Da ogni cultura i semi della nuova speranza
di Roberto Mancini (Avvenire, 02.09.2008)
Si apre oggi una nuova rubrica di Agorà, che uscirà tutti i martedì, firmata da Roberto Mancini, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Macerata; tra le ultime sue pubblicazioni, «Esistere nascendo. La filosofia maieutica di Maria Zambrano» (Città Aperta 2007) e «La buona reciprocità. Famiglia, educazione, scuola» (Cittadella 2008).
La grande disperazione umana sta nel credere che la morte sia più forte della vita e il male più forte del bene. Ma questa convinzione non apre alla verità. Per aprirsi occorre imparare a sentire. Non è un cedimento al sentimentalismo. È la cura dell’integrità del sentire per stare in relazione con la verità, sia essa quella delle scelte di vita o dei tribunali, quella storiografica o filosofica, quella della fede o della scienza.
L’integrità implica sosta nel silenzio, ascolto, raccoglimento, passione, esercizio del pensiero critico, chiamato a chiarire, distinguere, sintetizzare. Senza integrità non c’è conoscenza.
Come mostrò Herder, il sentire è la forza che unisce i sensi, il linguaggio, il cuore, la ragione, la coscienza morale e l’anima delle persone, cioè il loro segreto nucleo di unicità autocosciente. La facoltà del sentire è minacciata dalla paura del dolore ed è facile che venga inibita. Per attivare il sentire bisogna poter contare su una guida. E in effetti esiste una guida che spinge ad attraversare il confine da un presente mortificante verso una realtà liberata, dalla scissione interiore all’integrità. Tale guida è la speranza.
Il filo conduttore di questi articoli, espresso nel titolo Sentire la speranza, è la ricerca su come essa sia emersa dalle macerie delle distruzioni del Novecento, dando vita a prospettive capaci di mostrare un bene credibile e una verità mite.
È la coscienza tragica quella che, se resiste, giunge a vedere nella luce della speranza. Così facendo apre un orizzonte per tutti, poiché senza speranza niente è più visibile. Chi studia la mappa delle correnti di questa stagione del pensiero filosofico scopre quanto sia illegittimo il giudizio per cui il Novecento sarebbe stato interamente pervaso, nella cultura, dalle ideologie totalitarie, da un lato, e da un impasto di relativismo, scetticismo e nichilismo, dall’altro. Il Novecento ha visto emergere anche una costellazione filosofica alternativa a questo duplice vicolo cieco.
Penso a correnti quali la fenomenologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, il pensiero neoebraico, la dialettica negativa e le teorie critiche della società, il neomarxismo eretico, il personalismo, il pensiero maieutico, le filosofie della nonviolenza, dell’alterità e della differenza, le nuove teologie in dialogo con la filosofia. Ma penso anche alle rielaborazioni teoretiche delle culture e delle religioni al di fuori dell’Occidente.
Tutte queste tendenze, in vario modo e con esiti diversi, hanno aperto itinerari inediti verso la verità. Lo hanno fatto avendo cura dell’integrità del sentire e accogliendo la guida della speranza. Queste filosofie si sono liberate dall’angustia dell’ideologia, oltre che per una rinnovata attenzione al legame tra verità e vita, grazie alla capacità di sentire e di interpretare l’unità della speranza umana. E’ la speranza che non vuole il bene di alcuni e il male di altri, non tollera la divisione tra sommersi e salvati, non ammette la sua appropriazione da parte di nessuna fazione. Nella loro ottica la speranza non si confonde mai con l’ottimismo.
