La fretta del regime mediocratico
di ILVO DIAMANTI *
Può sorprendere la determinazione con cui il governo spinge per approvare il disegno di legge sulle intercettazioni - in fretta, anzi subito, e con poche modifiche. Senza badare al parere dei magistrati, dell’opposizione, di molti giornalisti. Notoriamente "ostili". Senza curarsi neppure del dissenso espresso da esponenti del governo Usa e dalla maggioranza degli italiani (come emerge da alcuni sondaggi).
Questo atteggiamento non si spiega solo con la volontà - dichiarata dal ministro Alfano - di tutelare la privacy dei cittadini. E di alcuni in particolare: il premier, i ministri e i leader politici. Per evitare che altri scandali rimbalzino sulla stampa. La fretta del governo riflette anche la voglia di saldare le crepe emerse nel modello di democrazia che si è affermato in Italia, da oltre 15 anni. La "democrazia del pubblico" (formula coniata da Bernard Manin, a cui facciamo spesso riferimento). Personalizzata e mediatizzata. Perché tutto è mediatico, nella "scena" politica. I partiti, in primo luogo. Poi: le istituzioni e, ovviamente, il governo. La personalizzazione è un corollario. Perché sui media vanno le persone, con le loro storie, i loro volti, i loro sentimenti. Non i partiti, le grandi organizzazioni, le istituzioni. Che fanno da scenario, ma non possono recitare da protagonisti. È un modello sperimentato altrove, anzitutto negli Usa. Ma in Italia ha assunto una definizione specifica e originale. In tempi rapidissimi. Merito (o colpa) di Silvio Berlusconi. Insieme: imprenditore mediatico dominante, leader - anzi, padrone - del partito dominante e, naturalmente, capo dell’esecutivo. Presidente "reale" - potremmo dire - di una Repubblica non presidenziale, dove il Presidente "legale" agisce da garante e autorità di controllo.
La conseguenza più nota di questa tendenza è l’avvento di uno "Stato spettacolo" (titolo di un recente saggio di Anna Tonelli, pubblicato da Bruno Mondadori). Dove lo scambio tra pubblico e privato avviene in modo continuo e pervasivo. Dove il consenso si costruisce sui fatti privati. I cittadini diventano il pubblico di uno spettacolo recitato dagli attori politici che si trasformano in attori veri. È difficile "confinare" il privato, in questo modello. Perché la privacy, per prima, è risorsa usata a fini "pubblici". È la conseguenza inattesa e, in parte, indesiderata del regime mediocratico: le stesse logiche, gli stessi meccanismi che alimentano il consenso possono contribuire a eroderlo. O, addirittura, a farlo collassare.
1. In primo luogo, ovviamente, perché il "privato esibito in pubblico" non è "reale". È fiction. Come nel Grande Fratello, dove tutti agiscono "sapendo di essere osservati". (Anche se, con il tempo, se ne dimenticano). Ben diverso è scavare nel "privato reale" attraverso, appunto, le intercettazioni oppure le indagini che entrano nella vita delle persone - dei politici - a loro insaputa. Quando si sentono "al sicuro". Quando non recitano la "commedia della vita quotidiana". Perché, allora, possono uscire segreti "scomodi". Comportamenti talora illeciti, altre volte semplicemente sgradevoli. Perché rivelano uno stile distante dal "privato esibito in pubblico". È il caso delle conversazioni telefoniche fra il premier e i dirigenti Rai. Dove Berlusconi esprime, senza mezze misure, la "sindrome del padrone" (la formula è di Edmondo Berselli). Preoccupato da comici, predicatori, conduttori, moralisti, giornalisti: tutti quelli che deturpano la sua immagine e la sua narrazione. La sua "storia". È il caso, recente, dello scandalo che ha indotto il ministro Scajola alle dimissioni. Costretto non dall’illecito, ma dall’indignazione. Dalla scoperta di un appartamento davanti al Colosseo pagato da altri. Peraltro, a insaputa del beneficiario e a prezzo stracciato. In tempi di crisi, mentre milioni di italiani pagano il mutuo della loro casa con molta fatica. Il che sottolinea la distanza tra questa stagione di inchieste sulla corruzione e Tangentopoli. Allora, nei primi anni Novanta, la corruzione intrecciava il mondo degli affari e "la" politica. E aveva, come primo (non unico) obiettivo, il mantenimento della (costosa) macchina dei partiti. Oggi, invece, lega il mondo degli affari e "i" politici. Intorno a vicende, talora, grandi e dolorose (come il terremoto). Altre volte, invece, piccole e mediocri. (Come quelle suggerite dalla "lista Anemone"). Ma, proprio per questo, altrettanto - e forse più - intollerabili, nella percezione e nel senso comune.
2. L’altra tendenza indesiderata di questo regime mediocratico, soprattutto per chi lo guida, riguarda la "svalutazione del potere" e di chi lo esercita. Rendere pubblico il privato "vero", senza finzioni: manifesta il volto mediocre della politica e di chi governa. Il confine tra i rappresentanti e i rappresentati, tra i leader e i cittadini: scompare.
Anzi, i leader politici, gli uomini di governo imitano e giustificano gli istinti più bassi della società. In questo modo, però, perdono autorevolezza, ma soprattutto legittimità, credibilità, consenso. Da ciò l’ossessione di chi ha inventato e imposto, per primo, il sistema mediocratico. La tentazione e il tentativo di controllarne ogni piega. Di prevederne ogni possibile trasgressione. In modo quasi compulsivo. Perché la realtà deve funzionare come un reality; recitato secondo un copione pre-stabilito; e, comunque, orientato e modellato dalla produzione. Quando gli autori, anzi: l’Autore, mentre osserva la "casa del Grande Fratello", si scopre, a sua volta, osservato e ascoltato. E, pochi minuti dopo, si vede ripreso e riprodotto sugli stessi schermi, sulle stesse pagine, sugli stessi giornali.
Il "fuori onda" messo in onda, come un’edizione permanente di "Striscia la notizia". Quando il gioco gli sfugge. Allora gli passa la voglia di giocare. E vorrebbe smettere. O meglio: fare smettere gli altri. Cambiare le regole. A dispetto dei magistrati, del governo Usa. E perfino dell’opinione pubblica. La legge sulle intercettazioni. Serve a impedire che si spezzi la magia della "Storia italiana". L’unica biografia del paese veramente autorizzata.
* la Repubblica, 24 maggio 2010
[...] nel Terzo Reich la normalità fu accettare e compiere crimini in nome e per conto del Führer. Solo individui eccezionali si comportarono normalmente, ovvero “umanamente”, nel senso che la Corte presuppose universale.
Eichmann non fu un sadico, fu solo un funzionario meticoloso, efficiente nell’organizzare e nel negoziare. Se aveva avuto qualche dubbio sulla soluzione finale, così "violenta e cruenta", questo svanì nel gennaio del 1942, quando ebbe luogo la Conferenza di Wannsee, convocata da Himmler con lo scopo di coordinare tutti gli sforzi diretti allo sterminio, attraverso la massima collaborazione dei ministeri e dei servizi civili.
Ad essa presenziarono tutti i papi del Terzo Reich, i quali, come dirà l’imputato, non solo acconsentirono all’Olocausto, ma avanzarono proposte concrete. Inferiore per grado e posizione sociale, Eichmann s’inebriò al cospetto di quei grandi personaggi. In pratica, funse da segretario: spedì gli inviti, preparò alcune statistiche per il discorso introduttivo di Heydrich (gli ebrei da distruggere erano 11 milioni) e stilò i verbali. Alla fine, congedati gli altri, gli venne concesso di farsi un bicchierino di fronte al caminetto col suo capo Müller e Heydrich, decisamente soddisfatto degli esiti della conferenza.
Come poteva ancora dubitare della bontà della soluzione finale? Chi era lui per permettersi di giudicare o avere idee proprie? A Wannsee vide, coi suoi occhi, come non solo Hitler, ma anche Heydrich, Müller, il partito e le SS, nonché i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili, si disputavano l’onore di dirigere la crudele operazione. "In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa". Commenta la Arendt: "...egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia" [...]*
* Jonny Costantino, Processo a Ponzio Pilato - Uno specialista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
RAPPORTO ISTAT: LO STATO DI MINORITA’.
"Goodbye Kant!": Perché si vuole uccidere Kant?
Un problema di democrazia
di Ezio Mauro, (la Repubblica, 24 giugno 2011)
Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.
È un’altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall’inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l’inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l’economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.
Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione - ecco il punto - nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari. È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.
Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l’opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l’Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.
LE IDEE
La legge che zittirà i blogger
di JUAN CARLOS DE MARTIN* (La Stampa, 28/7/2010)
E’davvero singolare. Da circa 15 anni viviamo, grazie alla tecnologia, in un mondo che permette di realizzare - quasi perfettamente e con relativamente poco costo e fatica - un’aspirazione antica almeno quanto la Grecia classica. Un’aspirazione che con l’Illuminismo diventa diritto, diritto che, incastonato nelle costituzioni moderne, diventa quindi un pilastro delle nostre democrazie. Parlo della libertà di parola (e del suo diritto gemello, la libertà di informazione).
E’con la nascita del web, infatti, che diventa relativamente facile ed economico fare qualcosa che fino a quel momento aveva richiesto o grandi capitali o la possibilità - ardua - di trovare spazio nei mass media, cioè, far arrivare il proprio messaggio, qualunque esso sia, potenzialmente a chiunque. Il web, infatti, fin dalla nascita, a inizio anni 90, si presenta come un medium «leggi-scrivi», ovvero, bi-direzionale, che rende facile non solo consumare contenuti, ma anche produrne e condividerli potenzialmente con chiunque abbia accesso a Internet (1.8 miliardi di persone secondo le statistiche più recenti). Condivisione che con gli anni è diventata sempre più facile e intuitiva, grazie a innovazioni come i blog (commentari con gli interventi presentati in ordine cronologico inverso, ovvero i più recenti in cima - 130 milioni secondo i dati più recenti), i wiki (pagine web facilmente modificabili da chi le legge, come quelle dell’enciclopedia online Wikipedia) e le grandi piattaforme di aggregazione come YouTube o Vimeo per i video, Flickr per le fotografie e le reti sociali, che pubblicano ogni mese (anche se in genere a un pubblico ristretto ai loro utenti), miliardi di testi, foto e video.
Gli utenti della Rete hanno accolto entusiasticamente questa opportunità di esprimersi. A seconda, infatti, dei sondaggi (per esempio, quelli di Pew Research), dal 40 al 60% degli internauti pubblica contenuti di varia natura. Contenuti ovviamente molto eterogenei tra loro, ma ciascuno realizzazione tangibile di quell’antica aspirazione, ovvero, permettere a ciascun individuo di presentare il proprio punto di vista. Punto di vista che non raramente contribuisce al pubblico dibattito in vista di una deliberazione, realizzando quella che i greci chiamavano isegoria - il diritto di prendere la parola su questioni di interesse generale. Dire, quindi, che Internet rappresenta il più straordinario e ampio spazio pubblico della storia è semplicemente ricordare un dato di fatto. Tra l’altro uno spazio pubblico molto discreto, che non invade le case o le strade, che non ci assorda le orecchie e non ci occupa la visuale, se non quando noi, liberamente, scegliamo di consultarlo online.
Eppure, singolarmente, diversi politici italiani, anziché concentrare le loro energie su come estendere l’esercizio di questa libertà a tutti i cittadini (il «digital divide» italiano, infatti, riguarda ancora oltre metà della popolazione), o su come più efficacemente educare la popolazione ad un uso maturo e consapevole della Rete (non si impara, infatti, in un giorno a guidare una Ferrari se si è sempre solo andati in bicicletta), da circa due anni sembrano cercare il modo di rendere l’espressione del proprio pensiero online più difficile e gravosa. Dopo diversi tentativi, forse ci stanno finalmente per riuscire. Il comma 29 dell’articolo 1 del decreto sulle intercettazioni in discussione in questi giorni alla Camera, infatti, estende - nella sua forma attuale - a tutti i gestori di siti informatici l’obbligo di rettifica previsto dalla legge sulla stampa: qualora non si dia seguito entro 48 ore ad una richiesta di rettifica, si è soggetti a una sanzione fino a 12 mila e 500 euro. Indipendentemente dal fatto che dietro al sito ci sia una struttura professionale o un semplice individuo, ovvero, che si tratti del sito, per esempio, de «La Stampa» o del blog della signora Maria Rossi, del sito di una grande azienda o di quello di una scuola elementare.
La proposta è infondata nelle motivazioni e potenzialmente molto nociva negli effetti. La motivazione è che Internet non deve essere, secondo i proponenti, un territorio senza legge dove ognuno dice quello che vuole. Tuttavia, dire quello che si vuole è un diritto costituzionalmente garantito, anche se, come è ovvio, nei limiti previsti dalla legge (diffamazione, calunnia, eccetera). E la legge vale online esattamente come altrove - da sempre.
In merito agli effetti, l’eventuale approvazione di questa norma avrebbe un grave effetto sulla libertà di espressione e di informazione, dal momento che scoraggerebbe moltissime persone, aziende e istituzioni dall’esprimersi online. Quante persone, infatti - o anche piccole aziende, associazioni, scuole, università, eccetera - se la sentirebbero di correre il rischio di pubblicare qualcosa non potendo garantire, 356 giorni all’anno, di riuscire a intervenire tempestivamente in caso di richiesta di rettifica? E anche quei rari individui che se la sentissero di garantire una così assidua presenza alla tastiera, come potrebbero discriminare con efficacia tra le richieste di rettifica fondate e quelle infondate, se non addirittura apertamente censorie? I giornali hanno uffici legali abituati a vagliare questo tipo di richieste; un generico blogger certamente no. Non è, quindi, difficile ipotizzare che, nel dubbio, le richieste di rettifica verrebbero sempre accolte - con un grave impoverimento della libertà di parola e di informazione online del nostro Paese.
È, quindi, davvero singolare quanto sta accadendo in Parlamento. Oppure no, non lo è affatto. Il web ha, infatti, radicalmente decentralizzato la produzione di messaggi, col risultato che il controllo sulle informazioni che giungono ai cittadini si sta indebolendo ogni giorno di più. Ciò per alcuni è evidentemente un problema. Per tutti gli altri, però, è una conquista da migliorare ed estendere.
*docente del Politecnico di Torino
DDL INTERCETTAZIONI
Bavaglio ai blog, da mercoledì in piazza
"Il nostro controllo? Sono i lettori"
Appuntamento a piazza Montecitorio per una protesta no-stop di 24 ore. Parla il blogger Fabio Chiusi: "il governo non tiene conto delel differenze tra giornalismo tradizionale e noi". Slitta al 29 la decisione sul calendario del provvedimento.
di CARMINE SAVIANO
ROMA - In piazza per 24 ore. Una protesta non stop contro il Bavaglio alla Rete. Si parte mercoledì. Appuntamento a mezzanotte in Piazza Montecitorio, a Roma. Una "veglia" animata dal "Comitato per la libertà e il diritto all’informazione e alla conoscenza", il ’cartello’ che riunisce le forze protagoniste della manifestazione del primo luglio contro il ddl intercettazioni. Obiettivo: arrivare alla modifica del comma 29 del decreto Alfano, la disposizione che prevede per i blog l’obbligo di rettifica entro 48 ore.
Tra le proposte per correggere la norma c’è quella della "rettifica fai da te", un modo per consentire agli utenti di un blog di intervenire su ciò che viene pubblicato. E per fornire ai blogger la possibilità di eludere l’obbligo di rettifica entro 48 ore previsto dal Ddl. Ne parliamo con Fabio Chiusi, blogger, doppia laurea in Italia e master alla London School of Economics, tra i primi firmatari dell’appello contro il bavaglio alla Rete.
E’ una "normativa sbagliata - dice - che non tiene conto delle differenze tra giornalismo professionale e produzione amatoriale delle notizie. E che non garantisce allo stesso modo i blogger e i giornalisti".
Chiusi, non ritiene giusto chiedere ai blogger di garantire un’informazione corretta? "Credo che da un lato sia impossibile fornire una ’garanzia di correttezza’ in Rete e dall’altro che quella garanzia non serva a nulla. In Rete vale il motto ’content is king’: chi scrive cose vere viene premiato dai lettori. Chi diffonde notizie false o diffamatorie è punito in termini di visibilità. E se necessario, dalla legge".
Cosa comporta per un blogger far fronte all’obbligo di rettifica?
"Il punto è che il codice deontologico di un blog sono i suoi lettori. Saranno loro a mettere in evidenza un eventuale errore. E a chiedere, tramite i commenti, una rettifica. Succede di sbagliare, ma con un po’ di onestà intellettuale tutto si aggiusta. Quando questa viene a mancare, non c’è legge che tenga".
Ipotizziamo: la legge bavaglio passa. I blogger eluderanno la normativa?
"Si pensa a un ’widget’, un’applicazione che permetta agli utenti stessi di comporre la rettifica e pubblicarla sul blog. Ne ha parlato l’avvocato Guido Scorza, uno dei maggiori esperti, in Italia, di diritto sulla Rete. Poi si potrebbe pensare a server localizzati all’estero. Ma su questo il dibattito è aperto, e non tutti sono disposti a giurare che basti per evitare di ricadere sotto l’ombrello del decreto Alfano".
Il 29 luglio sarete a Montecitorio. Cosa chiedete alla maggioranza e cosa vi aspettate dall’opposizione?
"La libertà di espressione sul web non va ridotta a una campagna dell’opposizione. Detto questo, la direzione del governo è sbagliata. L’accesso alla Rete è un diritto fondamentale. E assicurarlo dovrebbe essere preoccupazione del legislatore. Del resto sono le posizioni di Fini: non capisco perché la sua maggioranza faccia di tutto per smentirle".
