Shoah vera o falsa? Non si decide per legge
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore, 17.10.2010)
È certo avvilente la realtà delle cronache e delle inchieste di questi giorni. A Teramo, un professore di storia semisconosciuto agli studi, ma ultramediatizzato per le sue pseudo-lezioni sulla Shoah. Online, un intero sottobosco di siti antisemiti oltreché negazionisti. Il tutto, in coincidenza con l’anniversario del 16 ottobre 1943: quando una retata nazifascista consegnò oltre mille ebrei romani al treno per Auschwitz.
Tutto ciò è appunto avvilente. Ma non giustifica la reazione della classe politica italiana, che dai vertici delle Camere ai leader del centro-destra e del centrosinistra ha accolto con favore la proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, di approvare entro il 27 gennaio (giorno della Memoria) una legge che introduca in Italia il reato di negazionismo.
Penalizzare il negazionismo non può essere una soluzione del problema. Non foss’altro, perché il negazionismo è male culturale e sociale. Va dunque affrontato con anticorpi culturali e sociali, non attraverso la repressione giudiziaria: come già sottolineava, tre anni orsono, un appello degli storici italiani contro un possibile decreto-legge in materia dell’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella.
Oggi, a fronte della rinnovata tentazione della nostra classe politica di legiferare sulla verità storica, bisogna rinviare i cittadini-lettori a quell’appello del gennaio 2007 (http://www.21e331t/pdf/commentileggi/o7o123appellostoriciantimastella.pdf), sottoscritto dai più autorevoli storici italiani.
Inoltre, si può oggi provare ad aggiungere qualche elemento ulteriore di riflessione. Distinguere il vero dal falso nella storia è cosa indispensabile, ma meno facile di quanto sembri. Ad esempio: possiamo facilmente concordare sulla verità dell’affermazione secondo cui la terribile «notte dei cristalli», in cui vennero distrutti decine di templi e migliaia di negozi di proprietà degli ebrei, fu quella del 9-10 novembre 1938. Ma se qualcuno sostenesse che «le politiche nazionalsocialiste di quegli anni ebbero un impatto fortemente positivo sull’economia tedesca, prostrata dagli effetti della crisi del 1929 » sarebbe forse un’affermazione falsa? Oppure diventerebbe falsa soltanto l’estrapolazione successiva, «Hitler fu un genio dell’economia»? È evidentemente assurdo instaurare criteri giuridico-legali per distinguere il vero dal falso nella storia.
Porre limiti alla libertà d’insegnamento è comunque sbagliato. Beninteso: laddove certe lezioni universitarie sfociassero sull’incitazione all’odio razziale sull’apologia di crimini contro l’umanità queste lezioni assumerebbero un rilievo penale già contemplato e perseguito nei nostro ordinamento. Ma al di fuori di questo, un sistema educativo dovrebbe - piuttosto - tutelarsi con anticipo dalla tara dei cattivi maestri. Oggi, il problema non è sapere di cosa sproloqui dalla cattedra un docente di Teramo: il problema è sapere chi lo ha nominato professore ordinario in un’università italiana.
Creare un precedente nella disciplina della libertà d’insegnamento sarebbe pericoloso. Facciamo qui un altro esempio che riguarda non il negazionismo ma il cosiddetto creazionismo. Bisognerebbe forse stabilire limiti legali anche al diritto d’insegnare che Charles Darwin aveva capito poco o nulla sulle origini della vita nel mondo, e che tutto si spiega grazie a un Disegnatore meravigliosamente intelligente? In democrazia, la scienza e la cultura selezionano da sole, senza intervento della politica, l’attendibile dall’inattendibile e il rigoroso dal ciarlatanesco.
La conoscenza storica si nutre di tutto, perfino di negazionismo. Al riguardo un ultimo esempio, relativo ai diari di Anne Frank. Durante gli anni 80, soltanto certe accuse - ideologicamente abiette, ma filologicamente acute - del professore francese Robert Faurisson (il pioniere del negazionismo europeo) spinsero la Fondazione Anne Frank ad approntare un’edizione critica dei diari, che consentì di fare piena luce sulla ricchezza dei manoscritti lasciati da Anne.
