Nel nuovo saggio "Conditio Humana" il sociologo approfondisce la tesi di una società globale esposta a minacce impossibili da arginare
D’ora in poi nulla di ciò che accade nel mondo è un evento soltanto locale
OCCIDENTE A RISCHIO
Come cambia l’esistenza nel XXI secolo
La situazione di ogni singola etnia ci riguarda e -dobbiamo farcene carico
di Ulrich Beck *
Dal nuovo saggio di Ulrich Beck, "Conditio humana. Il rischio nell’età globale" (Laterza, pagg. 416, euro 18), anticipiamo parte di un capitolo
Viviamo in una società mondiale del rischio, non solo nel senso che tutto si trasforma in decisioni le cui conseguenze diventano imprevedibili, o nel senso delle società della gestione del rischio, o in quello delle società del discorso sul rischio. Società del rischio significa, precisamente, una costellazione nella quale l’idea che guida la modernità, cioè l’idea della controllabilità degli effetti collaterali e dei pericoli prodotti dalle decisioni, è diventata problematica; una costellazione nella quale il nuovo sapere serve a trasformare i rischi imprevedibili in rischi calcolabili, ma in questo modo a sua volta produce nuove imprevedibilità, ciò che costringe alla riflessione sui rischi. Attraverso questa "riflessività dell’incertezza" l’indeterminabilità del rischio nel presente diventa per la prima volta fondamentale per l’intera società, sicché dobbiamo ridefinire la nostra concezione della società e i nostri concetti sociologici.
Nello stesso tempo la società mondiale del rischio genera una "spinta cosmopolitica", ad esempio nel confronto storico con l’antico cosmopolitismo (Stoà), con lo jus cosmopoliticum dell’illuminismo (Kant) o con i crimini contro l’umanità (Hannah Arendt, Karl Jaspers): i rischi globali ci mettono a confronto con "l’altro", apparentemente escluso. Essi abbattono i confini nazionali e mescolano l’indigeno con l’estraneo.(...)
Entrambe le tendenze ? la riflessività dell’incertezza e la spinta cosmopolitica ? sono riconducibili a un meta-mutamento complessivo della "società" nel XXI secolo:
a) le messe in scena, le esperienze e i conflitti del rischio mondiale compenetrano e modificano i fondamenti della convivenza e dell’agire in tutti gli ambiti, a livello nazionale e a livello globale;
b) dal rischio mondiale si può evincere la nuova forma di rapporto con le questioni aperte, il modo in cui il futuro viene integrato nel presente, quali forme assumono le società ad opera dell’interiorizzazione del rischio, come si trasformano le istituzioni esistenti e quali modelli organizzativi finora sconosciuti si creano;
c) ora, da un lato, vengono in primo piano i grandi rischi (non voluti), come il mutamento climatico; dall’altro, l’anticipazione delle minacce di nuovo tipo provenienti dagli attacchi terroristici (voluti) crea una costante aspettativa pubblica;
d) si compie un mutamento culturale generale. Nasce un altro modo di intendere la natura e il suo rapporto con la società, ma anche di intendere noi e gli altri, la razionalità sociale, la libertà, la democrazia e la legittimazione ? e perfino l’individuo. (...)
Il significato onnicomprensivo del rischio mondiale ha conseguenze molto rilevanti, poiché ad esso si lega un intero repertorio di nuove rappresentazioni, timori, paure, speranze, norme di comportamento e conflitti di fede. Queste paure hanno un effetto collaterale particolarmente fatale: le persone o i gruppi che diventano (o sono fatti diventare) "persone a rischio" o "gruppi a rischio" sono considerati come non-persone, i cui diritti fondamentali sono minacciati. Il rischio separa, esclude, stigmatizza. Si formano così nuovi confini della percezione e della comunicazione ? ma nello stesso tempo vengono anche compiuti sforzi che travalicano i confini per risolvere problemi sottoposti per la prima volta a un’influenza pubblica. Di conseguenza, la messa in scena del rischio mondiale dà luogo a una produzione e costruzione sociale della realtà. Il rischio diventa così la causa e il medium della riconfigurazione della società. Ed è strettamente connesso alle nuove forme di classificazione, interpretazione e organizzazione della nostra vita quotidiana, al nuovo modo di mettere in scena e di organizzare, di vivere e di configurare la società in riferimento al presente del futuro.
Il salto dalla società del rischio alla società mondiale del rischio può essere chiarito richiamandosi a due testimoni: Max Weber e John Maynard Keynes, i classici della sociologia e dell’economia moderne. In Max Weber la logica del controllo vince nel confronto moderno con il rischio, e vince in modo così irreversibile che l’ottimismo culturale (Kulturoptimismus) e il pessimismo culturale (Kulturpessimismus) vengono riconosciuti come due lati della medesima dinamica. In forza del dispiegamento e della radicalizzazione dei princìpi basilari della modernità, e in particolare della radicalizzazione della razionalità scientifica ed economica, incombe un regime dispotico, come conseguenza, da un lato, dello sviluppo della democrazia moderna e, dall’altro, del trionfo del capitalismo orientato al profitto.
