NOI E GINO STRADA di Furio Colombo (L’Unità, 16.06.2006)
Qualche tempo fa Gino Strada mi ha chiesto di andare con lui a Kabul. Avrei potuto vedere gli ospedali, gli ambulatori, lo straordinario lavoro di Emergency in quel Paese splendido e sfortunato che è sempre stato parte del "grande gioco" (la definizione di Kipling) dei Paesi coloniali.
Sfortunatamente l’evento non si è realizzato. Rimpiango l’occasione perduta leggendo oggi l’intervista a Gino Strada ("Restare a Kabul è un errore" di Fabrizio Roncone, Corriere della Sera, 15 giugno).
A differenza che nel passato, Gino Strada sa che sta parlando ad amici, a un governo che non ha e non vuole avere altra ambizione o impegno se non di essere di aiuto alla gente che chiede aiuto, nelle aree del disastro internazionale.
Quelle aree si stanno allargando. Pensiamo alla Somalia, tra feroci signori della guerra e Corti islamiche. Pensiamo al Darfur, la tormentata e immensa regione del Sudan dove la regola è stupro e uccisione di donne e bambini.
A differenza che nel passato, Gino Strada non ha di fronte a sé un governo ansioso solo di servire un altro governo a occhi chiusi e senza domande e dunque di ubbidire pur di farsi elogiare e di celebrare, se necessario, esequie di Stato da usare come ricatto per chi si oppone alla antica mentalità della guerra.
A differenza che nel passato l’Italia è adesso governata da persone che hanno deciso di far rientrare tutti i soldati dall’Iraq per drammatiche, urgenti, inevitabili ragioni che rendono l’Iraq diverso da ogni altra missione italiana: una guerra mai votata o approvata dall’Italia (e ormai respinta dai due terzi del popolo americano). Una strategia mortale che non poteva portare, e non ha portato, ad alcun risultato contro il terrorismo.
L’Iraq è una serie di vicende su cui esiste un totale black out informativo e di cui non sappiamo nulla. È una situazione politica e militare di cui siamo soltanto passivi esecutori. Infatti il precedente governo aveva messo i nostri soldati agli ordini di ufficiali e generali di altri Paesi, dando loro autorità assoluta sulla vita e sulla morte degli italiani (la morte, per esempio, del primo caporale Pibiri).
E aggiungendo ad accordi così inaccettabili, altri accordi non comunicati al Parlamento (dunque segreti) sulla permanenza indefinita di soldati italiani lasciati in pegno di fedeltà, in uno spirito di subordinazione medievale.
Gino Strada vede da vicino e sul posto l’orrore quotidiano a Kabul e indica anche il pericolo grave e costante in cui vivono i soldati italiani.
È giusto. Ma quel pericolo è dalla parte opposta del quotidiano pericolo di vita della gente afghana? Il ritorno dei talebani non è una minaccia sentita e condivisa? Le bambine che sarebbero subito strappate dalla scuola, le donne che - burka o non burka - sarebbero espulse immediatamente da ogni aspetto di vita che non sia la prigionia nelle case, pensano anch’esse i soldati italiani come a truppe occupanti? Se sì come evitarlo senza abbandonare le vittime? E da cosa deriva una simile tragica percezione, visto che in Afghanistan gli italiani, insieme a tanti europei e agli spagnoli di Zapatero, hanno autonomia di comando, di responsabilità, voce in capitolo e sono in grado di ricevere direttive politiche da questo governo, un governo che non è disposto a fingere, mentire e obbedire?
Adesso, con questo governo, è tornata intatta, ed è doverosa, la capacità di dibattere le condizioni politiche della nostra presenza, una situazione che invece in Iraq è impedita fin dall’inizio da una piena subordinazione, da un cieco dovere di ubbidire a strategie sconosciute.