Sul calendario si decide il 29. Spetterà ad una nuova riunione dei capigruppo della Camera, già prevista per giovedì prossimo, stabilire se a Montecitorio sarà votato il ddl intercettazioni prima della pausa estiva dei lavori parlamentari.
La conferenza dei capigruppo di oggi ha sostanzialmente confermato l’inizio della discussione generale sul testo il 29 luglio, come inizialmente previsto, ma non c’è ancora una decisione sul prosieguo dell’esame del testo.
La Camera, prima di chiudere per l’estate, dovrà eleggere gli otto membri laici del Csm (in seduta comune con il Senato) ed esaminare anche due decreti legge che scadono agli inizi di settembre: quello sulla privatizzazione di Tirrenia (scade il 5/9) e quello in materia energetica (scade il 7/9). Giovedì sarà possibile sapere quale sarà l’incastro dei provvedimenti.
* la Repubblica, 27 luglio 2010
INTERCETTAZIONi
Bavaglio, il centrodestra forza i tempi Domani la protesta in piazza
Si parla di sette, otto giorni prima della chiusura di agosto. Voci su un no al voto segreto dei berlusconiani da addossare i finiani. Vita (Pd): catastrofico il bavaglio al web
di LIANA MILELLA *
ROMA - Sette, al massimo otto giorni di lavori a Montecitorio, visto che i deputati sanno di dover essere presenti solo fino al 5 agosto. Per quella data Berlusconi vuole veder approvato il ddl sulle intercettazioni, mentre Napolitano e Fini esigono che siano eletti gli otto componenti laici del Csm. In più c’è da votare la manovra e ci sono due decreti, energia e Tirrenia. Una ressa impossibile e ingovernabile. Su cui il Popolo viola, la Cgil, la Fnsi e l’Idv di Antonio Di Pietro intendono far sentire il fiato della protesta con una doppia manifestazione, proprio davanti alla Camera, tra domani e giovedì. Una veglia seguita da un sit-in che vedrà sfilare "i nemici dei tagli e dei bavagli". Tra questi chi, come il democratico Vincenzo Vita, si batte per togliere "il bavaglio al web", imposto con l’obbligo della rettifica dopo 48 ore. Dice Vita: "Il testo approvato al Senato e ribadito in commissione è catastrofico. Parlare di "siti informatrici e giornali su internet" significa non lasciare alcuna via di scampo, mentre noi avevamo proposto che si imponesse la rettifica solo ai giornali informatici. Si rischiano multe da 12.500 euro e l’insistenza sulla norma dimostra, che dopo la statuetta lanciata contro il premier a Milano, il Pdl è diventato nemico del web".
Giorni strategici. La commissione Giustizia darà il via libera al ddl sugli "ascolti" con il mandato alla relatrice Giulia Bongiorno. Il testo approderà in aula per la discussione generale e l’atteso voto sulle pregiudiziali di costituzionalità che potrebbe riservare più d’una sorpresa. Tra i berlusconiani corre voce che, in sede di voto segreto, proprio loro potrebbero boicottare la legge per scaricare la colpa sui finiani e spingere il Cavaliere alla rottura. Il malumore della base contro il ddl, valutato una marcia indietro rispetto alle promesse di Berlusconi, è molto forte.
Ma oggi sarà la capigruppo a decidere il destino del provvedimento. Che potrebbe finire "vittima" dell’obiettiva mancanza di tempo, qualora il presidente della Camera Fini dovesse rendersi conto che l’incastro ddl-decreti è impossibile soprattutto per la pretesa di Berlusconi di calendarizzare, contro ogni prassi, prima il ddl e poi i decreti. Anche se il governo dovesse mettere la fiducia, l’annunciato ostruzionismo di Pd e Idv potrebbe allungare i tempi e a quel punto compromettere la sorte dei decreti.
E poi c’è il Csm. Su cui l’intesa tra i poli è lontana, anche se a cercare una via d’uscita è Gianni Letta. Il nodo resta la candidatura del centrista Michele Vietti (oggi il capogruppo Pdl Cicchitto vedrà Casini) cui i berlusconiani contrappongono l’ex presidente della Consulta Annibale Marini. La seduta di oggi non andrà deserta, ma la maggioranza ha già annunciato che voterà scheda bianca 1 al solo scopo di abbassare il quorum. Si andrà a giovedì. Poi, inevitabilmente, alla settimana seguente, assieme a intercettazioni e decreti. Una ressa pazzesca che imporrà una scelta allo stesso Fini. A restar fuori, secondo i suoi, potrebbero essere proprio gli "ascolti", ma i berluscones replicano che invece tanto vale far slittare il Csm, i cui membri uscenti resterebbero comunque in prorogatio fino all’arrivo dei nuovi. Ma sarebbe assicurato lo scontro con Napolitano.
* la Repubblica, 27 luglio 2010
INTERCETTAZIONI
Calabrò: "Senza libertà di stampa non siamo cittadini ma sudditi"
L’intervento del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. E Melanconico, presidente Fieg ribadisce: "Emendamenti al Ddl per riportare la normativa al rispetto del diritto di cronaca"
ROMA - "Senza libertà di informazione, non siamo cittadini ma siamo sudditi": lo sottolinea Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ospite del Premio Tropea nelle vesti di poeta.
Appellandosi all’articolo 21 della Costituzione, ai principi fondanti dell’Unione Europea e al Trattato di Lisbona, Calabrò torna sul dibattito di questi giorni sul ddl intercettazioni e parla anche dell’"esigenza di tutelare la dignità e la riservatezza" come diritto contrapposto a quello di informare e di essere informati, che però non deve mai consentire "di oscurare la mente". E cita "il pluralismo come valore prezioso, costituzionalmente garantito", che rappresenta un antidoto per tutelare "dalla possibile prevaricazione di certa stampa e dal rischio di appiattimento su un pensiero unico".
Dal canto suo, Carlo Melanconico, presidente della Federazione italiana degli Editori chiede di "riportare con gli emendamenti il ddl intercettazioni al rispetto del diritto di cronaca".
"Gli emendamenti al ddl intercettazioni presentati nelle ultime ore da diversi parlamentari, particolarmente dalla presidente Bongiorno ma anche da altri autorevoli componenti, di maggioranza e opposizione, della commissione Giustizia e da altri parlamentari ancora come l’on. Mazzucca - afferma Malinconico - contengono passi in avanti nella composizione tra tutela della privacy e garanzia del diritto di cronaca. Mi riferisco alla previsione di strumenti di filtro per eliminare all’origine le intercettazioni che attengono a fatti squisitamente privati. E agli emendamenti che limitano le sanzioni per la pubblicazione di intercettazioni non più segrete solo al caso di registrazioni delle quali il magistrato ha ordinato la distruzione. Per il resto - sottolinea ancora il presidente della Fieg - deve valere esclusivamente il rafforzamento degli strumenti, interni al processo, di prevenzione dell’uscita di documenti e non la compressione del diritto di cronaca quando le notizie sono già uscite. Vanno quindi semmai aggravate le responsabilità dei titolari degli uffici di Procura, degli investigatori e dei delegati alle intercettazioni, che allo stato attuale andrebbero esenti da sanzioni o verrebbero puniti con sanzione inferiore a quella inflitta ai giornalisti. Il che è paradossale".
La Fieg "è consapevole dei profili di ammissibilità che si pongono per taluni di questi emendamenti. Ma è anche consapevole che il problema è di condivisione politica del testo, sul quale auspica il maggior consenso possibile delle forze politiche, in considerazione della rilevanza costituzionale della materia. L’inammissibilità è uno strumento procedurale di disciplina dell’andamento dei lavori parlamentari, ma non esclude la possibilità che il Parlamento si riesprima nel merito. Ciò anche per evitare che le Camere siano costrette a reintervenire subito dopo, con una correzione del testo eventualmente appena approvato. Correzione che si renderebbe assolutamente necessaria - conclude Malinconico - se lo sbarramento a emendamenti di correzione in senso costituzionale del ddl venisse da profili solo procedurali. Ed è alla reale e sostanziale volontà delle forze politiche sul merito del provvedimento che la Fieg guarderà con la massima attenzione".
* la Repubblica, 18 luglio 2010
LEGGE BAVAGLIO
Onu su ddl intercettazioni
"Va abolito o modificato"
Le Nazioni Unite chiedono al governo di intervenire sul progetto di legge perché "può minare il diritto alla libertà di espressione in Italia". E annunciano una missione nel 2011 per esaminare libertà di stampa *
GINEVRA - Anche l’Onu boccia la legge-bavaglio: non solo chiede al governo di "sopprimere o rivedere" il discusso disegno di legge sulle intercettazioni, ma annuncia una missione in Italia, nel 2011, per esaminare la situazione della libertà di stampa e il diritto alla libertà di espressione. A lanciare l’allarme è il relatore speciale sulla libertà di espressione delle Nazioni Unite, Frank La Rue, che in un comunicato chiede al governo italiano di "abolire o modificare" il progetto di legge sulle intercettazioni perché "se adottato nella sua forma attuale può minare il godimento del diritto alla libertà di espressione in Italia".
La Rue, incaricato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite di monitorare la situazione del diritto alla libertà di opinione e di espressione nel mondo, auspica sul tema della libertà di stampa l’avvio di discussioni tra l’Onu e il governo italiano. Il relatore si è detto "consapevole" del fatto che il disegno di legge vuole rispondere alle preoccupazioni relative "alle implicazioni della pubblicazione delle informazioni intercettate per il processo giuridico e il diritto alla privacy". Ma ha precisato che "il disegno di legge nella sua forma attuale non costituisce una risposta adeguata a tali preoccupazioni e pone minacce per il diritto alla libertà di espressione".
Ricordando le manifestazioni contro il progetto di legge del 9 luglio scorso, l’esperto ha quindi raccomandato al governo di non "adottarlo nella sua forma attuale, e di impegnarsi in un dialogo significativo con tutte le parti interessate, in particolare giornalisti e organizzazioni della stampa, per garantire che le loro preoccupazioni siano prese in considerazione". E si è detto pronto "a fornire assistenza tecnica per garantire" che il disegno di legge "rispetti gli standard internazionali dei diritti umani sul diritto alla libertà di espressione".
Secondo il progetto di legge 1415, ricorda la nota, chi non è accreditato come giornalista professionista può essere condannato alla reclusione fino a quattro anni per la registrazione di qualsiasi comunicazione o conversazione senza il consenso della persona coinvolta e la diffusione di tali informazioni. "Una sanzione così severa - ha sottolineato l’esperto - minerebbe seriamente il diritto di tutti gli individui a cercare e comunicare informazioni, in violazione della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, di cui l’Italia è parte".
La Rue ha inoltre espresso preoccupazione per la prevista introduzione di una sanzione per i giornalisti e gli editori che pubblicano materiale intercettato prima dell’inizio di un processo. "Una tale punizione, che include fino a 30 giorni di carcere e una sanzione fino a 10mila euro per i giornalisti e 450mila euro per gli editori, è sproporzionata rispetto al reato", ha affermato. Inoltre, "queste disposizioni possono ostacolare il lavoro dei giornalisti di intraprendere giornalismo investigativo su questioni di interesse pubblico, quali la corruzione, data l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari in Italia, sottolineata a più riprese dal Consiglio d’Europa", ha osservato La Rue.
* la Repubblica, 13 luglio 2010
L’agognata libertà dei servi
di Furio Colombo (il Fatto, 11.06.2010)
Per quanto i cortigiani siano tra loro diversi e fra loro ostili, la corte è massa e ha il potere di irradiare i propri comportamenti fino agli angoli più lontani della nazione, come il ragno al centro della tela, se si muove, tutto si muove. Il comportamento dei cortigiani, ha scritto Elias Canetti, deve contagiare gli altri sudditi. E ciò che i cortigiani fanno sempre deve indurre gli altri sudditi a fare almeno talvolta altrettanto.
La citazione è dal libro La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza). Viroli che insegna teoria politica all’università di Princeton scrive all’inizio del testo, uscito adesso in versione italiana, che il libro gli è stato chiesto dall’editore americano per spiegare ai disorientati cittadini del mondo che cosa succede oggi in Italia. La libertà dei servi lo fa con chiarezza pedagogica. Usa il modello della vita di corte, noto anche a chi conosce appena la storia d’Italia, per raccontare un’immagine diversa dalla brutalità della dittatura, ma altrettanto esigente quanto ai comportamenti: o sei dentro o sei fuori. O conti o non conti. O esisti o non esisti. È questo che ha indotto ciò che, un tempo, era l’opposizione a elaborare i tre espedienti per opporsi senza rompere: la "opposizione propositiva"; quella del dire un sì per ogni no (come per farsi perdonare); quella del male minore.
Tutte e tre le soluzioni comportano un certo rischio di sguardo irritato del sovrano nella vita di corte. Sempre meglio che essere ignorati per sempre dal principe. E’ consigliabile, infatti, mantenere ruolo e visibilità nelle cerimonie, che adesso si svolgono quasi sempre in televisione. Vuol dire confidare nelle buone maniere e decidere che niente è mai troppo per interrompere la vita a corte. C’è sempre un male minore da proteggere per evitare un male peggiore.
Dobbiamo presumere che tutto, finora dal “pacchetto sicurezza” che autorizza i sindaci a negare il pasto e il trasporto scolastico ai bambini immigrati, al trattato con la Libia, che permette la caccia e la detenzione senza limiti ai rifugiati politici che cercano asilo in Italia sia un accettabile male minore. E non provo neppure a includere nella lista una serie di atti di collaborazione offerti, certo in buona fede, e sempre celebrati come trionfo della controparte, come la Lega Nord che ha vinto le elezioni regionali vantando il federalismo fiscale votato anche dall’opposizione. O come i ministri Bondi (legge sugli Enti lirici) e Calderoli (legge sugli Enti locali), che hanno potuto dire alla Camera e ripeteranno, appena possibile, nei talk show di cui sono star fisse che questa legge non sarebbe stata possibile senza la leale collaborazione dell’opposizione, che ringraziano. Insieme a tanti italiani, sono stupito che nessuno nel PD, tra coloro che competono per la leadership, abbia mai tentato di confrontarsi con i promotori del male minore, del "è bene dire sempre un sì dopo il no" , della opposizione propositiva, con l’unica denuncia possibile: perdiamo pezzi, approvazione, senso di appartenenza, orgoglio.
Si continuano a ripetere fiere espressioni come cambio di passo, colpo di reni, un salto in avanti, noi siamo pronti, per poi disporsi esattamente come prima, anche quando un leader ne caccia un altro. Permangono intatte le decisioni che hanno segnato l’opposizione fino ad ora: affrontare ogni dibattito come se fosse normale il governo, la legge che si discute e le ragioni per cui dobbiamo discuterla. E sempre lavorare duro per migliorare, ove possibile, il provvedimento, che vuol dire (se e quando lo sforzo riesce) che il governo e la sua maggioranza potranno vantarsi per gli errori evitati. E nessuno, mai, a cominciare dalla cronaca del giorno dopo, riconoscerà l’eventuale merito di chi avrebbe, solo e sempre, dovuto opporsi.
Perché solo e sempre? Non è eccessivo? Rispondo ricordando che, qualunque forma di confronto umano , dal gioco a scacchi alla partita in campo, conosce un’unica conclusione. Ci sono tante regole di disciplina e di lealtà, ma nessuna prevede di dare una mano a migliorare la strategia dell’avversario. Infatti non esiste un esito per il bene della partita. Quel bene, che è comune (altrimenti ci sarebbero lo scontro fisico e la violenza) prevede che una parte perda e una parte vinca, e non conosce o accetta alcuna altra via d’uscita per arrivare alla fine. Dunque, l’opposizione-proposta, che è una caduta nel vuoto; l’impegno di dire tanti “sì” insieme ai “no”, che è un modo curioso di muoversi con dei pesi aggiunti; la teoria del male minore, che è un’etichetta di buone maniere (non siamo così villani da respingere sempre tutto) non sono che tre modi di arrendersi.
Come non vedere che un simile comportamento non lascia alcun segno nell’attenzione e nella memoria dei cittadini, eccetto la delusione e un triste senso di solitudine? Come non vedere lo spazio che separa gli elettori del Pd e si allarga, dopo ogni male minore, dopo ogni costruttiva proposta? Come non accorgersi della solitudine disorientata dentro il Pd?
Intercettazioni: a Bolzano imbavagliata la statua di Dante *
BOLZANO. ’’No alla legge bavaglio - Nein zum Maulkorbgesetz’’ si legge in italiano e tedesco su un foglio di carta gialla con la quale la Sinistra Ecologia Libertà ha ’imbavagliato’ la statua di Dante Alighieri a Bolzano. ’’Abbiamo organizzato questo flash mob - ha detto il consigliere comunale Guido Margheri - a sostegno della mobilitazione di Fnsi, di Articolo 21, di tante altre associazioni a cui sta a cuore la libertà nel nostro Paese e della giornata del silenzio proclamata dai giornalisti contro il ddl del governo sulle intercettazioni’’. Secondo Margheri, ’’imbavagliare la statua del padre della lingua italiana Dante Alighieri è una forma di protesta contro l’arroganza e la protervia del governo Berlusconi e a difesa della libertà di informazione, per un giornalismo libero e con la schiena diritta’’
Cecità: un’epidemia collettiva che porta verso la più sfacciata volgarità
di Norberto Lenzi *
Qualche settimana fa è morto Josè Saramago, uno dei più grandi scrittori di sempre. Dopo aver subito il prevedibile ostracismo dalle case editrici di Berlusconi, la sua memoria è stata brutalmente calpestata dall’Osservatore Romano con accenti di un’asprezza così rancorosa da apparire insolita perfino per un giornale che non ha mai risparmiato rampogne verso chi manifesta la sua laicità.