Fuori d’Italia, percorrere la strada della verità storica di stato si è già dimostrato un esercizio rischioso; e suscettibile di generare esso stesso - paradossalmente - forme di negazionismo. È quanto ha sperimentato, negli anni scorsi, la Francia: che infatti ha finito per rinunciare, nel 2008, a qualunque nuova "legge memoriale".
Contro il negazionismo non serve la storia “vera per legge”
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 20.10.2010)
Pierre Vidal Naquet, lo storico francese, li ha chiamati “assassini della memoria”. Assassini spregevoli e vigliacchi perché tolgono alle vittime e ai loro discendenti persino il diritto di piangere i morti innocenti, di ricordarli e di combattere i carnefici e le ideologie che li hanno guidati.
Assassini della memoria per eccellenza sono negazionisti e revisionisti, che cavillano sulle camere a gas, sulle cifre delle vittime, sugli “ordini scritti o non scritti” con l’obiettivo di spingere nell’oblio la Shoah e - mascheratamente - di continuare ad alimentare le radici dell’antisemitismo.
IN QUESTA SCHIERA si inserisce certamente Claudio Moffa, il docente dell’università di Teramo, che al termine di un master è tornato a parlare (ripreso in video) del “cosiddetto Olocausto”, dei racconti “non fedeli” dei sopravvissuti, del “dogma-Shoah”.
Alle proteste e all’indignazione dei rappresentanti dei sopravvissuti si è unito Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, lanciando la proposta di una legge che punisca il negazionismo. La rabbia è sacrosanta, la voglia di contrastare gli assassini della memoria è trasversale e comprende uomini e donne delle più varie credenze. Eppure in un secondo momento sono emersi dubbi fondati se questa sia la via giusta.
Hanno cominciato gli storici. Adriano Prosperi su Repubblica, Sergio Romano sul Corriere della sera, Anna Foa sul giornale dei vescovi Avvenire. “L’inviolabile diritto di ciascuno - ha scritto Prosperi - è frutto di secoli di lotte contro l’intolleranza e la censura di poteri religiosi e politici”.
Una legge che difende penalmente la verità storica “sarebbe la vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un immane conflitto mondiale”. Sergio Romano ha ricordato l’appello di Blois, redatto nel 2008 quando si pensava che gli stati membri dell’Unione dovessero punire chi avesse “grossolanamente minimizzato” genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Gli storici francesi risposero che “in uno Stato libero non spetta ad alcuna autorità politica definire la verità storica e restringere la libertà dello storico sotto la minaccia di sanzioni penali”. Anna Foa su Avvenire ha rivelato che mai ha pensato che una legge per mandare in galera il più celebre dei negazionisti David Irving (o Claudio Moffa) “possa essere giusta e utile”. Ultimo è intervenuto anche l’Osservatore Romano. “Negare l’Olocausto - ha affermato - è un fatto gravissimo e vergognoso”. Ma la storia non è vera per legge e “punire per legge non è la strada giusta”.
Dubbi e perplessità sono affiorati anche all’interno del mondo ebraico. Su Moked, il portale dell’ebraismo italiano, Tobia Zevi ha scritto che i reati d’opinione sono “materia delicatissima” e si è chiesto: è pensabile tutelare un solo sterminio? E le vittime uccise dal gas italiano durante la guerra d’Etiopia rientrerebbero o no nella categoria della punibilità? Sono riflessioni a tante dimensioni.
Ma quanto più il nodo si fa ingarbugliato tanto più è bene tenersi al filo dei principi più sicuri. E nella nostra cultura occidentale il principio base - contro ogni diffamazione, la più perversa - è mirabilmente espresso dalla Costituzione degli Stati Uniti. Così suona il Primo Emendamento: “Il Congresso non farà leggi che limitino la libertà di parola o di stampa o il diritto delle persone di riunirsi in pacifica assemblea”.