Per esempio Guantanamo. Europa e Italia hanno il dovere e l’impegno di farne un punto essenziale di opposizione e contestazione, anche perché la perdita di credibilità, di prestigio del più potente Paese del mondo è un danno gravissimo, visto che ci sono tante altre situazioni di disastro da fronteggiare e arginare per salvare popolazioni perseguitate.
Avremmo dovuto esserci in Rwanda, in Sierra Leone? Dovremmo o no essere presenti in Darfur?
Gino Strada fa notare con vigore che manca un’idea di presenza e intervento che non sia militare. Lui stesso ha mostrato l’alternativa: ospedali e cura per i corpi martoriati delle vittime che nella guerra possono soltanto moltiplicarsi, e che ormai sono, in numero immenso, donne e bambini.
Ma ora che l’Italia torna ad avere una forte e credibile voce politica, e torna dunque ad esistere come soggetto internazionale e non come esecutore di ordini non potrebbe cominciare una fase nuova del rapporto con gli alleati, una fase in cui l’Italia, come la Spagna e, sperabilmente, come tutta l’Europa, esercita una funzione politica che discute e cambia le strategie, in modo da trasformare la presenza in garanzia invece che in occupazione?
Mi ostino a illudermi che sia possibile. Perché mi domando, altrimenti: dobbiamo pensare che non ci sia risposta al Darfur degli stupri quotidiani, che non ci sia protezione per i Somali, attanagliati tra i signori della guerra e le Corti Islamiche, che l’immensa strage del Rwanda sia il tragico monumento all’inevitabile? Non abbiamo forse il dovere di tentare il guado fra un prima - di prepotenza contro prepotenza e di guerra contro guerra - e un dopo in cui il mondo non volta mai le spalle all’orrore e all’abbandono, ma resta fermamente deciso a non creare altro orrore e altro abbandono?
Trasformo queste domande angosciate e senza risposta in questa altra, che rivolgo a me stesso. Se fossi io, oggi, da solo, a decidere direi "via tutti dall’Afghanistan" qualunque cosa succeda alla popolazione, alle donne, alle bambini? O invece direi: poiché noi ci siamo, abbiamo il dovere di fissare insieme i criteri del nostro stare qui per aiutare e garantire, abbiamo il compito di svolgere un ruolo sempre più politico e sempre meno militare, sempre più alla pari e sempre meno da "autorità straniere che vanno e vengono senza sapere" (Kipling)?
Il lettore ha capito quale risposta darei. E ha capito che la dedico con rispetto e affetto a Gino Strada e al suo lavoro che ha l’unica strategia di salvare esseri umani. La speranza un po’ folle è di unire due percorsi: quello del suo ospedale e quello di una umana e responsabile decisione politica che non sia di abbandono.
AFGHANISTAN: CHE FARE? di Sergio Paronetto*
Leggo dell’ipotesi di mandare più soldati in Afghanistan. Secondo il generale Tricarico, capo di stato maggiore dell’aeronautica, sei aerei Amx sono pronti a partire. L’idea mi sembra non solo incoerente con il programma dell’Unione ma anche del tutto controproducente proprio ai fini della lotta al terrorismo e del ripristino della democrazia.
Sono già passati cinque anni dall’intervento militare. Pochissimi ricordano le morti civili. Solo nei primi tre mesi dell’intervento (7 ottobre 2001-16 gennaio 2002) i civili uccisi, gli "effetti collaterali", sono stati 3.800 (inchiesta Marc Herold, Università del New Hampshire). Ogni settimana aumentano gli attentati e i morti sia tra i soldati "occidentali" sia tra i civili afgani.
Cosa stiamo difendendo realmente in Afghanistan? Proteggiamo la permanente sottomissione delle donne? Secondo il Rapporto 2005 di Amnesty International, esse "hanno continuato a subire livelli di violenza sistematica e diffusa e discriminazioni sia in ambito pubblico che privato". Sosteniamo la mancanza di libertà religiosa tanto sbandierata come regola fondamentale della democrazia? La vicenda di Abdul Rahaman, l’"apostata" afgano che stava per essere condannato a morte per la sua conversione al cristianesimo, è emblematica di una situazione diffusa.