Sperare è sentire l’attrazione di un bene vero, riconoscendone la possibile emersione dentro le contraddizioni di un presente spesso tragico. Ha scritto Walter Benjamin che «la speranza ci è data per i disperati». Essa ha a che fare con la promessa e con il sogno, non con l’illusione. E come la promessa e il sogno, la speranza chiede di essere non dimenticata, ma condivisa e svolta nella vita.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sentire la speranza
La filosofia del ’900 ha riscoperto la verità
di Roberto Mancini (Avvenire, 09.09.2008)
La speranza vede le relazioni. L’angoscia le nega o le deforma, vincendo quando ci sentiamo minacciati da ciò che ci sfugge. Gli altri, la natura, il tempo, la morte, la vita, Dio sono per ognuno delle realtà incontrollabili. Scaturisce da qui uno spirito di angoscia che spesso ha guidato la tradizione occidentale, spingendola a identificare sapere e potere. Cosicché conta non la verità, ma la potenza. La conoscenza sembra un rapporto di forza e la verità un mero oggetto. Oggetto di visione, di giudizio, di rappresentazione, di calcolo. O anche un risultato della prassi, secondo Vico e Marx. Oggettivare la verità è la strategia più funzionale alla potenza del soggetto. Hegel aveva sì fatto balenare un orizzonte diverso affermando che è la verità a essere il Soggetto di tutto.
Ma era un Soggetto senza relazione, per il quale ogni altro da Lui è solo un momento interno, come le onde nel mare. C’è qualcosa di meglio che ritenere la verità ’ oggettiva’, o solo ’ soggettiva’ in quanto prodotta dal soggetto umano. È riconoscerla viva e libera con lo sguardo della speranza. Infatti solo sperando possiamo presentire che non siamo soli al mondo, persi in un caos ostile. Possiamo incontrare Qualcuno, vedere un senso, orientare la vita.
Una delle svolte più radicali, nella filosofia del Novecento, sta nell’aver preso sul serio l’autonoma soggettività della verità, senza con ciò ritenerla ’soggettiva’ nel senso di arbitraria. Semmai si è compreso che esistere umanamente significa partecipare con responsabilità alla relazione con la verità stessa. La conoscenza, anziché come una lotta, ora si delinea quale relazione di dialogo, di liberazione, di ospitalità reciproca.
La lezione della fenomenologia di Husserl indica che, invece di farci rappresentazioni della verità, possiamo incontrarla. La lezione dell’ermeneutica, da Heidegger a Gadamer, da Ricoeur a Pareyson, mostra che le oneste interpretazioni del vero non sono teorie arbitrarie, sono testimonianze.
La lezione della filosofia del dialogo, già con Martin Buber, sta nel rivelare che la relazione tra l’io e il tu è il cuore della conoscenza, dell’esistenza, della fede. La lezione della dialettica negativa di Adorno fa capire come lucido e critico sia non il pensiero che vuole decidere l’identità della verità, ma quello che mostra la differenza tra essa e la menzogna.
Tale mutamento di prospettiva supera la falsa alternativa tra assolutismo cognitivo e relativismo. L’assolutista e il relativista hanno la stessa concezione della verità. La pensano come un oggetto da trovare e da possedere. Il primo è convinto di esserci riuscito, il secondo dispera che sia possibile farlo. La conoscenza e anche la fede respirano solo in un orizzonte completamente diverso. Grazie alle filosofie della verità vivente si comprende come la verità sia libera e liberatrice, mite e nonviolenta, inesauribile e partecipabile.
Il discernimento della differenza tra verità e menzogna va cercato orientandosi verso questi tratti essenziali. Allora diventa anche un discernimento di vita, poiché la verità chiede inveramento al nostro modo di essere persone e di essere, tutti insieme, società, umanità sororale e fraterna.
In tale ottica conoscere impegna non solo il cervello, ma l’esistenza pensante. Di qui la consapevolezza etica per cui, come dice Luigi Pareyson, il rispetto per il vero e quello per ogni persona sono indissolubili. Chi usa una qualunque forma di violenza in nome della verità dimostra di non averla mai incontrata.
