Nel sanatorio di Davos l’origine della tragedia tra la forma e il caos
Mi avvicino alla (rilettura della) Montagna incantata con sentimenti misti, persino con un certo senso di colpa, come quando ci si abbandona all’ascolto di una musica troppo sentimentalmente accattivante (certo Chopin, certo Rachmaninoff) o anche a un testo letterario troppo «meridiano» (ho letto per esempio Les nourritures terrestres di Gide in tram, andando e tornando da scuola, per evitare di espormi a tentazioni). Nel caso del libro di Mann non ho paura né di essere tentato né di diventare troppo sentimentale; ma da un lato ne temo la portata «regressiva», perché il testo mi è stato compagno durante almeno un anno della mia adolescenza (seconda o terza liceo? Non lo ricordo più con esattezza) e dunque ha funzionato per me allora come il Bildungsroman che vuole essere, ma di cui adesso provo un po’ di vergogna perché mi appare troppo schematicamente costruito, troppo comprensibile per essere vero, in fondo. E, seconda ragione del mio disagio, c’è il fatto che il mio migliore amico ora scomparso, che è stato anche il critico letterario più fine e rigoroso che io abbia incontrato, mi aveva ripetutamente messo in guardia contro la sopravvalutazione di questo libro. «Non più di due forchette», mi disse una delle ultime volte che andammo insieme, un agosto, a Davos, sottoponendoci alla ennesima visione del film con Orson Welles tratto dalla Montagna incantata, che ogni estate allora si usava proiettare per i villeggianti del luogo. «Tre forchette», nel linguaggio delle guide gastronomiche, potevano spettare, secondo lui, solo a Musil e al suo Uomo senza qualità. Eppure, nonostante questo imbarazzo e questa autorevole messa in guardia, ho riletto il romanzo oggi con la stessa ammirazione, lo stesso piacere e la stessa ansia di andare avanti (un sentimento che provo sempre meno verso la narrativa). Continuo a pensare che per un giovane di oggi (ma anche per chiunque, giovane o meno) sia una lettura-chiave, anche per il carattere «classico», direi quasi ottocentesco, che mantiene, rispetto alla più sperimentale narrativa successiva.
Mann cominciò a costruirlo all’inizio degli Anni Dieci del secolo scorso, concludendolo poi soltanto nel 1924; poco prima del Castello di Kafka, e una decina d’anni prima del grande romanzo di Musil; negli stessi anni, a partire dal 1913, uscivano i volumi della Recherche proustiana, e nel 1922 l’Ulisse di Joyce. Pura cronologia, certo: ma fra tutti questi libri «epocali», il solo che può aspirare alla qualifica di grande e «classico» Bildungsroman resta proprio l’opera di Mann. Chi lo legge si trova posto di fronte a quasi tutto ciò che costituisce la grande cultura del Novecento: la psicoanalisi, il marxismo, l’irrazionalismo dei movimenti di destra e di sinistra di quegli anni, la dialettica tra Kultur e Zivilisation, la lotta (che è lo stesso) tra «l’anima e le forme» (come suona il titolo di uno scritto di Lukács degli stessi anni). La storia, per chi ancora non la conosce, è quella di un giovane neolaureato (in ingegneria navale) di Amburgo, Hans Castorp, che va a Davos per far visita al cugino Joachim ricoverato nel sanatorio Berghof (sbaglio o questo fu poi anche il nome del «nido d’aquila» di Hitler nelle montagne bavaresi? Non c’entra, ma insomma...), oggi diventato un bellissimo albergo. Arrivato per fermarsi alcuni giorni, Hans si scopre (o diviene?) anche lui malato di tisi, e finirà per restare al Berghof sette anni. La vita del sanatorio è descritta come quella di una ricca borghesia collocata però fuori dal mondo, come in una specie di lunga e noiosa vacanza in cui però si fa esperienza di tutti gli aspetti della vita, nella luce un po’ lugubre della malattia e della morte. Castorp, si può dire, impara proprio qui a vivere e a morire. Il tempo sospeso della vita d’ospedale, la ripetitività delle stagioni che in quella condizione diventano più intense e percettibili, la stessa educazione sentimentale che passa per lui attraverso l’innamoramento per una signora di origine caucasica, Claudia Chauchat, nei cui occhi riconosce lo sguardo di un compagno di scuola di cui era stato inconsapevolmente innamorato negli anni del ginnasio; e soprattutto l’incontro con le idee e lo spirito del tempo, compresi gli inizi della psicoanalisi - tutto questo è narrato con vivida maestria nel romanzo, e ne costituisce il fascino ancora attuale.