Uno dei suoi libri più belli e più originali si intitola Cecità. In una città qualunque, di un paese qualunque, un guidatore sta fermo al semaforo in attesa del verde quando si accorge di aver perso la vista. All’inizio pensa che si tratti di un fenomeno passeggero, poi passa attraverso un crogiuolo di emozioni che vanno dalla incredulità, alla speranza, alla disperazione.
È l’inizio di un’epidemia che colpisce progressivamente tutta la città e l’intero paese creando un’emergenza per cui i ciechi vengono rinchiusi in un ex manicomio e lì vivono nell’abbrutimento più totale, sorvegliati a vista da soldati armati che non esitano a sparare contro quelli che tentano di fuggire. Quella condizione scatena nei più gli istinti peggiori, l’individualismo più esasperato, la sopraffazione dei più deboli.
Si tratta di un’allegoria spietata su quanto può accadere quando il vivere sociale riceve una turbativa che allontana la comunità dalle regole e crea spinte selvagge alla realizzazione egocentrica degli interessi individuali, condotta fino alla soppressione fisica di chi potrebbe contenderli. Poi, inspiegabilmente come si era manifestata, l’epidemia si risolve, tutti riacquistano la vista e constatano quanta desolazione e quante macerie quello stato collettivo aveva provocato.
Nel nostro Paese, invece, la perdita della vista è stato un lento fenomeno progressivo, con obnubilamenti inizialmente lievi, a volte perfino soavi, come l’attesa di una riduzione delle tasse, fino a raggiungere incredibilmente la cecità totale proprio in concomitanza con la caduta di ogni speranza sulla realizzazione di tale appetitosa promessa.
Dante sistemava all’Inferno chi praticava “lunga promessa con l’attender corto”, ma Berlusconi ha scalato il Paradiso grazie alla procurata cecità collettiva sulla truffaldina condotta di un fedifrago costituzionale. Un’atrofia visiva che impedisce ancora oggi, nonostante la lunga teoria di escort, penose esibizioni fotografiche con ballerine di lap-dance, goffi e volgari corteggiamenti di sconcertate signore all’estero, di riconoscere che questo non può essere un Presidente del Consiglio di un paese civile ma, al massimo, la risposta italiana a Bokassa.
Nel libro di Saramago un’unica donna era riuscita miracolosamente a conservare la vista e non lo manifestava agli altri per pudore e per timore, pur guidandoli nell’assillo delle necessità quotidiane. Da noi fortunatamente sono ancora molti le donne e gli uomini che sono riusciti a conservare questo indispensabile senso. Alcuni anzi, come avviene in certe situazioni nel mondo animale che stimolano l’istinto di conservazione della specie, sono riusciti perfino ad acuirlo.
È a questi che dovremo affidarci nel presente e nel futuro perché tutti questi ciechi, come nella parabola di Bruegel, non finiscano nel precipizio. Dicono che noi pensionati abbiamo una fastidiosa propensione all’apologo. Spero invece che si tratti di una felice disposizione alla profezia. Ha detto Falcone che la mafia, come tutti i fenomeni umani, deve avere un inizio e una fine.
Così dovrà essere anche per Berlusconi.
LA STAMPA A FIEG-FNSI
"Meglio la voce del silenzio"
di DIREZIONE E CDR LA STAMPA (La Stampa, 7/7/2010)
Alzare la voce tutti assieme, se è possibile, contro il Ddl sulle intercettazioni e per ricordare l’anomala situazione dell’informazione in Italia. E’ questa la nostra proposta alternativa allo sciopero proclamato per domani dalla Fnsi per la carta stampata. I cittadini vanno informati e non privati della conoscenza dei motivi della protesta. Ricordiamo che il presidente del Consiglio e primo editore televisivo in Italia, Silvio Berlusconi, vorrebbe addirittura uno sciopero proclamato dai lettori, tanto è il suo interesse a che non leggano.
Per questo la Direzione e il Comitato di redazione della Stampa si rivolgono, ancora una volta, a Fieg e Fnsi perché per il giorno 9 luglio ci sia invece un’azione congiunta volta a pubblicare sui quotidiani gli appelli che da vent’anni fanno i Presidenti della Repubblica, i rappresentanti degli editori e dei giornalisti in favore della libertà di stampa, del pluralismo nel mondo dell’emittenza e della carta stampata. Sarebbe più utile spiegare e rispiegare i rischi che comporta l’introduzione di ulteriori restrizioni penalizzanti per i cittadini.
Per quanto riguarda il giornalista, il primo compito è quello di pubblicare le notizie, e tale deve restare. Anche in uno speciale 9 luglio per la convergenza di intenti e contenuti tra Fieg e Fnsi.
MANIFESTAZIONI A ROMA E IN 21 CITTA’
Intercettazioni, giornalisti in piazza
Napolitano: "Chiari i punti critici"
Protesta contro il ddl Alfano.
Il Capo dello Stato bacchetta
il governo: "Io non ascoltato"
Bossi: "Troveremo un’intesa"
ROMA Resta alta tensione sulle intercettazioni nel giorno della protesta dei giornalisti contro il ddl che limita gli ascolti e riduce fortemente la possibilità di renderli pubblici. Manifestazioni sono previste in piazza Navona a Roma e in altre 21 città.
Un nuovo duro affondo arriva dal presidente Napolitano. «I punti critici della legge sulle intercettazioni nel testo approvata dal Senato risultano chiaramente», ha detto il Capo dello Stato rispondendo ai giornalisti. Napolitano ha aggiunto che il Quirinale non ha il compito di formulare modifiche e che si riserva una valutazione finale nell’ambito delle prerogative proprie del Capo dello Stato. «A noi non spetta indicare soluzioni da adottare. Valuteremo obiettivamente se verranno apportate modifiche adeguate alla problematicità di quei punti che sono stati indicati già in evidenza», ha spiegato il presidente della Repubblica.
Napolitano ha ammesso che la sua esortazione alle forze politiche a concentrarsi nell’esame e nell’elaborazione della manovra economica «non sono state ascoltate» «nel momento in cui sono state prese determinate decisioni a maggioranza nella Commissione dei capigruppo».
A Roma intanto scendono in piazza i giornalisti chiamati a raccolta dalla Fnsi e tutti coloro che intendono protestare contro la «legge-bavaglio». Intervengono tra gli altri i giornalisti Tiziana Ferrario, Lirio Abbate, Fiorenza Sarzanini, Andrea Purgatori. L’evento viene trasmesso in diretta su Sky, RaiNews24, radio locali, YoudemTv e sul nostro sito www.LaStampa.it. «In difesa della giustizia, dell’informazione e della libertà di espressione su internet», si svolge alle 18,30 una manifestazione a Milano. L’iniziativa è in programma in piazza Cordusio. Sul palco si alternano giornalisti, intellettuali, giuristi, rappresentanti di associazioni e movimenti della società civile attiva. Tra i relatori già confermati ci Peter Gomez, Vincenzo Consolo.
Sul ddl intanto è piena bufera politica. Il provvedimento è stato inserito all’odg dei lavori dell’Aula di Montecitorio il prossimo 29 luglio. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha accolto la richiesta (non facendolo «sarei venuto meno al ruolo istituzionale»), ma ha definito «irragionevole» l’accelerazione aprendo un nuovo braccio di ferro con il premier Silvio Berlusconi che sabato scorso aveva ancora una volta auspicato un iter rapido del provvedimento. «Se il testo non cambia in modo ragionevole - avverte il finiano Fabio Granata - noi certo non lo voteremo. E voglio proprio vedere cosa succederà». Anche l’opposizione annuncia battaglia e chiede che il ministro dell’Interno Roberto Maroni venga a rispondere in Parlamento sull’allarme lanciato, nelle audizioni in commissione Giustizia della Camera, dal procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso e dai vertici dell’Anm Luca Palamara e Giuseppe Cascini.
Fini però non ha dubbi: forzare così la mano sui tempi non ha senso visto che il voto finale del ddl non arriverà comunque prima di settembre dal momento che alla Camera dovrà essere cambiato. Pertanto schiacciare ora l’ acceleratore è solo una questione di «puntiglio». Anche il vicepresidente del gruppo Udc alla Camera Michele Vietti definisce il «blitz» del Pdl un «puntiglio» e «un’ impuntatura». A sparare a zero sul provvedimento, invece, Pd e Idv che annunciano le barricate («alla Camera per la maggioranza sarà l’inferno» minaccia Dario Franceschini). Il Garante sulla privacy Francesco Pizzetti ha detto che la libertà di stampa è davvero a rischio. Il leader del Carroccio Umberto Bossi che si dice pronto a «chiudere anche prima dell’estate». In molti nel Pdl non credono però a questa ipotesi. Sarà impossibile, affermano, garantire la presenza in Aula dei senatori fino a ferragosto. Al massimo si riuscirà a far votare il testo solo alla Camera. Poi si dovrà andare a settembre per forza.
La Consulta della Giustizia del Pdl, intanto, studia il da farsi. Pur attendendo indicazioni dal governo. Mentre i vertici del gruppo alla Camera domani si vedranno per fare il punto anche sui tempi. Le audizioni continueranno anche domani visto che Grasso non riesce a concludere la sua esposizione. «Ha smantellato il ddl», sintetizza il leader Idv Antonio Di Pietro. Ribadendo, tra l’altro, che non si potrà più indagare sulle organizzazioni criminali non mafiose. Le audizioni, ribadisce il capogruppo Pdl in commissione Enrico Costa che resta fuori dall’aula per tutto il tempo («ho già letto quello che dicono sui giornali») sono inutili. Meglio sarebbe, afferma, cominciare a discutere nel merito il provvedimento. Se si dovrà cambiare, infatti, e non è detto, meglio sbrigarsi. Sul ddl una cauta apertura ariva da Bossi. «Si deve trovare la mediazione e la troveremo. La gente non ci tiene a essere intercettata, ma in alcuni casi è chiaro, la magistratura deve poter intercettare», spiega il ministro delle Riforme. Dubbi, ancora una volta, esprimono i finiani: «La scelta del Pdl di imporre alla Camera la calendarizzazione delle intercettazioni entro il mese di luglio non è stata un’idea geniale. In questi giorni l’opinione pubblica è presa dalla crisi economica e dalla manovra e tende a dare molto peso ad alcune questioni che riguardano la politica, a partire dalla legalità», afferma Italo Bocchino, presidente di di Generazione Italia.
* La Stampa, 1/7/2010 (17:47)
LE INIZIATIVE
"Noi, contro la legge-bavaglio"
In piazza o sul web la galassia della protesta
di MARCO PASQUA *
UNA mobilitazione costante, dal basso, che ha visto scendere in campo un numero crescente di cittadini, anche al di fuori di associazioni e partiti, nel segno del web. La parola d’ordine è sempre è la stessa, per tutti: "no alla legge bavaglio". Declinata nelle forme di sit-in, flash mob, letture, spettacoli, e anche cene a base di lasagne tricolori. Punto di partenza sono spesso i blog e, soprattutto, Facebook, che, nella sua sezione dedicata agli eventi raccoglie le segnalazioni provenienti da tutta Italia. Proteste accomunate spesso da strisce di stoffa e dai post-it, con i quali i manifestanti si chiudono simbolicamente la bocca, a simboleggiare le intenzioni di questo ddl sulle intercettazioni. Impossibile un calcolo esatto di tutte le proteste organizzate dal popolo anti legge-bavaglio, anche in vista della grande manifestazione di oggi in piazza Navona.
Queste le venti iniziative, recenti e future, selezionate tra quelle organizzate a livello locale.
Jacopo Fo, sul suo blog, ha rilanciato un appuntamento tutto incentrato su una metafora gastronomica: il 19 giugno, alle 20, a Gubbio, è stato organizzato, presso la "Libera università di Alcatraz", un evento a base di lasagne bianche rosse e verdi "contro la legge salvacriminali". "Se gli italiani non si ingozzassero di fast-food, coloranti e conservanti forse non tollererebbero un governo avariato. Per questo vogliamo organizzare una serie di cene patriottiche e sublimi: dare nuova forza al substrato sensoriale del buon senso, celebrare la vita e il progresso, il bello e il buono contro l’umiliazione della legalita’. Il buon cibo apre la mente", si legge sul blog dello scrittore e attore.
Giornalisti, sindacalisti ed esponenti dei Giovani Democratici si sono ritrovati, il 24 giugno, a Sorrento, per un evento ampiamente condiviso sulle bacheche di Facebook. Durante la manifestazione, oltre agli interventi "ufficiali", è stato lasciato uno spazio libero per gli interventi di chiunque volesse dare il proprio contributo alla manifestazione. Al termine dell’incontro, sono stati letti gli articoli della Costituzione "per riaffermare con forza i valori e i diritti di cui si richiede la tutela". I manifestanti hanno indossato bavagli e post-it.
In Piemonte, è stata organizzata in poche ore, una veglia funebre rumorosa, promossa dal Popolo Viola. Un’improvvisata manifestazione pacifica e rumorosa, che ha sfilato per le vie del centro di Torino per celebrare, lo scorso 12 giugno, il "lutto definitivo per la democrazia e la libera informazione nel nostro Paese, e per informare cittadini all’oscuro dell’avvento definitivo della dittatura in Italia".
A Vico Equense, invece, è approdato, dal 25 giugno, lo spettacolo: "In Galera! Gli articoli che potremmo non leggere più". Attori professionisti leggono stralci di intercettazioni, da quelli della "cricca" ai "furbetti del quartierino". Intervengono giornalisti, che si inseriscono di volta in volta per spiegare al pubblico azioni e risultati del lavoro di polizia, carabinieri e di tutte le forze dell’ordine.
L’associazione nazionale magistrati ha, da parte sua, inviato un documento, lo scorso 19 giugno, durante un sit-in a Nuoro: dietro a questa manifestazione, cui ha anche aderito l’Anpi, un comitato spontaneo autocostituitosi per protestare contro la legge bavaglio. Il giorno precedente, nella stessa città, il reading "per la libertà contro la legge bavaglio", con la lettura del recital "I canti per la libertà". Si è mobilitato anche il popolo della notte, mettendo "il bavaglio al divertimento per non metterlo all’informazione".
Sul fronte creativo, uomini e donne si sono lasciati ritrarre con il post-it da due cittadini, Daniele Franceschi e Roberto Olivadoti, che hanno lanciato l’idea e organizzato un’apposita sessione fotografica allo Scalo San Donato di Bologna. Il risultato sono delle foto, che saranno anche utilizzate per una performance artistica . E il progetto, con ogni probabilità, sarà esportato in altre città italiane. Lo scopo sarà sempre lo stesso: "risvegliare le coscienze durante la febbre del sabato sera".
A partire dal 7 giugno, a Monterotondo (Roma), lo stesso sindaco, Mauro Alessandri, ha promosso un "presidio democratico", attraverso il quale i cittadini hanno potuto firmare contro questa ipotesi di legge. Una protesta che è arrivata fino in spiaggia, grazie al popolo Viola, prima il 6 giugno, a Cervia, poi domenica 27 giugno a Punta Marina (Ravenna): qui è andato in scena un Frozen beach flash mob, con passeggiata imbavagliata per "la libertà di informazione e di indagine".
Stesso giorno, ma in località Sampieri (Ragusa), la Federazione della Sinistra ha promosso un’altra passeggiata in spiaggia. Sul lungomare, a pochi passi dal vecchio borgo, i manifestanti col bavaglio, uno striscione tra le mani con la scritta "Noi? Nulla da nascondere. No al bavaglio", e armati di volantini, hanno messo in atto un’azione di sensibilizzazione che ha coinvolto i bagnanti.
I grillini, l’11 giugno, hanno dato appuntamento ai cittadini in piazza Municipale a Ferrara, per una lettura collettiva, in stile mantra, dell’articolo 21 della Costituzione, intercalata da musica spontanea (incluse le percussioni portate dai manifestanti), e lettura di brani sul tema della libertà d’informazione e della difesa della giustizia.
A Molfetta, il coordinamento a difesa della costituzione, lo scorso 26 giugno, ha protestato, in silenzio, nell’aula Carnicella, in piazza Municipio, in occasione del consiglio comunale. I cittadini hanno indossato una maglietta bianca e hanno esibito il post-it, simbolo indiscusso di questa protesta.
Sempre nella sala del Comune, ma questa volta di quello di Pistoia, il 15 giugno scorso, è stato organizzato un flash mob, durante la stessa seduta del consiglio. Oltre ad esporre uno striscione con la scritta "no alla legge Bavaglio - Resistenza", si è osservato un minuto di silenzio. Alla protesta hanno aderito i consiglieri dell’Idv e dei Verdi.
Flash mob a ritmo di tango, a Marsala, una settimana dopo, il 22 giugno. Da piazza della Repubblica, ci si è spostati in Piazza del Popolo e a Piazza Inam. Dietro questo appuntamento, in questo caso, un "movimento spontaneo" che ha esteso l’invito a partecipare a "tutti i cittadini liberi, anche se non ballerini di tango".