PERCHÉ SONO IN SINTONIA CON LA PROPOSTA DI RANIERO LA VALLE **
di Roberto Mancini *
Vorrei esprimere una sintonia con la proposta che è venuta da Raniero, che mi pare da un lato vada a fronteggiare un vuoto, una latitanza non accettabile, dall’altro possa rappresentare, se sviluppata, un’alternativa rispetto al triplice vicolo cieco per cui o c’è l’integrismo (l’idea di un’unità monolitica dei cattolici in quanto cattolici), oppure l’equivocità (Casini, quando era ancora presidente della Camera, in campagna elettorale, disse: “noi difendiamo i valori cattolici, i BOT, i CCT e la prima casa”; il guaio è che nessuno gli abbia obiettato che non sta lì il Vangelo), oppure - ed è il terzo vicolo cieco - la privatizzazione. Dio non si privatizza; non si impone, ma neppure si privatizza la relazione di fede con Dio per essere “politicamente corretti”. Qual è una possibilità che non ci blocchi con questo complesso di essere “politicamente corretti” e non ci costringa a tenerci Dio solo per le cose personali? Infatti anche l’assenza di Dio, l’assenza di un riferimento credibile, non appropriativo, non integrista, non di potenza a Dio, è foriera di problemi negativi.
Mi pare che, come prospettiva che può crescere, l’idea di gruppi di Sinistra cristiana sia positiva; da un lato permette la possibilità, io direi, di un nuovo ascolto della Parola: penso alla situazione dei cristiani tedeschi negli anni ’30, che arrivarono alla confessione di Barmen nel 1934; la loro situazione era catastrofica, e dissero: noi partiamo dall’ascolto della Parola; quindi riportano nel concreto del loro contesto sociale storico quella Parola e dicono, come fanno Barth, Bonhoeffer, che un’altra parola, per esempio la parola del Führer, porta all’omicidio; la parola di Dio non porta all’omicidio, porta alla liberazione.
Declinare la speranza
Allora non possiamo saltare questa esperienza di risveglio; quello che a noi manca è il risveglio; ma non dobbiamo vedere solo i problemi che ci sono; dobbiamo anche vedere il positivo che resta impensato e insperato; tutto il male che noi vediamo lo vediamo come realizzazione di un incubo; se non siamo capaci di vedere un’alternativa positiva, di sognarla, di sperarla, anche il tentativo di trovare degli antidoti non è che una forma dell’angoscia che abbiamo incamerato, e non faremo tanti passi avanti. Oltre tutto la dimensione del problema è tale che se siamo lucidi sentiamo subito che non siamo all’altezza di fronteggiare un sistema di dominio, un sistema di mistificazione così grande che biblicamente si potrebbe chiamare idolatria; però l’idolatria va in crisi quando si affaccia la speranza vera.
Ora a me pare che il compito dei gruppi della Sinistra cristiana, nel loro piccolo, senza presunzioni di potenza, è quello di portare all’attenzione, di tradurre le conseguenze politiche della speranza, perché l’essere umano se non spera non vede e se non vede fa disastri. Guardate le culture correnti: sono capaci di una speranza ma di una speranza che sia universalmente umana, cioè che non sia una speranza di qualcuno contro qualcun altro, che non sia necessariamente segnata dall’esclusivismo? Questo è veramente rarissimo. Le Chiese per prime, le religioni per prime attestano (quando va bene) una speranza esclusiva oppure paura e angoscia; perciò è chiaro che non sono credibili e finiscono per adornare i processi della globalizzazione; diventano anche loro folclore e moralismo, e poco di più.
Invece tradurre le conseguenze politiche della speranza vuol dire vivificare delle energie che legano il quotidiano, la cultura e la politica. Noi diciamo spesso: è un problema di cultura, di mentalità; ma non pensiamo che una cultura degenera, muore, si riduce a schema comportamentale di sopravvivenza se non spera, se non vede. I valori oggi non vengono visti, nell’istruzione abbiamo solo informatica, inglese e teoria dell’impresa, cioè addestriamo i giovani fin dalle scuole elementari ma non li educhiamo, perché una cultura decade se non ha una speranza. Dunque recuperare un orizzonte di speranza quotidiana, credibile, connette quello che noi chiamiamo cultura a quello che noi chiamiamo politica.
Dire speranza per tutti, secondo me vuol dire imparare in Italia a declinare al positivo la categoria di laicità. Il nostro problema è che noi pensiamo la laicità solo in chiave contrappositiva, negativa; nella società “laico” vuol dire non religioso, non cattolico, nella Chiesa vuol dire che non sei prete, non sei religioso, sei “solo” un laico.
