».
Però molti contemporanei non compresero la drammaticità della marcia, liquidata in qualche caso con accenti grotteschi. E la tendenza alla caricatura è stata poi ereditata da alcuni storici.
«Sì, soprattutto dalla storiografia anglosassone ma anche da noi. Salvemini fu tra i primi a definirla “un’opera buffa”. E più di recente Donald Sassoon l’ha ritratta come patetica “adunata di utili idioti”. Il problema è come mai da un evento così ridicolizzato abbiano avuto origine vent’anni di minaccia mortale alla democrazia in Europa. Ma la “storiografia sarcastica” - diciamo così - non è la sola che tende a spegnere la portata di quegli eventi. In un recente lavoro pubblicato dal Mulino, uno studioso sottile come Sabino Cassese finisce per chiedersi se davvero sia esistito uno Stato fascista, o non si tratti d’una versione ancora più autoritaria del vecchio Stato liberale. Ragionamenti sofisticati, ma mi domando perché vengano applicati solo al fascismo».
Colpisce che a distanza di novant’anni gli studiosi facciano fatica a mettersi d’accordo.
«Ancora si esita a riconoscere il carattere totalitario del regime, considerato meno “fascista” del nazismo. Siamo al paradosso: non si vuole ammettere una realtà storica che è documentata dalla stessa consapevolezza dei contemporanei. Nel 1923 Salvatorelli e Amendola, Sturzo e Matteotti parlavano già di “totalitarismo”, identificato nella prevaricazione del fascismo armato sullo Stato. Vaneggiavano? Dobbiamo paragonarli ai bambini della famiglia Darling che credevano nell’isola che non c’è? Peccato che “l’invenzione” abbia portato persecuzione e in taluni casi perfino morte».
Ma lei come spiega questa infinita discussione storiografica?
«C’è difficoltà a prendere sul serio il fascismo italiano, le cui responsabilità vengono alleggerite nel confronto con le dittature segnate dal terrore di massa. Ma il carattere totalitario di un regime non si misura dal numero delle vittime, ma vedendo se l’assetto di quel regime renda possibile o meno fare vittime».
Nell’introduzione del suo ultimo libro, il terzo volume della Storia delle origini del fascismo, Roberto Vivarelli se la prende con quegli studiosi che «discettano di un fenomeno fascista», schiacciando l’esperienza italiana su quella del nazismo tedesco. Secondo Galli della Loggia, che ne ha scritto sul Corriere, il bersaglio è proprio lei, «rappresentante italiano di una imperversante storiografia anglosassone».
«Il libro di Vivarelli non l’ho ancora letto, escludo però che si rivolga a me in quel modo: non credo d’essere sospettabile di “discettare di un fenomeno fascista” senza confrontarmi con le vicende effettive del movimento di Mussolini. Quanto a Galli della Loggia, che devo dire? Evidentemente non ha mai letto un rigo di quel che ho scritto dal 1975 a oggi».
Nella sua ricostruzione delle origini del fascismo Vivarelli attribuisce una grande responsabilità al violento sovversivismo socialista: i primi a cominciare, in sostanza, furono i rossi.
«Ma non c’è alcun rapporto diretto tra la violenza del massimalismo socialista e la violenza fascista. Quando in Italia si afferma lo squadrismo, il pericolo bolscevico non esiste più. La paura del comunismo può essere stata una delle condizioni che hanno dato origine al fascismo, ma finché dura il cosiddetto “biennio rosso” il fascismo è un fenomeno marginale. Esso cominciò ad affermarsi quando il socialismo entra in crisi. E poi non c’è proporzione tra violenza rossa e violenza nera: i socialisti non hanno mai assaltato le case della borghesia né i circoli degli altri partiti; i fascisti applicano alla politica le pratiche da guerra civile. Questi i fatti. Naturalmente l’interpretazione può variare, ma non si può dire - come ha fatto Nolte - che Auschwitz è conseguenza del Gulag. È polemica, e basta».
Tradizionalmente la marcia su Roma viene considerata il capolavoro politico di un uomo solo, Benito Mussolini. Lei ne ridimensiona il ruolo.
«Sì, fu assai meno determinante di quanto solitamente si pensi, sia durante la marcia che nei primi tre anni di governo. Un ruolo decisivo fu esercitato dal quadrumviro Michele Bianchi, che del moto insurrezionale fu il primo e più deciso fautore. Nel mio racconto Mussolini è un leader che tende ad assecondare più che ad anticipare o decidere. E dovrà lottare un bel po’ prima di essere riconosciuto capo indiscusso».
In questo suo lavoro lei insiste molto sull’importanza dell’“attimo fuggente”. La marcia appare come una sequela di “attimi” in cui poteva cambiare il corso della storia.
«Bisogna tornare a raccontare la storia non giudicandola a posteriori, ma facendo parlare i fatti man mano che si svolgono. A decidere non sono mai le grandi strutture, astratte entità o anonime forze collettive, ma gli esseri umani, messi di volta in volta davanti a una scelta. Trovo sbagliato interpretare il fascismo come il risultato della debolezza dello Stato liberale. Che significa? Non è lo Stato liberale che cede, ma gli uomini incapaci di prendere decisioni adeguate. Ministri come Amendola, Taddei, Alessio avrebbero voluto stroncare la violenza fascista con le forze armate, però prevalse un’altra linea. Non è lo Stato liberale che sbaglia, ma alcuni dei suoi uomini che non seppero capire. La storiografia liberale ha sempre visto in azione le grandi idee, io mi concentro sulle individualità. Una sorta di storiografia esistenzialista, se possiamo dir così, che rende più viva e drammatica la storia».
L’anniversario
Marcia su Roma, golpe autorizzato
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 27.10.2012)
Novant’anni anni sono un buon tratto di tempo per riflettere su un avvenimento che ha cambiato la storia di un Paese, e ha contribuito a cambiare quella di un continente, e addirittura del mondo. Alludo alla Marcia su Roma, svoltasi negli ultimi giorni dell’ottobre 1922: uno strano evento, presentato spesso come un’allegra scampagnata; nella sostanza, si trattò di una dimostrazione di forza da parte di un movimento politico organizzato in forma di esercito, con il consenso delle autorità militari, nell’inerzia del governo, nel balbettio delle opposizioni, e, soprattutto, nella complicità del sovrano regnante.
L’ascesa al potere di Mussolini fu effetto non della capacità militare dei fascisti, quanto del tradimento dei suoi doveri costituzionali perpetrato dal capo dello Stato, il re Vitto-rio Emanuele III, complice l’inettitudine della classe politica, pronta all’abbraccio, rivelatosi poi mortale, con i fascisti, oppure convinta che si trattasse di un fenomeno transitorio e trascurabile. Fu dunque un atto eversivo, ma con il consenso dell’autorità, dai più alti gradi, fino alle sedi periferiche del potere civile e militare, largamente occupate dagli squadristi, senza incontrare resistenza.
MAI SI ERA vista una mobilitazione insurrezionale di tale portata nella storia nazionale, anche se la Marcia fu poca cosa, anche per la disorganizzazione, la difficoltà dei collegamenti e delle comunicazioni. Verso Roma si diressero, la mattina del 28 ottobre, circa 14 mila camicie nere, che dopo la “vittoria”, il giorno 30, divennero circa il doppio.
La Marcia - che ebbe come ispiratrice quella di D’Annunzio su Fiume del settembre ‘19 - e seguì all’adunata di Napoli, di pochi giorni prima, dove 30-40 mi-la camicie nere occuparono la città, per tre giorni (accolti dai saluti di Enrico De Nicola e dagli applausi di Benedetto Croce), avvenne solo nelle zone centrali del Paese, verso la capitale, a partire da Perugia dove si era installato il “quartier generale”, in un albergo di lusso, il Brufani, dalle cui suites i quattro capi designati (Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare De Vecchi, poi insigniti del titolo di “quadrumviri”), impartivano ordini, più o meno rispettati, mentre consumavano drink. Nessuno di loro prese parte alla camminata, e neppure il “duce”, rimanendo al sicuro a Milano, alla sua scrivania di direttore del Popolo d’Italia, pronto, come notarono non pochi osservatori, alla fuga, essendo Milano a meno di un’ora dal confine svizzero: un tragitto che poi fu costretto a sperimentare nell’aprile del ’45, con gli esiti che sappiamo.
Mussolini aveva espresso chiaramente la propria filosofia opportunista e illiberale, in articoli e discorsi, affermando che il fascismo intendeva giungere al potere, con le buone o le cattive. A nessun magistrato, a nessun ministro venne in mente che si trattava di minacce all’ordine costituzionale, minacce che, da almeno due anni, i fascisti, organizzati in “squadre d’azione”, armate di tutto punto, provviste di mezzi di locomozione, stavano traducendo in pratica, ai danni di socialisti, comunisti e, meno, cattolici. In quelle convulse giornate del 27-30 ottobre ’22, i fascisti, peraltro divisi e in contrasto fra di loro, portarono avanti sia la linea militare ed eversiva, sia quella politica, trattativista.
VOLEVANO arrivare al governo, e davanti all’arrendevolezza delle autorità, nel silenzio della politica, alzarono ripetutamente la posta. Si sarebbero accontentati di qualche ministero, e finirono per avere la nazione, avviando, all’indomani della Marcia, con il famigerato discorso del bivacco (“Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli”), la trasformazione dello Stato liberale in regime totalitario. I fatti dell’ottobre furono quindi il punto d’arrivo di una violenza sistematica contro le organizzazioni e le strutture del movimento proletario, nelle campagne e nelle città.
La Marcia segnò il salto di qualità, almeno simbolicamente: attacco diretto allo Stato ma, ecco il paradosso, in nome della sua difesa dal “bolscevismo”, ossia, le lotte operaie e contadine. Interrotta per ben due volte in seguito all’emanazione del decreto di stato d’assedio da parte del Governo Facta, per due volte respinto dal re, la Marcia si risolse in una parata per le vie di Roma, non senza violenza (per esempio nel quartiere “rosso” di San Lorenzo), mentre un telegramma a Mussolini lo invitava a Roma per formare il governo.
VIAGGIÒ in vagone letto, affacciandosi via via dal finestrino per discorsi alla folla, e giunto alla meta si recò in albergo, dove si cambiò d’abito, lasciando quello civile per una divisa militare, al sovrano che lo attendeva al Quirinale, disse che si scusava per gli abiti sporchi e impolverati per la “battaglia”, ma che gli portava “l’Italia di Vittorio Veneto”.
Il “ventennio” cominciava con una tragica pagliacciata, che era l’altro volto del colpo di Stato monarchico; si sarebbe concluso, provvisoriamente, con un’altra buffonata, l’arresto di Mussolini nella notte del Gran Consiglio, il 25 luglio ’43 che, tecnicamente, fu un altro colpo di Stato del re, che tuttavia non pose fine al regime, la cui catastrofe fu accompagnata da quella della nazione nel doloroso biennio ’43-45.
Ma, all’azione eversiva chiamata “Marcia su Roma” i consensi furono ampi, dal Corriere della Sera alla Confindustria. Rispetto al tragico “biennio nero”, la Marcia si concluse senza quasi colpo ferire, un dato tranquillizzante che in realtà poteva significare, come ebbe a notare un osservatore, Luigi Salvatorelli, “scarsezza di serietà morale”. Un dato che non ci lascia molta speranza per il futuro dell’Italia.
La marcia su Roma
Le cinque cause della dittatura. Come il fascismo conquistò il potere
di Giovanni Belardelli (Corriere della Sera, 27.10.2012)
Alle 9 del mattino del 28 ottobre 1922, quando ormai era chiara la dimensione assunta dalla mobilitazione delle squadre fasciste convergenti su Roma, il presidente del Consiglio Luigi Facta si recò dal re per ottenerne la firma in calce al decreto che istituiva lo stato d’assedio. In questo modo, con il passaggio di tutti i poteri dall’autorità civile all’autorità militare, l’azione sediziosa dei fascisti, numerosi ma male armati, avrebbe potuto essere facilmente stroncata. Come è universalmente noto, quella firma non vi fu e lo stato d’assedio, benché già annunciato dai telegrammi inviati ai vari comandi militari, non entrò mai in vigore. In questo modo era aperta la via che di lì a due giorni avrebbe condotto Mussolini a ricevere l’incarico di formare un nuovo governo.
Sì è discusso molto sulle ragioni che indussero il re a quella decisione così gravida di conseguenze: tra esse, ebbe certamente un peso di rilievo il timore che l’esercito potesse rifiutarsi, ove fosse stato necessario, di sparare su dei rivoltosi che erano spesso ex combattenti e proclamavano di difendere la patria minacciata dai socialisti. In ogni caso, al punto in cui erano giunte le cose alla fine di ottobre del 1922, il fascismo era ormai l’attore chiave della scena politica italiana e una sua emarginazione appariva sostanzialmente impossibile.
Le ragioni che in soli tre anni e mezzo dovevano condurre Mussolini dalla fondazione, nel marzo 1919, di un minuscolo raggruppamento politico come i Fasci di combattimento alla presidenza del Consiglio furono varie. Una parte della responsabilità della vittoria fascista va attribuita al ceto politico liberale, soprattutto per l’illusione di poter utilizzare il movimento delle camicie nere al fine di riconquistare un’egemonia politica (e parlamentare). Un’egemonia che nel 1919 le varie e frastagliate forze liberali avevano perso a causa sia della nuova legge elettorale proporzionale, sia della nascita, per la prima volta da che esisteva lo Stato unitario, di un partito cattolico, il Partito popolare. In quella situazione la formazione di stabili maggioranze era resa molto difficile sia dalla diffidenza dei liberali a collaborare con i popolari (una diffidenza, peraltro, ricambiata), sia dall’impossibilità di una loro collaborazione con un Partito socialista nel quale la corrente riformista era di fatto ostaggio di una maggioranza su posizioni nettamente rivoluzionarie.