Tante, ovviamente, le iniziative previste per oggi, giorno del raduno di piazza Navona a Roma, che sarà trasmesso in diretta web e sul digitale. Oltre ai pullman e ai punti di ritrovo organizzati nelle grandi città, ci sono anche molte iniziative locali. A Latina, ad esempio, la sezione cittadina dell’Unione nazionale cronisti ha dato appuntamento ai giornalisti, alle 10, in piazza Buozzi, davanti al tribunale. "Il luogo - si legge su Facebook - è stato scelto come simbolo della cronaca nera e giudiziaria che non potremo più fare quando entrerà in vigore questa legge. Non bastano i ’riassunti’, di fatto i cittadini non potranno più sapere cosa accade intorno a loro". A Forlì si è mossa l’Associazione stampa forlivese, che ha convocato un’assemblea dei giornalisti forlivesi aperta al pubblico per la mattina di giovedì nel salone comunale. Per chi vive a Pavia e non dovesse riuscire a recarsi a Roma, c’è un appuntamento in piazza della Vittoria, alle 18.30. Piazza Dante, a Caserta, sarà sede di un flash mob, alle 17. Appuntamento davanti all’hotel Europa, dove si leggeranno alcuni articoli della Costituzione. "I lettori verranno imbavagliati in viola, indosseremo coppole, come simbolo della contingenza tra bavaglio e benefici derivanti per la criminalità e ci disperderemo in gruppetti".
Intanto, c’è già chi pensa a ciò che sarà dopodomani. A Verbania (VB), Emanuele e Simona vogliono dar vita, con il passaparola via Facebook, ad un flash mob. Ritrovo il 3 luglio alle 16, in piazza Ranzoni: qui i partecipanti suoneranno la trombetta, ognuno con la bocca coperta in segno di protesta. "Per 5 minuti resteremo tutti imbavagliati", spiegano sul social network, invitando altri internauti a dar vita ad iniziative analoghe: "Mi raccomando, passate parola, facciamoci sentire. Se magari proprio tu non puoi, gira questo invito agli amici, anche se hai amici distanti da te. Magari gli dai l’idea per organizzarlo anche da loro, anche se si vive in piccoli paesi, si può fare molto, per tutti".
Il 9 luglio, invece, di fronte alla Prefettura di Reggio Calabria, si lavora ad un sit-in: lo organizza la rivista Freelance Magazine. "Vi invitiamo a partecipare numerosi contro un governo che tenta di imbavagliare i giornalisti, di ostacolare la lotta alla criminalità organizzata e di salvaguardare i propri interessi. Vi invitiamo ancora una volta alla disobbedienza civile, a manifestare per il vostro diritto all’informazione con responsabilità e consapevolezza", scrivono su Facebook i promotori, che rimandano anche al loro sito.
Infine, l’associazione Libera, a Piacenza, ha organizzato per il 7 luglio una cena della legalità, dedicata proprio al tema al tema delle intercettazioni e della "legge bavaglio".
* la Repubblica, 30 giugno 2010
CONTRO LA LEGGE BAVAGLIO
Ferrario: «Il Tg1 un’arma di distrazione di massa»
La popolare giornalista dell’ammiraglia Rai condurrà insieme ad Ottavia Piccolo l’inizitiva della Fnsi dal palco di piazza Navona, il 1 luglio dalle 17. Manifestazioni nelle altre città
di Virginia Lori (l’Unità, 30.06.2010)
Ho accettato subito di condurre la manifestazione per la libertà di stampa con entusiasmo, perchè questa legge se passasse, diventerebbe un alibi per chi l’informazione completa già non la dà, come chi ha trasformato il principale telegiornale italiano un’arma di distrazione di massa». Tiziana Ferrario ha motivato così la sua adesione alla manifestazione indetta dalla Fnsi. La giornalista del Tg1 condurrà con Ottavia Piccolo l’iniziativa nazionale che si svolgerà il 1 luglio a Roma dalle 17 in Piazza Navona.
Come Chavez. «Una dichiarazione come quella del premier la poteva fare Chavez o un altro leader di un regime populista», ha intanto reagito Franco Siddi, segretario generale della Fnsi, a Berlusconi che dal Brasile ha invitato a scioperare contro i giornali. «Abbiamo subito un nuovo atto di aggressione, fondato sul principio della libertà invertita. Siamo stufi di questi atti ha continuato Siddi . In questo paese c’è una casta espressa da un potere con un enorme conflitto d’interesse, che vuole proteggere se stessa, considerando l’informazione come nemico. È una deriva molto pericolosa».
La manifestazione «contro la legge bavaglio» si svolgerà oltre che a Roma con una Notte Bianca, a Conselice dove c’è il monumento alla libertà di stampa, e in molte città come Milano, Padova, Torino, a Trieste, Latina, Parma, Londra, Parigi. Per Roberto Natale, presidente della Fnsi, con il ddl intercettazioni «l’attacco non è solo al diritto-dovere dei giornalisti di informare ma soprattutto a quello dei cittadini di essere informati». Natale ha sottolineato la grande unità del mondo del giornalismo.
Federazione della stampa e Fieg sono stati ascoltati in commissione giustizia alla camera, nell’ambito delle audizioni accordate alcuni giorni fa dalla presidente Bongiorno. Il presidente della Fieg Carlo Malinconico ha presentato un documeto scritto. «Il ddl sulle intercettazioni, approvato dal Senato, incide ancora pesantemente sulla libertà di informazione, nonostante i miglioramenti apportati». È la valutazione di Malinconico che esprime in particolare «gravi preoccupazioni, per le previsioni normative volte a comprimere la pubblicazione di notizie riguardanti inchieste penali». «In luogo del divieto ’tout court’ si prevede ora riconosce Malinconico la possibilità di pubblicare per riassunto, una volta caduto il segreto». Tuttavia resta un «regime incoerente per le intercettazioni», vige il divieto assoluto di pubblicazione, anche se non più coperte da segreto, fino al processo, pena la gravissima sanzione della reclusione da 6 mesi a 3 anni ma manca nel testo del ddl, «un filtro capace di eliminare dal fascicolo processuale le intercettazioni non rilevanti». Se si considera che le intercettazioni sono state limitate ai reati che destano allarme nella pubblica opinione e che manca tale filtro per i contenuti irrilevanti, l’effetto è che per reati gravissimi non sarà possibile dare notizie di circostanze non più coperte da segreto.».
Disobbedire, per la democrazia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 12.06.2010)
Questa legge va fermata «nell’interesse della democrazia, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza di informazione. Non c’è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato». Le parole di Ezio Mauro su Repubblica ripropongono il tema della disobbedienza civile, ovvero il limite oltre il quale obbedire può contribuire a riconoscere una legge ingiusta.
E lo ripropongono in un momento nel quale la democrazia costituzionale è a rischio poiché chi ha ottenuto la maggioranza per governare sta accampando pretesti per cambiare le regole: per governare secondo le proprie regole, per i propri desideri e interessi. L’Italia si trova di fronte a un bivio e la proposta di legge bavaglio è una tappa decisiva verso una pericolosissima fase anticostituzionale. Che cosa fare per impedire una nuova stagione liberticida? E prima ancora, come comportarsi di fronte a questa legge, se venisse approvata dal Parlamento?
Se questa legge passasse, molti cittadini si troverebbero fatalmente a dover decidere se rispettare la legge o rispettare la verità, se obbedire alla maggioranza o alla costituzione, poiché chiaramente la contraddizione tra le due è ormai aperta. Come ci ha fatto comprendere il presidente del Consiglio, la costituzione è un impaccio del quale lui vuole liberarsi; un impaccio come la libertà di stampa e l’autonomia della magistratura. Ma quando una decisione politica mette legge e verità, legge e Costituzione in contraddizione tra di loro, è la libertà di tutti a rischio. È su questo semplice ragionamento che si basa la disobbedienza civile, un’azione che è possibile solo dove la politica è sotto lo scrutinio permanente e pubblico dei cittadini e condotta nei limiti della costituzione.
È negli Stati Uniti che si è sviluppata la più ricca e completa teoria della disobbedienza civile: prima contro la schiavitù, poi contro la coscrizione obbligatoria per la guerra del Vietnam. La cornice ideale l’hanno tracciata David Henry Thoreau e Martin Luther King, i quali presero la strada della disobbedienza civile consapevoli che la loro scelta avrebbe comportato la repressione, ma senza per questo desistere. La disobbedienza è «civile» appunto perché fatta rispettando le leggi, perché chi disobbedisce accetta le conseguenze punitive previste. Non è dunque la legge che la disobbedienza civile rifiuta e contesta, ma una specifica decisione di una specifica maggioranza. La quale, quando provoca una reazione così radicale da parte dei cittadini, è davvero contro la legge, fuori della legge.
Thoreau nel 1846 rifiutò di pagare le tasse al governo federale per non contribuire a finanziare una guerra ingiustificata, quella contro il Messico, e una legislazione che sosteneva la schiavitù degli stati del Sud. Spiegò il suo gesto in una lezione al locale liceo pubblico di Concord, nel Massachusetts, che divenne il testo canonico della disobbedienza civile: se la coscienza del cittadino onesto è il sovrano ultimo della democrazia, quando la legge votata da una maggioranza la viola gravemente, la disobbedienza è un atto dovuto a se stessi, un dovere di onestà. Più politica ma non meno radicale la posizione che tenne Luther King, un secolo dopo, questa volta contro la segregazione razziale imposta da decisioni ingiuste. Il leader del movimento americano per i diritti civili scrisse dalla prigione di Birmingham, Alabama, un memorabile discorso-sermone nel quale, affidandosi ad autori religiosi e laici, da San Tommaso a Thomas Jefferson, giustificò la disobbedienza ad una decisione ingiusta con l’argomento che quest’ultima viola il patto fondamentale che tiene insieme la società civile e si mette, lei non i disobbedienti, fuori della legge. Anche per Luther King come per Thoreau, disobbedire era un dovere del cittadino se obbedire significava lasciare che la legge fondamentale venisse calpestata.
Disobbedire voleva dire non solo conservare la propria dignità di cittadini ma anche difendere lo spirito e la lettera della Costituzione. Al dispotismo della maggioranza si risponde riconoscendo obbedienza alla norma fondamentale. Questo principio fu ribadito da John Rawls negli anni della guerra in Vietnam. Rawls, in un saggio memorabile nel quale dettò una specie di statuto della disobbedienza civile, spiegò che questa è l’ultima ratio, una scelta che è fatta dai cittadini singoli e che viene dopo che tutti i passi politici per impedire l’approvazione di una legge sono andati a vuoto: dall’opposizione parlamentare, alle manifestazioni dell’opinione pubblica, al controllo di costituzionalità degli organi competenti. Alla fine, se tutto ció non ha sortito effetto, non resta che la responsabilità di chi individualmente si trova nella condizione di dover decidere se obbedire o no a quella legge.
La disobbedienza civile è per questo un segnale fortissimo di emergenza democratica perché con essa i cittadini si mettono individualmente nelle mani della legge proprio quando la disobbediscono: facendosi disobbedienti restano soli davanti al potere coercitivo dello Stato. Questa estrema ratio, quando necessaria, è una denuncia della situazione di incostituzionalità nella quale si trova a operare la maggioranza con la sua smania dispotica di liberarsi dalle regole. «Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», ha detto il Premier, definendo i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».
Ma è lui, è una maggioranza che si vuole incoronare sovrana che ci farebbe sudditi e servi se passasse questa pericolosa politica anticostituzionale, se passasse questa legge bavaglio: la madre di tutte le leggi liberticide. Silenziare le opinioni, spegnere la mente dei cittadini rendendoli bambini idioti davanti a una televisione che commercia il nulla: è questa l’Italia che il nostro Premier ha costruito in questi anni, un serraglio di docili sudditi che egli chiama popolo della libertà. Dove si fermerà questo incalzante assalto alle nostre libertà fondamentali?
Il perché di una pagina bianca
di Ezio Mauro (la Repubblica, 11.06.2010)
Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili - nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia - e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.
La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all’ostruzionismo irragionevole l’attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell’interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L’Aquila.
Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.
Ciò che resta, finché potrà durare, è l’atto d’imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini - quello di sapere - cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere. Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 11.06.2010)
È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l’impostazione della legge è ormai definita. I poteri d’indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l’impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d’informazione d’attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l’opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l’auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell’opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l’opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c’è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell’esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l’equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un’espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all’interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell’insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell’Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
* * *
Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s’accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l’ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato...).
In ogni regime libero, l’informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l’interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell’onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c’entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d’informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l’interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell’informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione.
In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere - il potere dell’informazione - che ha la sua ragion d’essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un’anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un’anomalia non è, perché l’informazione appartiene a un’altra sfera e non può diventare un’appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l’informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l’autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.
Da dove traiamo questo principio d’autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall’art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d’informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo.
Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L’art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale.
La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c’è di mezzo il diritto all’informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all’interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l’appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
* * *
Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.
Il sipario sugli scandali
di MARIO CALABRESI (La Stampa, 11/6/2010)
Ora cala il sipario. Il nostro lavoro si farà più incerto e faticoso e gli avvocati diventeranno compagni di banco di direttori e editori. Nonostante dibattiti, correzioni e appelli di ogni tipo, la legge che detta nuove regole per le intercettazioni e l’informazione viaggia spedita verso i suoi obiettivi.
Abbiamo più volte scritto e riconosciuto che in Italia ci sono stati problemi di rispetto delle vite private di persone coinvolte in indagini, ma ciò non può cambiare il giudizio totalmente negativo che abbiamo della nuova legge.
Il dovere di informare i lettori e il mestiere di giornalisti saranno resi più difficili perché le possibilità di raccontare le inchieste si ridurranno notevolmente, potremo darvi resoconti minimi e parziali, dovremo destreggiarci a fare brevi riassunti e mai citare dettagli o particolari determinanti. Tutto in una grande incertezza, che spingerà gli editori a sollecitare continui pareri legali per evitare le maximulte.
E’ forte l’amarezza per un gesto che non ha nulla a che fare con la privacy e la civiltà giuridica, ma ci parla solo della volontà urgente della politica di calare il sipario sulle inchieste e di mettersi al riparo dagli scandali, per garantirsi un tranquillo futuro di impunità e mani libere.
DDL intercettazioni
Documento della Federazione Nazionale della Stampa Italiana
di Franco Siddi, Segretario Generale FNSI
Federazione Nazionale della Stampa Italiana
Il Segretario Generale
Roma, 10 giugno 2010
Prot. n. 300/A
Ai Comitati di Redazione
Loro Indirizzi
e p.c.
Associazioni Regionali di Stampa
Loro Indirizzi
Care colleghe e cari colleghi,
come certamente vi è noto nella giornata odierna l’aula del Senato ha approvato il testo del disegno di legge sulle intercettazioni che contiene norme fortemente limitative del libero esercizio della professione giornalistica.
La Federazione della Stampa, che in questi mesi si è attivata per contrastare l’approvazione di questo provvedimento, ha messo in cantiere una serie di iniziative tese a sensibilizzare l’opinione pubblica e a contrastare l’iter procedurale nella fase di passaggio in terza lettura alla Camera dei Deputati.
In questo quadro la Giunta Esecutiva ha deliberato di proclamare uno sciopero di tutta la categoria da attuarsi l’8 luglio nella carta stampata e il 9 nelle radio e televisioni in modo da realizzare una giornata di “rumoroso silenzio” per protestare contro questo provvedimento in occasione della presumibile approvazione in Commissione Giustizia alla Camera e del passaggio alla discussione in aula.
Ovviamente, qualora il calendario dei lavori parlamentari dovesse mutare, provvederemo ad adeguare, di conseguenza, le date dello sciopero.
Nel frattempo, però, è necessario che tutta la categoria, in particolare nelle redazioni, si mobiliti per significare la gravità del momento e la pericolosità insita in una normativa restrittiva che limiterebbe gravemente, se approvata, il diritto dei cittadini ad essere informati.
La Federazione della Stampa in questi giorni mantiene uno stretto rapporto con gli editori per mettere in atto una comune iniziativa, mediante la pubblicazione nelle prime pagine di tutti i giornali di un testo di protesta.
L’intesa con gli editori è in questo momento in corso di perfezionamento.
E’ comunque necessario che sia dedicato il massimo impegno per evidenziare i danni che il provvedimento arrecherebbe alla libertà di informazione. Per questo, tutti i comitati di redazione sono invitati a intervenire, anche ai sensi delle previsioni contrattuali, perché sulle loro testate sia dato ampio spazio all’informazione su questa vicenda e per concordare con i direttori forme di evidenziazione del pericolo che si corre, mediante richiami, occhielli, segni grafici, o qualsiasi altra iniziativa si dovesse ritenere efficace.
Martedì prossimo la Segreteria incontrerà il mondo dell’associazionismo per concordare azioni comuni che coinvolgano i cittadini. Il giorno successivo si riunirà la Giunta Esecutiva insieme ai presidenti delle Associazioni Regionali.
Giovedì 17 si riunirà il Consiglio Nazionale federale. Da parte loro le associazioni regionali di stampa si stanno mobilitando a livello territoriale per individuare occasioni e momenti di dibattito e di protesta.
Vi terremo tempestivamente informati su ogni iniziativa.
Certi della massima collaborazione di tutti cogliamo l’occasione per inviarvi i più cordiali saluti e auguri di buon lavoro.
Franco Siddi
* Il Dialogo, Giovedì 10 Giugno,2010 Ore: 22:22
Ddl intercettazioni, sì alla fiducia
Il Pd non vota: libertà massacrata
Il testo torna adesso alla Camera.
Bagarre in Aula, Schifani espelle
e poi riammette i senatori dell’Idv *
ROMA Il Senato ha approvato il ddl intercettazioni sul quale il governo aveva posto la fiducia. Sono stati 164 i voti favorevoli della maggioranza (tranne Mpa che non ha partecipato), 25 i contrari di Idv, Api, Udc e Radicali. I senatori del Partito democratico avevano abbandonato l’aula prima del voto. Il provvedimento passa ora all’esame della Camera.