I nomi della laicità
Ma quali sono i nomi positivi di laicità? Prima di tutto un nome positivo è corresponsabilità, cioè generare situazioni di corresponsabilità nel circuito tra diritti e doveri umani, tra responsabilità politiche e tutela delle persone, delle popolazioni. L’altro nome che sembra più astratto, ma poi diventa concretissimo, è creaturalità, cioè riscoprire quel dato comune costitutivo per ognuno di noi che è l’essere creature; purtroppo le antropologie correnti, le sociologie correnti, le visioni più o meno alte dell’uomo oggi vigenti, al massimo considerano due dimensioni: natura e cultura. La natura è ambivalente, è lotta, è bellezza, è dono, è di tutto; noi proiettiamo la nostra ferocia e diciamo la natura è lotta; sì, ma è anche bellezza, è anche dono, dunque è ambivalente. Essa attende di essere custodita, tolta alla sua ambiguità. Biblicamente l’indicazione è questa; se la cultura non scopre una vocazione che la porti a trasfigurare la natura è una cultura arbitraria, tendenzialmente violenta, tant’è vero che la nostra si è costruita come negazione della natura; per questa ragione porta nel suo DNA la negazione e la distruttività.
Le prove sono clamorose, sono davanti a tutti; invece c’è un terzo livello che è trasversale. a natura e cultura ed è creaturalità, essere creature, cioè essere tutti chiamati ad un’esistenza non distruttiva: questo vuol dire responsabilità. Allora se noi riscoprissimo la comune condizione creaturale - il che non significa necessariamente che c’è un Dio creatore, a questo crede chi ha la fede - comprenderemmo che in quanto creature non ci risolve la modernizzazione, ci risolve l’armonizzazione; ci salviamo come creature nell’armonizzare le relazioni di cui siamo intessuti, perché siamo un fascio di relazioni; nell’armonia possiamo fiorire, senza armonia alla fine restiamo distrutti.
Questa condizione creaturale è di tutti, è il nome diciamo così ontologico della laicità, non è una situazione particolare di chi crede in Dio. Recuperare questi spazi alla nostra vista, aiutare una società a vedersi, in spazi che normalmente non vengono percepiti, mi pare essenziale per cambiare i sistemi motivazionali delle persone, dalle scelte elettorali alle scelte quotidiane. Se oggi noi ci chiediamo quali sono i sistemi motivazionali più influenti in base a cui le persone decidono i loro comportamenti, vediamo che sono due: primo, l’egoismo economico, di clan, di famiglia, di impresa, ed è quello che ci porta dritti alla guerra di tutti contro tutti, anche se il conflitto, ma neppure tanto, è sublimato in forma economica; l’altro sistema motivazionale dominante è la religione, ma la religione nel senso sociologico, la religione nel senso a volte anche più deteriore del termine; in Italia essere cattolico significa pensare che Bruno Vespa è un bravo giornalista, Giulio Andreotti è un bravo politico e padre Pio un modello di santità. Se sono cattolico così è chiaro che non cambio il mondo e non prospetto alternative ad una situazione di degrado come quella in cui viviamo.
Allora si tratta di riuscire a cambiare sguardo, di rendere evidente un’altra via, un altro modo di motivarsi nello stare al mondo, un modo però che sprigioni una forza di attrazione; si può uscire dalla disgregazione, dalla frammentazione, solo se c’è un polo di attrazione, se c’è, come dicevo, una speranza che ti attrae, ti porta oltre i moventi più rudimentali del tuo agire, quelli banalmente egoistici in senso economico o quelli devozionistici, ideologici di una religione che decora la vita ma la lascia intatta con tutti i suoi egoismi. Altrimenti sarebbe scomoda, è molto comodo fare processioni alla festa del santo patrono in territori di alta criminalità ma poi lasciare tutto come prima: occorre cambiare i sistemi motivazionali.
Gruppi di questo tipo sul territorio dovrebbero permettere un ascolto della Parola; questa volta non come trent’anni fa, non come cinquant’anni fa: ci sono oggi i doni della rivoluzione interculturale, il che vuol dire che le Scritture delle fedi si corrispondono, si parlano, si ascoltano; si è pronti ad ascoltare il Corano, ad ascoltare la Torà, ad ascoltare i Vangeli; basta avere un minimo di esperienza anche non di studi filologici, per accorgersi che le Scritture tra loro si parlano, sono correlate, non permettono l’esclusivismo, l’integralismo, le persecuzioni, lo scontro di civiltà, e per fare emergere dentro un contesto sociale una parola come liberazione, giustizia, consolazione: perché noi vediamo attraverso le parole.