Qualunque cosa dicano, qualunque cosa stampino, qualunque sia il segno sotto il quale si riuniscano. Anche antidemocratico, odioso, schifoso: purché pacificamente! Le tavole del Sinai delle moderne democrazie sono queste e non ce ne sono altre. E a ben vedere una legge che punisca i negatori della Shoah sarebbe inutile, controproducente, pericolosa. Inutile perché non impedisce l’antisemitismo. Controproducente perché - nonostante l’unicità dell’Olocausto - darebbe l’impressione che si tuteli la memoria di un solo massacro nella storia. Pericolosa perché apre la strada a un’ideologia di stato.
HA DETTO mirabilmente Anna Foa: “L’unica cosa che non ci serve è riempire le galere di mentitori e far pensare al mondo che per farci credere abbiamo bisogno della scorta della polizia”.
Nell’odierna situazione italiana finirebbe per fare da alibi al razzismo selettivo. Dove il primo gaglioffo leghista, protetto dal governo, magari afferma di difendere la Shoah e poi dichiara come il senatore Piergiorgio Stiffoni: “Gli immigrati? Purtroppo il forno crematorio di Santa Bona non è ancora pronto”. Dove si agita la bandiera dell’amore e si mandano maiali a pisciare sul terreno, destinato a una moschea. Dove nessuno è razzista, ma una “romena di merda” può essere uccisa. Dove ci si proclama moderati e si sdogana senza battere ciglio lo sfruttamento (che continua) dei “negri” di Rosarno. Antisemitismo e razzismo si combattono con l’impegno civile, la formazione, l’esempio delle istituzioni. Chiedendo coerenza a partiti, forze sociali, autorità, agenzie educative. E questo, in Italia, è ancora da costruire.
intervista a Carlo Ginzburg
La verità non è di stato
Ginzburg: i tribunali non possono decidere
È sbagliato interferire con normative nella ricerca intellettuale. E non si deve offrire a chi nega lo sterminio il pretesto per ergersi di fronte al mondo come paladino della libertà espressione
a cura di Simonetta Fiori (la Repubblica, 21.10.2010)
«La verità storica non può essere certificata da un tribunale», dice Carlo Ginzburg. Il suo giudizio negativo sull’opportunità di una legge che punisca penalmente il negazionismo è una posizione condivisa dagli storici più autorevoli della comunità nazionale, al di là delle diverse ispirazioni politiche e culturali. Così come appare compatto il sì alla legge pronunciato da tutto il mondo politico, destra e sinistra insieme, con poche eccezioni.
Da una parte le ragioni della ricerca, dall’altra le ragioni della politica. «Questa divergenza va sottolineata», sostiene Ginzburg, «ma non credo costituisca un sintomo negativo per la ricerca».
Perché è contrario alla penalizzazione del negazionismo?
«Perché si rende un servizio ai negazionisti, desiderosi di una notorietà mediatica e pronti a ergersi a paladini della libertà di espressione. La mia posizione non è cambiata rispetto a tre anni fa, quando insieme ad altri storici firmammo un manifesto contro il disegno di legge proposto dall’allora ministro della Giustizia Mastella. Ogni verità imposta dall’autorità statale rischia di minare la libera ricerca storiografica e intellettuale».
In quell’appello venivano ricordati gli esiti illiberali di alcune verità di Stato: il socialismo nei regimi comunisti, la negazione del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza di piazza Tienanmen in Cina.
«Soprattutto è sbagliato portare in tribunale le argomentazioni storiografiche. Si entra in un terreno difficile e delicato, con il rischio di offendere la verità ma anche le vittime dei genocidi. Prendiamo la formulazione della Decisione Quadro del 28 novembre 2008 adottata dall’Unione Europea, così come veniva riportata ieri su Repubblica. "Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili... l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra". La formula "minimizzazione grossolana" mostra immediatamente come scendendo su questo terreno possa cominciare una discussione infinita. Che cosa significa? Cosa intendiamo? Si entra in un gioco di distinguo e di sfumature assolutamente insensato».