* La Stampa, 10/6/2010
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1786):
"In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare.
Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro?
Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione."
Immanuel Kant: "Che cosa significa orientarsi nel pensiero", a cura di Franco Volpi, traduzione di Petra Dal Santo, Adelphi edizioni, Milano, 1996, pgg. 62 - 63 (Articolo pubblicato per la prima volta nel numero di ottobre del 1786 della "Berlinische Monatsschrift" -VIII, 1786, pp. 304-330).
Il popolo e la libertà
di EZIO MAURO *
Soltanto un potere impaurito poteva decidere di proteggere se stesso con una legge che ostacola la libertà delle inchieste contro la criminalità, riduce la libertà di stampa e limita soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati. Tre principi dello Stato moderno e democratico - il dovere di rendere giustizia cercando le prove per perseguire il crimine, il dovere della trasparenza e della circolazione delle informazioni nella sfera pubblica, il diritto di avere accesso alle notizie per capire, controllare e giudicare - vengono messi in crisi, per il timore che i faldoni dell’inchiesta sulla Protezione Civile aprano nuovi vuoti nel governo, dopo le dimissioni del ministro Scajola.
È la vera legge della casta che ci governa e ha paura, come ha rivelato ieri Berlusconi, di "toghe e giornalisti". Per una volta, quello del Premier non è un anatema, ma una confessione: legalità e informazione sono i due incubi della destra berlusconiana, e nel paesaggio spettrale dei telegiornali di regime il governo con questa legge s’incarica infatti di bloccarli entrambi. L’obiettivo è che il Paese non sappia. E soprattutto, che non sapendo rimanga immerso nel senso comune dominante, senza più il pericolo che dall’intreccio tra scandali, inchieste e giornali nasca una pubblica opinione libera, autonoma e addirittura critica.
Questa è la vera posta in gioco: non la privacy, che può e deve essere tutelata se le parti giudiziarie decidono quali intercettazioni distruggere e quali rendere pubbliche, lasciando intatta la libertà d’indagine e quella d’informazione. Ma proprio questi sono i veri bersagli da colpire. Lo rivela lo stesso Berlusconi che ieri, in piena crisi d’incoscienza, si è astenuto sulla legge perché la vorrebbe ancora più dura.
La legge, così com’è, non piace a nessuno e fa male a tutti. Va fermata, nell’interesse del sistema democratico, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza d’informazione. Non c’è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato. La destra impari a fidarsi dei cittadini, a non temere la normale esigenza di giustizia, il bisogno di conoscere e rendersi consapevoli. Oppure smetta di chiamarsi popolo: e soprattutto, della libertà.
* la Repubblica, 09 giugno 2010
Il documento della Conferenza dei comitati di redazione
No al silenzio di Stato, giornalisti pronti alla resistenza civile *
La Conferenza nazionale dei Comitati e dei Fiduciari di redazione denuncia con forza e indignazione il ddl che impedisce ai giornalisti di dare notizie, a volte per anni, perchè vieta la pubblicazione della cronaca giudiziaria fino alla conclusione delle indagini preliminari. La norma inoltre impedisce, di fatto, alla magistratura di svolgere efficaci indagini contro la criminalità.
I giornalisti italiani sono pronti alla resistenza civile e non accetteranno mai di sottostare a una legge che limita il diritto dei cittadini ad essere informati e il loro diritto-dovere di informarli. I cittadini sappiano che i giornalisti faranno ogni sforzo affinchè loro possano continuare a conoscere tutte le notizie. Così come hanno fatto i direttori dei quotidiani e il mondo delle associazioni, i comitati e i fiduciari di redazione danno pieno sostegno alla Fnsi e assicurano l’adesione alle forme di lotta che la Fnsi promuoverà, compresi lo sciopero e una manifestazione aperta alla società civile. La libera informazione è la più pura espressione della democrazia, nessuno pensi di poterla bloccare con una legge che impone il silenzio di Stato.
* la Repubblica, 09.06.2010
Nuove ragioni per resistere
di Concita De Gregorio (l’Unità, 10.06.2010)
Siccome diamo per scontato che il premier e i suoi consiglieri conoscano le date fondamentali della nostra storia (e diamo anche per scontato che il premier sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali), siamo obbligati a considerare non casuale la coincidenza tra il forsennato attacco alla Costituzione della Repubblica e il 70 ̊ anniversario della mussoliniana dichiarazione di guerra.
Anniversario a parte, le analogie sono tante. L’assoluta mancanza di rispetto per la Storia, la faciloneria nel liquidarne l’insegnamento. Il fastidio per le regole e l’illusione che un’ idea dissennata diventi sensata solo perché sostenuta da una maggioranza urlante. Il disprezzo per le giovani generazioni e per la loro formazione.
Grazie alla nostra Costituzione, che la guerra ripudia, non si possono più mandare i giovani al macello. Ma si possono distruggere le basi della loro formazione civile dileggiando la carta fondamentale. Che, come Silvio Berlusconi dovrebbe sapere, fu scritta facendo tesoro di quanto era accaduto dopo quel 10 giugno del 1940, perché non si ripetesse mai più.
Conosciamo troppo bene la dinamica servile che s’innesca in queste circostanze. Ci sarà chi dirà che il discorso di ieri del premier è stato “frainteso”. Ci sarà qualcuno dei suoi lautamente stipendiati intepreti autentici che irriderà il nostro disgusto. Lo sappiamo bene.
Ma è un motivo in più per andare avanti. Togliere significato alle parole o, peggio, conferire al leader una speciale immunità semantica (in aggiunta a quella giudiziaria) è un altro modo per fiaccare e avvilire una democrazia. Perché la democrazia si fonda sul confronto delle idee e sul rispetto. Altra categoria che il nostro premier ignora come dimostra l’incredibile notizia emersa ieri: fin dal 25 maggio il consiglio dei ministri aveva deciso di porre la fiducia sulla legge-bavaglio. È ora chiaro con qualche convinzione la maggioranza abbia in queste settimane dialogato con le opposizioni.
Ieri abbiamo dato notizia del boom di iscrizioni di giovanissimi all’Associazione nazionale partigiani. Prendono tutti la tessera da antifascista. L’aggettivo che il nostro premier non ha mai voluto pronunciare, ed è sempre più chiaro perché. Ecco un modo per rispondere e per cominciare a costruire un paese migliore. Con pacatezza, lucidità e coraggio cominciamo a pensarci tutti come moderni partigiani. La Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio nel presente.
di Marcella Ciarnelli
L’originale della Carta è custodito nell’archivio di Palazzo Sant’Andrea, di fronte al Quirinale, che quell’archivio ha voluto. A pochi passi c’è la sede della Consulta. Rassicura che i massimi garanti della Costituzione pur con funzioni diverse, l’abbiano così vicina, quasi ad accudirla. A difenderne la concezione e il testo che scaturì dal dibattito e il confronto di forze diverse.
L’origine e il futuro. Le radici e la prospettiva. Con una capacità di accoglimento delle istanze e allo stesso tempo di anticipazione che ancora lascia sorpresi davanti all’incapacità di dialogo e di confronto che sembra caratterizzare l’attuale epoca politica nonostante sia evidente che per superare la crisi, lo ha ribadito ancora ieri il presidente Napolitano, sia più che mai necessaria “una comune progettualità sorretta da una coerente visione dell’interesse generale”. E, innanzitutto delle giovani generazioni. Un attacco non nuovo quello del premier. Già nel 2003, giusto per citare un episodio, si esibì, sempre davanti ad una platea di imprenditori, in una show smodato come quello di ieri sull’articolo 41. A quello per tutti gli altri che a suo parere lo imprigionano e lo condizionano. Ad un testo tutto che a seconda dei giorni definisce “cattocomunista” ma anche di “ispirazione sovietica”. Quindi “un inferno” per lui che per le regole non ha alcun rispetto.
Ma altri vigilano. Parlano per il Capo dello Stato e per tutti i garanti della Carta le parole dette in tante occasione. In particolare nel sessantesimo. “La nostra come ogni altra Costituzione democratica è legge fondamentale, architrave dell’ordinamento giuridico e dell’assetto istituzionale. E in quanto tale essa va applicata e rispettata”. Il punto fermo è di Giorgio Napolitano nell’intervento alla Biennale della democrazia, Torino, aprile 2009.
GOVERNO
Intercettazioni, Berlusconi blinda il testo
"Vincolante per il Pdl e blindato alla Camera"
L’ufficio di presidenza a palazzo Grazioli. Il Cavaliere: "Basta perdere tempo, la magistratura politicizzata blocca il Paese". "La Protezione civile rischia di essere presa a spari". D’Alema: "Istituzioni espropriate". Di Pietro: "Resistenza come contro il Fascismo" *
ROMA - "La legge è stata ostacolata da toghe e giornalisti ma adesso basta. Il testo che arriva alla Camera non sarà modificato. E questa è una decisione vincolante per il Pdl". Silvio Berlusconi, davanti all’ufficio di presidenza del Pdl a palazzo Grazioli, "blinda" il testo del ddl sulle intercettazioni. Sulle intercettazioni "è stato trovato un punto di equilibrio", c’è stato "un lungo lavoro di mediazione" all’interno del partito, ma ora "non dobbiamo perdere più tempo e bisogna votarlo senza ulteriori modifiche" taglia corto il Cavaliere. Invitando i fedelissimi a serrare i ranghi. E ammettendo che il testo finale sarà bel lontano da quello che il Cavaliere aveva in mente: "Ammetto che nel programma avevamo scritto una cosa dai principi molto più forti, ma fare leggi è un calvario quotidiano, pensi ad un cavallo e ti ritrovi un cammello. Ma adesso il testo è stato modificato ma non va più cambiato". Anche perché, sottolinea il Guardasigilli Angelino Alfano, "nel ddl ci sono i nostri principi".
Consueto, ormai, l’attacco alla magistratura e alla Rai ("se non smette di essere così faziosa contro la maggioranza sono quasi quasi tentato di non firmare il contratto di servizio pubblico") 1. "Ci criminalizzano perchè dicono che noi vogliamo impedire la libertà di stampa"
E una delle conseguenze della "criminalizzazione" sarebbe la decisione della magistratura abruzzese che ha indagato per omicidio colposo i membri della Protezione Civile che non hanno saputo avvisare i cittadini del terremoto all’Aquila: "Ho detto a quelli della Protezione civile di non andare più all’Aquila. Appena vanno in Abruzzo gli saltano addosso, qualcuno con la mente fragile rischia che gli spari in testa" dice il premier che punta il dito contro la magistratura politicizzata "in modo organico" che sta impedendo "il governo del Paese" e va, in questo senso, contro gli interessi del Paese. Dove, garantisce il Cavaliere, "la sovranità è in mano a Magistratura democratica e alla Consulta".
Resta da capire che faranno ifiniani 2 che continuano a nutrire dubbi sul meccanismo delle 48 ore che di volta in volta andrebbero ad aggiungersi ai tempi limite stabiliti per la possibilità di intercettare. E a questo proposito, rivela il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri, il Pdl sta valutando se innalzare da 48 ore a 72 ore l’arco temporale della proroga delle intercettazioni. "L’esame degli emendamenti conferma alcuni passi avanti soprattutto in tema di intercettazioni ambientali, ricusazione e astensione. Positiva è la volontà di superare il limite rigido dei settantacinque giorni anche se le modalità indicate necessitano di un’ulteriore riflessione per evitare un impatto negativo sull’organizzazione giudiziaria" afferma il senatore finiano e sottosegretario al Welfare, Pasquale Viespoli.
Intanto il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, assicura che per gli editori di giornali 3 "c’è una sanzione pecuniaria che è correlata alla gravità del reato, mentre non è prevista alcuna sanzione di tipo penale per gli editori". Resta invece il carcere di tre anni per il giornalista che pubblica intercettazioni delle quali è stata ordinata la distruzione, ma secondo il sottosegretario nessuno violerà quel divieto: "Mi auguro che di fronte a una notizia di cui sia stata disposta la distruzione o l’espunzione dal processo il giornalista non la utilizzi".
L’opposizione. Massimo D’Alema ha duramente criticato la scelta della maggioranza di blindare il testo sulle intercettazioni in una riunione a Palazzo Grazioli. Se così fosse, sottolinea il presidente del Copasir, "sarebbero espropriate le istituzioni". In ogni caso, aggiunge, "se il testo è quello noto fino a ieri vi sono norme non rassicuranti, soprattutto dal punto di vista della sicurezza dei cittadini". In particolare, per D’Alema la modalità di autorizzazione per la prosecuzione delle intercettazioni, "è chiaramente una norma ostruzionistica delle indagini". Durissimo Antonio Di Pietro: "’Silvio Berlusconi e’ un attore malefico nato, che propone e realizza un provvedimento scellerato e fascista. Siamo pronti alla resistenza, dentro e fuori il Parlamento".
* la Repubblica, 08 giugno 2010 (ripresa parziale).
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
La lezione di Tocqueville
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 4 giugno 2010)
La libertà di stampa è una di quelle libertà per le quali non può esistere una via intermedia tra massima libertà e dispotismo. Lo aveva capito quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville, il quale, da critico diagnostico della trasformazione democratica delle società moderne, non si faceva scrupolo a confessare la sua ambigua attitudine nei confronti di questa libertà. Una libertà che diceva di amare non perché un bene in sé ma perché un mezzo che impedisce cose veramente indesiderabili come l’impunità, l’abuso di potere e le tentazioni assolutistiche di chi governa. Proprio perché ogni tentativo di regolare la libertà di stampa si risolverebbe invariabilmente in uno sbilanciamento di potere a favore di chi regola, meglio, molto meglio una libertà senza limiti.
Del resto, chi può decidere su quale sia il limite giusto? E poi, chi controllerà colui che decide sul limite? Per questa ragione, Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell’opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l’intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l’assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.
L’impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull’opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all’opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire.
È per questa ragione che l’azione del premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l’impossibile: vivere di pubblico senza pubblico.
Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l’opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma il premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l’ambizione assurda dell’assolutismo dispotico nell’era dei media.
Come ha scritto Ezio Mauro a commento dell’attacco in diretta che il premier ha lanciato contro chi aveva ricordato le sue passate dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali (Massimo Giannini) e contro chi aveva mostrato con i dati un suo calo nei consensi (Ipsos e Pagnoncelli), egli vuole «impedire ai giornali di raccontare la verità» per distribuire invece «un’unica verità di Stato».
I monarchi assoluti dell’età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell’opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c’era era all’interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c’era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l’avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per il leader, l’essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un’immagine pubblica, un’immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna del leader con ambizioni assolutisiche nell’era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l’opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione.
Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell’immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi.
La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell’immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all’udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.
TV
Scoppia un caso su Saviano
La Rai taglia la trasmissione
Al Cda di martedì le puntate preparate dallo scrittore con Fabio Fazio. La squadra del conduttore di Che tempo fa: "Se dimezzano, non se ne fa niente". Ma a viale Mazzini temono le serate sull’Aquila e sui rifiuti
di G.DE MARCHIS
ROMA - Come il sarto di Gomorra, anche la Rai si prepara a usare le forbici. Contro Roberto Saviano. La trasmissione che lo scrittore condurrà su Raitre con Fabio Fazio rischia di essere ridimensionata, passando da 4 serate a due. Taglio netto. Che non si giustifica soltanto con la pubblica idiosincrasia manifestata dalla maggioranza e da Berlusconi per l’autore del best seller sulla criminalità organizzata. A Viale Mazzini infatti sono arrivate indiscrezioni sugli argomenti che Saviano vuole trattare in "Vieni via con me", il nome del programma. Una puntata sarà dedicata a Piergiorgio Welby, il malato che chiese e ottenne la sospensione dell’alimentazione forzata per morire. Un’altra alla ’ndrangheta. Ma sono i titoli delle altre serate ad attivare le antenne dei dirigenti al settimo piano. Saviano sta scrivendo due puntate che possono gettare un’ombra sui fiori all’occhiello del governo Berlusconi, peraltro già appassiti dopo l’inchiesta sulla cricca e Guido Bertolaso: una sulla ricostruzione post terremoto in Abruzzo, la seconda sulla vicenda dei rifiuti in Campania.
Nella squadra di Fazio e Saviano l’allarme è già scattato. E la reazione a caldo è da arma finale. "Se ci tolgono due puntate non vanno in onda neanche le altre. Il programma non si fa", tuonano. O tutto il pacchetto o niente. Anche perché la scelta della Rai sarebbe inspiegabile dal punto di vista aziendale. Gli special di Saviano a "Che tempo che fa" hanno avuto enorme successo e la pubblicità per "Vieni via con me" si vende come il pane. Cancellare o ridimensionare la trasmissione è un autogol economico.
I palinsesti per la nuova stagione arrivano sul tavolo di Mauro Masi stamattina. Poi toccherà al consiglio di amministrazione battagliare e decidere, nella riunione di martedì. Ma a Viale Mazzini confermano l’ipotesi del taglio. "Vediamo. Dobbiamo coordinare i programmi su tutte le reti. Forse andranno due puntate quest’anno e due l’anno prossimo". È una soluzione non gradita allo scrittore e alla sua produzione, che sono invece pronti a partire a fine ottobre per quattro serate al mercoledì. Martedì il cda esaminerà anche il taglio di "Parla con me". Il programma, nella bozza circolata ieri, perde una serata sulle quattro settimanali, a vantaggio delle trasmissioni sui 150 anni dell’Unita d’Italia che verranno spalmate anche su Raidue.