Speranza e preoccupazione si condizionano a vicenda: dal momento che le incertezze e gli effetti collaterali imprevisti e non voluti prodotti dalla razionalità del rischio non cessano di essere affrontati "ottimisticamente" grazie a un incremento della razionalizzazione e della logica del mercato, la preoccupazione di Weber non riguardava ? a differenza di Comte e Durkheim ? la mancanza di ordine e integrazione sociale. Egli non temeva il "caos delle incertezze" (come Comte). Al contrario, egli vedeva e affermava che la sintesi tra scienza, burocrazia e capitalismo trasforma il Moderno in una sorta di "prigione". Questa minaccia non emerge come un fenomeno marginale, ma come conseguenza logica della razionalizzazione del rischio riuscita: se tutto va bene, sarà sempre peggio. La razionalità strumentale depoliticizza la politica e mina la libertà degli individui.
Allo stesso tempo, nel modello di Max Weber è contenuta un’idea che spiega perché il rischio diventa un fenomeno globale, anche se non spiega ancora perché esso dà luogo alla società mondiale del rischio. Secondo Weber la globalizzazione del rischio non è legata al colonialismo o all’imperialismo, cioè non è portata avanti con il fuoco e con la spada. Piuttosto, essa procede lungo la via della coazione non coatta dell’argomento migliore.
La marcia trionfale della razionalizzazione si basa sulla promessa di beneficio del rischio e sulla delimitazione a sua volta razionale degli effetti collaterali, delle incertezze e dei pericoli ad esso collegati. È questa autoapplicazione del rischio al rischio, finalizzata al perfezionamento dell’autocontrollo, a globalizzare l’"universalismo".
L’idea che proprio l’imprevisto, l’indesiderato, l’incalcolabile, l’inatteso, l’incerto, reso permanente dal rischio, possa diventare la fonte di possibilità e pericoli non anticipabili che mettono seriamente in questione l’idea-guida della razionalità del controllo nel modello weberiano è un’idea impensabile. Essa sta alla base della mia teoria della società mondiale del rischio. (...)
All’inizio del XXI secolo vediamo la società moderna con occhi diversi? e questa nascita di uno "sguardo cosmopolita" fa parte dell’inatteso, dal quale deriva una società mondiale del rischio ancora indeterminata. D’ora in poi nulla di ciò che accade è più un evento soltanto locale. Tutti i pericoli essenziali sono diventati pericoli mondiali, la situazione di ogni nazione, di ogni etnia, di ogni religione, di ogni classe, di ogni singolo individuo è anche il risultato e l’origine della situazione dell’umanità. Il punto decisivo è che d’ora in poi il compito principale è la preoccupazione per il tutto. Non si tratta di un’opzione, ma della condizione. Nessuno lo ha mai previsto, voluto o scelto, ma è scaturito dalle decisioni, dalla somma delle loro conseguenze, ed è diventato conditio humana. Nessuno vi si può sottrarre. Si profila così un cambiamento della società, della politica e della storia che finora è rimasto incompreso e che già da qualche tempo indico con il concetto di "società mondiale del rischio". Quello che finora conosciamo è soltanto l’inizio.
* la Repubblica, 22.09.2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Parte I
Imparare, tra cervello e macchine
di Ugo Morelli (Doppiozero, 13 marzo 2020)
“Non vi è giuoco più interessante di quello offertoci dalla nostra immaginazione”, scrive Vladislav Vancura a pagina 12 del suo capolavoro del 1934, La fine dei vecchi tempi, Adelphi, Milano 2019. Forse non vi è migliore descrizione dell’apprendimento umano che associarlo a due aspetti della nostra esperienza: l’immaginazione e la negazione. Oggi l’immaginazione ha assunto un’ulteriore centralità nei processi di apprendimento, in quanto una parte decisiva dei fenomeni e della loro conoscenza sono accessibili solo immaginandoli, come ad esempio accade con l’infinitamente piccolo, i quanti, o l’infinitamente grande, le galassie e gli universi. Allo stesso tempo la discontinuità che caratterizza l’apprendimento, nel caso degli esseri umani è notevolmente connessa alla distinzione specie specifica di dire di no, di mettere in discussione e trasgredire la consuetudine.