Una grande responsabilità nel determinare le condizioni che favorirono l’avvento al potere di Mussolini, probabilmente la responsabilità principale, la ebbe appunto il Partito socialista, uscito dalle elezioni del 1919 come la maggiore forza politica per numero di deputati. Fu da quel partito che venne allora il primo attacco allo Stato liberale durante il cosiddetto «biennio rosso» 1919-20, nell’illusione di poter realizzare la «dittatura del proletariato» e la «socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio». Si trattava di un programma sicuramente velleitario. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare i socialisti massimalisti come null’altro che dei rivoluzionari da operetta. La minaccia di una rivoluzione di tipo bolscevico, fondata o meno che fosse, alimentò infatti nel Paese un timore ben reale che fu all’origine delle simpatie per le camicie nere di tanti appartenenti ai ceti medi, disposti a considerare la violenza squadrista come una difesa - eccessiva nei modi ma giusta nella sostanza - delle istituzioni.
Proprio una valutazione - o meglio un’illusione - del genere doveva favorire un altro fattore decisivo del successo fascista: la tolleranza verso le azioni illegali dello squadrismo da parte di molti appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura. Non meno importante nell’alimentare le simpatie per il fascismo fu la durissima campagna socialista contro il conflitto da poco terminato, che a una parte dell’opinione pubblica apparve come un intollerabile insulto ai molti che in quella guerra avevano combattuto, perdendovi spesso la vita.
Alle elezioni del novembre 1919 il movimento di Mussolini si era presentato soltanto a Milano, ottenendo un numero di voti irrisorio, ciò che sembrava annunciare la sua prossima uscita di scena. Due anni dopo raggiungeva invece i 200 mila iscritti (il doppio di quelli di un Partito socialista ormai stremato dalle violenze fasciste) e si affermava sempre più come il principale protagonista della politica italiana: nelle elezioni del 1921 i fascisti, alleatisi con le forze liberaldemocratiche, mandavano alla Camera 35 deputati (e molti rimasero allora colpiti dalla loro età media, 37 anni, che dava concretezza anagrafica alla canzone Giovinezza).
La causa principale di questa impetuosa crescita stava nello squadrismo, cioè nella reazione armata contro le organizzazioni socialiste cui i fascisti diedero vita nelle campagne centrosettentrionali (e in Puglia) a partire dalla fine del 1920. Non a caso lo squadrismo si sviluppò nelle stesse zone del Paese in cui le organizzazioni socialiste utilizzavano forme di coercizione e di violenza ai danni dei proprietari terrieri, spesso piccoli e medi, che ora vedevano nell’azione violenta del fascismo una sacrosanta reazione contro i «rossi». Si trattava di un meccanismo che è stato descritto molto efficacemente, anche nei suoi risvolti psicologici, nel romanzo di Antonio Pennacchi Canale Mussolini; protagonista del libro è infatti una famiglia di mezzadri della Bassa Padana che aderisce al fascismo dopo essere stata fatta oggetto di una violenta azione intimidatoria da parte dei socialisti.
Lo squadrismo fu essenziale nel portare Mussolini al successo non solo perché distrusse gran parte delle organizzazioni socialiste, facendo trasmigrare centinaia di iscritti nei nuovi sindacati fascisti messi in piedi in quattro e quattr’otto. Fu essenziale anche perché gli fornì una risorsa politico-militare che nessun altro possedeva. Veramente decisiva fu però la grande abilità del futuro Duce nello sfruttare politicamente la forza dello squadrismo, giocando per così dire su due tavoli: da una parte dichiarava la propria disponibilità a costituzionalizzare il fascismo, cioè a ricondurre lo squadrismo nell’alveo della legalità, dall’altra continuava invece a lasciare mano libera alle azioni violente. A partire dalla primavera del 1922 queste azioni si fecero anzi più intense arrivando all’occupazione di intere città, come Bologna o Ferrara.
Per mesi, fino al giorno stesso della marcia su Roma, Mussolini condusse trattative segrete con i principali esponenti della classe dirigente liberale, mandò messaggi rassicuranti al re e ai vertici militari, lasciò intendere che si sarebbe accontentato di una partecipazione di qualche ministro fascista al governo. In realtà puntava a una vittoria completa, che lo vedesse alla testa di un nuovo esecutivo. La marcia su Roma (benché in varie località del Centro-Nord comportasse l’occupazione di prefetture, questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi) doveva servire non a conquistare davvero il potere manu militari, ma a premere appunto sul re e sui maggiorenti del liberalismo perché si arrivasse a un governo presieduto dal leader fascista.
Si trattava di una strategia evidentemente rischiosissima, ma in qualche modo inevitabile. Vero o presunto che fosse, il «pericolo bolscevico» - che tanti consensi aveva portato al movimento dei fasci - ormai non esisteva più, annientato proprio dalla violenza squadrista. Per contro si faceva sempre più probabile una soluzione parlamentare della crisi politica italiana, magari con un ritorno di Giovanni Giolitti al potere. Fu per evitare un rischio del genere che Mussolini decise di troncare gli indugi e di fissare la marcia su Roma per il 28 ottobre.
Se il re non firmò lo stato d’assedio fu anche perché ritenne, come un po’ tutto il vecchio establishment liberale, che fosse inutile arrivare a uno scontro, che rischiava di ristabilire l’ordine al prezzo di molte vittime, quando ormai sembrava matura la soluzione politica della crisi. Una soluzione che avrebbe dovuto consistere nell’inserimento dei fascisti in un nuovo governo presieduto da Antonio Salandra. Naturalmente chi puntava a questo si ingannava. Mussolini, che seguiva l’evolversi della situazione da Milano, fece sapere a tutti quelli che lo contattarono di non essere disponibile a nessuna soluzione che non prevedesse per lui la presidenza del Consiglio. Sapeva infatti che, dopo che lo stato d’assedio non era stato firmato, le carte vincenti stavano tutte nelle sue mani.
La mattina del 30 ottobre gli squadristi, fermi da due giorni nei pressi di Roma, cominciarono a sfilare nella Capitale. La sera dello stesso giorno si costituiva il ministero Mussolini: un governo di coalizione, nel quale però i fascisti avevano una rappresentanza nettamente superiore alla loro forza parlamentare. Non rappresentava ancora la dittatura, ma, per i modi in cui era nato nonché per le decisioni che doveva assumere, metteva il Paese su una china pericolosa che alla dittatura avrebbe presto portato.
Un male senza banalità
di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27 gennaio 2012)
Per quanto strano possa sembrarci oggi, è relativamente recente la centralità della memoria dello sterminio del popolo ebraico nella coscienza occidentale. Non che non si sapesse cosa era accaduto: ne parlavano i nostri libri di scuola, ma era presentata solo come una grande tragedia fra gli innumerevoli lutti della seconda guerra mondiale. È stato necessario molto tempo perché si elaborassero in tutte le loro implicazioni l’enormità, la specificità e l’unicità del fenomeno: e anche da parte delle vittime è spesso dovuto passare il tempo necessario perché si potesse trovare la forza di raccontare ciò che appariva indicibile.
Commemorazione da un lato, istituzionalizzata nella giornata della memoria del 27 gennaio, e ricerca e riflessione dall’altro sembrano procedere spesso su binari paralleli che raramente si incontrano. Una felice eccezione è stata rappresentata quest’anno in Italia dal convegno fiorentino su Shoah, modernità e male politico che ha teso a fare il punto su acquisizioni e dibattiti più recenti della storiografia internazionale come della riflessione filosofica e sociologica sulla Shoah.
Le prime caratteristiche che emergono dal complesso dei lavori sono senza dubbio quelle dell’ampliamento e dell’approfondimento della tematica. Ampliamento geografico, in primo luogo: l’apertura degli archivi sovietici consente di includere in maniera documentata territori come quelli della Bielorussia e in parte dell’Ucraina, a pieno titolo inseriti nella fabbrica dello sterminio, come anche del collaborazionismo e delle complicità che ovunque accompagnarono il fenomeno. Viene confermata la partecipazione diretta allo sterminio della Wehrmacht e della polizia, a lungo negata o sottaciuta nell’autorappresentazione tedesca (Browning).
Cadono molti luoghi comuni, fortunati e tenaci, come quelli formulati da Hanna Arendt su Eichmann ne La banalità del male: il vertice dello sterminio non era costituito da grigi burocrati, che si limitavano ad eseguire ordini, ma era formato da personale molto qualificato e competente.
Non era la feccia della società, come ci piacerebbe credere, ma una élite di rango anche accademico: antropologi, giuristi, studiosi di scienze sociali, architetti, persone in ogni caso convinte di perseguire una missione che volevano portare fino in fondo (Collotti). Più che opportunismo, era adesione ideologica, che trovava il suo fondamento in un antisemitismo di massa che nel corso della guerra si poneva l’obiettivo di effettuare una trasfusione di sangue nel corpo dell’Europa, cambiando radicalmente la natura del continente.
Antigiudaismo di massa
Contestualizzare la Shoah è tema arduo ma inevitabile, per non farne celebrazione dai toni quasi religiosi e catartici, e include anche inevitabilmente un elemento di comparazione, largamente usata e forse anche abusata in maniera cervellotica negli ultimi vent’anni. Anche chi, fondatamente, teorizza l’unicità e al tempo stesso l’incomparabilità del fenomeno deve aver preliminarmente compiuto una comparazione che giustifichi il suo convincimento.
Le domande di fondo di una contestualizzazione sono quelle riassunte da Browning in questi termini: «Perché gli ebrei? Perché i tedeschi? Perché nel XX secolo?». Alla prima domanda forse è più facile rispondere oggi, perché sono stati ampiamente ripercorsi i sentieri di un antisemitismo e di un antigiudaismo profondamente radicati nell’Europa cristiana (Battini), di intensità diversa nelle singole fasi di questo percorso, e in grado di riaccendersi nei momenti di crisi, in cui la ricerca di un capro espiatorio dei mali della società ritrovava il suo archetipo ideale.
Meno banale e ricca di implicazioni nuove è la domanda: perché i tedeschi? Oggi può sembrarci una domanda scontata, avendo alle spalle una lunga elaborazione, che è stata anche in parte riflessione autocritica della parte migliore della società tedesca, sulla formazione storica del «carattere tedesco» (Burgio, anticipato in sintesi su questo giornale il 19 gennaio). Ma probabilmente un osservatore della fine dell’Ottocento, chiamato a pronosticare il paese che avrebbe avuto più problemi con la questione ebraica nel secolo successivo, avrebbe indicato nella Francia dell’affaire Dreyfus il luogo più critico, mentre in Germania l’integrazione ebraica appariva in via di definitivo compimento. L’intensità e la rapidità dell’affermazione di un antisemitismo di massa tra le due guerre sono tra i fenomeni più sconvolgenti dell’Europa fra le due guerre, premessa necessaria in Germania della costruzione sociale dello sterminio.
Quello che oggi appare indubbio è il coinvolgimento amplissimo e rapido della «società civile» tedesca e delle sue istituzioni portanti. Già nel 1935 sulle toghe nere dei giudici viene applicata un’aquila che regge fra gli artigli una svastica e una spada, e il ritratto di Hitler incombe nelle aule dei tribunali (Schminck-Gustavus). Una adesione così vasta da rendere problematica e sterile la «denazificazione» del secondo dopoguerra. Per la penuria dei giudici, fu istituito il principio per cui ogni giudice non iscritto al partito nazista doveva farsi affiancare da un magistrato compromesso. I risultati furono generalmente assolutori, e anche le condanne vennero in breve annullate da provvedimenti di grazia.
«Non possiamo buttare via l’acqua sporca, finché non abbiamo acqua pulita», è la frase molto significativa attribuita al cancelliere Adenauer: un problema che era indubbiamente serio (e non ignoto, peraltro, anche a noi italiani, ove si pensi che il primo presidente effettivo della Corte Costituzionale - dopo la presidenza onorifica e inaugurale di Enrico De Nicola - fu Gaetano Azzariti, che era stato anche l’ultimo presidente del Tribunale della Razza). Né le cose sembrano essere andate molto meglio nella Rdt, al di là della propaganda ufficiale, dove una rapida conversione al nuovo partito unico garantiva spesso assoluzione e continuità di carriera.
Il secolo della razza
Ma il problema tedesco ha molte altre dimensioni, e contribuisce a porre nuovi interrogativi proprio l’ultima domanda, quella relativa alla periodizzazione. Non mancano certamente i residui di una retorica sul «secolo assassino» e l’agitarsi del fantasma indistinto del «totalitarismo» onnicomprensivo, la più fortunata tra le molte approssimazioni banalizzanti di Hanna Arendt. È molto stimolante l’emergere di una periodizzazione che pone a cavallo tra Otto e Novecento il processo unificato di un racial century (1850-1945). Quel «secolo della razza» che si dipanò in strettissimo collegamento con imperialismo e colonialismo e che produsse rituali e abituali atrocità, e nel quale per la prima volta l’elemento razziale divenne non accessorio ma fondante di espansione e dominio. Da questo punto di vista, assumono un valore prima ignorato gli stermini coloniali a sfondo razziale compiuti nell’Africa Sud-occidentale tedesca, pratica nella quale, come sappiamo, i tedeschi non furono isolati nel novero delle potenze coloniali.
