[...] La più diretta delle conseguenze del dilagare della disoccupazione è la caduta del reddito disponibile delle famiglie, che nel 2009 in Italia si è ridotto del 2,8 per cento, "mentre ha mantenuto una dinamica positiva in tutti gli altri grandi paesi europei". Siamo più poveri, ce ne siamo accorti. Sempre nel 2009, il potere d’acquisto ha subito una riduzione del 2,5 per cento. Però "l’indice di deprivazione", che misura quello di cui si privano individui e famiglie, è rimasto al 15,3 per cento tra il 2008 e il 2009: la spiegazione dell’Istat è che "il 60 per cento del totale delle famiglie che nel 2009 risultavano deprivate lo era già nel 2008". Insomma, la crisi ha colpito ancora una volta i più deboli [...]
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RAPPORTO ISTAT
La crisi si è abbattuta sui giovani
’Bamboccioni’ ultratrentenni triplicati dall’83
La fascia che va dai 15 ai 29 anni è stata falcidiata dalla disoccupazione, avendo per lo più contratti atipici. Oltre due milioni i NEET: non lavorano, non studiano, non si formano. I padri aiutati dalla Cassa Integrazione, ma per quanto ancora?
di ROSARIA AMATO *
ROMA - Piombata da "una crescita asfittica e stentata", che nel decennio 2000-2009 ha prodotto un modestissimo aumento annuo dello 0,1 per cento, e dalla "crisi più profonda della storia economica recente", l’Italia ha già agganciato la ripresa nel primo trimestre di quest’anno, con il Pil a +0,5 per cento, ma porterà ancora a lungo i segni del disastro degli ultimi due anni. Soprattutto, li porteranno coloro che nei prossimi decenni dovrebbero reggere il peso di una società sempre più sbilanciata dalla parte degli anziani, i giovani, ricacciati nella disoccupazione, ’bamboccioni’ per forza, impotenti a prescindere dal titolo di studio.
Il Rapporto Annuale dell’Istat è dedicato quest’anno alla crisi, tema obbligatorio. L’analisi e i dati ripercorrono accuratamente debolezze e punti di forza del Paese, ma la categoria più penalizzata appare senza alcun dubbio quella dei giovani. Anche se emerge lo spettro di 300.000 padri di famiglia cassintegrati, destinati senza troppe illusioni a finire tra le file già ampliate a dismisura dei disoccupati. E ci sono naturalmente anche le donne, penalizzate più che mai, soprattutto se madri.
Il grado di penalizzazione, anzi, cresce con il numero dei figli, e in misura più che proporzionale: "Considerando le 25-54enni e assumendo come base le donne senza figli, la distanza nei tassi di occupazione è di quattro punti percentuali per quelle con un figlio, di 10 per quelle con due figli e di 22 punti per quelle di tre o più". E tuttavia per le donne il titolo di studio costituisce in molti casi ancora un’adeguata barriera alla disoccupazione e all’esclusione sociale: "Solo le laureate riescono a raggiungere i livelli europei". Questo non vale per i giovani: "Nessun titolo di studio sembra in grado di proteggere i giovani dall’impatto della crisi". La flessione dell’occupazione per chi ha un titolo di studio non superiore alla licenza media è particolarmente critica (-11,4 per cento), ma rimane rilevante anche per i diplomati (-6,9 per cento) e per i laureati (-5,2 per cento). Tanto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia (25,4 per cento) è più del triplo di quello totale (7,8 per cento) e più elevato di quello europeo (19,8 per cento).
Questo perché con la crisi sono state falcidiate le posizioni ’precarie’: i datori di lavoro si sono liberati rapidamente dei dipendenti con contratto a termine, o con contratti a progetto, o comunque atipici, i meno tutelati, e dunque i più giovani. Non è che i ’padri’ non abbiano sofferto: loro sono andati in cassa integrazione, nel 2009 sono stati 300.000 in più. Una misura che ha arginato in qualche misura l’impennata della disoccupazione, considerato che "in valore assoluto il livello di occupazione è sceso di circa un milione di entità tra l’inizio del 2008 e la fine del 2009", e che "quasi il 90 per cento dell’aumento dei disoccupati nel 2009 è dovuto a persone che hanno perso il posto di lavoro e gli ex occupati rappresentano nel complesso metà dell’intera platea dei disoccupati". Una misura provvisoria, e che nei prossimi mesi potrebbe mostrarsi drammaticamente insufficiente, considerata la "bassissima propensione delle imprese ad attivare nuovi posti di lavoro". "La presenza di un ampio bacino di lavoro non utilizzato - conclude l’Istat - prolungherà dunque gli effetti negativi della caduta dell’attività sul processo di creazione di posti di lavoro".