Se, come sostiene Stanislas Dehaene, in Imparare. Il talento del cervello, la sfida delle macchine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019; edizione originale 2019, è solo la manipolazione delle probabilità, cioè dell’incertezza di ciò che impariamo, a consentirci di ottenere il massimo da ogni informazione, ciò è possibile non solo perché il nostro cervello tiene costantemente traccia dell’incertezza associata ad ogni informazione, ma l’aggiorna ad ogni occasione di apprendimento, svolgendo una funzione ipotetica e, quindi, almeno in parte anticipatrice. È a quel livello che entra in gioco l’immaginazione, al momento della formulazione di ipotesi di possibilità, spingendo, appunto, il reale sulla soglia del possibile. “Ed è questo ciò che rende l’apprendimento molto interessante: l’adattarsi più in fretta possibile a condizioni imprevedibili”, sostiene Dehaene [p. 18].
Grazie al linguaggio e alla matematica lo spazio delle nostre ipotesi si moltiplica in modo potenzialmente infinito, anche se poggia su fondamenta persistenti ereditate dalla nostra evoluzione. A distinguere noi umani dagli altri animali è la nostra plasticità esuberante, derivante dall’azione educativa sistematica e organizzata che ha perlomeno decuplicato il nostro potenziale cerebrale. I processi di cooperazione interpretativa del mondo che si sono sviluppati nei gruppi umani da un certo momento in poi della nostra evoluzione, hanno generato circuiti di produzione di senso condiviso e progressiva accumulazione di saperi operativi, con circolari e ricorsive ricadute epigenetiche sullo sviluppo cerebrale e sui modelli di comportamento.
Dehaene mette in evidenza come la complessità della nostra società contemporanea debba all’educazione le molteplici migliorie apportate alla nostra corteccia: lettura, scrittura, calcolo, algebra, musica, senso del tempo e dello spazio, affinamento della memoria. “Per esempio, sapevate che la capacità della memoria a breve termine di un analfabeta, il numero di sillabe o di cifre che è in grado di ripetere, è circa due volte di meno di quello di una persona scolarizzata?” [p. 20].
Il confronto con la sfida delle macchine che noi umani stessi abbiamo inventato, è una costante del procedere della ricerca di Dehaene. Al tempo dei cosiddetti machine learning e deep learning, si tratta di un confronto inevitabile. Un esempio chiarificatore di Deahaene può aiutare a definire le differenze in un simile confronto.
Proviamo a seguire questa domanda che riguarda un bambino: “Come fa a capire cosa signfica ‘io’, se ogni volta che lo ha sentito, il suo interlocutore parlava di ...lui?!” [p.. 65]. La dimensione intersoggettiva di introiezione e proiezione con gli altri e il mondo consente apprendimenti non semplicistici. “Le reti neurali che si limitano a correlare gli input con gli output, le immagini con le parole, hanno bisogno di migliaia di tentativi per capire che la parola ‘farfalla’ si riferisce a questo oggetto colorato, lì in un angolo dell’immagine... e questo principio di correlazione non consentirà mai di capire parole senza un riferimento fisso, come ‘noi’, ‘sempre’, o ‘odore’” [p. 65].
Una bambina o un bambino possiedono una capacità ipotetica che consente loro di estrarre i significati da un insieme di ipotesi possibili. Ancor prima di imparare le parole, infatti, ogni bambino possiede una sorta di linguaggio della mente con cui può formulare ipotesi anche molto astratte e metterle alla prova. Questo è possibile perché il suo cervello non è un foglio bianco, non è una tabula rasa, e possiede le condizioni per selezionare le molteplicità del mondo, restringendo lo spazio di apprendimento e riconoscendo le parti selezionate.
L’intersoggettività e le relazioni sociali del bambino danno vita a quella che può essere definita “attenzione condivisa” (p. 66), che diventa un principio fondamentale dell’apprendimento. Ogni episodio di apprendimento rafforza quello precedente, e a sua volta facilita l’apprendimento successivo. La selezione peraltro si accompagna a un principio di esclusività che associa una parola a una cosa e un concetto a un fenomeno e solo a quelli.
Un esperimento aiuta a comprendere quello che accade: prendendo due ciotole identiche, una di un blu molto comune e l’altra di un colore insolito, ad esempio il verde oliva, si può dire al bambino: “dammi la scodella crapita”. Il bambino vi darà la ciotola che non è blu (una parola e un colore che già conosce) e, solo qualche settimana dopo, ricorderà che “crapita” si riferisce a questo strano colore. Del resto, antecedenti evolutivi di questa distinzione umana si ritrovano anche in altre specie animali. Stiamo parlando della capacità di usare meta-regole, che sembrano essere alla base della capacità di apprendere.