La logica coloniale, come quella imperialistica, è uno dei termini di inquadramento possibili, ma quello che emerge come il vero tratto comune e indispensabile di tutti gli stermini rimasti nella memoria di quello che potremmo definire «secolo lungo», è soprattutto l’elemento della guerra, incubatrice indispensabile per la costruzione sociale e culturale dei genocidi. Vale per turchi e armeni, come per giapponesi e cinesi, e per tutte le popolazioni decimate nelle guerre coloniali.
E da questo punto di vista, va ricordato che tutta l’espansione ad Est fu concepita dalla Germania come guerra di sterminio (Bartov), che i venti milioni di russi uccisi furono dal punto di vista quantitativo l’apice di questa pratica, e che l’estirpazione del popolo ebraico era parte di un progetto di ristrutturazione razziale dell’Europa, e soprattutto di quella orientale, sbocco prestabilito dello spazio vitale che la Germania riservava a sé.
Theodor Adorno, a caldo, paragonò il trauma di Auschwitz per l’umanità del XX secolo a quello che era stato il terremoto di Lisbona del 1755 per Voltaire e gli illuministi. Ma in realtà la portata dell’interrogazione prodotta dallo sterminio era molto più ampia di quella che aveva potuto coinvolgere credenti o deisti come i philosophes, perché andava oltre i termini della fede e investiva l’umanità nel suo complesso (Neuman). Da allora la coscienza occidentale non ha smesso di chiedersi come è stato possibile, e, anche, se può essere ancora possibile (Seppilli).
Colpisce che in molte relazioni, e soprattutto in quella di Zygmunt Bauman, venga richiamato l’episodio recente di Abu Ghraib nella guerra irachena degli Stati Uniti. Non certo per effettuare una comparazione impossibile o istituire un parallelismo privo di senso. Ma per osservare, come in un esperimento di laboratorio, che in clima di guerra dei tipici ordinary men, ragazze e ragazzi della porta accanto, possano trasformarsi - se dotati di potere illimitato e convinti di portare a termine una missione - in qualcosa che loro stessi avrebbero ritenuto impensabile nella loro vita normale.
STORIA D’ITALIA(1994-2010): IL GRANDE INCIUCIO. NEL 1994 IL MINISTERO DELL’INTERNO AUTORIZZA E REGISTRA IL SIMBOLO DEL PARTITO "FORZA ITALIA". CHE GRANDE SILENZIO: "LA GRANDE RECITA" COMINCIA ...
Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
Politica
Emilio Gentile e le insidie dell’uomo forte
La democrazia recitativa nasce dalla crisi dello Stato
di Marco Gervasoni (Corriere della Sera, La Lettura, 29.05.2016)
Mai come in questi ultimi tempi si è diffusa la trita metafora dell’«uomo solo al comando». E la convinzione che le democrazie, per essere tali, non debbano avere un capo o debbano averlo il più fragile possibile. Ma la filosofia politica, le scienze sociali e last but not least l’esperienza storica ci dicono che è vero esattamente il contrario: più una società è democratica e più ha bisogno di capi forti (o di leader, se si preferisce).
L’Italia liberale e la Repubblica di Weimar sono crollate di fronte ai totalitarismi perché non avevano capi in grado di far fronte ai processi di democratizzazione. Benché non convinti che Emilio Gentile sia totalmente d’accordo con la nostra conclusione, questa ci è sorta spontanea dopo la lettura del suo bel libro Il capo e la folla (Laterza). L’autore, uno dei massimi storici contemporanei, e non solo italiani, si assume qui una sfida temibile e avvincente, risalire fino all’antica Grecia per studiare il rapporto tra capo e folla. In particolare Aristotele si può dire avesse già capito tutto: il demos può condurre uno Stato solo se opportunamente selezionato e guidato, altrimenti si cade nella tirannide; e ad aprire le porte della polis al despota è proprio la folla, cioè il demos bruto, una questione che intriga la filosofia politica dell’età moderna, da Bodin a Machiavelli a Hobbes.
Se gli attori della rivoluzione americana temono la folla e plasmano un sistema che ne impedisca il sopravvento, in Europa i rivoluzionari parigini le folle invece le utilizzano, ora contro il cosiddetto ancien régime ora nelle lotte politiche interne, finendo, come mostrò a suo tempo Furet, per esserne schiacciati. C’è qui, nelle pagine dedicate da Gentile al XIX secolo, un continuo ricorso a Tocqueville, il più lucido analista delle derive dispotiche della democrazia rivoluzionaria e il teorico delle due democrazie, quelle americana che salva la libertà e quella europea che invece la distrugge.
Le pagine di Tocqueville non sono solo profetiche riguardo all’avvento del bonapartismo di Napoleone III, ma pure sull’evoluzione della democrazia del XX secolo. Qui il testimone passa a Gustave Le Bon, uno scienziato sociale oggi ingiustamente dimenticato che, osserva Gentile, coglie un elemento fondamentale: la folla desidera essere domata, è come un fiume in piena finché non trova la sua diga nel capo. Questi però deve disporsi di fronte alla folla come un attore e indossare una maschera. Siamo a quella che Gentile chiama «democrazia recitativa» incarnatasi soprattutto in Charles de Gaulle e in John Fitzgerald Kennedy.
Le previsioni di Gentile sul futuro sono pessimistiche: la democrazia recitativa si è ormai imposta ovunque e, con la sua «personalizzazione», la partecipazione dei cittadini sta diventando un’illusione. Se è così, tuttavia, occorre capire perché i fondamenti della democrazia partecipativa, il parlamento e i partiti, perdano potere e legittimità. Probabilmente perché non sanno rispondere alle spinte di quest’ultima fase della modernizzazione. E perché si fondono, l’uno e gli altri, sullo Stato nazione che, se non è in via di sparizione come molti credono, è un’entità sempre meno visibile: Stato-nazione di cui - è lezione di questi giorni - proprio il demos sembra volere il ritorno.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.05.2016)
La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine - il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti - ci furono cinque morti a Napoli - ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica.
Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 ore, 29.05.2016)
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
Emilio Gentile, la recita della democrazia
di Lelio Demichelis (AlfaDomenica 6 novembre 2016)
«La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Costituzione più bella del mondo, quella italiana. Al popolo, cioè - in democrazia - al dèmos. Ma chi o cosa è il popolo e come esercita la sua sovranità? E, soprattutto, è davvero sovrano oppure la democrazia è solo una finzione, sia pure ben recitata? E ancora: perché spesso il dèmos sovrano rinuncia alla propria sovranità e si fa assente, indifferente o addirittura nichilista (o sadomasochista) e lascia che oligarchie, élites, supposte classi dirigenti, esperti e tecnici (tecnocrazie) di varia natura e populisti di vario colore, ma soprattutto il mercato e la tecnica, lo spoglino di potere e di sovranità? Dopo La Boétie, opportunamente, si torna a parlare di «servitù volontaria», ma perché abbiamo paura della libertà (con Kant ed Erich Fromm)? Tendenza del potere economico e tecnico a divenire autopoietico, quindi senza più bisogno di dèmos e di democrazia, l’autopoiesi essendo sovrana per autoregolazione e per autoreferenzialità? Oppure, istinto/bisogno animale di un capobranco/leader che ci liberi del peso delle scelte?
E dunque, siamo ancora in una democrazia, oggi che la democrazia sembra trionfare nel mondo e tutti invocano più democrazia? Oppure si perfezionerà ulteriormente la postdemocrazia, secondo il Colin Crouch che scriveva «anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»; mentre «la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». Ci siamo dunque ormai adattati, come abbiamo scritto altrove, a una democrazia-non-più-democrazia (anche se 2.0), sottoposta alla sovranità del capitalismo oligopolistico e all’oligarchia degli immaginari collettivi e della fabbrica digitale globale dei signori del silicio?
Sintetizza lo storico Emilio Gentile, grande studioso del fascismo, dei rapporti tra capo e folla, di totalitarismi e di culti politici (ricordiamo alcuni dei molti eccellenti titoli al suo attivo: Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza 1993; Le origini dell’ideologia fascista, il Mulino 1996; La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci 2001; La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza 2006; Il capo e la folla, Laterza 2016): «Ora, tutte le informazioni di cui disponiamo [...] documentano una progressiva, accentuata discesa del popolo sovrano verso una condizione che lo vede sempre più lontano dalla politica, assente alle elezioni, ostile ai governanti, sprezzante o indifferente verso i partiti, deluso e sfiduciato verso le istituzioni fondamentali dello Stato democratico. In altre parole, è il popolo ad essere consapevole di non essere sovrano. E addirittura sembra che voglia rassegnarsi a non esserlo più».
Parole dure tratte dall’ultimo libro di Gentile, uscito nella collana Idòla di Laterza con un titolo provocatorio (ma nel segno della collana laterziana) e insieme riflessivo (che dovrebbe farci riflettere): In democrazia il popolo è sempre sovrano? Falso! Dove «falso» è appunto credere che in democrazia il dèmos sia sempre sovrano, quando non lo è mai veramente e non lo è stato neppure alle origini delle democrazie moderne. Perché quella di Gentile - scritta sotto forma di dialogo tra l’autore e il «Genio del libro» («stanco di essere un ricevitore passivo delle parole che l’Autore scrive sulle sue pagine») - è una riflessione densa e insieme appassionata sulla democrazia tra storia e attualità; tra democrazia dei greci e democrazia moderna, passando per Robespierre e Tocqueville, arrivando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e poi ad Aron, a Crouch e Rosanvallon; e, ancora, tra democrazia e oligarchia («la sola forma di governo democratico», come ha incautamente scritto di recente Eugenio Scalfari).
Gentile parte definendo il concetto: «Democrazia significa potere del popolo. Se il potere appartiene al popolo, il popolo è il titolare della sovranità. Quindi, in uno Stato democratico, sovrano è il popolo e nessun governante può essere al di sopra del popolo o al di fuori del popolo. Dalla volontà dei governati deriva ogni autorità dei governanti». Ma democrazia è spesso solo una bella parola, oggi la democrazia è nuovamente in crisi (ma lo è stata altre volte nella sua breve storia), perché «per certi aspetti, vive in uno stato di crisi permanente, perché deve costantemente rinnovarsi per adeguarsi alle nuove situazioni, spesso impreviste, nelle quali il popolo sovrano si trova a vivere», e quindi anche la globalizzazione di questi ultimi trent’anni costituita dai poteri economici e finanziari, oltre che tecnologici, di ispirazione neoliberista. Poteri senza dèmos ma che hanno deliberatamente svuotato la sovranità del dèmos e hanno altrettanto deliberatamente con-fuso mercato/rete con democrazia, facendoci credere che siano appunto il mercato e la rete le migliori formi di democrazia possibili. Portando la democrazia a un’ulteriore mutazione, il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella che Gentile chiama democrazia recitativa, che ha «per palcoscenico lo Stato, come attore protagonista i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano [...] per cui la sovranità dei popoli ha, in molti casi, la stessa consistenza delle scintillanti corone dei re nel Teatro dei Pupi». Una democrazia dove - sotto la maschera delle elezioni - si assiste al rafforzamento continuo del potere esecutivo (come avverrà, se approvata, con la riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre), secondo gli auspici e i voleri della neoliberista e oligarchica Commissione Trilaterale degli anni Settanta, preoccupata per gli eccessi di democrazia e di diritti sociali di quegli anni. Eccessi, in quanto tali, ovviamente da ridurre.
Scrive Gentile: «La mia valutazione è allora molto semplice: se la democrazia è il potere del popolo sovrano, e il popolo sovrano non ha più potere, la democrazia cessa di esistere o diventa altra cosa da quella che è stata finora. E altra cosa diventa anche il popolo sovrano». E dunque, oggi, crisi della democrazia. Di cui e paradossalmente si è ricominciato a parlare nel momento stesso in cui la storia finiva (secondo Fukuyama) con il trionfo della libertà e della democrazia, producendosi però e conseguentemente un crescente distacco del popolo sovrano dai suoi governanti. «O, per essere più precisi, un crescente distacco dei governanti dal popolo sovrano», chiosa Gentile. I cambiamenti di questi ultimi trent’anni - quelli citati da Gentile ma soprattutto (aggiungiamo) l’individualizzazione (falsa anch’essa) prodotta dalle nuove tecnologie, il neoliberismo e l’ordoliberalismo come forme capitaliste diventate forme sociali, la scomposizione e l’individualizzazione del lavoro, il tempo reale e la morte del futuro e quindi l’incapacità o l’impossibilità collettiva (del demos) di fare discorsi sui fini - hanno accelerato, come scrive Gentile, «la trasformazione della democrazia [...], dove il popolo rimane sovrano nella retorica costituzionale ma nella realtà è desovranizzato». Cioè il potere non gli appartiene più anche perché (aggiungiamo ancora) e diversamente dal passato - quando la sovranità veniva personalizzata in un soggetto riconoscibile anche se astratto - la sovranità oggi appartiene a tecnica e mercato, cioè ad apparati impersonali, apparentemente ancora più astratti ma molto più concreti nei loro effetti sociali e politici. Che impongono al dèmos - come massima razionalità e come massima libertà che l’apparato gli concede - quella di adattarsi al cambiamento che l’apparato produce (e di farlo velocemente), rinunciando alla possibilità e alla capacità di governare l’apparato. Dunque, con Gentile, dire popolo sovrano è richiamare un «idolo», o un mito. Ieri, ma soprattutto oggi.