Ma i consiglieri affrontano anche il caso Ruffini. L’ex direttore di Raitre è stato reintegrato al suo posto dal giudice. Il suo successore Antonio Di Bella non ci pensa proprio a fare resistenza se non si troverà una soluzione adeguata. "Sono pronto a dimettermi se verrà deciso il reintegro del mio amico Ruffini - avverte Masi -. E fino a quel momento difendo l’autonomia della rete". Come ha fatto anche la Dandini chiedendo di non toccare il programma, per esempio. Il direttore generale quindi deve trovare una via d’uscita. Pensa di proporre a Ruffini la direzione di Raicinema (andando incontro a un no) o la guida di Rainews24, con l’inevitabile sollevazione di Corradino Mineo, già impegnato in una protesta con sit in (oggi) per le parole del viceministro Paolo Romani. Ruffini ha detto a Repubblica: "Voglio tornare a Raitre". E la sentenza del giudice del lavoro è esecutiva. E secondo alcuni consiglieri e lo stesso presidente Garimberti, dicono le voci di corridoio, o Masi trova la strada oppure martedì il cda deve rimettere al suo posto Ruffini. Monta la protesta da destra e sinistra anche per l’ipotesi di uno stop al Fatto del giorno di Monica Setta.
* la Repubblica, 04 giugno 2010
Intervista a Dario Fo
«Silvio cancella la democrazia e la sinistra se ne sta al balcone»
Il premio Nobel: «Per fermare il premier servirebbero una coerenza e un coraggio morale che fin qui sono mancati. Vedo timori e dolcinerie mentre i tori travolgono tutto»
La storia. «Non è uno show in cui sperare di fare una figura passabile. Chi si assume la responsabilità di non aver capito e lottato?»
La strada. «L’avete indicata anche voi dell’Unità: disobbedire. Non si salva l’Italia scendendo a patti con un oscuro nemico del paese»
di Toni Jop (l’Unità, 02.06.2010)
Partiamo da questo punto incontestabile: siamo governati da un premier che dice “ti amo” a questo paese mentre giorno dopo giorno gli toglie la libertà. Sembra una parabola classica sul potere. Infatti, Berlusconi più ci ama più ci tappa le orecchie. Adesso vuole discrezione, questa è la sordina che vorrebbe imporre alle intercettazioni, questa la gabbia in cui vorrebbe chiudere i magistrati. Affranti, in questa valle di lacrime abbiamo chiesto lumi a Dario Fo, per aggiornare i nostri sensi intorpiditi da un “amore” che ci vuole al buio.
Sarà vero amore, Dario? «Dubita, fratello, dubita, che il dubbio ti tiene in vita. Io, per esempio, ho scritto un testo sull’Orecchio di Dioniso. Non fabula, sed historia. Allora, c’era questo Orecchio che amplificava a mille le voci del popolo cosicché, in favore degli dei, una si potesse avvertire molto distante. Orecchio divino, divina macchina sonora. Ma un giorno, il senso dell’ ascolto fu invertito e al “popolo” giunsero le parole segrete degli dei. La divina macchina venne immediatamente murata. Murarono il mito, cosicché si vide di che pasta fosse il mito e quale fosse il cibo prediletto del potere: la coscienza del “popolo”. Chiaro?».
Maestro, questa è la storia della sinistra! Siamo noi che vogliamo ascoltare ciò che non va ascoltato, le parole del potere, le parole proibite. Siamo sulla strada giusta?
«Mica tanto. Perché tutto è scoperto, il gioco è scoperto nella sua violenta doppiezza ma non vedo una adeguata capacità di reazione. Abbiamo un premier che ormai non nasconde i veri obiettivi delle sue azioni e delle sue scelte. Dalle leggi ad personam al ddl sulle intercettazioni mentre echeggiano le voci secondo cui bombe e stragi “mafiose” sarebbero servite da scivolo per la nascita di una forza politica capace di traghettare il peggio della prima repubblica in una seconda, sedicente repubblica».
Ma, scusi, che dobbiamo fare? Denunciamo, facciamo opposizione secondo le regole democratiche...
«Ah sì? Eppure a me pare che la sinistra se ne stia affacciata al balcone mentre i tori corrono e travolgono ogni cosa giù in strada. Vedi, se, come è stato finalmente annunciato dalla sinistra, oggi è in gioco la democrazia, allora conviene adeguare le risorse e la lucidità a questa realtà tremenda. Serve una coerenza ferrea che fin qui è mancata. Serve un coraggio morale che fin qui ha oscillato. Eppure, il disegno del potere fu chiaro fin dal G8 di Genova. Ora dico forte: se i responsabili istituzionali di quel massacro degno di una dittatura non pagheranno per quel che hanno fatto, si toglieranno le basi democratiche anche a questa Seconda Repubblica. E i cocci saranno sempre nostri».
Intende per caso sostenere che la sinistra non sta facendo opposizione?
«Tu fai il furbetto, e io so - viva la rima quello che ho detto. All’opposizione restano il mugugno, il timore reverenziale di offendere, una dolcineria paurosa nei confronti di chi sta cancellando la democrazia e questo è ormai chiaro anche alla sinistra non vedente. Il fatto che non lo diciamo più solo io e pochi altri è una consolazione e insieme una disperazione. La storia non è uno show in cui si può sperare di fare una figura passabile, men che meno ora quando tutto è in gioco. Chi si assume la responsabilità di non aver capito e lottato con azioni concrete e coerenti?».
Va bene, ci indichi la strada, qualcuno la seguirà. Ma tenga a mente: lei passa per essere un insopportabile pessimista, un noioso bardo saputello e di Cassandra - viva la rima - fratello...
«La strada l’avete indicata anche voi dell’Unità: disobbedire, la disobbedienza civile sorretta da un “no” forte e coerente di tutto il centrosinistra alla vergogna che ogni giorno il premier allestisce da pessimo attore qual è. Altro che trattativa, altro che accordi: non si salva l’Italia scendendo a patti con un oscuro nemico del paese e della democrazia. Pessimista io? Bene, è il pessimismo che ci tiene in vita. Infatti, guardate l’Ottimista: aveva detto che la crisi non esisteva e che il paese stava benissimo, semmai doveva comprare di più. Eccolo imbastire un gigantesco trucco col quale sfiancherà “il popolo” e grazierà i ricchi e i potenti. Mentre moltiplica la sua personale dotazione di ville meravigliose...»
Eppure, moltissimi italiani hanno ancora fiducia nel premier...
«Senti questo elenco. Al ministro Scajola hanno comprato, pare, una casa a sua insaputa. Scajola non sapeva. Alla lista della spesa del ministro Bondi, nella manovra hanno fatto dei tagli che il ministro ignorava. Bondi non sapeva. Alle spalle di Berlusconi hanno piazzato una crisi economica spaventosa che il premier ignorava. Berlusconi non sapeva. Scelgano gli italiani: stanno votando un mucchio di farabutti oppure dei pazzeschi cretini?».
IL DDL
Intercettazioni, alt di Fini
«Il Senato rifletta ancora» *
ROMA«Ho dubbi sul testo al Senato del ddl sulle intercettazioni». Lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini, che cita in particolare la norma transitoria: «è in contrasto con il principio di ragionevolezza», ha sottolineato Fini.
Per il presidente della Camera «è opportuno che il Parlamento rifletta ancora su questo testo». «Mi inquieta un pò - ha aggiunto Gianfranco Fini - anche il limite di tempo. Io non so se i 75 giorni sono un numero giusto o sbagliato: ma se si capisce che il giorno successivo al 75/o accade qualcosa non si può continuare?». Per il presidente della Camera «non si può perciò usare la mannaia». Per questo Fini auspica «che il dibattito affronti queste questioni che non sono state valutate bene specialmente dalla maggioranza. Se i deputati alla Camera lo riterranno necessario si potrà intervenire».
Sulle intercettazioni è battaglia. «Il ddl sulle intercettazioni non è solo incostituzionale, ma viola anche i principali fondamenti giuridici dell’Ue». Lo ha sostenuto Felice Casson, vicepresidente del Pd al Senato. L’opposizione ha quindi subito attaccato il disegno di legge sulle intercettazioni, arriva in aula al a Palazzo Madama dopo il sì della commissione Giustizia. I democratici hanno chiesto il rinvio del ddl in Commissione Giustizia, perchè «ci sono emendamenti importanti della maggioranza con novità consistenti». Il Presidente del Senato, Renato Schifani, ha risposto in aula: «Prima incardiniamo il provvedimento. Mi impegno, poi, formalmente a dare una risposta così come avevo preannunciato».
Anche il Movimento per le Autonomie, «dopo aver valutato le ultime modifiche proposte dalla maggioranza al Ddl sulle intercettazioni», ha confermato «il giudizio negativo al provvedimento dato che tali modifiche non eliminano quei dubbi sugli ostacoli che la legge produrrà alle attività di investigazione e di contrasto alla criminalità organizzata, peraltro come denunciato dal Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, nel corso della sua audizione in Commissione». il senatore Giovanni Pistorio, Presidente del Gruppo Misto al Senato della Repubblica ed esponente del Movimento per le Autonomie, ha detto che «Se il provvedimento, durante il percorso d’Aula, non subirà profonde e sostanziali modifiche su questo terreno permarrà il giudizio negativo del Mpa»
* la Stampa, 31/5/2010 (17:16)
Disubbidire subito
di Giovanni Maria Bellu (l’Unità, 30.05.2010)
In Gran Bretagna, la perfida Albione, come direbbe il nostro Duce, succedono cose incredibili. Si scopre che un viceministro ha messo nella nota spese l’affitto di una casa dove non abita e scoppia uno scandalo colossale. Tanto che il poveretto deve scusarsi davanti alla nazione, giurare che rimborserà le casse pubbliche fino all’ultima sterlina e avviarsi a capo chino verso la Commissione Etica del Parlamento.
È davvero singolare che un popolo che ha la parola “privacy” nel suo vocabolario la tenga in minor considerazione di noi che abbiano solo quei desueti “privatezza” e “riservatezza”. Eppure è proprio così: solo qua, nel felice regno di Berlusconia , la privacy è davvero sacra. Per dire: due terzi dei parlamentari non giustifica in alcun modo l’utilizzo dei 4000 euro (al mese e a cranio) destinati alla retribuzione degli assistenti e nessuno ci fa caso. Anche se il danno erariale è di 20 milioni di euro e non di 40.000 miserabili sterline.
Ma, dobbiamo riconoscerlo, sopravvive anche tra noi una minoranza di moralisti che si scandalizza se un ministro riceve in regalo un appartamento da un imprenditore che lavora per il suo ministero, o se un presidente del Consiglio va a puttane, o se uno dei suoi principali collaboratori è anche collaboratore part time di Cosa Nostra. Durerà poco. La maggioranza del nostro Parlamento che annovera alcune delle più autorevoli vittime di questo residuale ma feroce giustizialismo comunista sta per risolvere definitivamente il problema. Tra l’altro con garbo e delicatezza. Noi giornalisti (e a dire il vero anche i nostri familiari) abbiamo appreso con sollievo che non finiremo in galera, come annunciato in un primo tempo, ma semplicemente sulla strada per le sanzioni economiche inflitte agli editori, se incorreremo in quella forma di violazione della privacy che si sostanzia nel dare le notizie.
E i magistrati, sempre al contrario di quanto comunicato in un primo tempo, potranno proseguire le intercettazioni telefoniche anche oltre i 75 giorni se stanno cercando un latitante. Decisione che, al dire il vero, un po’ viola la privacy di Osama Bin Laden e Matteo Messina Denaro, ma non si può avere tutto dalla vita.
In più per noi giornalisti è previsto l’aggiornamento professionale gratuito attraverso una serie di esercitazioni che affineranno la nostra padronanza della lingua italiana. Come il “riassunto degli atti giudiziari”. Se ci troveremo davanti a uno di quei giganteschi incartamenti di migliaia di pagine nei quali i magistrati giustizialisti raccolgono le loro accuse, magari per sostenere che un certo uomo politico, chissà anche un presidente del Consiglio, va rinviato a giudizio, non dovremmo più fare la fatica di descriverne il contenuto nel modo più chiaro e onesto possibile, come faticosamente facciamo oggi, ma dovremmo limitarci a riassumerne il senso. In poche parole. Ma quali? “Presunto delinquente” va bene? Stiamo suscitando nel mondo civile un sentimento che oscilla tra la compassione e la paura. Ci consola e ci rafforza il sostegno dei colleghi delle principali democrazie occidentali. Disubbidiremo subito.
Ribellarsi è giusto
di Moni Ovadia *
Il presidente Mao Tse Dong, il grande timoniere, è figura su cui gravano pesanti ombre, sia per il suo ruolo di leader politico sia per la sua vita personale di coureur des jupes e di impenitente ganimede. Riconosciute le colpe e le debolezze non si può tuttavia negare che l’autore del libretto rosso eccitò le vocazioni rivoluzionarie di folle di giovani dell’intero pianeta con intuizioni folgoranti e ammaestramenti degni della più grande sapienzialità orientale. Alcune frasi del celebre volumetto colpiscono ancora oggi per lo splendore assiomatico della loro verità e hanno una validità etica che si proietta al di là del contesto in cui furono enunciate. Una in particolare dovrebbe essere scolpita nel cuore e nella mente e nell’anima di ogni uomo per bene: «Ribellarsi è giusto!».
La ribellione a leggi ingiuste dovrebbe essere diritto-dovere riconosciuto dalla nostra Costituzione. Se non ricordo male è diritto sancito nella Costituzione della Repubblica Federale Tedesca. Quella nazione sa bene quale sia il nefasto prezzo che si paga all’ubbidienza acritica alle leggi. Da troppo tempo lo spirito di ribellione alle ingiustizie e all’arroganza del potere è bollato con il marchio d’infamia della sovversione o addirittura del terrorismo. Lo sappiamo bene noi che ci ritrovammo a difendere la democrazia al Palalido di Milano, a piazza Navona a Roma, a piazza San Giovanni con il Popolo Viola e in decine di altre circostanze. Di fronte alla legge liberticida che vuole cancellare la fondamentale libertà di stampa chiediamo una riforma costituzionale che sancisca il diritto alla ribellione civile. La democrazia non è fatta di giri di valzer con i compromessi e la routine della real politik, la sua nervatura è fatta di passione, di impegno, di lotta permanente contro gli arbitri del potere. Non dimentichiamolo!
* l’Unità, 29 maggio 2010
IL COLLOQUIO
Ciampi: "La notte del ’92
con la paura del golpe"
Parla l’ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi ’dobbiamo reagire’. Grasso dice cose giuste"
di MASSIMO GIANNINI *
ROMA - "Non c’è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c’è dietro le stragi del ’92 e ’93? Chi c’è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso, dopo l’appello di Walter Veltroni, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.
L’ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall’ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent’anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell’intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell’apparato statale, anzi dell’anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".
Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull’orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l’ipotesi più inquietante: l’Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l’esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".
Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all’una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?
È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell’entità, quell’aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al ’94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. È uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".
Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l’ex capo dello Stato oggi rilancia l’appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del ’92-’93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell’epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l’ex presidente della Repubblica - non c’è democrazia".
INTERVISTA
BEPPE VACCA: TUTTI SAPEVANO CHE ERA UN DITTATORE
"Quel paragone col Duce è un vero salto di qualità
di Goffredo De Marchis (la Repubblica, 28.05.2010)
Presidente dell’Istituto Gramsci, intellettuale ex comunista e poi convinto sostenitore della svolta, Beppe Vacca non riesce a prendere sul serio Silvio Berlusconi. Soprattutto quando fa riferimenti storici. «Il Duce non aveva potere? Ha ragione. Infatti i partigiani che lo fucilarono non capivano niente».
Lei scherza, ma non è prima volta che il premier usa la storia del fascismo in maniera distorta e perlomeno singolare.
«Direi che stavolta c’è un salto di qualità. Mi incuriosisce il fatto che Berlusconi usi Mussolini per parlare di sé».
Poteva fare altri esempi?
«Se avesse un po’ a cuore la storia del socialismo avrebbe potuto citare Nenni. Il leader del Psi, quando entrò a Palazzo Chigi, disse: "Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni ma non li ho trovati"».
È giusta la citazione del Duce, sul piano storico?
«Non saprei dire con esattezza. Ma era proprio come spiega Berlusconi: Mussolini non aveva alcun potere. Fu un errore gravissimo dei partigiani la sua fucilazione. Loro pensavano di ammazzare un dittatore, un uomo onnipotente invece fecero fuori un passante qualunque che non aveva nessun potere. Eppure in televisione e adesso anche in qualche dvd distribuito con i quotidiani si vede Mussolini che arringa la folla a Piazza Venezia e che dichiara guerra al mondo. Lui che non aveva potere».
Il suo sarcasmo sembra un gioco intellettuale. Non è grave l’accostamento con il Duce?
«Nulla di quello che dice Berlusconi è grave. Quando Benedetto Croce accettò di scrivere per Laterza, all’editore spiego così i motivi della sua scelta: "Perché voi avete il coraggio di pubblicare cose gravi". Grave è quindi un aggettivo importante, non si può accompagnare alle dichiarazioni di Berlusconi».
Ecco le parole del Presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana, Silvio Berlusconi (da la Repubblica, 28.05 2010)
«Come primo ministro non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, magari qualche volta quando ero imprenditore. Oggi invece tutti mi possono criticare e magari anche insultare [...] Ho letto i diari di Mussolini. Oso citare le parole di qualcuno che era ritenuto un grande dittatore: dicono che ho potere, ma non è vero, lo hanno i gerarchi. Io posso solo dire al mio cavallo se andare a destra o a sinistra».
Fini: "Non c’è dittatura ma altre insidie"
La Costituzione? "E’ sotto stress"
ROMA - "Non c’è una dittatura che minaccia la nostra libertà, ma ci sono altre insidie", ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, intervenendo alla cerimonia ’Lezioni di Costituzione’ nell’aula di Montecitorio. Per Fini la nostra Costituzione è "sotto stress".