È ancora una volta, come si può facilmente intuire, il dibattito tra innato e acquisito, il punto di partenza di ogni ragionamento sull’apprendimento. Oggi abbiamo notevoli risultati di ricerca per riconoscere che forse, tra innato e acquisito, abbiamo sottostimato entrambi. “L’apprendimento è infinitamente più efficace se si ha a disposizione, da un lato, un vasto spazio delle ipotesi, ovvero un insieme di modelli mentali dotati di una miriade di regolazioni tra cui scegliere; e, dall’altro, una serie di algoritmi sofisticati per regolare i loro parametri in base ai dati ricevuti dal mondo esterno” (p. 81).
Vi è una caratteristica che attraversa tutto il testo di Dehaene e che corrisponde all’importante cambio di paradigma in corso in questi anni sui temi relativi al cervello, alla mente e all’apprendimento. Quella caratteristica riguarda la progressiva affermazione del paradigma corporeo e della centralità del movimento per comprendere i nostri comportamenti e la nostra conoscenza. La rilevanza del corpo e del sistema sensorimotorio hanno dato vita al progressivo riconoscimento del cosiddetto “paradigma motorio”, che assume che la mente sia sostanzialmente radicata nella corporeità e nella capacità di movimento di un organismo.
Si tratta di un paradigma con particolari valenze innovative, frutto di risultati sperimentali e in grado di proporre un approccio naturale e non normativo allo studio della mente e dell’apprendimento. Laddove i tradizionali assunti della “teoria della mente” proponevano una concezione tradizionale delle funzioni cognitive, basate classicamente su un presunto susseguirsi di sensazione, percezione e rappresentazioni mentali, tende ad affermarsi sperimentalmente la prospettiva dell’embodied cognition, della cognizione incarnata. In base a questo orientamento teorico non c’è separazione sostanziale tra percezione e azione, tra afferenza sensoriale ed efferenza motoria; il cervello non è un semplice recettore di informazioni e un produttore di risposte in un organismo staccato dall’ambiente, ma funziona in base al riconoscimento, all’interno di una prospettiva teorica biologica integrata, dunque ecologica e complessa, dell’intimo nesso tra percezione e azione.
Tutto tende, quindi, per comprendere cosa significa essere umani, a considerare la rilevanza di ciò che ci precede, di quanto nella filogenesi e nell’intersoggettività viene prima dell’individuazione e la rende possibile. Si sta così producendo una nuova immagine dell’essere umano, che ne individui le radici genetiche ben al di sotto e ben prima della coscienza e della volontà.
Come sostiene Carmela Morabito, in Il motore della mente. Il movimento nella storia delle scienze cognitive [Laterza, Roma-Bari 2020], vi è una tensione costante della ricerca verso un al di sotto, e un prima, che fa da elemento propulsore che spinge l’analisi nel corso del tempo nella direzione di un obiettivo convergente: individuare le basi neurobiologiche della mente. Sappiamo oggi che veniamo al mondo dotati di un vasto insieme di combinazioni di pensieri potenziali. “Questo linguaggio del pensiero, che è munito di primitivi astratti e regole grammaticali, precede l’apprendimento” (S. Dehaene, p. 82).
L’attività mentale è concepita in funzione della produzione dell’azione e la mente che ne emerge è incorporata: è basata sulla natura biologica, dinamica, storica dell’organismo che la esprime. Si capovolge la concezione tradizionale, logico-astratta, dello sviluppo della mente e del comportamento, proponendo una concezione organicamente integrata nell’interazione globale dell’organismo col suo ambiente: una prospettiva coevolutiva. “La mente è intrinsecamente un sistema motorio: il pensiero, la memoria, la conoscenza, la percezione, la coscienza, la motivazione, il significato, tutte le funzioni mentali nel loro complesso, affondano le radici in abilità motorie costruttive specie-specifiche” (Morabito, p. 6).
L’incarnazione della mente (embodiment) è basata su una concezione corporea che pone al centro il movimento, per cui nel modello motorio si può forse individuare una via teorica al superamento della contrapposizione dicotomica tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo. L’azione e non la rappresentazione è all’origine della cognizione. A partire dal sapere invisibile, quel vasto insieme di combinazioni di pensieri potenziali con cui veniamo al mondo, disponiamo di un linguaggio del pensiero che è dotato di primitivi astratti e regole grammaticali che precedono l’apprendimento. Importanti ed efficaci esperimenti hanno mostrato che, lungi dall’essere una tabula rasa, il bambino possiede un sapere ampio in molti campi. Tant’è vero che quando è sottoposto a delle situazioni che violano le regole di uno dei domini del sapere di cui dispone, il bambino si sorprende, rivelando la sofisticata visione del mondo che egli possiede. Disponiamo fin da piccoli e per tutta la vita di una particolare attitudine sperimentale che continua, evolvendosi. “Se queste situazioni ci piacciono”, scrive Dehaene, “è perché violano le intuizioni che tutti abbiamo sin dalla nascita e che abbiamo perfezionato nel primo anno della nostra vita” (Dehaene, p. 87).