Il filo conduttore, il vero e proprio «tema» dell’itinerario formativo di Castorp è riconoscibile (spesso fin troppo esplicito) nella dialettica dei vari personaggi con cui il giovane ingegnere viene in contatto, soprattutto il signor Ludovico Settembrini, nipote dell’omonimo patriota risorgimentale italiano, e il professor Naphta, ex gesuita e professore di filologia classica (che forse allude a Lukács; ma è molto più simile a Nietzsche). L’italiano è l’esponente del più schietto pensiero illuministico, membro di una lega per il progresso dell’umanità che a un certo punto si scopre essere la Massoneria; Naphta, invece, impersona le tendenze irrazionalistiche degli spiriti rivoluzionari del tempo. Ecco perché davanti a questi due personaggi viene in mente il titolo lukacsiano de L’anima e le forme. Nel suo percorso educativo (il libro è anche stato anche definito un «romanzo pedagogico»), Castorp, attraverso i discorsi che gli rivolgono, in conflitto fra loro, Settembrini e Naphta, viene posto di fronte all’alternativa tra l’imperativo della razionalità e la consapevolezza del caos a cui essa vuole rimediare, con il rischio dell’ipocrisia, della repressione, della negazione della vita. Sono, questi, i temi che Nietzsche, nello scritto su L’origine della tragedia, ha discusso sotto il nome dei due principi, apollineo (la forma) e dionisiaco (il caos della vita). L’indimenticabile sogno che Hans Castorp fa a un certo punto della storia, quando si è sperduto nei boschi intorno al sanatorio e viene sorpreso da una tormenta di neve nella quale rischia di morire congelato, è il riassunto poetico di tutto questo groviglio. Castorp in sogno ha dapprima la visione di una spiaggia assolata dove si svolgono danze e giochi pieni di armonia e bellezza, fanciulle e giovinetti in girotondo come in certi quadri di Matisse. Poi, richiamato da un urlo (come accade in una famosa visione onirica dello Zarathustra nietzschiano) si volge all’indietro, e gli appare una costruzione sinistra, una tempio greco al sommo di uno scalone, dove su una sorta di altare due orride vecchie stanno sbranando e mangiando un bambino.
Come si vede, una simbologia piuttosto trasparente, che forse giustifica le «due forchette» (senza allusioni al pasto delle vecchie megere) del mio amico critico. Ma se le due forchette hanno senso come rilievo di un limite letterario, significheranno anche che siamo ormai fuori dalla cultura che si esprimeva nella lotta tra Settembrini e Naphta, tra il dionisiaco e l’apollineo? L’altro personaggio emblematico che compare nell’ultima parte del romanzo, quello dell’olandese Pieter Peeperkorn, che sembra togliere a Castorp ogni speranza di conquistare Madame Chauchat, e che è forse la personificazione stessa della vita e della sua forza, non sembra risolvere il contrasto, o anzi, se lo risolve, fa pendere la bilancia dalla parte dell’irrazionale (Nietzsche: alla fine, Apollo parla la lingua di Dioniso; ma è la lingua della infinita circolarità di vita e morte, di ordine e caos...). Castorp, del resto, lascerà il sanatorio solo per scendere in pianura allo scoppio della prima guerra mondiale, dunque per essere risucchiato dal caos e dalla violenza che si stanno scatenando sulla vecchia Europa. A parte la guerra (speriamo!), tutto il resto della sua storia è anche, ancora, storia nostra; la speranza di un mondo dove la ragione e l’amichevolezza non siano solo maschere che coprono una violenza inguardabile è ancora sempre solo una speranza.
Gianni Vattimo
La Stampa - TuttoLibri 18 marzo 2006