Soffriremo dunque ancora a lungo per le ripercussioni della crisi sull’occupazione. Il problema è che non possiamo permettercelo. I giovani dovrebbero essere impiegati, e dovrebbero anche guadagnare molto, visto che su di loro graverà un peso sempre maggiore. Questo lo scenario che l’Istat definisce "verosimile" per i prossimi 40 anni: "Si prevede che il numero di figli per donna possa crescere fino a 1,58 nel 2050; la speranza di vita aumentare fino a raggiungere gli 84,5 anni per gli uomini e gli 89,5 per le donne; il numero dei giovani fino a 14 anni ridursi a 7,9 milioni (il 12,9 per cento della popolazione); la popolazione attiva contrarsi a 33,4 milioni (54,2 per cento) e quella degli over 64 salire a 20,3 milioni (da uno su cinque a uno su tre residenti nel 2050)". In sostanza, "l’indice di dipendenza degli anziani potrebbe raddoppiare".
I giovani di oggi, che saranno gli anziani di domani, però, non lavorano, non versano contributi, non vanno via di casa, non fanno nulla. La statistica ha coniato una sigla per definirli: Neet, significa not in education, employnment or training (non lavorano, non studiano, non si formano). I Neet nel 2009 erano arrivati a oltre due milioni, il 21,2 per cento dei 15-29enni. "Rimanere in casa con i genitori più a lungo che nel resto dell’Europa in Italia è sempre stato un costume diffuso", ricorda uno dei responsabili del Rapporto Istat, Linda Laura Sabbatini. Senonché nel 1983 la quota dei 18-34enni celibi nubili che viveva in famiglia era del 49 per cento, nel 2000 era arrivata al 60,2 per cento, attestandosi al 58,6 per cento del 2009.
Tra i 30-34enni quasi il 30 per cento vive ancora in famiglia, una quota triplicata dal 1983. Sono cambiate le motivazioni: nel 2003 la prima risposta a un’indagine Istat era quella di "permanenza scelta", adesso la prolungata convivenza dei figli con i genitori dipende soprattutto dai problemi economici (40,2 per cento) e dalla necessità di proseguire gli studi (34 per cento); solo per il 31,4 per cento si tratta di una libera scelta. Anche perché, persino quando accoglie, il mercato del lavoro è estremamente avaro con i giovani: quasi la metà dei sottinquadrati (occupati che svolgono una professione inferiore al livello di studio) sono giovani di 15-34 anni.
Fa da argine al disastro sociale la famiglia: i giovani rimasti disoccupati, rileva l’Istat, vivono per la stragrande maggioranza all’interno di famiglie che hanno due percettori di reddito. Ma cosa accadrà quando uno, o entrambi questi percettori di reddito rimarranno senza lavoro? Quando dalla cassa integrazione i ’padri di famiglia’ passeranno all’inevitabile disoccupazione, o, peggio ancora, all’inattività? La statistica definisce inattivi coloro che, nel periodo di riferimento dell’indagine, non hanno compiuto neanche un’azione di ricerca del lavoro. Sono coloro che hanno perso le speranze, o coloro, forse, che si sono definitivamente accontentati di un lavoro in nero. "Di fronte alle crescenti difficoltà di trovare un impiego, aumenta il senso di scoraggiamento degli individui, che rinunciano del tutto a cercare un lavoro - si legge nel Rapporto - In particolare aumenta la percentuale dei disoccupati di lunga durata che transitano verso l’inattività (dal 37 al 44 per cento). Nel 2009 gli inattivi sono aumentati più dei disoccupati, +329.000 unità".