Le abbiamo perfezionate sulla base di una dotazione filogenetica disponibile fin dalla fase prenatale e perinatale. Del resto, fino a poco tempo fa, eravamo erroneamente convinti che un neonato non sapesse nulla di matematica. Oggi siamo in grado di mostrare come un bambino, fin dalla nascita, ha la capacità di riconoscere un numero approssimativo, in maniera intuitiva, senza sapere come contare, cogliendo la cardinalità dell’insieme, indipendentemente dal fatto che l’informazione provenga dall’udito o dalla vista. Ancora una volta verifichiamo che non esiste una tabula rasa e che “i neonati percepiscono i numeri già dopo poche ore dalla nascita - e così anche le scimmie, i piccioni, i corvi, le salamandre, i pulcini e persino i pesci” (Dehaene, p. 89).
Nel pulcino, ad esempio, gli scienziati come Giorgio Vallortigara e colleghi hanno controllato tutti gli input sensoriali fin dalla schiusa dell’uovo: il piccolo pulcino non ha visto neppure un singolo oggetto, eppure è in grado di comprendere l’organizzazione dei numeri (Rugani R., Vallortigara G., Priftis K., Regolin L., Animal cognition. Number space-mapping in the newborn chick resembles humans’ mental number line, Science 347, 6221, 2015, pp. 534-536). I risultati della ricerca falsificano alcune delle principali convinzioni e teorie sullo sviluppo infantile, come l’ipotesi di Jean Piaget, che riteneva che i bambini ignorassero la cosiddetta “permanenza dell’oggetto” (il fatto che un oggetto continui ad esistere anche quando non lo vediamo più) fino al primo anno di vita, o che il concetto di numero i bambini lo astraessero lentamente solo dopo alcuni anni dalla nascita.
Verifichiamo oggi che è vero il contrario: i concetti di oggetto e numero sono dei primitivi del pensiero, fanno cioè parte del nucleo di conoscenze con cui veniamo al mondo, ed è combinandoli e ricombinandoli che possiamo formulare pensieri più complessi. Lo stesso vale per le inferenze probabilistiche complesse che, fin dalla nascita, si avvalgono di una logica intuitiva disponibile. Anche la distinzione tra oggetti e soggetti, tra entità il cui movimento è causato dall’esterno, e animali e persone il cui movimento è motivato dall’interno, è evidentemente disponibile fin dai primi mesi di vita. Così come è precoce e, sembra, addirittura prenatale, la capacità di percezione dei volti.
Non solo un neonato con poche ore di vita si gira più velocemente verso una faccina che verso un’immagine simile i cui elementi siano stati capovolti, ma, usando una luce per proiettare uno stimolo attraverso la parete dell’utero si scopre che tre punti disposti a forma di faccia attraggono il feto più di tre punti disposti a piramide. “Il riconoscimento del volto sembra iniziare in utero” (Reid V. M., Dunn K., Young R. J., Amu J., Donovan T., Reissland N., The human fetus preferentially engages with face-like visual stimuli, Current Biology, 27, 12, 2017; pp. 1825 - 1828).
A proposito di quello che Dehaene chiama il “dono delle lingue”, il sapere invisibile di cui siamo dotati fin dalle nostre origini prenatali raggiunge uno dei vertici principali e distintivi: “Quando spegne la sua prima candelina”, scrive l’autore, il bambino “ha già posto le basi delle principali regole della sua lingua materna, e questo a tutti i livelli, a partire dai suoni elementari (i fonemi), fino alla melodia (la prosodia), passando per il vocabolario (lessico mentale) e le regole grammaticali (la sintassi)” (p. 98). Constatando quello che è accaduto nella ricerca negli ultimi venti anni circa, è difficile astenersi dalla tentazione di parlare di rivoluzione. Il cervello del neonato era una vera e propria terra incognita ed era considerato vuoto, anche se già nel 1940 Gaston Bachelard aveva scritto, in La filosofia del vuoto, che “il bambino nasce con un cervello incompleto e non, come affermava il postulato dell’antica pedagogia, con un cervello vuoto”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MATEMATICA: I "BASTONI DI ISHANGO". --- "Imparare - Il talento del cervello, la sfida delle macchine" (Stanislas Dehaene)
Federico La Sala
Morto a 70 anni il sociologo tedesco che ha spiegato le dinamiche della mondializzazione e le minacce che ne conseguono su scala planetaria
La religione uccide.
Il paradosso della religione globalizzata
di Ulrich Beck (La Stampa, 04.01.2015)
Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione. La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno. Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni.
Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o anti-modernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede - a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane).
Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né ebreo né greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina». L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio - e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana».
Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del mondo A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici; sono in grado di farlo, nella misura in cui B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo che C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che si sta diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Traduzione di Carla Reschia
Ulrich Beck, è il rischio quel che resta della modernità
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 04.01.2015)
Se la nostra è l’era della globalizzazione, con la scomparsa di Ulrich Beck se ne va uno dei suoi pensatori più lucidi e significativi. Il sociologo (nato nel 1944) è morto improvvisamente a Capodanno in seguito a un attacco di cuore, dopo avere contrassegnato con la sua riflessione acuta e le sue categorie originali (da «seconda modernità» a «società del rischio») lo sforzo di comprendere i processi dell’ultima ondata di mondializzazione e le dinamiche del nostro tempo.
Ed è stato proprio lui - professore a Monaco e alla London School of Economics, e militante della corrente riformista dei Verdi tedeschi - ad averci illustrato meglio di chiunque altro quanto la minaccia ambientale su scala globale abbia cambiato la nostra percezione del pianeta.
Nell’epoca della dipartita della vetusta figura dell’intellettuale organico, Beck ha rappresentato un modello di studioso dalla rinnovata vocazione civile, espressa per vie molteplici: dalla collaborazione autorevole con Der Spiegel alla funzione di riferimento culturale (almeno all’inizio) del governo rosso-verde di Gerhard Schröder e Joschka Fischer, sino al contributo dato all’elaborazione della Terza via (anche in virtù della comunanza scientifica che lo legava ad Anthony Giddens, assieme al quale aveva codificato il concetto di modernizzazione riflessiva).
Il sociologo tedesco si era riproposto di indagare il mondo nuovo e pieno di inquietudini della Risikogesellschaft, la «società del rischio», esito peculiare della tarda modernità; espressione che ha dato il titolo alla sua opera più famosa, scritta poco dopo l’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, la tragedia ecologica assurta a emblema dei numerosi rischi (di natura anche sociale, politica, sanitaria, alimentare) a cui risulta esposta l’umanità contemporanea.
Lo studioso fa di questa nozione la chiave interpretativa per avanzare una teoria generale delle società industriali avanzate, descrivendo le trasformazioni radicali che investono l’esistenza quotidiana di ciascuno nella pluralità dei ruoli che si trova a dover rivestire (cittadino, genitore, figlio e lavoratore, tra i tanti).
La società del rischio diventa così la categoria per dare significato a un Villaggio globale dove è andata perduta la nettezza dei confini tra natura e cultura ed è tramontata la funzione di orientamento della tradizione, mentre si moltiplicano i mutamenti climatici e i drammi ecologici (dal buco nell’ozono al global warming, sino al morbo della «mucca pazza»), manifestazioni di un’incontrollata attività del genere umano.
Il rischio si configura quindi come l’orizzonte ineliminabile, disgregatore di sicurezza, dell’individuo nell’epoca della seconda modernità riflessiva, caratterizzata dall’incremento esponenziale dell’incertezza, dalla disintegrazione delle identità e appartenenze della sua prima fase (come la nazione o la classe) e dall’imporsi, da un lato, dell’antipolitica e, dall’altro, della subpolitica dei poteri tecnici e specialistici (finanza, medicina, giustizia) sempre più egemonici.
Nell’ultimo periodo, l’analisi di Beck si era fatta via via maggiormente critica nei confronti della globalizzazione di segno neoliberista, caricandosi di preoccupazione per l’aumento delle disuguaglianze sociali e per una precarietà che da lavorativa si è convertita in esistenziale. Ma non aveva mai finito per indulgere al catastrofismo, continuando a sperare nelle potenzialità positive della tarda modernità e nelle loro facoltà di liberare energie verso stili e tempi di vita più soddisfacenti e libertari, fino al coronamento dell’obiettivo massimo di una «modernità responsabile», fondata su una democrazia al tempo stesso ecologica e tecnologica.
Pur detestando l’industrialismo e il fordismo (per i quali non provava alcuna nostalgia) e non lesinando critiche all’eredità dei Lumi, Beck si è scagliato in maniera durissima contro il postmodernismo, collocandosi, sulla scia di Habermas, nel solco di un pensiero che continua a professare il suo atto di fiducia nei confronti del Progetto moderno, di cui si devono superare le contraddizioni mediante la radicalizzazione e il rilancio del messaggio di emancipazione. Il progresso, in buona sostanza, va guarito dai suoi mali (attraverso un rinnovato cosmopolitismo europeista e un’inedita forma di «illuminismo ecologico»), e non rigettato.