Quando Paolo Freire in Brasile con i contadini faceva i cartelli su cui metteva insieme le immagini e le parole, i contadini dicevano che cosa significa libertà, che significa la terra, che significa comunità. Quando noi abbiamo una parola vediamo la realtà, quando ci manca la parola quella realtà non la vediamo più. Siamo costretti a dire non violenza, perché non vediamo una vera alternativa alla violenza, ci mancano le parole, ci manca la visione. Allora gruppi che portino all’attenzione di una comunità, di un contesto sociale, almeno una parola che permetta di vedere in modo diverso, farebbero sì che questa visione, questa parola diventino operative e concrete.
Tre tipi di azione
Per questi gruppi sul territorio io vedrei poi tre tipi di azione: primo, l’azione restituiva, cioè la giustizia che reintegra le persone nel godimento dei diritti; la giustizia è la giustizia restituiva, non tanto la giustizia che colpisce, ma la giustizia che risana, che si fa carico delle situazioni; ma questo allora vorrebbe dire che l’azione di questi gruppi è uno spostamento, cioè un portarsi sul confine delle contraddizioni, è lì che si gioca l’armonia possibile per le persone, per le comunità: la contraddizione tra donna e uomo; la contraddizione tra pace e guerra, e io direi tra violenza e non violenza, per chiarire qual è il percorso unico possibile per la pace; la contraddizione tra nativi e stranieri, la contraddizione tra capitale e lavoro, la contraddizione tra umanità e natura. Se un gruppo territoriale dice: nel mio territorio io vivo la contraddizione di fronte alla mafia, oppure la contraddizione di fronte alla distruzione della natura, oppure la contraddizione tra nativi e stranieri, quel gruppo deve portarsi sul confine di quella contraddizione per sollevare i pesi che quella contraddizione lasciata a se stessa comporta sulla vita delle persone, e soprattutto di quelle più deboli. Un gruppo di questo tipo può partire allora non tanto dai bisogni ma da una risposta restituiva rispetto ai bisogni: dai bisogni parte pure la camorra a Napoli quando promette lavoro, soldi, protezione; non basta partire genericamente dai bisogni, ma da una risposta restituiva ai bisogni, cioè in termini di diritti e di doveri.
Un secondo tipo di azione è un’azione riconduttiva, che metta in relazione il problema che si è incancrenito con i doveri elusi, cioè che ricostruisca il filo delle responsabilità. Se c’è una situazione che è degenerata, dall’immondizia, agli ospedali, alla scuola, qual è il filo delle responsabilità? Non è possibile che siano tutti problemi senza responsabili; perciò serve un’azione di denuncia per l’appunto “riconduttiva” nel senso che ricollega problemi e diritti a doveri e usi; i diritti umani, se non ci sono i doveri umani, restano lettera morta, come la Costituzione resta un testo se non è una prassi diffusa, e diventa quindi facilissimo cambiarla e stravolgerla; se c’è una prassi diffusa in un popolo è molto più difficile stravolgerla, anche se manipoli le leggi.
Ultimo tipo di azione, un’azione educativa: dobbiamo curare in modo sistematico l’educazione; penso per esempio al rapporto con la scuola, penso a gruppi di insegnanti, a un movimento di insegnanti, a singoli insegnanti che nonostante tutto fanno il loro dovere in una prospettiva di speranza, non di adeguamento alla società così com’è; ma se non ci curiamo di questo, qualunque azione politica si taglia l’erba sotto i piedi, cioè non riesce a generare futuro; pertanto un’azione che sia restituiva, riconduttiva, deve essere nel contempo un’azione che favorisce i processi educativi.