La più diretta delle conseguenze del dilagare della disoccupazione è la caduta del reddito disponibile delle famiglie, che nel 2009 in Italia si è ridotto del 2,8 per cento, "mentre ha mantenuto una dinamica positiva in tutti gli altri grandi paesi europei". Siamo più poveri, ce ne siamo accorti. Sempre nel 2009, il potere d’acquisto ha subito una riduzione del 2,5 per cento. Però "l’indice di deprivazione", che misura quello di cui si privano individui e famiglie, è rimasto al 15,3 per cento tra il 2008 e il 2009: la spiegazione dell’Istat è che "il 60 per cento del totale delle famiglie che nel 2009 risultavano deprivate lo era già nel 2008". Insomma, la crisi ha colpito ancora una volta i più deboli. Ampliandone comunque la platea: tra il 2008 e il 2009 le famiglie "indifese nel far fronte a spese impreviste" sono passate dal 32 al 33,4 per cento, quelle in arretrato col pagamento di debiti diversi dal mutuo dal 10,5 al 13,6 per cento (tra quelle che hanno debiti) e quelle che si sono indebitate dal 14,8 al 16,4 per cento.
* la Repubblica, 26 maggio 2010
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA COL BAVAGLINO: «PER FAVORIRE IL TURISMO» NEL PAESE DEI BALOCCHI
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LAVORO
Istat, disoccupazione record
Quasi il 30% dei giovani è senza lavoro
L’istituto di statistica evidenzia che il livello di senza lavoro è il più alto dal quarto trimestre del 2001.
Calano di 307mila unità gli occupati di aprile rispetto allo stesso mese del 2009.
Cresce la disoccupazione anche nell’Eurozona *
ROMA - Il tasso di disoccupazione ad aprile è fissato all’8,9%, dall’8,8% di marzo. Lo rileva l’Istat, precisando che si tratta del dato peggiore dal quarto trimestre del 2001. In un anno, ovvero da aprile 2009 allo stesso mese del 2010, il numero di occupati in Italia è diminuito di 307 mila unità. L’Istat sottolinea che ad aprile 2010 il numero di occupati è pari a 22 milioni 831 mila unità (dati destagionalizzati), in aumento dello 0,2% rispetto a marzo, ma inferiore all’1,3% rispetto ad aprile 2009. Il tasso di occupazione è quindi pari al 56,9%, in aumento rispetto a marzo di 0,1 punti percentuali, ma inferiore di 0,9 punti percentuali rispetto ad aprile dell’anno precedente.
Disoccupazione giovanile. Preoccupante il dato che riguarda i giovani. Il tasso di disoccupazione nella popolazione tra 15 e 24 anni è pari ad aprile al 29,5%, con un aumento di 1,4 punti percentuali rispetto a marzo e di 4,5 punti percentuali rispetto ad aprile 2009.
I dati per l’occupazione maschile. Ad aprile 2010 l’occupazione maschile è pari a 13 milioni 613 mila, invariata rispetto al mese precedente e in riduzione dell’1,9 per cento (-263 mila unità) rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente. Il tasso di occupazione maschile risulta pari al 67,6 per cento, invariato nell’ultimo mese e in calo di 1,4 punti percentuali negli ultimi dodici mesi.
La disoccupazione femminile. L’occupazione femminile è pari a 9 milioni 218 mila unità, in aumento dello 0,7 per cento (+61 mila unità) rispetto a marzo ma in calo dello 0,5 per cento (-44 mila unità) rispetto ad aprile 2009. Il tasso di occupazione femminile ad aprile è pari a 46,1 per cento, con un aumento di 0,3 punti percentuali rispetto a marzo ma in calo di 0,4 punti percentuali rispetto ad aprile 2009 .
Eurozona. Sempre ad aprile, il tasso di disoccupazione nell’Eurozona è stato del 10,1%, in aumento rispetto al 10% in marzo (9,2% nell’aprile 2009), mentre nella Ue il dato rilevato segna 9,7%, stabile rispetto a marzo (8,7% nell’aprile 2009). Le rilevazioni, effettuate da Eurostat, rivelano anche che i disoccupati in aprile sono 15,86 milioni nell’Eurozona e 23,311 nella Ue. Rispetto a marzo i disoccupati sono aumentati di 25mila unità sia nell’Eurozona che nella Ue. Rispetto a marzo i disoccupati sono aumentati di 25mila unità sia nell’Eurozona che nella Ue. Questi i dati relativi alle donne, agli uomini e ai giovani: tra aprile 2009 e aprile 2010 la disoccupazione tra maschi è aumentata dal 9% al 10% nell’Eurozona e dall’8,7% al 9,8% nella Ue; il tasso femminile da 9,5% a 10,2% e da 8,7% a 9,5% rispettivamente. La disoccupazione giovanile (sotto i 25 anni) era al 20% e al 20,6% (nell’aprile 2009 era al 19,3% e al 19,2%).