E Beck si è rivelato capace come pochi di cogliere l’ambivalenza costitutiva di questa nostra età globale (come nel caso della caoticità degli affetti derivante dalla crisi del paradigma della famiglia tradizionale). Tra i suoi tanti libri: Il normale caos dell’amore (1996), Modernizzazione riflessiva (con A. Giddens e S. Lash; 1999), Che cos’è la globalizzazione (1999), La società del rischio (2000), I rischi della libertà (2000), Lo sguardo cosmopolita (2005), Europa tedesca (2013).
Ci mancherà il suo contributo alla nostra coscienza
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 04.01.2015)
ULRICH Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck - le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.
Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.
È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.
Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Il mondo ridisegnato dalla crisi
di GIAN DOMENICO PICCO (La Stampa, 10/1/2009)
La crisi economico finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti e buona parte del mondo ha già prodotto un cambiamento concreto nella gestione degli affari internazionali. Nei prossimi due o tre anni alcuni Paesi - che oggi si presumono di prima classe - perderanno buona parte del loro peso specifico, non solo in campo economico, mentre altri saliranno dalla serie B alla serie A. Il ruolo più influente a Washington, dopo quello del Presidente, è da sempre affidato al segretario di Stato. In queste settimane s’è visto che non sarà necessariamente così in futuro. Il segretario al Tesoro è già salito al rango di «ministro dei ministri» nel futuro governo del presidente Obama, prima ancora che il suo nome venisse menzionato. Il premier inglese Gordon Brown, per 10 anni ministro delle Finanze di Tony Blair, si è giovato della esperienza finanziaria per gestire il governo. La geoeconomia delimiterà come non mai i confini della geopolitica, che dopo l’11 settembre 2001 non aveva rivali. Qualcuno dirà che è sempre stato così. Certo non in queste proporzioni. Il livello d’interdipendenza e interconnessione del mondo è stato dimostrato dalla velocità del contagio che ha toccato Borse, monete, produzione e consumi nei quattro angoli del globo. La Russia e l’Iran del dicembre 2008, ad esempio, sono due realtà molto diverse rispetto a giugno: la loro immagine economica e finanziaria è profondamente cambiata, riflettendosi su quella più strettamente politica. Questo vale anche per altri Paesi.
Mentre gli esperti suggeriscono di ridisegnare l’architettura internazionale del sistema finanziario, la riunione del Gruppo dei 20 a Washington a novembre ha inevitabilmente attirato una particolare attenzione. Alcuni pensano che il G-8, e ancor più il G-7, non riflettono più la realtà dell’economia mondiale. Le critiche al G-7 ricordano quelle fatte da anni alla composizione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. La prova del nove del vero cambiamento verrà nei prossimi due o tre anni - al massimo tra cinque - quando potremo valutare quali paesi emergeranno dalla crisi finanziaria con un peso specifico da serie A, e quali con un peso da serie B. In ogni caso la proposta di allargare il G-7 al G-20, e quella di creare un Consiglio di sicurezza con 25 o 30 membri, invece dei 15 attuali, sono tutti segnali che rivelano l’insufficienza delle strutture che oggi esistono, non, a mio avviso, la soluzione da scegliere.
La crisi metterà allo scoperto non solo le insufficienze strutturali della finanza e dell’economia, ma anche la debolezza di diversi sistemi sociali, la gracilità di gruppi dirigenti, il debole senso dello Stato. Rivelerà in modo impietoso che il progetto nazionale di alcuni Paesi è prossimo al capolinea. Pensare a cambi epocali non è facile. Ma gli stati moderni, che emersero come conseguenza della pace di Wetsfalia dopo la Guerra dei trent’anni nel 1648, e vennero poi consolidati dalle Rivoluzioni americana e francese, hanno cicli vitali di diversa durata. Non escludo che dopo questa crisi economico finanziaria l’Europa in particolare possa veder nascere il primo stato post westfaliano.
La globalizzazione - diceva Dominque Moisi - ha iniziato un processo d’indebolimento delle autorità statali, ha alterato il significato di sovranità e di nazionalità, pur incrementando il bisogno d’identità. La percezione che le strutture abbiano una loro vita, indipendentemente dagli individui che le gestiscono, è forse vero per un certo periodo, ma non per sempre. La responsabilità è oggi pesantissima sulle leadership che dovranno gestire i prossimi due o tre anni. La formula «business as usual» non funzionerà. Quanti dei G-8 saranno all’altezza di farne parte fra qualche anno? Per quanto ancora il sistema accetterà che l’Europa vi sia rappresentata con 4 seggi anziché con uno solo? Un Consiglio di sicurezza di 25 o 30 membri sarà più efficace o più debole dell’attuale più ristretto? L’interdipendenza di tutti gli attori sulla scena mondiale è destinata ad aumentare. Ciò richiederà una flessibilità (vedi i gruppi informali di 5 o 6 che già esistono su vari argomenti di crisi) che le istituzioni rigide non offrono. La crisi economica e finanziaria mondiale sarà molto severa, se non inesorabile, con i gruppi dirigenti incapaci di vedere oltre l’immediato, ingannati e cullati dall’illusione che il futuro sia solo la ripetizione del passato.