E allora inevitabili arrivano le domande: come contrastare la deriva antidemocratica (più che postdemocratica) di questi anni? Come dare sovranità vera al dèmos? - quel dèmos che è da sempre il nemico che ogni potere, ogni oligarchia e oggi ogni apparato vuole desovranizzare pur continuamente invocandolo, come oggi il popolo della rete: che non è popolo e non è sovrano della rete (per cui la rete è tutt’altro che democratica).
Gentile si definisce «un amico e non un amante della democrazia», perché gli amanti non vedono i difetti dell’amato/a mentre gli amici sanno essere sinceri, come lo è appunto l’autore con la democrazia. E però, e diversamente da Gentile - ma poco poco - a noi piacerebbe essere amici della democrazia perché ne vorremmo essere anche amanti. Perché la democrazia possa essere davvero (o almeno sempre più, invece che sempre meno) democrazia.
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Emilio Gentile, «In democrazia il popolo è sempre sovrano». Falso!, Laterza, 2016, 144 pp., € 10
LA CONFERENZA DI WANNSEE [942], OVVERO PONZIO PILATO (Titolo del capitolo settimo, del libro di Hannah Arendt, La banalità del male - Il titolo del capitolo ottavo è: "I doveri di un cittadino ligio alla legge").
UNA NOTA SULL’ORIENTAMENTO NEL PENSIERO (1786) - E NELLA REALTA’:
"In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare.
Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione."
(Immanuel Kant: "Che cosa significa orientarsi nel pensiero" [1786], Adelphi edizioni, Milano, 1996, pp. 62-63 ).
PARLA EMILIO GENTILE
Che cosa fu il totalitarismo e chi sono i suoi eredi? Risponde lo storico del fascismo
dell’Università di Roma che pubblica una nuova raccolta di saggi dedicati all’Italia
«Il mito religioso ha sconfitto la politica»
Totalitario è innanzitutto un «metodo» dell’azione politica novecentesca
I conflitti globali generano movimenti emozionali e tesi al Sacro
di Bruno Gravagnuolo
Discutere con Emilio Gentile è sempre arduo e appassionante. Storico di fama internazionale, molisano, 62 anni è studioso «tosto» e dai saldi convincimenti. Maturati alla scuola metodologica di Renzo De Felice (del quale però non si considera allievo). E tra i suoi chiodi fissi, in questi decenni, ve ne è uno in particolare: la natura «totalitaria» del fascismo. Sostenuta contro le «sdrammatizzazioni» all’italiana del regime. E anche contro il giudizio di Hannah Arendt, che del fascismo faceva un regime «autoritario», forse e solo dopo il 1938 con tratti totalitari. In questi giorni esce un nuovo libro di Gentile, in sintonia con questa discussione: La via italiana al totalitarismo (Carocci, pp. 414, Euro 26,50). Con saggi editi e inediti, che corrispondono all’intero percorso «post-defeliciano» dello storico. E nel quale ricordiamo per Laterza libri come La Grande Italia, il mito della nazione; Fascismo, storia e interpretazione; La democrazia di Dio, sugli Usa neocon; e il più recente Fascismo di pietra. La raccolta per Carocci è l’occasione giusta per riaffrontare la questione «totalitaria. Per verificare quanto il totalitarismo (metodo o sistema?) sia lontano. O se invece sopravviva in qualche forma, dove e fino a che punto.
Professore da anni lei insiste sul carattere «totalitario» del fascismo. Se quel regime sia stato totalitario o meno, potrebbe apparire questione accademica. Perché è ancora importante venire in chiaro su questo punto?
«Quello del totalitarismo è problema decisivo per capire il 900 e la società di massa. Assieme ai rischi totalitari che in tale società allignano, e che minacciano le democrazie parlamentari. Per di più il tema è stato individuato in Italia dalla cultura antifascista. Prima ancora del regime a partito unico. E con la denuncia e l’individuazione di un certo metodo politico, al di là dei proclami e dell’ideologia fasciste. Metodo specifico di conquista e di gestione del potere politico, nei pochi anni che vanno dalla nascita del Pnf alla soppressione totale delle libertà».
Ma il totalitarismo è una specifica possibilità insita nella democrazia parlamentare, oppure riguarda in generale gli sconvolgimenti mondiali del 900?
«Non faccio una teoria, una tipizzazione. Traccio un bilancio della situazione nei primi decenni del secolo trascorso. Ebbene, a differenza che in Russia, in Europa all’indomani della prima guerra mondiale, veniva proclamato il trionfo della democrazia parlamentare. Come mai dunque, nell’Italia democratica, era sorta la novità fascista? Da Amendola, Sturzo, Salvatorelli e Basso proviene in quegli anni l’indicazione a studiare un inedito fattore di organizzazione delle masse. Basato non più sulla razionalità, ma sul “mito”, peculiarità che il fascismo detiene in modo assoluto. Poiché, a differenza degli altri movimenti politici - non privi di elementi mitologici - il fascismo si richiamava espressamente al mito, e al suo ruolo rigeneratore. Contro la ragione e in nome della forza, oltre che del mito».
Concezione nichilistica del mito quasi come gioco?
«Non nichilistica, visto che il fascismo si concepiva in positivo come movimento di rigenerazione, in un’Europa giudicata decadente e corrotta a causa della democrazia, del liberalismo e del socialismo. Nel fascismo c’è un’affermazione contro qualcosa di negativo».
Il nichilismo può essere affermativo e culminare nell’adesione al mito arbitrariamente proclamato...
«Certo, chi afferma il mito finisce col crederci. Col credere nella potenza, nell’Impero e nella rigenerazione totale. I fascisti sono gli eredi di tutta la cultura irrazionalitica di fine 800. E pertanto accusano la democrazia di essere immorale, fintamente razionale, a fronte dell’intima verità vitalistica e irrazionale dell’essere umano. E qui il ruolo decisivo di un certo Nietzsche, che finisce con l’ispirare una sorta di brutale realismo della forza istintiva e creatrice. Insomma, un realismo che “smaschera” l’umanesimo razionalista e le sue giustificazioni morali».
Realismo, smascheramento, volontarismo. Qual è allora la differenza col bolscevismo leninista?
«Differenza di fondo. Perché il bolscevismo, benché fortemente caricato di mito, continua a concepirsi sulla base di una concezione “scientifica”. Che attribuisce all’uomo, in quanto essere sociale, il carattere della razionalità. Da un parte c’è chi fa leva sul mito, come ingrediente irrinunciabile dell’umanità. Dall’altra, chi invece critica la “falsa coscienza” delle mitologie. In base alla scientificità marxista, in grado di oltrepassarle. E su questo c’è una continuità tra illuminismo, liberalismo e comunismo».
Abbiamo evocato il discrimine. Ma quali sono le analogie totalitarie tra fascismo e comunismo?
«E qui torniamo al totalitarismo. A parte le differenze di contenuto sociale e culturale, quel che è importante sottolineare sono le analogie di metodo. Ed è di “metodo totalitario” che occorre parlare, non già di regimi totalitari. Il totalitarismo non è un modello del quale verificare di volta in volta la corrispondenza a certi contenuti. Per cui si possa dire una volta che quel regime soddisfa il modello, e un’altra volta no. Il punto non è se il fascismo, il nazismo e il comunismo si siano avvicinati alla “definizione”, o fino a che soglia, se nei fatti o solo nelle intenzioni. Questo modo di ragionare ci porta fuori strada. La strada giusta è un’altra: è il totalitarismo inteso come metodo. Metodo di conquista e gestione monopolistica del potere da parte di un partito unico. Al fine di trasformare radicalmente la natura umana attraverso lo stato e la politica. E tramite l’imposizione di una concezione integralistica del mondo. Con questo identico metodo, c’è chi è proteso all’Impero e al dominio globale, ancorati ad una comunità latina mitica. Chi è volto al dominio mondiale della razza ariana e germanica. E chi infine lotta per il comunismo internazionale, e per l’estinzione dello stato».
Scorge reviviscenze o eredità di questo «metodo» nel contesto del mondo contemporaneo?
«Sono molto cauto nella comparazioni col presente. E nelle riattualizzazioni di un concetto - il totalitarismo - nato in un ben preciso contesto, ormai alle nostre spalle. Non si possono più immaginare partiti unici animati dalla scopo di rigenerare per intero l’uomo. Anche i residui regimi comunisti si sono infatti laicizzati. E nemmeno si può parlare di totalitarismo o di fascismo, a proposito dei regimi islamici o del fondamentalismo. Sarebbe un anacronismo. Anche perché i fondamentalismi sono religiosi. Laddove i fascismi erano secolari, e tentavano di annullare o di incorporare la religione nelle loro mitologie laiche. Al più i fondamentalismi hanno rubato qualcosa ai totalitarismi, utilizzandone certe tecniche, ma pur sempre in un registro religioso. Le democrazie dal loro canto sono vaccinate, e difficilmente potrebbero ripiombare in dinamiche totalitarie. Il nuovo rischio semmai è costituito da due fattori. Il rifiuto del conflitto, tipico di una società moderna e immersa nella globalizzazione: con il contraccolpo identitario ed etnico. E poi la ricerca di mitologemi salvifici, per combattere l’insicurezza identitaria e conflittuale».
A che tipo di fuga nel mito si riferisce? Mito politico, mito religioso o entrambi?
«Al ritorno massiccio alla militanza religiosa. Che non è solo riscoperta dell’esperienza vissuta del divino. Bensì desiderio di riportare la società ad una unità religiosa totalizzante. Per trovare nella religiosità i fondamenti della vita civile. E ciò riguarda sia l’Europa che l’America. Secondo moduli che ripercorrono a contrario le movenze del fondamentalismo islamico».
È il sogno degli atei devoti e dei «teocon» tra Europa e Usa?
«Non proprio e non solo. Specie i primi sono piuttosto dei machiavellici. Che dicono: “la religione ci serve per garantire l’ordine”. Quanto ai teocon, Usa, anch’essi proclamano l’utilità politica di Dio. E solo alcuni sono credenti. Mentre invece Bush jr è un vero credente, un cristiano rinato. Ecco, proprio questa ambiguità rende molto difficile comparare i miti del passato a quelli del presente. Fascismo, comunismo e nazismo si autodefinivano in modo molto chiaro. Oggi dobbiamo parlare di “movimenti emozionali”, tesi a una risacralizzazione della vita collettiva, e non di totalitarismo. La novità politica sta nel voler restituire potere sulla vita civile alle religioni tradizionali. Non già nel professare mitologie di massa secolari. E si tratta di una tendenza mondiale, non soltanto italiana o euro-americana. Basti pensare in America latina ai movimenti “nepentecos- tali”, che non sono la vecchia Teologia della Liberazione di una volta, ma si propongono come alternative totali di vita. Comunitarie, e in definitiva anche politiche».
Il nuovo fascismo. Che cosa resta di quell’eredità
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19.06.2008)
"Un lascito va rintracciato nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari e degli interessi dello Stato"
ROMA. Soltanto uno storico come Emilio Gentile, non nuovo a interpretazioni "scomode", poteva inoltrarsi in un terreno non facile come l’eredità del totalitarismo fascista nell’Italia contemporanea. Un’eredità rintracciata non solo nella continuità degli apparati statali e del personale dirigente, traslocati senza epurazione dal regime fascista a quello repubblicano. Né soltanto nella lunga presenza in Italia del più forte partito neofascista europeo, che dopo il lavacro di Fiuggi partecipa al governo del paese e oggi occupa la terza carica dello Stato.
L’eredità fascista - è la tesi di Gentile - va rintracciata anche "nel modo di concepire e praticare la politica di massa" nella lunga età repubblicana, "nel primato attribuito al partito nei confronti delle istituzioni parlamentari", "in quella costante confusione tra gli interessi dei partiti e gli interessi dello Stato" che ha minato la democrazia.
L’occasione per questa inedita riflessione è l’uscita della terza edizione de La via italiana al totalitarismo, ormai un classico degli studi sul fascismo, tradotto in Europa e in America Latina, ora arricchito di tre nuovi capitoli che investono anche il tema dell’eredità del totalitarismo (Carocci, pagg. 422, euro 26,50). Solo la conoscenza storica del ventennio nero può servire a fare i conti con il suo ingombrante retaggio nel costume, nella mentalità e nei comportamenti degli italiani durante gli ultimi sessant’anni. «Invece prevale ancora oggi la tendenza a caricaturizzare il fascismo, liquidato come regime da operetta, oppure ad alleviarne le gravi responsabilità, quasi non ci fosse mai stato. Tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione d’una collettività è stato cancellato».
Lei ha coniato la formula "defascistizzazione del fascismo". Un’operazione che ha molti responsabili, anche nella cultura antifascista.
«Sì, vi hanno contribuito molto antifascisti oltre che neofascisti o ex fascisti non pentiti, naturalmente con opposti propositi. Per molti anni ha prevalso a sinistra l’immagine d’un regime ventennale sciolto come neve al sole, una dittatura fondata sul niente, solo violenza e opportunismo, sostanzialmente una "nullità storica". Per Norberto Bobbio non è mai esistita una cultura fascista, il fascismo era solo "un’ideologia della negazione". Franco Venturi inventò l’espressione "il regime delle parole". Guido Quazza arrivò perfino a confinarlo nel mondo degli "epifenomeni politici". Debbo confessare che, ancora alla metà degli anni Settanta, mettere in discussione la tesi della "nullità storica" del fascismo significava per molti fare apologia del fascismo».
Parla per esperienza diretta?
«Quando pubblicai Le origini dell’ideologia fascista, nel 1975, fui accusato da Quazza di voler riabilitare il fascismo. Un assurdo storiografico».