In conclusione, a mio avviso ha senso promuovere gruppi di “Sinistra cristiana” con un tono particolare direi umile, con un senso autoironico di questa qualificazione: non è un’identità sostantiva, definitiva, compatta, non è un primato, non è un privilegio; è una identità di servizio che si chiama per nome perché è cosciente della sua particolarità, non perché si ritiene prioritaria o definitiva e nemmeno esclusiva nella rappresentanza della fede cristiana; non pretende di rappresentarla, pretende nel suo piccolo di viverla, che è un’altra cosa; il testimone vero non è mai un proprietario, non dice la verità è la mia, dice: mi metto al servizio di; non è un proprietario quindi non si arroga quel diritto.
Penso dunque a gruppi di questo tipo, coordinati nazionalmente, che per prima cosa riportino l’attenzione sulla parola di Dio o, per chi non crede, sul senso della vita; e ciò nelle molte tradizioni che tra loro si parlano; infatti è solo l’ignoranza o il fanatismo che fanno sì che non si parlino; il secondo elemento è che però devono essere gruppi che non permettono la strumentalizzazione della parola di Dio: cioè non è più possibile fregiarsi di titoli religiosi per coprire l’ingiustizia; lasciare che questo accada è veramente irresponsabile; neppure col giusto motivo di non essere integralisti si può cadere nell’estremo opposto di lasciare nel silenzio che ci sia l’abuso della parola di Dio. Terzo elemento: gruppi che favoriscano il coagulo di varie realtà che si muovono nella stessa direzione; non dico il coordinamento, io non penso a gruppi che arrivano e pretendono di coordinare movimenti, realtà, partiti, sindacati esistenti, questo sarebbe fallimentare già dall’inizio; però si può operare per sollecitare un risveglio, per indurre a quello spostamento sulle questioni di confine, sulle contraddizioni più acute presenti in un territorio. Rispondono i sindacati? Risponde il Partito Democratico? Qualche altro partito più a sinistra? Rispondono gruppi di insegnanti, rispondono gruppi del volontariato critico?
Benissimo. L’importante è favorire questo risveglio, questo concentrarsi sulle contraddizioni concrete promuovendo quei tre tipi di azione restitutiva, riconduttiva, educativa, di cui dicevamo. Deve trattarsi di gruppi che non considerano “un tesoro geloso” la loro identità ma la intendono con autoironia come una identità di servizio: perché se davvero hanno una memoria cristiana si ricordano che i credenti in realtà sono un’anticipazione, un elemento simbolico per l’identità di figli che riguarda tutti, credenti e non credenti; si ricordano che l’identità si misura dai frutti e non si misura dalla presunzione, dall’orgoglio di averla in qualche modo come un appannaggio, come un monopolio.
Allora secondo me la traduzione concreta di questa idea che qui si discute e che va sviluppata, va articolata, è proprio quella di dire: siamo o non siamo in grado di coltivare una speranza che non sia ideologica, che non sia religiosa nel senso negativo, cioè che non sia esclusiva, una speranza che sia all’altezza della condizione umana, e siamo soprattutto in grado di operare le conseguenze politiche della speranza?
Roberto Mancini
Articolo tratto da:
FORUM (107) Koinonia
http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046
* Il Dialogo, Venerdì, 19 settembre 2008
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Sul tema, si cfr.:
La voce inascoltata
di Umberto Galimberti (la Repubblica/D, 30.08.2008)
Scrive Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea (Ed. Comunità): La salute mentale non può essere definita in termini di adattamento dell’individuo alla sua società, ma, al contrario, in termini di adattamento della società ai bisogni dell’uomo".
Il quasi silenzio del Vaticano di fronte ai campi Rom dati alle fiamme vicino Napoli ha turbato cattolici e non, per cui ci si è chiesti: "Perché tanta prudenza? Cristo si è fermato in Piazza San Pietro?" (Maurizio Chierici, l’Unità 19/5/08). La risposta forse può essere trovata se si tiene conto del tipo di assetto mentale delle gerarchie vaticane e non solo. Già la psicoanalista cattolica Francoise Dolto (Psicanalisi del Vangelo, Rizzoli) aveva affermato che l’educazione "cosiddetta cristiana" può far ammalare le persone, mentre Gesù le guarisce.