L’allarme degli scienziati. Dal legno all’acqua, cominciamo a consumare le riserve
Le proiezioni delle Nazioni Unite: senza misure, nel 2050 le finiremo il primo luglio
Da domani la Terra è in rosso
"Le risorse dell’anno esaurite"
di ANTONIO CIANCIULLO *
ROMA - Da domani viaggeremo con i conti in rosso, consumeremo più risorse di quelle che la natura fornisce in modo rinnovabile. Ci stiamo mangiando il capitale biologico accumulato in oltre tre miliardi di anni di evoluzione della vita: nemmeno un super intervento come quello del governo degli Stati Uniti per tappare i buchi delle banche americane basterebbe a riequilibrare il nostro rapporto con il pianeta. Il 23 settembre è l’Earth Overshoot Day: l’ora della bancarotta ecologica.
Il giorno in cui il reddito annuale a nostra disposizione finisce e gli esseri umani viventi continuano a sopravvivere chiedendo un prestito al futuro, cioè togliendo ricchezza ai figli e ai nipoti. La data è stata calcolata dal Global Footprint Network, l’associazione che misura l’impronta ecologica, cioè il segno che ognuno di noi lascia sul pianeta prelevando ciò di cui ha bisogno per vivere ed eliminando ciò che non gli serve più, i rifiuti.
Il 23 settembre non è una scadenza fissa. Per millenni l’impatto dell’umanità, a livello globale, è stato trascurabile: un numero irrilevante rispetto all’azione prodotta dagli eventi naturali che hanno modellato il pianeta. Con la crescita della popolazione (il Novecento è cominciato con 1,6 miliardi di esseri umani e si è concluso con 6 miliardi di esseri umani) e con la crescita dei consumi (quelli energetici sono aumentati di 16 volte durante il secolo scorso) il quadro è cambiato in tempi che, dal punto di vista della storia geologica, rappresentano una frazione di secondo.
Nel 1961 metà della Terra era sufficiente per soddisfare le nostre necessità. Il primo anno in cui l’umanità ha utilizzato più risorse di quelle offerte dalla biocapacità del pianeta è stato il 1986, ma quella volta il cartellino rosso si alzò il 31 dicembre: il danno era ancora moderato.
Nel 1995 la fase del sovraconsumo aveva già mangiato più di un mese di calendario: a partire dal 21 novembre la quantità di legname, fibre, animali, verdure divorati andava oltre la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi; il prelievo cominciava a divorare il capitale a disposizione, in un circuito vizioso che riduce gli utili a disposizione e costringe ad anticipare sempre più il momento del debito.
Nel 2005 l’Earth Overshoot Day è caduto il 2 ottobre. Quest’anno siamo già al 23 settembre: consumiamo quasi il 40 per cento in più di quello che la natura può offrirci senza impoverirsi. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, l’anno in cui - se non si prenderanno provvedimenti - il rosso scatterà il primo luglio sarà il 2050. Alla metà del secolo avremo bisogno di un secondo pianeta a disposizione.
E, visto che è difficile ipotizzare per quell’epoca un trasferimento planetario, bisognerà arginare il sovraconsumo agendo su un doppio fronte: tecnologie e stili di vita. Lo sforzo innovativo dell’industria di punta ha prodotto un primo salto tecnologico rilevante: nel campo degli elettrodomestici, dell’illuminazione, del riscaldamento delle case, della fabbricazione di alcune merci i consumi si sono notevolmente ridotti.
Ma anche gli stili di vita giocano un ruolo rilevante. Per convincersene basta confrontare il debito ecologico di paesi in cui i livelli di benessere sono simili. Se il modello degli Stati Uniti venisse esteso a tutto il pianeta ci vorrebbero 5,4 Terre. Con lo stile Regno Unito si scende a 3,1 Terre. Con la Germania a 2,5. Con l’Italia a 2,2.
"Abbiamo un debito ecologico pari a meno della metà di quello degli States anche per il nostro attaccamento alle radici della produzione tradizionale e per la leadership nel campo dell’agricoltura biologica, quella a minor impatto ambientale", spiega Roberto Brambilla, della rete Lilliput che, assieme al Wwf, cura la diffusione dei calcoli dell’impronta ecologica. "Ma anche per noi la strada verso l’obiettivo della sostenibilità è lunga: servono meno opere dannose come il Ponte sullo Stretto e più riforestazione per ridurre le emissioni serra e le frane".
* la Repubblica, 22 settembre 2008