Per quanto tempo dovremo rimanere in forme militari? Al di là dell’apprezzato (si dice) comportamento individuale dei nostri soldati, bisogna saper vedere la cruda realtà dei fatti. Ci interessa prevenire la tossicodipendenza nel mondo, in Italia, e colpire i mercanti di morte? Allora bisogna dolorosamente ma lucidamente ammettere che, al di là delle intenzioni, i soldati sono alleati dei "signori della guerra", padroni del commercio dell’oppio, che stanno guadagnando cifre colossali. "Il narcotraffico, dichiara l’Ufficio Antidroga dell’ONU, è la fonte principale dell’instabilità e del terrorismo". Ci sta a cuore la lotta all’eroina, ottenuta con l’oppio afgano, che uccide molti giovani? Il giro afgano d’affari, osserva Luciano Bertozzi ("Rocca" n. 11, 2006) è "stimabile in 2,3 miliardi di dollari che sono reinvestiti nelle armi e nel pagamento dei combattenti, in una spirale perversa che promette sempre maggiori sofferenze".
E’ certamente più produttivo investire risorse per la risoluzione di alcuni problemi economici e sociali e attivare un’ampia rete di solidarietà e di cooperazione legata alle Nazioni Unite, alla Comunità europea e all’iniziativa internazionale.
Uno degli obiettivi prioritari è quello di sminare il paese, uno dei più a rischio nel mondo. Mi sembra urgente riprendere la Campagna per la messa al bando delle mine, mettendo a fuoco l’obiettivo dello sminamento e della riabilitazione delle numerose vittime colpite da queste armi di distruzione di massa che uccidono o mutilano dopo ogni guerra per moltissimi anni tantissime persone. Penso non solo all’Afghanistan ma anche al Sudan e al Corno d’Africa, alla Cambogia e all’Angola. Un impegno umanitario di lunga durata. Una vera grande "missione di pace." Un’azione solidale legata alla guarigione di immense ferite, alla riconciliazione tra le persone e i popoli, alla difesa e alla cura della vita, di ogni vita sempre e ovunque.
Verona 15.06.06 Sergio Paronetto
* www.ildialogo.org/editoriali, Venerdì, 16 giugno 2006.
Io in Africa ci lavoro e posso dirti che questo o l’altro governo non fanno alcuna differenza, perchè gli interessi economici in ballo sono troppo enormi per fare una qualsiasi politica che non sia quella di sempre, cioè i propri interessi personali di pochi a discapito di tutti gli altri.
Ancora oggi ci raccontiamo delle balle galattiche per non dover dire che se quei popoli non fossero tenuti nelle condizioni in cui stanno da secoli noi non potremmo avere il nostro benessere poichè dovremmo spartire le ricchezze, che attualmente vengono sottratte alle loro terre, con i neri del continente africano. Tutto lo schifo che succede in Africa è voluto! ed è voluto dai nostri governi! che siano di destra, di sinistra, di centro, di sopra o di sotto! Basta andarci in Africa per rendersene conto, ma l’informazione dice che l’Africa è pericolosa, così non ci va nessuno, quella stessa informazione che gonfia le notizie per raccogliere fondi che finiscono nelle tasche degli stipendiati della Fao, dell’Onu, dell’Unicef ecc... stipendi di 12.000,00 Euro al mese, per combattere la fame nel mondo!
Ma fatemi il piacere...
Alessandro Ciarlo.
Finalmente una persona che dice come stanno realmente le cose !
Grazie Alessandro, da uno che appartiene a quel miliardo di benestanti che qualcuno ha definito "i bianchi ladroni dell’Occidente", a scapito dei miliardi di sottonutriti, dei milioni che ogni anno muoiono di fame...
Ciao Alessandro........ ma sei proprio Tu?? Il Pilota di Jet Privati??
Gianluca