Rivolgendosi agli studenti che hanno partecipato al progetto, la terza carica dello stato ha citato Carlo Jemolo quando "ammoniva che la libertà come tutti i valori non basta averla conquistata una volta ma bisogna conquistarla ogni giorno perché nessun bene è suscettibile di conquista definitiva. Ogni generazione deve dare la sua prova: non c’è oggi una dittatura che minaccia la vostra libertà ma ci sono altre insidie. Nella Costituzione però ci sono gli antidoti culturali per combattere quelle insidie".
Il presidente della Camera ha fatto riferimento alla citazione di ieri 1 del premier Berlusconi che durante la conferenza stampa a Parigi ha riportato una frase tratta dai diari del Duce. "Oso citarvi una frase di colui che era considerato come un grande dittatore - ha detto il presidente del Consiglio -: dicono che ho potere, ma io non ho nessun potere, forse ce l’hanno i gerarchi, ma non io. Io posso solo decidere se far andare il mio cavallo a destra o a sinistra, ma nient’altro".
Le parole di Berlusconi hanno suscitato immediate reazioni in Italia. Ma non è la prima volta che Berlusconi cita Mussolini. La gaffe più clamorosa risale al settembre 2003. In quella circostanza il Cavaliere consegnò a un giornalista straniero parole destinate a suscitare un’aspra polemica politica. Il concetto espresso era il seguente: "Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino".
* la Repubblica, 28 maggio 2010
IL CASO
Berlusconi cita Mussolini all’Ocse
"Io non ho nessun potere"
Durante la conferenza stampa a Parigi il presidente del Consiglio riporta una frase dai diari del Duce. Poi afferma che malgrado la manovra il suo gradimento è al 62%. L’Idv: "Si rpenda un periodo di riposo" *
PARIGI - Conferenza stampa del vertice Ocse a Parigi. L’Italia è presidente di turno. E Berlusconi cita i diari di Benito Mussolini. ""Come primo ministro non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, quando ero imprenditore e avevo 56mila collaboratori avevo la sensazione di avere del potere. In una vera democrazia sono al servizio di tutti, tutti mi possono criticare e magari anche insultare. Chi è in questa posizione non ha veramente potere", dice il presidente del Consiglio. Poi tira in ballo i diari del Duce, letti "recentemente": "Oso citarvi una frase di colui che era considerato come un grande dittatore: dicono che ho potere, ma io non ho nessun potere, forse ce l’hanno i gerarchi, ma non io. Io posso solo decidere se far andare il mio cavallo a destra o a sinistra, ma nient’altro". "Lo stesso succede a me, tanto che tutti hanno il diritto sia di criticarmi che di insultarmi...", aggiunge il premier. "Quindi - conclude - il potere se esiste non esiste addosso a coloro che reggono le sorti dei governo dei vari Paesi". Il che non impedisce che Berlusconi vanti durante la conferenza stampa un gradimento altissimo: "Malgrado la manovra di sacrificio, il mio apprezzamento come primo ministro è oltre il 62%".
Le parole di Berlusconi suscitano immediate reazioni in Italia. "Citare Mussolini durante l’incontro dell’Ocse a Parigi - commenta il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando - è l’ennesima gaffe internazionale di un capo del governo che scherza su tutto, ormai privo di ogni freno inibitorio". E ancora: "Quello del presidente del Consiglio è l’atteggiamento di chi vive una profonda condizione di insicurezza. Noi riteniamo che Berlusconi debba dimettersi oppure si debba concedere un periodo di riposo per il bene dell’Italia. Limiti i danni che sta facendo alle credibilità del nostro Paese e ai diritti degli italiani e ci risparmi almeno il saluto romano e la camicia nera".
Per il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, "le parole pronunciate da Berlusconi a Parigi suonano come un’umiliazione della democrazia e della Costituzione su cui il presidente del Consiglio ha giurato e che, lo ricordiamo, nasce proprio dalla vittoria sul fascismo". "Con l’autoparagone a Benito Mussolini - prosegue - Berlusconi conferma la sua tentazione di voler creare le condizioni per una svolta autoritaria, accentrando in sé tutti i poteri, e dimostra che il rischio concreto di una svolta antidemocratica in Italia esiste".
* la Repubblica, 27 maggio 2010
Quel che rende unico ogni individuo
Perché l’individuo è alle fondamenta della democrazia
Sappiamo adattarci e adeguarci alle condizioni di vita più diverse
La verità della nostra umanità non sta in una filosofia ma sta dentro ciascuno di noi
di Gustavo Zagrebelski
Anticipiamo una parte della lezione che il giurista terrà domani a Pistoia sul rapporto tra democrazia e identità personale
«Sull’uomo», sull’essere umano. Non so immaginare come altri, intervenendo in questi "dialoghi sull’uomo", interpreteranno l’espressione e intenderanno il loro compito. Da parte mia, non andrò di certo alla ricerca di qualcosa di essenziale, di ideale, di radicale circa l’essere-uomo. Nelle cose politiche e morali, è bene diffidare delle astrazioni e delle dottrine circa l’umanità autentica, vera, non corrotta, corrispondente all’ideale, un ideale che debba essere realizzato con ogni mezzo e a ogni costo. È prudente pensare che non esista "l’uomo" o che, se esiste, non l’abbiamo mai incontrato. Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all’altro. Per nostra fortuna è così. Altrimenti saremmo pronti ad accettare l’uomo-massa, l’uomo-gregge, l’uomo in serie. La verità della nostra umanità non sta in una filosofia, in un’antropologia; sta dentro ciascuno di noi, in interiore homine, e tutti possiamo cercare di conoscerla seguendone le tracce profonde, senza mentire a noi stessi. Conosci te stesso! E non pensare che quello che hai trovato valga necessariamente nemmeno per chi ti sta più vicino.
La storia ci mostra però che questa realtà, tanto molteplice da non poter trovare un esemplare di per sé uguale a un altro, è tuttavia massimamente plastica, cioè capace di adattarsi, adeguarsi, combaciare alle condizioni nelle quali si trova a vivere. Nessun altro essere vivente ne è altrettanto capace. Per questo, gli esseri umani sopravvivono nelle condizioni ambientali, climatiche, sociali, politiche più diverse. Non solo gli individui, ma anche le loro società sono varie e sono capaci di cambiare, come nessun’altra società di esseri viventi. I viventi non umani ci appaiono programmati per vivere nella e solo nella struttura sociale che è loro propria.
Dalle società tribali arcaiche, studiate dagli etologi, alle odierne società della comunicazione, di cui si occupano gli informatici, quante varianti, quanti tipi umani diversi: cacciatori, agricoltori, nobili e plebei, liberi e servi, cittadini e contadini, corteggiani, cavalieri e borghesi, umanisti e tecnici, imprenditori ed esecutori, proprietari e proletari, uomini di religione e uomini di scienza, eccetera. Differenze, queste, che riguardano il lato esteriore degli esseri umani, quello che riguarda i rapporti sociali tra di loro. Ma che diremmo del lato interiore, quello che riguarda cose come le loro qualità morali, la loro sensibilità artistica, l’autocoscienza, la felicità e l’infelicità? Qui davvero ogni pretesa di generalizzare sarebbe ancora più arbitraria.
Forse però, potremmo già subito smentirci da noi stessi e dire che, allora, una natura dell’essere umano c’è, ed è la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire.
Orbene, è precisamente l’indefinibiltà di un’idea essenziale a priori che consente di dire qualcosa in modo indiretto, a partire dalle condizioni esterne che operano sugli esseri umani, conformandoli a determinati standard sociali e a determinate aspettative sociali. Ferma restando, peraltro, la sempre presente, residua e ribelle, loro irriducibilità integrale a tali standard.
Guardando alle condizioni odierne delle nostre società, troviamo impressionanti conferme di due profezie che risalgono, l’una, a Tocqueville e, l’altra, a Dostoevskij.
Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria.
Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
Dall’altra parte del mondo, qualche decennio dopo (1879-1880), Dostoevskij avrebbe scritto, presumibilmente senza conoscere il suo predecessore, quella che è stata definita la storia dei due secoli successivi, La leggenda del Grande inquisitore, capitolo centrale, somma del suo pensiero politico e vetta della sua arte, ne I fratelli Karamazov. Anche qui, l’umanità è vista divisa in due. I "tutori" di Tocqueville diventano gli "inquisitori" in Dostoevskij. La visione generale è la stessa: la massa addomesticata e i pochi che, al di sopra, l’addomesticano. Non tiranni feroci, ma benefattori che prendono sulle loro spalle il fardello di una libertà di cui, per lo più, gli esseri umani non sanno che farsi, anzi anelano di sbarazzarsi. La società dei grandi numeri, industrializzata, standardizzata, meccanizzata produrrebbe così una doppia, opposta umanità. La divisione ha a che fare con la distribuzione ineguale di tre risorse vitali, i beni materiali, le conoscenze, il potere: detto altrimenti, l’avere, il sapere, il potere, i tre pilastri d’ogni struttura sociale.
La democrazia in America è un testo che potremmo definire di sociologia politica; La Leggenda, di antropologia morale. Per questo, in un discorso sull’essere umano come è quello cui i "Dialoghi sull’uomo" ci invitano, è a Dostoevskij, innanzitutto, che ci rivolgiamo. Non con l’illusione di trovarvi tutto, ma almeno con la certezza di scorgervi qualcosa di ciò che cerchiamo, anzi forse non poco.
IL DDL
Intercettazioni, multe ridotte agli editori
da lunedì battaglia in aula al Senato
Il tetto dei 465mila euro scenderebbe a 300mila. Salva-cronaca nella versione Bongiorno.
Il Pd: ritirino il ddl. Di Pietro: Napolitano tenga la schiena dritta
di LIANA MILELLA *
ROMA - Un passo concreto nella direzione degli editori è già deciso: non sarà più da 64.500 a 465mila euro la multa che li penalizza se un giornalista pubblica le intercettazioni, ma la sanzione calerà da 12.900 a 300mila euro. Il governo, il Guardasigilli Angelino Alfano, e la sua maggioranza, procedono nella retromarcia sulla riforma delle intercettazioni. Via il black out sulla stampa, addolcite le multe. Passato alle 3 di notte il testo in commissione Giustizia, dopo sei ore di scontro continuo con l’opposizione, adesso si lavora per uscire dal guado.
Al presidente del Senato Renato Schifani, per il secondo giorno consecutivo, spetta il ruolo di mediatore. In tre momenti. Durante la riunione dei capigruppo in cui, alla pretesa del governo di andare in aula già domani, Schifani spunta la data di lunedì 31. Pd, Idv e Udc protestano ugualmente, già ieri il Pd si preparava ad abbandonare i lavori, ma il rinvio del voto a stamattina ha fatto slittare anche la loro protesta. Poi Schifani telefona al segretario della Fnsi Franco Siddi e lo rassicura: "Dal Senato non uscirà una legge bavaglio. La data del 31 non va letta come un’accelerazione. In aula ci sarà tempo per discutere e trovare un punto di equilibrio".
Poi il presidente del Senato scende nella sala Garibaldi e ripete ai giornalisti il suo slogan del no al bavaglio. Nelle stesse ore, siamo a fine mattinata, avvengono altri due fatti: alla Camera Niccolò Ghedini, il consigliere giuridico di Berlusconi sulla giustizia, si reca dal presidente della Camera Gianfranco Fini per rassicurarlo sull’intenzione di ripristinare la formula salva-cronaca di Giulia Bongiorno sugli atti pubblicabili per riassunto. Chiosa il finiano Italo Bocchino che si tratta di "una scelta saggia".
Ma a Montecitorio esplode la collera del leader Idv Antonio Di Pietro che chiama in causa pesantemente il capo dello Stato: "Valuteremo con molta attenzione il suo comportamento. Non vogliamo tirarlo per la giacchetta, né renderlo corresponsabile, poiché questa legge criminogena è figlia solo di questo governo. Ma ci aspettiamo che il presidente tenga la schiena ben dritta, mai come in questo momento, a difesa della Costituzione e dell’articolo 21". Napolitano incontra Obama negli Usa e a chi glielo chiede risponde freddo: "Intercettazioni? Con lui non ne abbiamo parlato".
Al Senato va in collera Anna Finocchiaro. La capogruppo del Pd prende atto che il testo votato in commissione "è carta straccia", che si sono spese inutilmente 35 sedute, si dice certa che l’8 giugno verrà messa la fiducia. Dice il suo leader Bersani che si sta discutendo "della peggiore legge mai vista in una democrazia occidentale". Spetta al governo trovare la quadra, visto che già venerdì scade il termine per gli emendamenti. Si riuniscono, nello studio del capogruppo Pdl Maurizio Gasparri, il collega leghista Federico Bricolo, il ministro Alfano, il relatore Roberto Centaro, il presidente della commissione Filippo Berselli. Si decide che già oggi, in via Arenula, si chiuderà partita delle modifiche. E che sarà Centaro, e non Alfano, a firmare il nuovo testo per non addebitare al governo la brutta figura della retromarcia.
* la Repubblica, 26 maggio 2010
Intervista a Milena Gabanelli
«Il passo successivo è l’olio di ricino»
«Silenzio sugli scandali. Una legge impensabile persino in Iran»
La conduttrice di Report chiama alla protesta «Vogliono soltanto sopprimere il cane da guardia»
di Massimo Solani (l’Unità, 25.05.2010)
Domenica sera l’ha detto chiaramente agli spettatori di Report. «Se non siete d’accordo con questo provvedimento, fatevi sentire perché presto sarà legge». Una legge che metterà il bavaglio alla stampa e spegnerà le poche voci del giornalismo di inchiesta. Per questo Milena Gabanelli ha chiamato alla mobilitazione il pubblico. Perché «il passo successivo è l’olio di ricino». Intercettazioni ma non solo. Lei ha puntato il dito anche contro la norma che vieta la messa in onda di riprese non autorizzate. Materiale fondamentale per chi fa videoinchieste.
«Per quel che riguarda le riprese non autorizzate, non sarà più possibile per buona parte di noi documentare quelle situazioni che si alterano completamente quando ti ufficializzi. E sono migliaia. Inoltre non sarà più possibile trasmettere documenti filmati da testimoni occasionali con il telefonino o una videocamera, e parliamo di tutti quei contributi che arricchiscono soprattutto le testate web. È curioso che nessuna proposta di regolamentazione sia comparsa per i filmati di atti di bullismo che finiscono su Youtube».
Tornando al materiale giudiziario, è esagerato dire che calerà il silenzio su buona parte degli scandali italiani?
«Direi di no, basti pensare che solo oggi si verrebbe a conoscenza dei dossier Telecom e solo nel 2007 avremmo saputo delle vicende Parmalat. E ancora: nulla sapremmo sui grandi appalti, mentre nel caso di qualche omicidio eccellente sapremmo che tizio è stato ucciso. Punto. Nemmeno in Iran sarebbe tollerabile una legge del genere».
Limitazioni ancora più pesanti ricadrebbero po sulle spalle dei giornalisti non iscritti all’albo dei professionisti. Che cosa prevedono?
«In nessuna parte del mondo esiste questa distinzione fra professionisti e pubblicisti. All’associazione dei giornalisti si accede per meriti, e non attraverso un esame. Ad uno scrittore che pubblica saggi studiati nelle scuole non è richiesto il tesserino rosso, vale la sua capacità, la sua autorevolezza e competenza. Qui si è deciso che il pubblicista che documenta la prova di un’evasione per esempio, rischia 4 anni di carcere. Tutto questo non c’entra nulla con la necessità di regolamentare la pubblicazione di intercettazioni, che secondo me sarebbe giusta, ma dimostra solo l’intenzione di sopprimere il cane da guardia. Il passo successivo è l’olio di ricino».
L’articolo ventuno
Un diritto davvero per tutti
di Vittorio Emiliani (l’Unità, 25.05.2010)
L ’attacco portato alle intercettazioni è, chiaramente, sferrato contro la libera manifestazione del pensiero garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Spesso però, nei servizi ad esso dedicati, si sottolinea che tale diritto è garantito “a tutti i cittadini”. No, è ben altro: esso viene garantito “a tutti”. Quindi, non soltanto ai cittadini italiani ma pure ai cittadini stranieri comunque presenti sul nostro suolo nazionale. Una dizione straordinariamente forte e antiveggente per tempi in cui erano gli italiani a migrare, a centinaia di migliaia l’anno.
A chi la dobbiamo? In primo luogo all’onorevole Gustavo Ghidini, socialista, di Soragna (Parma). In commissione il giovane Giulio Andreotti aveva portato la dizione “tutti i cittadini”. Ma Ghidini, uno dei costituenti anziani (contava già più di settant’anni), oppose questo ragionamento: «Credo che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero, attraverso ogni forma, non appartenga al cittadino in quanto facente parte dello Stato italiano ma alla personalità umana».
Ghidini era stato socialista fin da ragazzo. Antifascista, gli avevano incendiato lo studio professionale e inferto altre vessazioni. Convinse presto tutti. Così ebbe l’unanimità l’articolo 21 vigente dal 1 ̊ gennaio 1948: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (altro concetto volto al futuro, n.d.r.). La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Ecco a quale filosofia politica altamente liberale Berlusconi vuol imporre il bavaglio, minacciando uno dei diritti fissati con più forza e lungimiranza nella Costituzione.
