Politica

Dell’attualità inattualmente attuale della politica italiana - di Goffredo Fofi, già pubblicato su "Lo straniero"

venerdì 12 gennaio 2007.
 

C’è in giro una gran brutta aria di rassegnazione. Nel bruttissimo reality show della politica “il più sano ha la rogna”, si potrebbe dire ricorrendo a un vecchio proverbio, e se ne vedono, se ne sentono e se ne odorano di tutti i colori in uno scomposto e monotono caleidoscopio, nonostante l’apparente varietà e la diversa collocazione dei coinvolti. Insomma: si salvi chi può, da questa parata di pseudopotenti che amministrano l’Esistente e occupano il Presente - il Capitale nelle sue forme visibili e in quelle nascoste, in quelle italiane e in quelle globali. La sinistra al governo, la sua parte non del tutto corrotta dalla politica e dai suoi giochini di ricatto e aggressione o di accettazione e scambio, a questo dice di pensare: a mettere ordine nel casino. Ma il casino attuale è più casino che mai, e non c’è ordine se non talmente vasto da non esser più visto come tale, sotterraneo e occulto - a noi tutti, anche ai nostri rappresentanti politici -, e per l’accavallarsi di interessi particolari tra i quali l’azione mediatrice è sempre più difficile, poiché non può avvenire senza sacrificare qualcuno, e poiché se si arriva a mettere ordine in qualcosa il disordine non si sfascia, si ricompone con piccoli aggiustamenti. Progressivamente una linea la si vede: i ricchi hanno il maggior potere di ricatto e diventeranno sempre più ricchi; il ceto medio sconfinato (cui ormai appartiene gran parte del proletariato residuo) deve abbassare la cresta dopo aver goduto per un largo periodo di tempo, più decenni, di inauditi privilegi rispetto al passato, e deve ridursi a “massa” asservita e plasmabile; i poveri diventeranno sempre più poveri, nel mondo e anche qui da noi, e il futuro è l’informe cumulo delle solitudini senza riscatto, lasciati i giovani alla delinquenza, i vecchi all’assistenza o alla mendicità... Da bravi lettori e spettatori di fantascienza “sociologica” (da “Il tallone di ferro” londoniano, che è un memento più attendibile che mai, a “2022 i sopravvissuti”, una previsione già realizzata o quasi, in molti paesi del mondo) sappiamo che il “darwinismo sociale” sta vincendo, che la lotta per la vita non ha più - come è accaduto in altre epoche - limiti e sponde, che la capacità di mediazione della politica e della democrazia, nella loro funzione “storica” e non più attuale di attenzione a chi ha di meno e di regolarizzazione dei poteri, sono state travolte dalla immensa mutazione degli ultimi decenni. E ci consideriamo dunque preparati al peggio. Ma questo non ci impedisce di rimanere sconcertati di fronte alla infinita capacità di mentire e di mentirsi della nostra classe dirigente - e non parliamo solo di quella “berlusconiana”, in verità più spavalda e sincera nella propria aggressiva determinazione a difendersi e ad attaccare con egoistica infamia, ma di quella “prodiana” o “veltroniana”, dell’amministrazione dello stato e delle amministrazioni locali, del normale funzionariato e non solo dei capi, e naturalmente di quella categoria oggi così importante nell’aiutare il popolo a non pensare al vero al giusto al bello che sono i giornalisti. (Una esemplare “battaglia” tra poteri è quella svoltasi di recente attorno al caso di Napoli, per esempio tra i clan di Napolitano e di Bassolino, all’interno della sinistra e anzi dei Ds e anzi della tradizione del Pci.) Non siamo “populisti”, non solo non crediamo nella politica come oggi è attuata ma non crediamo neanche nella bontà delle “moltitudini”, e siamo perplessi sulla nostra stessa bontà - cioè sulla capacità di fare cose utili alla collettività, responsabili verso il bene comune, attive in una diversa prospettiva di cambiamento o semplicemente di riduzione del disastro là dove questo sia possibile, da parte delle minoranze del “ben fare”, gruppi o singoli. I migliori sembrano tristemente ma pacificamente assoggettarsi dopo la “vittoria” della “sinistra” a tutti i ricatti della politica, proprio perché disamorati della politica, perché non credono più nella possibilità di cambiare alcunché. Circola una brutta aria di rassegnazione, in giro, che ci pare giustificata ma assai pericolosa. Ci sono, è vero, tante anime belle che sanno spiegare tutto e tanti operatori che sembrano accontentarsi di tutto, purché il loro spazio sia preservato. Ma il tono è generalmente mesto, l’orizzonte è plumbeo e la musica è vagamente funerea, o almeno molto ma molto malinconica. Non è facile dar torto ai “rassegnati”, a chi pensa che non sia più possibile fare altro che proteggere il proprio minuscolo territorio o scavarsi la propria tana, perché raramente si è avvertito da parte nostra un così generale e acuto sentimento di impotenza, di sconfitta, di solitudine. E però è proprio questo a doverci dare la spinta a una presenza più decisa e incisiva, benché più minoritaria che mai. La rassegnazione non è una virtù, anche se ha fatto molto comodo a tanti, in passato e ancora oggi, predicarla. E certamente c’è bisogno oggi, contro gli opportunismi dei mascalzoni iperattivi e l’abulia dei subalterni, di uno scatto di volontà legato a una presenza eticamente diversa ma anche “politicamente” affermativa. O, visto che di nichilismo è inficiato il potere con tutta l’azione politica al suo servizio, anche quando propaganda il becero ottimismo dei pubblicitari, c’è bisogno di dare un senso alla nostra sfiducia e di reagire alla nostra stessa tentazione di rassegnazione, facendo nascere dall’osservazione e riflessione sul negativo che ci condiziona e ci lega, lo scatto, la reazione, la proposta. È sempre più difficile ed è sempre più necessario.

Goffredo Fofi

pubblicato su Lo straniero del dicembre 2006/gernnaio 2007


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