Nel mondo. In aprile negli Usa la disoccupazione era al 9,9%, in Giappone, al 5% in marzo.
* la Repubblica, 01 giugno 2010
Il buco nero del sistema Italia
di IRENE TINAGLI (La Stampa, 27/5/2010)
La macelleria sociale è già in atto, a prescindere dalla manovra. E riguarda una fascia di popolazione a cui questo Paese si ostina a non guardare: i giovani.
Idati appena resi noti dall’Istat lasciano poco spazio all’ottimismo. Il tasso di occupazione complessivo è calato dell’1,2% nell’ultimo anno, mentre quello dei giovani tra i 15 e i 29 anni dell’8,2%, scendendo al 44%. Ma il dato più preoccupante va oltre la mera disoccupazione e riguarda i cosiddetti «neet», ovvero i giovani che non sono né occupati in un lavoro né inseriti in percorsi di studio o formazione («neither in employment, nor in education or training»). In Italia sono il 21,2% dei giovani tra i 15 e i 29 anni, in larga parte diplomati e laureati: proprio quelli sui quali dovrebbe poter contare un Paese per rilanciare la propria economia. Si tratta in totale di oltre due milioni di giovani che, semplicemente, non fanno niente. Aspettano. Aspettano forse tempi migliori, mentre intanto le cose che hanno imparato a scuola vengono dimenticate o diventano obsolete, e assieme ai saperi svaniscono fiducia, entusiasmo, voglia di guardare avanti.
Questo è un dato drammatico, che avrà conseguenze pesantissime sul futuro di questi giovani e del nostro Paese. Stare lontani sia dal lavoro che dalla formazione aumenta le probabilità di essere disoccupati in futuro o di avere lavori stabili che consentono di crescere professionalmente. Diminuiscono le competenze e il bagaglio di esperienze, in altre parole: diminuisce il livello di capitale umano sia dell’individuo che del sistema socio-economico in cui questa persona vive e lavora. E’ anche alla luce di questi dati che una recente pubblicazione dell’Ocse ha previsto che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia non diminuirà con il rallentare della crisi, ma continuerà piano piano a crescere.
Questo fenomeno non può essere imputato solo al crollo della produzione industriale. La crescita della disoccupazione complessiva in Italia è stata più bassa che in tutti gli altri Paesi, quindi il fatto che invece proprio in Italia i giovani siano così emarginati dal mondo del lavoro non può essere legato solo alla crisi. Un altro indicatore che ci mostra che il nostro problema va oltre la crisi economica emerge dal confronto con la Spagna. Infatti, persino in quel Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile è quasi il doppio del nostro, la percentuale di giovani «neet» che proprio non fanno niente è minore che da noi, segno che i giovani senza lavoro sono comunque inseriti in programmi di formazione, studio o apprendistato, un elemento che contribuisce a tenerli attivi e competitivi per il futuro.
Queste considerazioni ci fanno capire che il vero buco nero del nostro Paese non è solo e tanto la struttura economico-produttiva, ma il sistema della formazione e la transizione dal mondo dello studio a quello del lavoro. E’ questo il principale meccanismo di lotta all’inattività giovanile, come ci dicono ormai tutti i principali studi in materia. Basta guardare ai Paesi che fino ad oggi sono riusciti ad ottenere i migliori risultati su questo fronte: Olanda, Danimarca, e Germania per esempio, hanno tutti dei sistemi molto strutturati di formazione professionale, alternanza scuola-lavoro, e ammortizzatori sociali legati allo sviluppo di competenze e permanenza nel circuito della formazione.
Invece nel nostro Paese è proprio sul fronte della formazione e della transizione scuola-lavoro che manca un’offerta vera e di qualità. Abbiamo milioni di giovani abbandonati a loro stessi, che in molti casi non finiscono neppure gli studi superiori (non a caso abbiamo uno dei più bassi tassi di diplomati d’Europa), in altri restano emarginati dal mercato del lavoro o da una formazione che potrebbe aiutarli a restare comunque competitivi nel lungo periodo.