Ma è stato lo psicoanalista cattolico Pierre Solignac (La nevrosi cristiana, Boria) a formulare una precisa diagnosi: "L’autorità romana si comporta come una personalità paranoica" in perenne contraddizione con Gesù, il cui messaggio "è stato quello dell’antinevrosi". Così può accadere che il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, veda "estremismi" là dove a Ponticelli divampa un pogrom. Non vede donne e bambini in fuga verso l’ignoto.
Lo sguardo di Gesù era diverso. Dove l’occhio del fariseo "vede" un "peccatore e pubblicano", Gesù "vede un uomo" (Matteo 9, 9-11). Al fariseo Simone che "vede una peccatrice" che gli insudicia la casa (Luca 7, 36-50), Gesù corregge lo sguardo: "Vedi questa donna?". E una donna vede Gesù quando incontra la samaritana, appartenente a un’altra etnìa (Giovanni 4, 1-29), a lei regala "l’acqua vìva" ovvero l’amore di Dio, sicché anche lei alla fine non vede più in lui un "giudeo", ma un "uomo"; lo sguardo di Gesù aveva abbattuto le barriere etniche e religiose.
Il fatto è che tra il Tempio cattolico e il Cesare berlusconiano, sussiste un connubio mentale, che "il guardo esclude". Ascoltiamo Eugenio Scalfari (la Repubblica 17/5/08): "Dopo la vittoria di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te... C’è una logica nella follia di aver cavalcato la paura: poiché di miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico sul quale scaricare le tensioni". Suscitare un nemico: un meccanismo che la psicoanalisi chiama "identificazione proiettiva". Per essa - che è in relazione con la posizione paranoide/schizoide (Melanie Klein) - il soggetto nega il proprio "cattivo", lo espelle e lo incarna in un Altro, il quale, trasformato in discarica di rifiuti psichici altrui, viene suscitato come nemico, che fa paura e da cui occorre difendersi, magari con le ronde, ma che va anche attaccato, magari con i raid, perché incarnazione del Male. Di fronte a un inconscio collettivo malato che sta tracimando, non è urgente che maturi la consapevolezza dei rapporti tra politica e psicoanalisi, tra religione e psicoanalisi, visto che le sole categorie della politica sembrano insufficienti?
Francesco Natarelli, Pescara
II suo invito è nobile, ma penso che nessuno lo raccolga. La psicoanalisi, infatti, non può aiutare né la religione né la politica perché, a differenza degli anni ’60 e 70 in cui la psicoanalisi svolgeva un ruolo anche di "analisi del sociale" (come già per altro era negli intenti di Freud, autore de !l disagio della civiltà), oggi è stata relegata o sì è relegata nell’ambito della cura individuale.
Per effetto di questa riduzione la psicoanalisi è diventata funzionale al potere sia politico sia religioso, ai quali non dispiace la medicalizzazione della condizione umana, perché questa comporta un’autolimitazione degli individui i quali, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura la gestione della loro esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per i poteri costituiti. E qui non sì fatica a intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell’etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell’etica della salvezza, con cui le religioni hanno sempre tenuto gli uomini sotto tutela.
Anzi, per Frank Furedi, sociologo ungherese che insegna all’università di Kent a Canterbury, autore de Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli), la patologizzazione di esperienze umane, fino a ieri ritenute normali, risponde all’esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di "pensare" (a questo ha già provveduto il "pensiero unico" per cui, come già ammoniva Nietzsche: "Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio"), ma soprattutto nel loro modo di "sentire". Questo nuovo "conformismo emotivo", come lo chiama Furedi, è un governo degli uomini più sottile e pervasìvo dì quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare, perché attutisce le tensioni sociali, spegne i possibili conflitti, riduce al silenzio le voci che rifiutano di uniformarsi al sistema, risolve quelle che, in tutta evidenza, sono questioni pubbliche in problemi privati degli individui, i quali, se dissentono con le loro idee o con i loro comportamenti, possono sempre trovare un cognitivista o un comportamentista che li persuade che, non potendo cambiare il mondo, per vivere con meno problemi è meglio che cambino se stessi. E, in nome dì questo "sano realismo", il mondo resta tale qual è.