Poi c’erano gli ex fascisti o i nostalgici che avevano tutto l’interesse di annacquare la ferocia dittatoriale del fascismo.
«Sì, l’immagine oscillava tra la caricatura e l’indulgenza, specie nella comparazione con il nazismo o lo stalinismo. Cominciò a circolare la tesi che dura tutt’oggi del fascismo modernizzatore, e niente altro. Soprattutto si negava che il regime fosse stato una "dittatura intenzionale", ma piuttosto "preterintenzionale", nata per caso. Questa era la tesi del Movimento Sociale, fino agli anni Ottanta. Mentre tra gli storici, quando pure oggi parlano di totalitarismo fascista, alcuni negano poi il sostantivo con aggettivi come "zoppo", "tronco", "imperfetto" e simili».
Gli stessi protagonisti del fascismo fecero di tutto per ridimensionare le proprie responsabilità.
«Dopo il 1945, vari artefici del regime ci hanno rivelato che in fondo o non erano stati veramente fascisti o erano stati fascisti dissidenti, critici od ostili alla politica totalitaria, come fecero Bottai, Grandi, Federzoni. Forse, se fosse stato vivo Starace, avrebbe sostenuto d’essere stato solo un maestro di educazione fisica per il benessere degli italiani. Un’autoassoluzione impossibile in Germania».
Conseguenza di questo diffuso "negazionismo" fu la rimozione della categoria di "totalitarismo", secondo lei essenziale per la comprensione del fascismo e del Novecento.
«Una categoria che è stata a lungo rimossa dalle scienze politiche e dagli studi storici. Eppure serve a definire un metodo che fu esportato in Europa proprio dal nostro paese. La stessa parola "totalitarismo" fu usata la prima volta dagli antifascisti italiani».
Quando c’era un regime a partito unico?
«No, tre anni prima. E in questa precocità è la genialità della definizione. Pochi mesi dopo la marcia su Roma, quando il governo era ancora parlamentare, personalità come Amendola, Sturzo e Salvatorelli presero a usare il nuovo vocabolo. In fondo il sistema parlamentare non era ancora molto dissimile da quello delle altre democrazie europee, però essi osservarono il partito fascista e come operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di "partito-milizia", incompatibile con la democrazia e inevitabilmente portato a creare "un sistema totalitario"».
Un’intuizione che però poi s’è persa per strada.
«Negli anni Venti e Trenta ebbe grande fortuna, in Europa e negli Stati Uniti, anche grazie agli scritti di Sturzo come Fascism and Italy. Ma dopo la guerra, la categoria di totalitarismo riferita al fascismo fu messa da parte per diversi motivi. Ho detto della "defascistizzazione del fascismo" nella cultura antifascista: il "nulla" non può avere carattere totalitario. Aggiungo che l’uso del termine totalitarismo per indicare il sistema sovietico lo rendeva sospetto agli occhi di intellettuali che simpatizzavano per il Pci».
Ma in questa liquidazione ebbe un grande peso Hannah Arendt, a cui lei dedica un capitolo di severa e argomentata critica.
«Ancora non riesco a capire come una studiosa intellettualmente onesta come lei possa essere stata così approssimativa e confusa. Nel suo libro Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, la Arendt escludeva - fino al 1938 - il carattere totalitario del fascismo. In realtà le sue fonti erano inconsistenti, materiali di propaganda fascista e citazioni di seconda mano. Anche la bibliografia è lacunosa: mi stupisce che non avesse mai letto Fascism and Italy di Sturzo o i saggi di Raymond Aron. Sul piano del metodo, poi, le sue pagine hanno molte incongruenze e contraddizioni».
Ma influenzò radicalmente storici come Acquarone e De Felice. E anche Aron cambiò opinione dopo aver letto il suo libro.
«Sì, la cosa incredibile è che nessuno si è preso mai la briga di andare a verificare le sue tesi. Cosa sapeva veramente la Arendt del fascismo italiano? La sua identificazione del totalitarismo con lo sterminio di massa era così forte ed evidente che sembrò a tutti persuasiva in via definitiva. Nel caso di Acquarone e De Felice, credo agisse in sottofondo un’altra motivazione: una visione sostanzialmente riduttiva del fascismo come autoritarismo sgangherato, che non ebbe mai la coerenza feroce del nazismo e del comunismo. In seguito, De Felice cambiò giudizio».
Questa lettura riduttiva è stata anche favorita dalla mancanza di un Olocausto fascista.
«Non avendo il fascismo la responsabilità d’uno sterminio di massa, esso è potuto scivolare tra le fessure dei totalitarismi nazista e comunista, scuotendosi di dosso lo stigma di regime totalitario».
Ancora oggi la destra postfascista sembra incerta su questa definizione.
«Anche lì c’è molta confusione, mancano ragionamenti articolati. Nel momento in cui Fini riconosce il valore etico e politico dell’antifascismo, rinnega il fascismo e il suo carattere totalitario. Ma è solo una mia deduzione. Il 25 aprile, per il presidente della Camera, è "liberazione dai totalitarismi": ma nel suo discorso non è detto chiaramente che uno di quei totalitarismi fu il fascismo italiano. La confusione, a dirla tutta, alberga anche altrove: diffusa è la resistenza a prendere sul serio il totalitarismo fascista».
Eppure non manca una preziosa memorialistica di tanti giovani che documentarono "l’atmosfera totalitaria" del regime, il suo carattere pervasivo e avvolgente.
«Sì, mi capita di citare spesso una bella pagina di Eugenio Scalfari sulla sua gioventù sotto il fascismo. Se ci fossimo affidati a queste testimonianze, oggi saremmo più consapevoli non solo dell’esperienza totalitaria del fascismo ma anche delle conseguenze esercitate sul modo di far politica in democrazia».
Lei rintraccia questa eredità soprattutto nell’uso dello Stato per fini di partito.
«Sì, la "mistica del partito" che prevale su tutto, come la definiva il repubblicano Mario Ferrara, anche il coinvolgimento emotivo delle masse. Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo - libero dallo sterminio di massa - è una tecnica politica che può essere applicata continuamente in una società di massa. Potrebbe essere adottata anche oggi. Una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione».
Lei pensa che la nostra democrazia sia così fragile da consentire tentativi autoritari?
«Oggi in Europa una dittatura non sarebbe possibile, ma sempre più mi domando se la democrazia non stia diventando una recita: nessuno ci impedisce di essere democratici - siamo liberi di votare, di criticare chi ci governa, di esprimere le nostre opinioni. Compiamo riti democratici, anche con convinzione. Ma le decisioni le prendono in pochi, ai governati non rimane che assecondarle. Una democrazia recitativa».
Regime leggero, parole pesanti
di Ida Dominijanni (il manifesto, 17.06.2008)
«Regime leggero», democrazia non più antifascista ma a-fascista nonché a-politica, aveva disgnosticato giovedì scorso Fausto Bertinotti nella sua analisi delle «ragioni della sconfitta». Un fine settimana e il tema si è arroventato, complici da un lato un’uscita di Giulio Tremonti sull’impoverimento dei ceti medi che comporterebbe un rischio di fascismo, dall’altro le decisioni del governo su intercettazioni, esercito a guardia della sicurezza, emendamento salva-Berlusconi.
Per Eugenio Scalfari (Repubblica), queste ultime sono la prova che «non sarà fascismo, ma è un allarmante incipit verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell’opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle istituzioni»; ragion per cui il Pd farebbe bene a decidere che non c’è più alcuna possibilità di dialogo con il governo.
Per Piero Sansonetti (Liberazione) Tremonti ha ragione oltre le sue intenzioni: il rischio-fascismo s’è già inverato in una «svolta illiberale e autoritaria», che comprende l’interruzione della curva di crescita delle libertà collettive e individuali, alcune rotture dello stato di diritto, la semplificazione del sistema politico a spese del pluralismo e della rappresentanza, il ritorno del classismo, la sostituzione dei valori di solidarietà e giustizia sociale con principi gerarchici e d’ordine. Giudizi che le cautele di tre storici (Piero Melograni, Emilio Gentile, Lucio Villari) intervistati dal Corsera, convinti che il fascismo sia un fenomeno novecentesco non riproducibile oggi, non bastano a controbilanciare. Non chiamiamolo fascismo, ma il problema di una frattura fascistoide della democrazia costituzionale, di un salto di forma della Repubblica (che non coincide con il gioco della sua numerazione in prima, seconda e terza), c’è ed è sotto la vista di chiunque non guardi, per dirla alla Kubrik, «a occhi completamente chiusi».
Il problema, però, non è solo di nome e nemmeno solo di diagnosi, ma di analisi, e ha ragione Paolo Franchi, sul Corsera di ieri, a farlo presente. Gli appelli al risveglio delle opposizioni, scrive Franchi, suonano tanto drammatici quanto poco convincenti, «forse perché sono poco convincenti le analisi che li sorreggono», e anche perché di un rischio-regime si parla dal ’94 in poi a ogni governo Berlusconi, senza che fin qui - e per fortuna - questo rischio si sia effettivamente inverato. «Denunciare con parole di fuoco il rischio che quello che non è capitato finora stia per succedere adesso è sicuramente più facile, ma altrettanto sicuramente meno produttivo, che guardare impietosamente dentro questo quindicennio e dentro se stessi per provare a essere oggi sul serio opposizione, domani governo. Era davvero inevitabile che la transizione italiana avesse un esito di destra?». Domanda ineludibile, eppure a tutt’oggi quasi improponibile, come se per rispondere mancasse la profondità storica - ma 15 anni a far data da Tangentopoli, quasi 20 a far data dall’89, cominciano a essere tanti - o la coerenza di un’ipotesi di interpretazione politica.
Eppure senza porsela e senza tentare di rispondere, è difficile se non impossibile sia la valutazione della deriva di regime, sia l’indicazione di una prospettiva di opposizione o di alternativa. Perché è vero - e Franchi forse lo sottovaluta - che il quadro di oggi è per certi versi peggiore di quello del ’94: per la scomparsa della sinistra (non solo radicale) dalla scena, per la tendenza alla stabilizzazione, e non come nel ’94 alla destabilizzazione, del sistema che il voto del 13 aprile ha espresso. Ma è altrettanto vero - e questo invece lo sottovaluta Scalfari - che le derive di regime che oggi hanno libero corso nell’attività di un governo privo di opposizione erano già tutte, ma proprio tutte presenti nella vittoria berlusconiana del ’94. E che dal ’94 a oggi, non c’è stata nell’opposizione a Berlusconi né chiarezza né costanza su quanto e come andassero avversate e contrastate.
Per scomporre in altre domande la domanda sull’esito della transizione: era inevitabile affidarsi a una soluzione giudiziaria della fine della «prima Repubblica» all’inizio degli anni ’90? Era inevitabile partecipare alla delegittimazione della Costituzione giocherellando con riforme che di fatto servivano solo a disfare lo stato sociale e a rafforzare i poteri dell’esecutivo? O derubricare l’importanza di alcune libertà (si vedano le vicende della legge 40 e dei Pacs) per tenersi buone le gerarchie vaticane? O credere fino in fondo alle metamorfosi democratiche di Fini, o alle buone ragioni settentrionaliste di Bossi? O accettare e incoraggiare forma e vocazione dell’attuale Pd?
Era inevitabile (già dalle leggi d’emergenza di fine anni 70) considerare opzionali i vincoli dello stato di diritto? Soprattutto: era inevitabile sacrificare alla «normalità» della democrazia maggioritaria lo svuotamento della democrazia costituzionale? Sono solo alcuni esempi di domande possibili e obbligate. Non spetta alla destra rispondere.
Intercettazioni: e allora arrestateci tutti
di Marco Travaglio *
L’altro giorno, fingendo di avanzare un’«ipotesi di dottrina», Giovanni Sartori ha messo in guardia sulla Stampa dai «dittatori democratici» e ha spiegato: «Con Berlusconi il nostro resta un assetto costituzionale in ordine, la Carta della Prima Repubblica non è stata abolita. Perché non c’è più bisogno di rifarla: la si può svuotare dall’interno».
«Si impacchetta la Corte costituzionale, si paralizza la magistratura. si può lasciare tutto intatto, tutto il meccanismo di pesi e contrappesi. E di fatto impossessarsene, occuparne ogni spazio. Alla fine rimane un potere ’transitivo’ che traversa tutto il sistema politico e comanda da solo». Non poteva ancora sapere quel che sarebbe accaduto l’indomani: il governo non solo paralizza la magistratura, ma imbavaglia anche l’informazione abolendo quella giudiziaria. E, per chi non avesse ancora capito che si sta instaurando un regime, sguinzaglia pure l’esercito per le strade. Nei giorni scorsi abbiamo illustrato i danni che il ddl Berlusconi-Ghedini-Alfano sulle intercettazioni provocherà sulle indagini e i processi. Ora è il caso di occuparci di noi giornalisti e di voi cittadini, cioè dell’informazione. Che ne esce a pezzi, fino a scomparire, per quanto riguarda le inchieste della magistratura. Il tutto nel silenzio spensierato e irresponsabile delle vestali del liberalismo e del garantismo un tanto al chilo. Che, anzi, non di rado plaudono alle nuove norme liberticide. Non si potrà più raccontare nulla, ma proprio nulla, fino all’inizio dei processi. Cioè per anni e anni. Nemmeno le notizie «non più coperte da segreto», perché anche su quelle cala un tombale «divieto di pubblicazione» che riguarda non soltanto gli atti e le intercettazioni, ma anche il loro «contenuto». Non si potrà più riportarli né testualmente né «per riassunto». Nemmeno se non sono più segreti perché notificati agli indagati e ai loro avvocati. Niente di niente. L’inchiesta sulla premiata macelleria Santa Rita, con la nuova legge, non si sarebbe mai potuta fare. Ma, anche se per assurdo si fosse fatta lo stesso, i giornali avrebbero dovuto limitarsi a comunicare che erano stati arrestati dei manager e dei medici: senza poter spiegare il perché, con quali accuse, con quali prove.