La mafia, i telefoni e il bavaglio Ecco perché Obama vuol sapere
di Enrico Deaglio *
Diciotto anni fa, quando venne ammazzato Giovanni Falcone, i telefoni cellulari erano degli aggeggi grossi, rudimentali, dal funzionamento poco conosciuto e ancora poco diffusi. Il commando di Cosa Nostra che aspettò dal casotto dell’Enel di Capaci il corteo di macchine del giudice e della moglie telefonò parecchio, aspettando di azionare l’esplosivo. Furono individuati soprattutto per quel motivo: con un’iniziativa che poteva sembrare impossibile, ma che funzionò, tutto il traffico telefonico di quelle ore da e per Palermo fu schedato e analizzato, con risultati memorabili che portarono nel giro di un anno agli arresti del commando. Tutto sembrava risolto, o meglio quasi tutto: restavano alcune telefonate in Italia e in America ad utenti impossibili da rintracciare.
Poi ci fu la bomba di via D’Amelio contro Paolo Borsellino e di nuovo i telefoni fecero la loro parte: «inquietanti» tabulati legavano uomini della mafia a utenze dei servizi segreti. Erano gli ultimi mesi della Prima Repubblica, quella strana cosa che un quarto della popolazione italiana non ricorda perché non aveva ancora l’età della ragione e di cui ora sente parlare come di fatti strani, muggiti e sospiri, che sembrano provenire da un mondo preistorico: carabinieri che trattarono con Cosa Nostra, nuovi patti politici da assicurare, Falcone e Borsellino uccisi perché troppo vicini alla verità e al potere. Un tipico modo italiano di passare il tempo.
Ma non credo fosse mai successo che membri del governo di Washington si esprimessero così francamente nei confronti del governo italiano deciso ad intervenire sui metodi di indagine antimafia attuato con i telefoni. Hanno detto, in pratica: se voi attuate queste vostre intenzioni, danneggiate anche noi e la nostra azione contro il crimine organizzato.
Argomenti del genere sono stati usati nel recente passato contro i governi del Messico, del Venezuela, della Colombia, ma mai nei confronti di un paese europeo. Perché lo hanno fatto? Sicuramente perché all’Fbi si ricordano ancora di Giovanni Falcone che li aiutò non poco a stroncare l’importazione di eroina dalla Sicilia negli Stati Uniti; sicuramente si ricordano di quel Tommaso Buscetta che nel 1984 (otto anni prima delle rivelazioni italiane) raccontò all’Fbi che Giulio Andreotti era il referente politico di Cosa Nostra; e forse anche perché vedono - con sorpresa - un governo europeo adottare leggi che vanno solo ad oggettivo vantaggio delle mafie.
E per quanto riguarda l’Italia non capiscono perché il nostro governo passi il suo tempo ad insultare il presidente Barack Obama, un oscuro dirigente di nome Bertolaso si diverta ad insultare l’ex presidente Clinton e il presidente del Consiglio abbia legami così stretti con Putin. Dal loro punto di vista, tutto ciò è molto strano, ma si sa che loro non conoscono le nostre finezze e il nostro modo di giocare al gioco del potere. Nella storia della mafia siciliana in America - una storia potente, che è arrivata anche a bussare alle porte del potere politico - alcune cose giocavano a suo favore, nel grande mercato: la famiglia, la violenza, la determinazione ad emergere, la capacità di destinare una bella fetta degli alti profitti del crimine per corrompere poliziotti, politici e giudici.
Ma c’erano anche due cose che non funzionavano nel modello: il tradimento possibile di un membro della famiglia stessa e l’uso incauto del telefono. Gli infami si cercava di ucciderli prima che testimoniassero, ma il telefono (ovvero la parola che ti può fare impiccare) era una croce quotidiana, a partire da quelli a gettone all’angolo della strada. Un tallone d’Achille, che la polizia peraltro poteva utilizzare a costi veramente bassi: una chiavetta e degli impiegati che ascoltano, esperti di dialetto. Poi vennero le microspie e con loro le bonifiche elettroniche, l’infiltrato con il microfono incerottato sulla pelle, le cimici sempre più piccole, le microcamere grandi come un bottoncino, le Sim che conservano ogni bava di memoria e i siciliani in America vennero ridotti all’angolo persino nello smaltimento di rifiuti nel New Jersey, che era il loro feudo.
A diciotto anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, senza neanche troppi eufemismi, i magistrati ci dicono che le cose non andarono come noi pensavamo. In pratica, ci spiegano che gli uccisori furono solo la manovalanza che agì per conto di altri. Ed è una storia fatta di pentiti e di intercettazioni e - specificità italiana - di ricatti, di mezze parole, di carte che ricompaiono dopo vent’anni, di trattative che chissà se sono andate a buon fine o se fallirono fin dall’inizio.
Viviamo non tanto senza sapere dove andremo, ma piuttosto da dove veniamo. Il governo fa quello che fanno i gendarmi di fronte alla folla di curiosi che si presenta sulla scena di un delitto: "Via, via, circolare, non c’è niente da vedere", poi mettono le transenne e chiamano rinforzi. Il presidente del Consiglio non va alle commemorazioni di Falcone, se ne guarda bene: il tema, d’altra parte, non gli è mai interessato. Altri membri del governo lodano l’integrità del magistrato ucciso. Lui si che era bravo e rispettoso. Ah già, è morto.
Tra pochi giorni in parlamento metteranno in votazione il bavaglio. Non si ascolta la gente per bene per telefono, non si deve violare la privacy, anche se si tratta di un mafioso; che poi non si sa se è un mafioso o non per caso un’ottima persona (anzi, può darsi che sia le due cose insieme). Non si deve scrivere niente di processi in corso, se no galera e multe da portare al fallimento i giornali. Non si possono intercettare i politici. Si possono intercettare i preti solo col premesso scritto del vescovo. Se si sente qualcosa di sconveniente, bisogna distruggere subito tutto. La televisione non deve parlare di mafia, perché facciamo brutta figura all’estero. Gli scrittori sono invitati a occuparsi d’altro. Dice Berlusconi: per me Vittorio Mangano è un eroe, perché non ha parlato e i magistrati lo torturavano perché parlasse e mi mettesse nei guai. E va bene, sia lode all’eroe. Ma, sorge un dubbio: che cosa avrebbe dovuto dire, sotto tortura, il vecchio stalliere?
Un caso è molto citato dai sostenitori del bavaglio e della privacy: quello del finanziere Stefano Ricucci che al telefono diceva "ma che me frega, io stasera mi faccio Anna Falchi" e la cui esternazione telefonica venne pubblicata dai giornali. Terribile. Chissà che trauma. Ma non era scritto su tutti i rotocalchi che stavano insieme?
* l’Unità, 24 maggio 2010
Difesa di casta
di MARIO CALABRESI (La Stampa, 24/5/2010)
Molti lettori nell’ultimo anno hanno espresso il loro disagio di fronte alle centinaia di pagine di colloqui privati, telefonate e messaggi intercettati dalla magistratura e finiti in tempo quasi reale sui giornali. Penso alle liste piene di nomi, pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, o ai dialoghi privati riprodotti senza chiarire i necessari contesti di riferimento. Penso, per esempio, alle intercettazioni riguardanti le inclinazioni sessuali dell’inquisito Angelo Balducci, che nulla hanno a che fare con l’inchiesta che ha smascherato gli affari della «cricca» dei lavori pubblici, ma che sono state passate ai quotidiani e sono finite direttamente nelle case degli italiani. Un’anomalia, di cui parla in modo esaustivo Luca Ricolfi nell’articolo che trovate qui sotto. Un’anomalia che avremmo dovuto affrontare da tempo.
L’idea che l’Italia si sia trasformata in una società di guardoni, incollati allo spioncino delle procure in attesa di una nuova rivelazione, mi inquieta. Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori.
Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.
Si potrebbe allora dire che la legge in discussione al Senato arriva al momento opportuno. Purtroppo non è così, anzi accade il contrario: il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione. Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità.
Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.
Se il problema invece è quello di evitare di pubblicare le trascrizioni di telefonate di persone che non sono coinvolte nelle indagini o se è importante tutelare il segreto istruttorio, perché allora vietare anche di dare notizia degli atti di indagine (anche sotto forma di riassunto) fino al rinvio a giudizio degli indagati? È surreale pensare che si debba dare notizia di un arresto ma non si possa spiegare ai lettori perché quella persona è stata arrestata. La legge in discussione prevede poi, in caso di violazione, di non condannare tanto i giornalisti quanto gli editori con multe che arrivano a sfiorare il mezzo milione di euro. Una mossa odiosa e subdola che punta a spaccare le aziende editoriali e a terrorizzarle in tempi di crisi economica, oltre che a demandare non ai direttori ma agli amministratori il controllo su ciò che si pubblica.
È tempo che i giornali e i giornalisti tornino a fare inchieste senza aspettare di essere imboccati dagli inquirenti e senza diventare ogni settimana il megafono di una diversa procura. Che si rifletta su ciò che è corretto pubblicare smettendo di giocare a chi rivela un particolare più degli altri anche se questo non aggiunge nulla ma anzi può distruggere qualcuno.
È ora che il Parlamento abbia un sussulto e ripensi ad una legge che avrebbe effetti devastanti sulle inchieste.
È chiaro che questa legge ha poco a che fare con le preoccupazioni dei lettori e le sensibilità ferite di cui parlavo prima, mentre ha molto a che fare con una difesa corporativa e di casta. Ma non della casta dei giornalisti, quanto di quella dei politici.
Reporters sans Frontières : pubblicheremo tutto sul nostro sito
“Ospiteremo ciò che sarà vietato”
Rsf: sul nostro sito gli atti illegali in Italia. Un segnale al governo
di Stefano Citati (il Fatto 23.5.10
Siamo pronti: non appena il disegno di legge sulle intercettazioni sarà approvato lì da voi, il nostro sito sarà disponibile ad accogliere tutti quei documenti che non saranno più legali da voi. Così saranno disponibili e si potranno consultare anche dall’Italia i contenuti proibiti. È un aiuto e un servizio che troviamo giusto e ci fa piacere fare, anche per i nostri confreres italiani, i nostri colleghi che si trovano sempre più in difficoltà. Ed è inoltre un’iniziativa che potrebbe anche portare il vostro governo a riflettere e - magari - ad apportare delle modifiche per rendere meno scandalosa questa legge”.
Jean Francois Julliard, segretario generale di Reporters sans frontières conferma da Parigi al Fatto Quotidiano la volontà dell’organizzazione internazionale per la difesa della libertà di stampa di aprire il sito www.rsf.org alla pubblicazione degli atti giudiziari che saranno messi fuorilegge dalle nuove norme stabilite dal governo.
Non temete di aprire un contenzioso legale con la giustizia italiana?
Nessun timore. Siamo curiosi di vedere come può andare. Intanto noi apriamo il sito, come avevamo preannunciato il 3 maggio, in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, e poi staremo a vedere le conseguenze. Prima di tutto la pubblicazione su un sito straniero comporterà risposte da parte della vostra giustizia con modi e tempi che non sono scontati. E poi Rsf è pronta ad affrontare le conseguenze anche legali di questo gesto, la cui importanza e valore valgono certo la pena. È una risposta di civiltà nei confronti di una legge che è evidentemente retrograda, stupida, miope e che si dimostrerà controproducente. Non ci possono essere altri giudizi per quello che è un evidente attentato alla libertà di stampa.
Cosa possono fare i giornalisti italiani contro questa minaccia?
I colleghi italiani hanno già fatto molto in questi anni e in questi tempi tutt’altro che facili per i media e per l’indipendenza della loro professione. Molti hanno continuato a lavorare nonostante le difficoltà, e non penso solo a Berlusconi, ma anche e soprattutto alla mafia, alla criminalita organizzata. Certo, l’Italia non può essere paragonata ai paesi per cui Rsf si impegna da tempo e costantemente, come le dittature del Terzo Mondo, ma è vero che nelle nostre classifiche sulla misura delle libertà di stampa e le condizioni di sicurezza e lavoro dei giornalisti il vostro paese occupa ormai stabilmente le posizioni di coda delle nazioni occidentali. Allo stesso tempo l’Italia è rappresentante di un fenomeno negativo europeo: ci sono paesi - mi vengono in mente la Bulgaria, la Slovacchia, ma anche la “mia” Francia in questi anni di presidenza Sarkozy - dove gli indicatori sulle condizioni che riguardano i media sono in peggioramento e si assiste a un’erosione delle libertà con aggressioni più o meno costanti e gravi.
Quali suggerimenti ha per continuare il contrasto a questa legge e mantenere alta l’attenzione sulla vicenda?
I confreres italiani devono poter contare sull’appoggio dei colleghi europei. Si deve poter creare una fratellanza tra i giornalisti dei diversi paesi europei e sviluppare una sensibilità e solidarietà comune, grazie alla quale il mutuo sostegno in situazioni di difficoltà e critiche per la libertà di stampa sia garantito e automatico. Una rete che permetta di far “illuminare” i casi critici di un paese dai mezzi d’informazione degli altri Stati, in modo da non far mai cadere l’attenzione e “abbandonare” i colleghi in prima linea. In fin dei conti con i nuovi mezzi d’informazione ciò può avvenire rapidamente e in modo capillare, senza che nulla, o quasi, sfugga e venga sottovalutato e si possono usare i media degli altri paesi come uno specchio che rifletta e rimandi la situazione nel paese d’origine. Dandoci una mano l’un l’altro renderemo ben più dura la vita di chi vuole il nostro silenzio.
Oggi Roma, ore 15: la grande manifestazione per la cultura e la libera informazione
Tutti insieme Sindacati, Articolo 21, Usigrai e altri: il disegno del governo è oscurare il paese
Giornalisti Domani sit-in della Fnsi davanti a Montecitorio con tutti i cdr d’Italia
In piazza contro i tagli e i bavagli alle coscienze
L’appuntamento è per le ore 15 in Piazza Navona. Ci saranno i lavoratori dei teatri di
prosa e d’opera, i giornalisti, gli istituti culturali, gli archeologi, i ricercatori...
contro lo scardinamento della cultura in Italia.
di Luca Del Fra (l’Unità, 07.05.2010)
Doveva essere la manifestazione dei lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche contro il decreto Bondi ma l’iniziativa si è gonfiata fino a esondare trascinando con sé il mondo della cultura e dell’informazione. Oggi alle 15 a Piazza Navona, oltre ai lavoratori dei teatri d’opera ci saranno anche quelli di cinema, teatro di prosa, musica e danza in generale, insieme agli autori, gli istituti culturali, la Federazione nazionale stampa italiana, Articolo 21 e Usigrai. Lo slogan quindi si è ampliato «contro i tagli e contro i bavagli», e sempre oggi il Pd lancia una giornata di sensibilizzazione sui temi della cultura e dell’informazione in una decina di città italiane. Anche se le due iniziative sono diverse, che ci fanno teatranti, cinematografari, giornalisti, archeologi, musici, scrittori tutti assieme?
«Bisogna dire che purtroppo il governo ci ha dato una mano scoprendo le carte -spiega Silvano Conti della Slc-Cgil-: il disegno è scardinare tutta la cultura pubblica in Italia. Si colpiscono i teatri lirici, si chiudono o definanziano gli istituti di cultura, quelli di ricerca, i musei e nello stesso momento si tenta di oscurare i mezzi di informazione e si taglia scuola, università, ricerca». La Slc-Cgil, con gli altri sindacati di categoria, era stata tra le promotrici di questa manifestazione contro il decreto Bondi, che sta seguendo l’iter di conversione in legge e che vuole trasformare i grandi teatri lirici, come la Scala, il Maggio Fiorentino, il San Carlo di Napoli in teatri di provincia. Il decreto che dava la colpa dei deficit dei nostri teatri lirici ai lavoratori, paradossalmente ha evidenziato come a mettere in ginocchio non solo la lirica ma tutto il settore cultura siano proprio i tagli ai finanziamenti dello stato alle attività culturali, tra i più magri d’Europa: per il 2011 per tutto lo spettacolo, compresi circhi, spettacoli viaggianti, teatro, musica danza e cinema sono previsti 311 milioni, la Francia solo per l’Opéra de Paris stanzia oltre 100 milioni di euro.
Tuttavia la primavera è stata teatro di una offensiva governativa a tutto campo: pochi giorni dopo il decreto sulle fondazioni è arrivata la legge sulle intercettazioni telefoniche, che colpisce sia la libertà di stampa che quella di indagine. Infine con la manovra firmata dal ministro Giulio Tremonti la scure è calata sugli istituti di cultura, da quelli intitolati a Gramsci e De Gasperi fino a quello intitolato a Craxi, per non parlare della Stazione biologica di Napoli, l’Eti o la Quadriennale di Arte Contemporanea di Roma il cui presidente Gino Agnese, intellettuale di destra, ha chiesto le dimissioni del ministro Bondi.
I tagli alle attività culturali sono mascherati dietro l’emergenza della crisi, ma in realtà fin dalla prima vittoria elettorale del 1994, i governi di Berlusconi hanno sempre e incondizionatamente fatto tagli al settore di cultura, scuola, università e ricerca. E lo hanno fatto al di là della congiuntura economica. «C’è un filo nero che collega questi tagli e decreti contro la cultura alla legge sulle intercettazioni -spiega Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 del gruppo misto della Camera-: è il tentativo di oscurare la coscienza e la conoscenza. Un oscuramento etico e culturale prelude alla vera macelleria sociale. Domani la Fnsi ha indetto una manifestazione davanti a Montecitorio con i comitati di redazione di tutte le testate italiane. A questa reazione degli oscurati, siano giornalisti o esponenti della cultura, deve seguire il coinvolgimento degli oscurandi, cioè di tutti i cittadini». Nasce così la proposta di una manifestazione nazionale lanciata ieri dallo stesso Giulietti e da Vincenzo Vita del Pd.