Una lacuna che non è stata colmata da nessun intervento o politica del governo. Di fronte ad una carenza di formazione e al dramma dei ragazzi che non finiscono le scuole, tutto quello che si è stati capaci di fare è stato abbassare l’obbligo scolastico, e schiacciare le ambizioni dei ragazzi incitandoli ad «accettare qualsiasi tipo di lavoro», rivalutando i lavori umili e manuali. Mentre la grande riforma del mercato del lavoro che il ministro annunciava già un anno fa si è limitata alla fine alla lotta sull’arbitrato. Un po’ pochino per risolvere un problema di questa portata.
Di fronte a un’emergenza del genere i ministri del Lavoro e dell’Istruzione e dello Sviluppo Economico dovrebbero lavorare insieme a ritmi serratissimi per pensare a misure strutturali che consentano al Paese di non perdere per strada queste nuove generazioni. Invece il ministero dell’Istruzione pare più in sintonia con quello del Turismo, il ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver distribuito un po’ d’incentivi per l’acquisto di cucine e lavatrici, è adesso in cerca di identità dopo le dimissioni di Scajola, mentre quello del Lavoro pare ancora troppo impegnato nell’abolizione o riscrizione dell’articolo 18.
I milioni di giovani senza lavoro e senza formazione adeguata sono il vero dramma di questo Paese. Cercare di mortificare le loro ambizioni non è la soluzione. Ma d’altronde è difficile parlare di futuro e ambizioni in un Paese la cui unica ambizione, oggi, è «non fare come la Grecia».
Quel che rende unico ogni individuo
Perché l’individuo è alle fondamenta della democrazia
Sappiamo adattarci e adeguarci alle condizioni di vita più diverse
La verità della nostra umanità non sta in una filosofia ma sta dentro ciascuno di noi
di Gustavo Zagrebelski
Anticipiamo una parte della lezione che il giurista terrà domani a Pistoia sul rapporto tra democrazia e identità personale
«Sull’uomo», sull’essere umano. Non so immaginare come altri, intervenendo in questi "dialoghi sull’uomo", interpreteranno l’espressione e intenderanno il loro compito. Da parte mia, non andrò di certo alla ricerca di qualcosa di essenziale, di ideale, di radicale circa l’essere-uomo. Nelle cose politiche e morali, è bene diffidare delle astrazioni e delle dottrine circa l’umanità autentica, vera, non corrotta, corrispondente all’ideale, un ideale che debba essere realizzato con ogni mezzo e a ogni costo. È prudente pensare che non esista "l’uomo" o che, se esiste, non l’abbiamo mai incontrato. Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all’altro. Per nostra fortuna è così. Altrimenti saremmo pronti ad accettare l’uomo-massa, l’uomo-gregge, l’uomo in serie. La verità della nostra umanità non sta in una filosofia, in un’antropologia; sta dentro ciascuno di noi, in interiore homine, e tutti possiamo cercare di conoscerla seguendone le tracce profonde, senza mentire a noi stessi. Conosci te stesso! E non pensare che quello che hai trovato valga necessariamente nemmeno per chi ti sta più vicino.
La storia ci mostra però che questa realtà, tanto molteplice da non poter trovare un esemplare di per sé uguale a un altro, è tuttavia massimamente plastica, cioè capace di adattarsi, adeguarsi, combaciare alle condizioni nelle quali si trova a vivere. Nessun altro essere vivente ne è altrettanto capace. Per questo, gli esseri umani sopravvivono nelle condizioni ambientali, climatiche, sociali, politiche più diverse. Non solo gli individui, ma anche le loro società sono varie e sono capaci di cambiare, come nessun’altra società di esseri viventi. I viventi non umani ci appaiono programmati per vivere nella e solo nella struttura sociale che è loro propria.
Dalle società tribali arcaiche, studiate dagli etologi, alle odierne società della comunicazione, di cui si occupano gli informatici, quante varianti, quanti tipi umani diversi: cacciatori, agricoltori, nobili e plebei, liberi e servi, cittadini e contadini, corteggiani, cavalieri e borghesi, umanisti e tecnici, imprenditori ed esecutori, proprietari e proletari, uomini di religione e uomini di scienza, eccetera. Differenze, queste, che riguardano il lato esteriore degli esseri umani, quello che riguarda i rapporti sociali tra di loro. Ma che diremmo del lato interiore, quello che riguarda cose come le loro qualità morali, la loro sensibilità artistica, l’autocoscienza, la felicità e l’infelicità? Qui davvero ogni pretesa di generalizzare sarebbe ancora più arbitraria.