Nella discussione intorno alla legge, qualcuno tra gli storici ha sostenuto che le argomentazioni dei negazionisti pur abiette possono essere di stimolo per la ricerca.
«No, sono ignobili e basta. Il documento sul negazionismo più profondo e più drammatico, anche per le sue implicazioni personali, è il saggio di Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta, contenuto nella raccolta Gli assassini della memoria. I suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz. Ho immaginato quanto gli fosse costato scrivere questo saggio. Devo dire che leggendolo al principio ho provato una profonda perplessità, che però è scomparsa quasi subito. Quel libro andava scritto, e solo Vidal-Naquet poteva scriverlo».
Più efficace Vidal-Naquet di una sentenza. Ma c’è il problema di come tenere i negazionisti lontani dall’insegnamento.
«Sono d’accordo con un vostro lettore: a proposito del professore negazionista di Teramo, invitava coloro i quali gli avevano dato la cattedra a riflettere sulle conseguenze della loro scelta. Il fatto che quel signore sia diventato docente è un sintomo dello stato vergognoso in cui è scivolata l’accademia italiana. Il negazionismo si combatte anzitutto moltiplicando la vigilanza critica e alzando gli standard delle nostre università».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo") .. *
Neonazismo e libertà accademica
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 09 dicembre 2019)
Ha suscitato scalpore il caso di Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Siena che per anni ha sostenuto tramite i suoi profili social posizioni esplicitamente neonaziste, razziste, antisemite e negazioniste della Shoah . Il rettore senese e gli organi rappresentativi dei suoi colleghi, spinti dal montare della polemica mediatica, hanno preso le distanze da lui e stanno promuovendo provvedimenti che possono preludere a un licenziamento, aperti da una denuncia alla Procura.
A fronte di questi sviluppi, alcuni studiosi e accademici hanno sollevato dubbi sull’opportunità e sulla legittimità di un atteggiamento repressivo verso il docente da parte dell’ateneo di appartenenza. In particolare Biagio De Giovanni, pur condannando fermamente l’opinione del collega, ha rigettato l’ipotesi di un licenziamento richiamando la qualità della sua attività intellettuale e l’illegittimità di provvedimenti di totale ostracismo in un ambiente, quello della ricerca universitaria, che si fonda sul libero confronto e dibattito e sulla battaglia delle idee, non sulla loro repressione. È stato del resto proprio Castrucci a difendersi facendo rientrare le sue esternazioni nell’ambito della piena libertà di parola e di espressione che caratterizzano il libero confronto.
Il tema è interessante e merita di essere affrontato fino in fondo, anche per trarre da un caso singolo alcune linee di comportamento generali. Iniziamo facendo chiarezza: la libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta infatti di libertà accademica. Essa consiste, a dirla brutalmente, nella possibilità di essere pagati e accedere alle fondamentali strutture professionali dell’insegnamento e della ricerca anche per sostenere posizioni ritenute sbagliate, pericolose, potenzialmente catastrofiche se diffuse e messe in pratica nella società. Non è un caso se, nel senso comune così come negli aspetti più noti della legislazione in materia, la libertà accademica quasi si identifica col mantenimento della posizione lavorativa e stipendiale dello studioso. È così di fronte alla sostanziale inamovibilità maturata per i docenti nei Paesi in cui la “corporazione” universitaria è stata più largamente inglobata nell’impiego pubblico, e nell’ambito della tenure riconosciuta in sistemi contrattuali come quello statunitense.