Anche l’Italia, come i regimi totalitari sudamericani, conoscerà il fenomeno dei desaparecidos: la gente finirà in galera, ma non si saprà il perché. Così, se le accuse sono vere, le vittime non ne sapranno nulla (i famigliari dei pazienti uccisi nella clinica milanese, che stanno preparando una class action contro i medici assassini, sarebbero ignari di tutto e lo resterebbero fino all’apertura del processo, campa cavallo). Se le accuse invece sono false (come nel caso di Rignano Flaminio, smontato dalla libera stampa), l’opinione pubblica non potrà più sapere che qualcuno è stato ingiustamente arrestato, né come si difende: insomma verrà meno il controllo democratico dei cittadini sulla Giustizia amministrata in nome del popolo italiano.
Chi scrive qualcosa è punito con l’arresto da 1 a 3 anni e con l’ammenda fino a 1.032 euro per ogni articolo pubblicato. Le due pene - detentiva e pecuniaria - non sono alternative, ma congiunte. Il che significa che il carcere è sempre previsto e, anche in un paese dov’è difficilissimo finire dentro (condizionale fino a 2 anni, pene alternative fino a 3), il giornalista ha ottime probabilità di finirci: alla seconda o alla terza condanna per violazione del divieto di pubblicazione (non meno di 9 mesi per volta), si superano i 2 anni e si perde la condizionale; alla quarta o alla quinta si perde anche l’accesso ai servizi sociali e non resta che la cella. Checchè ne dica l’ignorantissimo ministro ad personam Angelino Alfano.
E non basta, perché i giornalisti rischiano grosso anche sul fronte disciplinare: appena uno viene indagato per aver informato troppo i suoi lettori, la Procura deve avvertire l’Ordine dei giornalisti affinchè lo sospenda per 3 mesi dalla professione. Su due piedi, durante l’indagine, prim’ancora che venga eventualmente condannato. A ogni articolo che scrivi, smetti di lavorare per tre mesi. Se scrivi quattro articoli, non lavori per un anno, e così via.Così ti passa la voglia d’informare. Anche perché, oltre a pagare la multa, finire dentro e smettere di lavorare, rischi pure di essere licenziato. D’ora in poi le aziende editoriali dovranno premunirsi contro eventuali pubblicazioni di materiale vietato, con appositi modelli organizzativi, perché il «nuovo» reato vien fatto rientrare nella legge 231 sulla responsabilità giuridica delle società. Significa che l’editore, per non vedere condannata anche la sua impresa, deve dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni contro le violazioni della nuova legge. Come? Licenziando i cronisti che pubblicano troppo e i direttori che glielo consentono. Così usciranno solo le notizie che interessano agli editori:quelle che danneggiano i loro concorrenti o i loro nemici (nel qual caso l’editore si sobbarca volentieri la multa salatissima prevista dalla nuova legge, da 50 mila a 400 mila euro per ogni articolo, e accetta di buon grado il rischio di veder finire in tribunale la sua società). La libertà d’informazione dipenderà dalle guerre per bande politico-affaristiche tra grandi gruppi. E tutte le notizie non segrete non pubblicate? Andranno ad alimentare un sottobosco di ricatti incrociati e di estorsioni legalizzate: o paghi bene, o ti sputtano. Ultima chicca: il sacrosanto diritto alla rettifica di chi si sente danneggiato o diffamato, già previsto dalla legge attuale, viene modificato nel senso che la rettifica dovrà uscire senza la replica del giornalista. Se Tizio, dalla cella di San Vittore, scrive al giornale che non è vero che è stato arrestato, il giornalista non può nemmeno rispondere che invece è vero, infatti scrive da San Vittore. A notizia vera si potrà opporre notizia falsa, senza che il lettore possa più distinguere l’una dall’altra. Tutto ciò, s’intende, se i giornalisti si lasceranno imbavagliare senza batter ciglio.
Personalmente, annuncio fin d’ora che continuerò a informare i lettori senza tacere nulla di quel che so. Continuerò a pubblicare, anche testualmente, per riassunto, nel contenuto o come mi gira, atti d’indagine e intercettazioni che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini. Farò disobbedienza civile a questa legge illiberale e liberticida. A costo di finire in galera, di pagare multe, di essere licenziato. Al primo processo che subirò, chiederò al giudice di eccepire dinanzi alla Consulta e alla Corte europea la illegittimità della nuova legge rispetto all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali («Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche», con possibili restrizioni solo in caso di notizie «riservate» o dannose per la sicurezza e la reputazione). Mi auguro che altri colleghi si autodenuncino preventivamente insieme a me e che la Federazione della Stampa, l’Unione Cronisti, l’associazione Articolo21, oltre ai lettori, ci sostengano in questa battaglia di libertà. Disobbedienti per informare. Arrestateci tutti.
* l’Unità, Pubblicato il: 15.06.08, Modificato il: 15.06.08 alle ore 15.19
Berlusconismo
di Furio Colombo (l’Unità, 22.06.2008
Vorrei subito chiarire. Non sto dedicando questo articolo al berlusconismo a causa del fatto che Berlusconi è improvvisamente ritornato ai toni incattiviti di quel primo non dimenticato governo, quello che ha portato l’Italia alla crescita zero ma ha garantito al primo ministro tutte le leggi di utilità e convenienza personale, ha dato un colpo durissimo - e notato nel mondo - alla libertà di stampa e ridotto prestigiosi commentatori di prestigiosi giornali a dargli sempre ragione come a Mussolini.
Certo, la lettera del presidente Berlusconi, di cui ha dato compunta lettura il Presidente del Senato Schifani a un’aula di persone probabilmente stupefatte, spinge la scena della vita italiana fuori dalla Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge») e fuori dalla democrazia («La legge è uguale per tutti»). Però, onestamente, come fare a mostrare meraviglia per un leader (questa è la terza prova e la quarta volta) che ha sempre violato la Costituzione e leggi del suo Paese e ne ha imposte altre che poi sono state giudicate, a una a una, incostituzionali dalla Consulta?
Ma tutto ciò senza perdere di vista i suoi interessi personali: primo, Mediaset, salvare dall’onta del satellite il soldato Fede; secondo, le intercettazioni: prigione e multe altissime per chi intercetta i sospetti di delitti odiosi pericolosi, destinati a ripetersi, e per chi, quando gli atti del processo sono legalmente e anzi doverosamente usciti dal segreto istruttorio e legalmente disponibili, osasse pubblicarli. In tutti i Paesi democratici vale il principio che «il processo è pubblico». È una garanzia per le vittime, per gli imputati, ma anche per tutti i cittadini.
Avvocati e giuristi di Berlusconi hanno già dimostrato di non provare alcun imbarazzo nel cambiare le leggi di quei processi che non si sentono in grado di vincere (hanno visto le carte e conoscono la vera storia).
Quanto ai giornalisti indipendenti italiani, sentite Bruno Vespa in una delle sue “rubriche” diffuse in tutta la provincia italiana: «La nuova controversia tra Berlusconi e i magistrati di Milano sembra l’ultima sgradevole puntata di una telenovela cominciata quindici anni fa, quando il Cavaliere decise di abbandonare la dura trincea del lavoro per scendere in campo nella politica. In realtà non è così (...). Il presidente che deve giudicare Berlusconi, Nicoletta Gandus, è un avversario politico. Da molti anni è una star di Magistratura democratica (...). Nel motivare la richiesta di cancellazione delle leggi Schifani, Pecorella, Cirami, Cirielli sostiene che esse sono state motivate al fine di perseguire l’interesse personale di pochi, ignorando la collettività. Si tratta di leggi che hanno devastato il nostro sistema di giustizia (...). Senza entrare nel merito di queste opinioni, può un dichiarato avversario politico giudicare in tribunale il capo del governo che combatte?» (Quotidiano Nazionale, 19 giugno). Avete capito il delitto imperdonabile in un Paese libero? Il giudice Gandus, che deve giudicare Berlusconi, non fa parte della P2. È membro di una libera, civile, legale associazione detta Magistratura democratica.
Inevitabile inviare un pensiero al decoroso silenzio dei 62 arrestati e trecentocinquanta incriminati caduti tre giorni fa nella maxi-retata dell’Fbi contro i più potenti personaggi di Wall Street, portati via in manette tra due ali di operatori di Borsa che per alcuni minuti (succede di rado) hanno sospeso le contrattazioni. Nessuno di loro, personaggi del gran mondo finanziario americano, presidenti di Banche d’affari, patron celebri e celebrati di tutti i musei e gli ospedali di New York (dove alcuni hanno un reparto col loro nome) ha fiatato. Né lo hanno fatto i celebri avvocati a cui si sono affidati. Eppure sanno che, nella tradizione e prassi giudiziaria americana, alcuni giudici sono repubblicani e altri democratici. Alcuni giudici, nei distretti federali in cui questi imputati saranno giudicati sono stati nominati da Carter, alcuni da Reagan, alcuni da Clinton (che in silenzio si è sottoposto a tre diversi processi) e alcuni da uno o dall’altro dei due Bush.
Ma, nella civiltà democratica, i giudici non si scelgono e non si discutono e la ricusazione è ammessa solo per legami d’affari, d’amore o di famiglia di uno dei giudici con una delle parti. Altrimenti mai, per non affrontare il famoso reato americano di “oltraggio alla Corte”, che scatta quando l’imputato, invece di lasciarsi giudicare, si mette a giudicare il giudice. Tutto ciò avviene nel Paese in cui, una volta condannati, non si va in Parlamento, si va in prigione. Particolare curioso (come si diceva una volta sulla Domenica del Corriere): tutti e quattrocento gli arrestati o incriminati di Wall Street erano sotto intercettazione da mesi. Molti dei reati contestati ai grandi di Wall Street, infatti, sono reati tipicamente telefonici, e dimostrabili solo con l’intercettazione, come l’”insider trading” (fornire a uno notizie che devono restare segrete per arricchirsi in due). E nessuno sostiene, pena il ridicolo, di essere vittima di una persecuzione politica. Chi poi, in quel Paese civile, avesse scritto, da titolare del potere esecutivo, una lettera al Presidente del Senato (istituzione legislativa) per levare accuse contro i suoi giudici (istituzione giudiziaria), avrebbe prontamente ottenuto, oltre al ridicolo (in democrazia non si può giocare il potere esecutivo contro il potere giudiziario usando il potere legislativo) una imputazione in più.
* * *
Qui mi devo confrontare con l’iniziativa appena presa dai Radicali, una proposta di legge costituzionale a firma Rita Bernardini, con cui si intende abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Vuol dire che un giudice agisce immediatamente e di propria iniziativa appena ha notizia di un reato. I codici dicono quali. Ovviamente non si tratta di cose futili. L’idea di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale (assente quasi solo nelle legislazioni anglosassoni) è certo meritevole di attenzione e discussione. Per esempio per il fatto che identifica meglio la responsabilità dei giudici e diminuisce il numero dei processi. Stimo i miei colleghi Radicali ma non sono d’accordo.
Chiedo: si può in Italia? In questa Italia? Proprio qui passa la linea di demarcazione. Ci sono coloro che sostengono che, a parte la coloritura manageriale e padronale, non c’è niente di speciale o così diverso in Berlusconi rispetto a ogni altro capo di governo. Non esiste il berlusconismo. E se esiste è qualcosa che riguarda Giannelli o Staino, Vauro o Vincino ma non la politica.
E poi ci sono coloro che vedono il berlusconismo come una potente e ben finanziata spinta del Paese fuori dalla democrazia anche a causa di un controllo mediatico quasi totale, che tende ad estendersi attraverso i premi che derivano dal conquistare benevolenza (Berlusconi è un buon padrone) e dalle punizioni (fino alla riduzione al silenzio) di coloro che - nel suo insindacabile giudizio - sono dichiarati nemici.
In questa Italia l’obbligatorietà dell’azione penale resta l’unica garanzia che potenti e prepotenti, soprattutto sul versante politico e di affari, non restino impuniti.
Cito Emilio Gentile: «Nel 1922 Amendola, Sturzo, Salvatorelli presero a usare il vocabolo “totalitarismo” quando il sistema parlamentare italiano non era ancora molto dissimile dalle altre democrazie europee. Però essi osservarono come il partito di Mussolini operò per conquistare il potere. Ne colsero la natura di partito incompatibile con la democrazia e inevitabilmente destinato a creare un sistema totalitario» (intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 19 giugno). L’obiezione tipica è: «Ma che cosa c’è di più democratico di una valanga di voti per qualcuno noto in tutto, compresi i suoi difetti e i suoi reati?».
Emilio Gentile ha una risposta interessante: «Gramsci fu tra i pochi a comprendere che il totalitarismo è una tecnica politica che può essere applicata continuamente a una società di massa. Potrebbe accadere anche oggi: una tecnica che punta a uniformare l’individuo e le masse in un pensiero unico, usando il controllo dell’informazione». È un’affermazione limpida, logica, difficilmente confutabile se non per ragioni di fede. Ma la fede riguarda i berlusconiani.
Quanto a noi oppositori, quanto a quelli di noi che vedono il pericolo del singolare totalitarismo berlusconiano, non avremmo diritto di avere i nostri Amendola, Sturzo e Salvatorelli?