Forse però, potremmo già subito smentirci da noi stessi e dire che, allora, una natura dell’essere umano c’è, ed è la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire.
Orbene, è precisamente l’indefinibiltà di un’idea essenziale a priori che consente di dire qualcosa in modo indiretto, a partire dalle condizioni esterne che operano sugli esseri umani, conformandoli a determinati standard sociali e a determinate aspettative sociali. Ferma restando, peraltro, la sempre presente, residua e ribelle, loro irriducibilità integrale a tali standard.
Guardando alle condizioni odierne delle nostre società, troviamo impressionanti conferme di due profezie che risalgono, l’una, a Tocqueville e, l’altra, a Dostoevskij.
Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria.
Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
Dall’altra parte del mondo, qualche decennio dopo (1879-1880), Dostoevskij avrebbe scritto, presumibilmente senza conoscere il suo predecessore, quella che è stata definita la storia dei due secoli successivi, La leggenda del Grande inquisitore, capitolo centrale, somma del suo pensiero politico e vetta della sua arte, ne I fratelli Karamazov. Anche qui, l’umanità è vista divisa in due. I "tutori" di Tocqueville diventano gli "inquisitori" in Dostoevskij. La visione generale è la stessa: la massa addomesticata e i pochi che, al di sopra, l’addomesticano. Non tiranni feroci, ma benefattori che prendono sulle loro spalle il fardello di una libertà di cui, per lo più, gli esseri umani non sanno che farsi, anzi anelano di sbarazzarsi. La società dei grandi numeri, industrializzata, standardizzata, meccanizzata produrrebbe così una doppia, opposta umanità. La divisione ha a che fare con la distribuzione ineguale di tre risorse vitali, i beni materiali, le conoscenze, il potere: detto altrimenti, l’avere, il sapere, il potere, i tre pilastri d’ogni struttura sociale.
La democrazia in America è un testo che potremmo definire di sociologia politica; La Leggenda, di antropologia morale. Per questo, in un discorso sull’essere umano come è quello cui i "Dialoghi sull’uomo" ci invitano, è a Dostoevskij, innanzitutto, che ci rivolgiamo. Non con l’illusione di trovarvi tutto, ma almeno con la certezza di scorgervi qualcosa di ciò che cerchiamo, anzi forse non poco.
Saraceno: perdiamo una generazione *
L’Italia «rischia di perdere una generazione», quella degli attuali giovani che più di altre fasce di età risentono della crisi e delle politiche. Altro che «bamboccioni», in questo contesto, «bisogna essere fortunati a nascere nella famiglia giusta». È il commento della sociologa Chiara Saraceno sui dati diffusi oggi dall’Istat che riguardano gli under 34 anni. Questa dei giovani, che vogliono uscire dalla casa di famiglia e non possono, che non riescono a trovare un lavoro, che hanno una istruzione inferiore ai colleghi europei, «è la vera emergenza del paese».
I «giovani più qualificati e che hanno alle spalle una famiglia agiata vanno all’estero, e comunque se la cavano. Tutti gli altri restano indietro. Purtroppo - ha aggiunto Saraceno - non vedo negli atti del governo, e neanche negli atteggiamenti delle opposizioni, la consapevolezza di questa emergenza. Si continua a parlare di ’bamboccionì, parola che aborro anche perchè penso che sia sempre meno vero che vogliano stare in questa condizione, ma non si fa niente per investire in capitale umano».
Anche il contesto - prosegue l’esperta di sociologia della famiglia - è difficile, «le risorse sono sempre di meno, il divario sociale sta aumentando. In realtà, bisogna essere fortunati a nascere nella famiglia giusta. Se gli incentivi alla formazione non si hanno in casa, anche a scuola è difficile averli». Per riequilibrare questa situazione veramente preoccupante «ci vogliono anni ma bisogna pur cominciare, subito», conclude Saraceno.
* l’Unità, 26 maggio 2010