È con questi nomi e con queste citazioni in mente che chiedo ai miei amici Radicali del Pd, della cui presenza in Parlamento sono lieto come di una garanzia: si può in questa Italia, in cui il giornalista Vespa riproduce all’istante e con convinzione indiscutibile, solo le ragioni del premier imputato; si può in questa Italia in cui il più forte ricusa giudici, accuse, processo in nome della sua forza e dei suoi voti; si può in questa Italia in cui si è già tentata, da parte dell’allora ministro Castelli, una “riforma” che mette tutti i giudici agli ordini di pochi procuratori generali; si può in questa Italia in cui l’opinione pubblica è messa a tacere dal controllo quasi totale dei media, si può introdurre una riforma «anglosassone», cioè di Paesi in cui le istituzioni sono incalzate da un’opinione pubblica bene informata e da una stampa che non dà tregua?
* * *
Vedo nel berlusconismo una forma di potere in espansione, già molto prossima al pericolo citato da Emilio Gentile. Perciò dico no a questo regime e mi spiego.
1 - «Vogliono screditare il potere dei tribunali e decidere da soli che cosa è legalità». Cito da un editoriale del New York Times (19 giugno) che in questo modo propone l’accusa più grave alla presidenza di Bush. Perché i nostri colleghi americani vedono la portata del loro problema (scontro tra i poteri-pilastro della democrazia) e in Italia così tanti tra noi ti guardano come un disturbatore ossessionato?
2 - Lo stesso giorno la deputata Pd Linda Lanzillotta (destra della sinistra) e la ex senatrice Rina Gagliardi (sinistra della sinistra) hanno questo, rispettivamente, da dire: Lanzillotta: «Eppure dovremo dire anche dei sì (a Berlusconi, ndr) almeno su alcune decisioni annunciate». Quali saranno queste decisioni annunciate, nei giorni in cui il politologo Giovanni Sartori scrive, a proposito di Berlusconi: «Nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono solo i dittatori» (Corriere della Sera, editoriale, 21 giugno)?
Gagliardi: «A me star lì a dire sempre no non mi piace perché mi pare un radicalismo solo apparente. Risolve il quotidiano, dà un po’ di soddisfazione ai tuoi che ti vedono con la faccia scura davanti a Berlusconi. E poi?» (Corriere della Sera 19 Giugno).
E poi, Rina Gagliardi, si fa opposizione, che vuol dire tenere testa a un governo evidentemente pericoloso, come si fa in tutti i Paesi democratici. Credo che sia utile ricordare alle due esponenti politiche ciò che l’ex ministro delle Comunicazioni-Mediaset Maurizio Gasparri ha appena detto a Walter Veltroni dopo l’annuncio di una grande manifestazione popolare proposta dal segretario Pd all’Assemblea del partito (20 Giugno): «Veltroni non ha nessun diritto di parlare, con tutti i debiti che ha lasciato. Taccia e faccia opposizione» (Tg 1, 20 Giugno, ore 20).
3 - «Tacere e fare opposizione» è il motto perfetto per definire questa Italia berlusconiana e il pericolo che corre. Se, come sta accadendo, il berlusconismo continua ad espandersi e a conquistare per il suo capo e i suoi uomini sempre più franchigia, sempre più esenzione dalle sanzioni della legge, allora il silenzio dei cittadini, che non sentono voci alte e chiare di contraddizione al regime, quel silenzio può diventare il silenzio-assenso su cui punta il movimento berlusconista, e che ha già dato la sua paurosa prova in Sicilia.
4 - Come si vede e si impara dalla clamorosa parabola discendente di George Bush (dal 70 per cento di gradimento al 70 per cento di rifiuto, nonostante la sua seconda elezione sia stata un trionfo) l’opposizione netta, vigorosa, visibile, su ogni punto chiama i cittadini e porta risultati persino a partire da una minoranza sconfitta. Quella minoranza, in America, non ha mai ceduto, non ha mai fatto cose “insieme” con il suo avversario, perché accusato di illegalità e di avere violato la Costituzione. Alla fine della lunga marcia quella minoranza ha incontrato il Paese, e, divenuta maggioranza a causa della sua testarda opposizione, si appresta a guidare una nuova epoca per gli Stati Uniti. Perché questa non potrebbe, non dovrebbe essere la nostra storia?
furiocolombo@unita.it
Il principe senza legge
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 03.07.2008)
È un’amara estate per chi contempla il panorama costituzionale, sconvolto da iniziative, mosse, parole che ne stanno alterando la fisionomia. La riforma del sistema politico, con il risultato delle elezioni, è stata compiuta senza atti formali, senza bisogno di cambiamenti della legge elettorale. E mentre si discute di un dialogo bipartisan come condizione indispensabile della riforma costituzionale, questa viene implacabilmente realizzata da un quotidiano e unilaterale esercizio del potere.
La forza delle cose si impone, gli equilibri democratici vacillano. Stanno cambiando gli assetti al vertice dello Stato, con una lotta tra poteri costituzionali che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Vengono travolti principi fondativi come quelli dell’eguaglianza e della solidarietà. Cambia così l’assetto della società, non più fatta di liberi ed eguali, rispettati nella loro autonomia e nella loro dignità, ma di nuovo ordinata gerarchicamente, con gli ultimi, con i dannati della terra posti in fondo alla scala sociale-immigrati, rom, poveri.
Non è un fulmine a ciel sereno. Da anni, molte forze lavoravano per questo risultato, molti apprendisti stregoni davano il loro contributo. Si pubblicavano libelli contro la solidarietà; si ridimensionava, fin quasi ad azzerarla, la portata del principio di eguaglianza; si accettava senza batter ciglio che la Costituzione fosse definita "ferrovecchio" o "minestra riscaldata"; la difesa dei princìpi si faceva sempre più tiepida; si diffondeva in ambienti altrimenti insospettabili la convinzione che la logica del mercato imponesse la riscrittura dell’articolo 41 della Costituzione, apparendo evidentemente eccessivo che la libertà dell’iniziativa economica avesse un limite invalicabile addirittura nel rispetto della sicurezza (e le morti sul lavoro?), della libertà, della dignità umana.; si accettava che le commissioni bicamerali mettessero allegramente le mani sulla delicatissima materia della giustizia. Gli anticorpi democratici si indebolivano e i difensori della logica complessiva della Costituzione venivano definiti "nobilmente conservatori", con una formula apparentemente rispettosa, ma in realtà liquidatoria. È una storia che comincia ai tempi della "Grande riforma" craxiana, e che oggi sembra giungere a compimento.
È come se si fosse aperta una voragine nella quale precipitano masse di detriti accumulate negli anni. Tutta la Costituzione è sotto scacco, a cominciare proprio dalla sua prima parte, quella dei princìpi e dei diritti, che pure, a parole, si dichiara intoccabile. Tutto è rimesso in discussione. La dignità sociale e l’eguaglianza tra le persone, a cominciare da ogni forma di discriminazione fondata sulla razza e sulla condizione personale. La libertà d’informazione, considerata non solo sul versante dei giornalisti, ma in primo luogo dalla parte dei cittadini, titolari del fondamentale diritto di controllare in modo capillare e diffuso tutti i detentori di poteri: "la luce del sole è il miglior disinfettante", diceva un grande giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, riferendosi non solo alla corruzione, ma a tutti gli usi distorti del potere pubblico e privato. La libertà personale e quella di circolazione, sulle quali incidono fortemente le diverse tecniche di sorveglianza. La libertà di comunicazione, colpita non solo e non tanto dalle intercettazioni, per la cui diffusione lo scandalo è massimo, ma dalla implacabile, continua raccolta e conservazione per anni dei dati riguardanti telefonate, sms, accessi a internet, che davvero configurano una società del controllo e di cui nessuno sembra preoccuparsi.
Può una democrazia sopravvivere bordeggiando sempre più ai margini estremi della legalità costituzionale, sempre alla ricerca di qualche aggiustamento che non la maltratti troppo, e così perdendo progressivamente il senso stesso di quella legalità che dovrebbe da tutti essere vissuta come limite invalicabile? Chi si prende cura di questa democrazia che, di giorno in giorno, si presenta con i tratti delle sue pericolose degenerazioni, che la fanno definire come autoritaria o plebiscitaria, che conosce quegli intrecci perversi tra politica e uso delle tecnologie della comunicazione che sono la versione più aggiornata del populismo?
Se facciamo un piccolo, e confortante, esercizio di memoria e riandiamo a due anni fa, al giugno del 2006, ci imbattiamo nel referendum con il quale i cittadini italiani respinsero una riforma costituzionale che andava proprio in quella direzione. Rilegittimata dal voto popolare, la Costituzione del 1948 sembrava avviata al più ragionevole destino di una sua buona "manutenzione". Ma, da allora, sembra passato un secolo. La Costituzione è stata messa in un angolo, le file dei suoi difensori si assottigliano e sono in difficoltà. La legalità, costituzionale e ordinaria, non è più un valore in sé. Viene ormai presentata come una variabile dipendente dal voto. Le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Diventano un lavacro, l’unto dal voto popolare deve essere considerato intoccabile. Torna tra noi il principe sciolto dall’osservanza delle leggi, e quindi legittimato a liberarsi di quelle che contraddicono questa sua ritrovata natura. È qui il vero senso del cambiamento: non nel fastidio per questo o quel tipo di controllo, ma nel radicale rifiuto di correre i rischi della democrazia.
Delle telefonate del Presidente del consiglio mi inquietano molte cose, ma soprattutto il fatto di essersi posto al centro di un sistema di feudalità dal quale nasce, quasi come una conseguenza inevitabile, la pretesa dell’immunità. Un corteo lo accompagna nel tradurre in fatti questa sua pretesa. Scompare il governo, integralmente sostituito dagli scatti d’umore del suo Presidente, che ne muta le deliberazioni a suo piacimento, che lo vede come puro luogo di registrazione. La tanto pubblicizzata approvazione in soli 9 minuti dell’intera manovra economico-finanziaria del prossimo triennio è stata presentata come un miracolo di efficienza, mentre era la prova della scomparsa della collegialità della decisione, della discussione come sale della democrazia: non un segno di vitalità, ma di morte, come i 21 grammi che si perdono appunto nel morire, raccontati nel film di Alejandro Gonzalez Inarritu. Il Parlamento ha clamorosamente rinunciato ad esercitare la sua funzione di controllo e di filtro, sembra ignorare il fatto che il procedimento legislativo non è cosa di cui il Presidente del consiglio possa disporre secondo la sua volontà.
I controlli scompaiono. Vecchia aspirazione d’ogni potere. La magistratura non deve essere liberata dai suoi problemi, responsabilizzata nel modo giusto. Deve essere presentata come il vero demone che attenta alla democrazia, aggressiva e inefficiente, quasi che i suoi molti limiti non dipendessero da una lunghissima disattenzione del potere politico che l’ha fatta marcire nelle sue obiettive difficoltà, che ha progressivamente azzerato la propria responsabilità appunto politica e ha preteso di sciogliersi dal controllo di legalità in quanto tale. Gli anni di Mani pulite sono rappresentati come un golpe, azzerando la memoria degli abissi di illegalità che furono disvelati. E la totale normalizzazione della magistratura diventa la via attraverso la quale passa, con la minacciata disciplina autoritaria della diffusione delle intercettazioni, anche la normalizzazione del sistema della comunicazione. Poco e male informati, i cittadini sono pronti ad essere usati come docile "carne da sondaggio", per applaudire le decisioni del principe secondo la più classica delle tecniche plebiscitarie.
A custodire Costituzione e legalità rimangono il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non è un residuo segno di buona salute, è anch’esso il sintomo d’una patologia. La democrazia non può ritirarsi dal sistema in generale, rifugiandosi in alcuni luoghi soltanto. Ma da qui si può e si deve comunque ripartire, soprattutto se la voce dei cittadini e dell’opposizione riuscirà a trovare i toni forti e giusti di cui abbiamo bisogno.
Intervista a: Guido Papalia.
Il procuratore: si segue la legge Mancino per manifestazioni di razzismo
«L’apologia non si applica mai»
di Massimo Solani (l’Unità 30.09.2008)
Procuratore Papalia, in Italia l’applicazione del reato di apologia del fascismo è rimasta praticamente monca. Cosa prevede la legge?
«Il reato, previsto dalla legge Scelba del 1952, in Italia è stato in realtà applicato ben poco. Questo anche perché la Cassazione ha richiesto che venisse accertato anche il pericolo di suscitare incitamento verso coloro che seguono queste manifestazioni o ascoltano questa propaganda. Serve insomma un riconosciuto pericolo per le istituzioni causato da simili comportamenti».
Una discriminante che ne ha reso particolarmente difficoltoso il riconoscimento?
«In qualche caso il pericolo verso le istituzioni è stato ravvisato, ma molto di rado. È successo per una persona armata di manganello che durante un comizio elettorale si era esibita in un saluto romano. E ancora per un gruppo di imputati che dopo la condanna si alzarono in piedi e gridarono “Sieg heil”. In quei casi si ritenne che simili comportamenti potessero suscitare in chi li ascoltava un desiderio di emulazione pericoloso per le istituzioni democratiche. Senza questo rischio si ritiene che l’apologia del fascismo non esista. Ma onestamente non so se questo orientamento sia corretto».
Ma la legge Scelba è l’unico argine verso simili comportamenti?
«Esiste una norma introdotta dalla Legge Mancino che punisce chiunque in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori o ostenti simboli propri di organizzazioni fasciste o razziste. In questi casi non serve il rischio per le istituzioni, e infatti la Cassazione nel 2007 ha condannato alcuni tifosi che allo stadio Olimpico avevano esposto una bandiera con un fascio littorio».
È sufficiente? Ritiene che la legislazione italiana sia adeguata?
«La normativa è severa e colpisce duramente i fenomeni di razzismo, prevedendo una aggravante apposita. In particolare la legge Mancino, se interpretata in maniera fedele, condanna tutte quelle manifestazioni che tendono a propagandare, stimolare e diffondere idee di discriminazione razziale. Una norma che consente anche una applicazione piuttosto ampia, nonostante nel 2006 alcune modifiche ne abbiano ridotto l’efficacia diminuendo anche la sanzione penale prevista».
L’abolizione della legge Mancino o il suo depotenziamento è un cavallo di battaglia della destra e della Lega.
«Perché si confonde la libera manifestazione del pensiero con comportamenti che rappresentano aggressioni alla libertà e alla dignità altrui».
di Daniela Amenta (l’Unità, 30.09.2008)
«Non ho vergogna a manifestare la mia fede politica. Del fascismo condivido ideali come la Patria». Parole di Christian Abbiati, portiere del Milan, poster preferito tra i ragazzini che tifano rossonero. L’outing arriva non propriamente imprevisto, dopo croci celtiche e svastiche da stadio. E dopo il saluto romano di Paolo Di Canio nel derby del 2005. Ieri, però, il quotidiano francese Le Monde ha inserito anche il romanista Alberto Aquilani tra i calciatori simpatizzanti «dell’estrema destra». Tre anni fa per Di Canio intervenne la Figc e così l’attuale commentatore Mediaset fu squalificato per un turno. Niente di più. Dalle curve fino nel cuore delle nostre città intrise di iconografia fascista. Scritte sui muri, tatuaggi, t-shirt. L’ultima “moda” è una placenta scura in cui galleggia la violenza, cresce la sostanza dell’intolleranza. Un’unica domanda: ma l’apologia di fascismo non era reato?
Aquile e duce, le bancarelle dei nostalgici
di Gioia Salvatori (l’Unità, 30.09.2008)
Gladio, aquila, busti del duce e fasci littori. Sulle bancarelle di souvenir del centro, nei mercatini storici e nei nuovi quartieri della capitale. Il gadget stile Ventennio a Roma spopola impunito.In piena movida notturna testaccina chi scrive, qualche mese fa, ha visto una mini-bancarella tutta dedicata al duce: busti, portachiavi a fascio littorio e teste con elmetto, impuniti erano in vendita a latere della strada dello struscio. Un caso sporadico. Ogni giorno, invece, nello storico mercatino di via Sannio, all’ombra della basilica di San Giovanni in Laterano, due o tre banchi vendono magliette con la faccia di Mussolini, insieme a T-shirt dei Led Zeppelin e dei Nirvana. Accanto sono pantaloni verde militare con tanto di cartuccere, giubbotti mimetici, cinghie nere e anfibi. Ce n’è per tutti quelli che vogliono spendere meno di 20 euro per look da curva e da strada «E magari quando si avvicina il primo maggio - racconta un ambulante - sugli stessi banchi spuntano pure le magliette del Che».
Sistematica la vendita del gadget nostalgico anche nel mercatino del weekend di via Conca d’Oro: Roma Nord, zona di palazzoni per lavoratori dipendenti a un passo dagli appartamenti bene del quartiere Trieste, il cui cuore nero, invece, è piazza Vescovio. Ogni sabato e ogni domenica mattina, a Conca d’Oro, tra l’usato e il nuovo di un mercatino che è una specie di Porta Portese in piccolo, spunta il banco dei nostalgici: elmetti stile III Reich, monete del ventennio, abbigliamento militare e quadri in bronzo del duce. Li comprano ragazzini che, in zona, racconta un militante della Fgci, se ne vanno a spasso con la foto di Mussolini nel portafoglio, magari senza sapere bene perché.
Poco lontano c’è la palestra popolare Primo Carnera, legata all’area movimentista, poi uscita dal partito, di Fiamma Tricolore. E sui muri, in una zona dove durante l’ultima campagna elettorale per le amministrative romane, non sono mancate aggressioni a gazebo del pd e minacce a militanti, la scritta politica imperversa: “Talenti nera” e “Vigne Nuove sostiene Fiamma Tricolore” e “rossi occhio”, tanto per dirne alcune.
Sulla stessa direttrice Nord, a ponte Milvio e, nella più centrale piazza Vescovio, non è meglio. Due anni fa fu proprio al liceo scientifico Farnesina di ponte Milvio, che Ft mise il cappello sull’occupazione scolastica. Fu la prima protesta studentesca tinta di nero della capitale, mentre Blocco studentesco, il braccio scolastico di Ft, schizzava in 12 mesi al 10 % di seggi nella consulta studentesca (organo di rappresentanza degli studenti medi) di Roma e provincia. E in zona, sui cartelli stradali e sui muri, simboli di Forza Nuova e Fiamme, non mancano mai. I busti del duce, invece, si trovano in centro tra souvenir e cartoline: a un passo dal Colosseo, magari sulle bancarelle degli urtisti di via dei Fori imperiali, o a un passo dalla stazione Termini, tra gadget kitsh e portachiavi a forma di Colosseo.
Internet. Il fiorente mercato di gadget e cimeli in rete
Vuoi i boxer con Benito? E vai su Ebay
di Alessia Grossi (l’Unità, 30.09.2008)
In tempi di maestro unico è possibile acquistare su Ebay.it per soli 2,6 euro un utilissimo «quaderno fascista della quinta elementare». Fascismo. Inserendo solo questa parola chiave su Ebay.it, il sito di commercio online più famoso al mondo, il motore di ricerca ti rilascia quasi tremila risultati. In italiano. Tremila oggetti all’asta per un insospettabile guardaroba nonché una nutrita libreria del ventennio. Così per pochi euro - fatta eccezione per quei gadget che vengono definiti «da urlo» - se sei un nostalgico puoi tornare a vestire, leggere e collezionare i vecchi fasti del tempo del duce con un solo click. Con una base d’asta che non supera quasi mai i 5 euro, infatti, hai a disposizione un corredo che va dalla «cuffietta italica» contro il vento della rivoluzione, ai boxer con faccione di Benito Mussolini proprio lì. Seguono t-shirt da ex giovane fascista, felpa con patacche di ogni genere, eleganti pantaloni alla zuava, arrogante cappotto con fascio littorio.
E non c’è bisogno che vi affrettiate. Per ora ci sono 0 offerte. Ma i venditori di cimeli che guardano al ventennio non si danno per vinti e anzi sono numerosi. Ciò può sconcertare, ma la barriera ideologica sulla rete è caduta ancor prima che nel senso comune, tanto per dire che sulla rete il mondo cammina più veloce, anche se non sempre va nella direzione giusta. Gli «oggetti caldi», come vuole il gergo dei compra - venditori di Ebay, infatti, sono quelli dedicati ai veri nostalgici. Quelli che Mussolini lo vogliono ovunque e che del fascismo vogliono ricordare ogni singolo precetto. Per loro Ebay vende una targa "come nuova": «Vietata la bestemmia e il turpiloquio». In vendita per soli 9,9 euro, invece, le «cartoline della propaganda fascista», anche queste utilissime, per gli auguri di Natale. E da abbinare alle medaglie, mostrine, spille a forma di lupa, distintivo originale della milizia, ecco le «divise originali» e il «fascio littorio». Per gli appassionati d’arte invece, irrununciabile la «statuetta del negretto» da mettere in salotto, chissà come mai unica nel suo genere ancora senza offerenti.
Il commercio «fascista» più fiorente su Ebay resta comunque quello librario. Insomma prima la cultura, le parole del duce, un «saluto raro del bambino balilla», un «autografo» con la M maiuscola e poi sotto il «mezzo busto» arriva l’investitura con tanto di «cinturone». Il tutto al modico prezzo di circa 100 euro, base d’asta. Se vi sembra poco fate un’offerta per il pezzo più caldo, il pugnale testa d’Aquila della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale modello 1937. L’asta parte sì da 1500 euro ma, pensate, «la lama non è mai stata pulita».
E il fascismo sparì dal dizionario
Una parola abusata per troppo tempo, che qualcuno ha proposto di abolire.
Ma si può censurare la realtà storica?
Anticipiamo uno stralcio del contributo dell’autore alla raccolta Società totalitarie e transizione alla democrazia. Saggi in memoria di Victor Zaslavsky, a cura di Tommaso Piffer e Vladislav Zubok, Il Mulino, pagg. 543, eur 37,00, in libreria dal 1° dicembre
di Emilio Gentile (Il Fatto Quotidiano, 25.11.2011)
MISONE IL CHENESE, annoverato da Platone fra i sette saggi dell’antica Grecia, era un filosofo contadino che l’oracolo di Delfi aveva detto essere il più saggio fra i Greci. Tuttavia, pochissime tracce del suo pensiero sono state tramandate. Ma fra le pochissime, ve n’è una che conferma la sua saggezza: «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole». Più che ai filosofi, la massima di Misone dovrebbe attagliarsi agli storici, che studiano la genesi e lo svolgimento delle esperienze umane del passato, alle quali sono quasi sempre associate parole nuove - qui diremo i concetti - usate da coloro, che quelle esperienze vissero, per denominarle e definirle lasciandole poi in eredità ai posteri. Le cose e le parole tramandate dalla storia sono l’oggetto della ricerca e dell’interpretazione degli storici. Ma gli storici non sono sempre concordi nell’interpretare le esperienze del passato come non lo sono nel definire il significato dei concetti ad esse associati.
Un caso fra i più recenti, universalmente noto, è la parola “fascismo”. La parola ebbe origine in Italia da un movimento politico, la cui esperienza iniziò, si svolse e si concluse fra il 1919 e il 1945. Durante lo stesso arco di tempo, la parola “fascismo” fu applicata ad altri movimenti politici sorti fuori d’Italia negli anni fra le due guerre mondiali, per essere poi ulteriormente estesa, dal 1945 ai giorni nostri, a movimenti, ideologie, regimi, mentalità, costumi e comportamenti i più svariati e i più disparati, disseminati in ogni parte del mondo, e persino in tempi e luoghi precedenti di molti anni la comparsa del fascismo in Italia. Con l’inflazione del termine, anche il suo significato è stato continuamente elasticizzato fino a perdere ogni consistenza propria e ogni attinenza con il fenomeno storico da cui ebbe origine.
La stessa sorte è toccata ad altre due nuove parole, “totalitario” e “totalitarismo”, che fecero la loro comparsa nella storia dopo l’ascesa del fascismo al potere alla fine del 1922. Le due parole furono coniate fra il 1923 e il 1925 per definire la natura e l’originalità del partito fascista, la sua organizzazione, il suo modo di agire e il nuovo regime politico cui esso diede origine. Dopo il 1926, la parola “totalitarismo” fu adoperata per definire altri nuovi regimi politici, che nell’organizzazione e nei metodi del potere avevano somiglianza con il totalitarismo fascista, come il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo . Poi, dal 1945 ai giorni nostri, anche l’uso del termine “totalitarismo” ha subito una dilatazione inflazionistica, essendo applicato a movimenti, regimi, ideologie, mentalità e comportamenti i più vari e diversi, al punto da far perdere il significato storico originario del termine e la sua connessione con la “cosa” dalla quale aveva avuto origine.
Quasi novant’anni sono passati dalla comparsa nella storia del fascismo e del totalitarismo. Almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, l’associazione fra fascismo e totalitarismo è stata considerata evidente. Invece, a partire dagli anni Cinquanta, ci sono stati studiosi i quali, pur senza avere un’adeguata conoscenza né della storia del fascismo né delle origini del totalitarismo, hanno negato l’associazione fra fascismo e totalitarismo, sostenendo, come fece la filosofa Hannah Arendt nel 1951, che il fascismo non fu totalitario, e che pertanto non aveva senso parlare di “totalitarismo fascista”, riservando l’uso del concetto di totalitarismo esclusivamente per lo stalinismo e il nazionalsocialismo. Altri studiosi hanno invece sostenuto che neppure questi due regimi possono essere definiti totalitari, giungendo quindi alla conclusione che il totalitarismo non è mai esistito, e che pertanto il concetto stesso non ha alcuna utilità. Esempio estremo di questa negazione è stata la proposta, formulata nel 1968 su un’autorevole enciclopedia di scienze sociali, di bandire il concetto di “totalitarismo” dalla storiografia e delle scienze sociali. Un’analoga proposta fu formulata nello stesso anno per il termine “fascismo”, adducendo come motivo l’uso spropositato del termine stesso.
Non mi risulta sia mai accaduto, nella storiografia e nelle scienze sociali, che la controversia su un concetto scaturito dalla realtà storica abbia indotto gli studiosi a concludere con la richiesta della sua messa al bando, cioè ad operare una operazione di censura, solo perché è stato usato a sproposito o perché gli studiosi non sono giunti a darne una definizione unanime. se tale condizione fosse sufficiente per decretare la messa al bando di un concetto storico, dovrebbero essere eliminati dalla storiografia e dalle scienze sociali concetti altrettanto controversi e di uso altrettanto spropositato, come despotismo, dittatura, libertà, rivoluzione, feudalesimo, rinascimento, capitalismo, democrazia, repubblica, bonapartismo, liberalismo, comunismo, socialismo, conservatorismo, radicalismo, e tutti gli altri ismi della storia. Quali conseguenze potrebbe avere un siffatto “negazionismo concettuale” per la storiografia, è facile immaginarlo.