Molto spesso però si dimentica un altro elemento nell’attribuzione di quello che è, a tutti gli effetti, un privilegio professionale strettamente legato alla funzione culturale e sociale di docenti e ricercatori universitari. Ai ruoli a cui viene riconosciuta la libertà accademica si accede dopo che la comunità degli studiosi ha potuto prendere in esame per un congruo periodo di tempo l’attività scientifica dell’aspirante docente, riscontrandovi un adeguato livello di competenza disciplinare e la maturazione di un’adeguata etica professionale. Questo passaggio è esplicito nelle norme che, ad esempio negli Stati Uniti, regolano il tenure track, e in fondo si ritrova alle radici della formazione stessa delle istituzioni universitarie nell’Europa medievale, quando appunto la licentia ubique docendi costituiva un fondamentale accesso alla possibilità di insegnare rilasciata dopo attento esame da parte di alcuni tra i massimi esperti della disciplina.
Una volta chiarito questo quadro generale, quali conclusioni possiamo trarre sul caso Castrucci? In primo luogo, se coi suoi tweet antisemiti e filohitleriani il docente ha esercitato il proprio inalienabile diritto alla libertà di espressione o ne ha abusato violando la legislazione sull’apologia del nazismo e del fascismo e quella (a mio parere, e anche secondo l’opinione della principale associazione culturale italiana di storici contemporaneisti, piuttosto scivolosa e non del tutto condivisibile) sul negazionismo, spetta alla magistratura e non all’università.
Detto questo, occorre chiedersi se le sue prese di posizione sono difese dalla libertà accademica, che quindi lo mette al riparo da provvedimenti sul piano professionale. Ed è questo il punto a mio parere interessante. Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, l’attribuzione del privilegio della libertà accademica si regge sulla dimostrazione di aver acquisito e di mantenere competenza disciplinare ed etica professionale, bisogna ammettere che chi esprime pubblicamente le opinioni che ha espresso convintamente Castrucci forse non possiede più, se mai effettivamente è giunto ad averle, né l’una né l’altra.
Da un lato, le idee sul “complotto ebraico”, sulla politica monetaria “sovranista” di Hitler e Mussolini e sulla veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, prima di essere aberranti, sono fondate su dati falsi e ampiamente smentiti, e possono essere credute solo da una persona ignorante della storia, sciatta nell’analisi critica delle sue fonti, priva dei filtri culturali alla propaganda più trita che ci si aspetterebbe da un uomo di cultura, per di più specializzato nella storia delle idee e del pensiero. Dall’altro, è doveroso chiedersi se chi esprime così apertamente il disprezzo per interi gruppi umani ha poi dato seguito alle parole con comportamenti più o meno velatamente discriminatori e ostruzionistici nei confronti di studentesse e studenti, colleghe e colleghi, in un mondo universitario in cui tra molte difficoltà si affacciano minoranze di cui andrebbero tutelate le pari opportunità.
Dunque, alla luce di un comportamento così evidentemente lesivo di qualsiasi codice etico di condotta fondato sulla convinzione che un professionista intellettuale non smette le sue funzioni professionali alla fine dell’orario d’ufficio e che la comunicazione pubblica del personale universitario è parte integrante della “terza missione” di divulgazione e public engagement, avrebbe senso se l’ateneo senese indagasse da vicino sui comportamenti tenuti da Castrucci nelle proprie relazioni di lavoro, ponendosi il problema del perché finora non è emerso nulla dai canali di tutela e di valutazione degli studenti o da rimostranze di colleghi, e se ripercorresse con attenzione le tappe di carriera del docente e le sue valutazioni successive per individuare come e perché nella lettura critica della sua produzione da parte di commissari ed esperti valutatori non siano emersi gli elementi di sciatteria, pressapochismo e vero e proprio errore metodologico che non possono non caratterizzare, almeno da un certo punto in poi, gli scritti di chi sostiene in coscienza posizioni come le sue. Questa indagine retrospettiva, oltre a mettere in discussione il posto di professore ordinario di Castrucci, potrebbe e dovrebbe chiamare in causa i responsabili della sua carriera, e far loro rendere conto di procedure di selezione e conferma chiaramente inadeguate.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato “martire” del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni, chiarendo che le responsabilità non sono soltanto sue.
Più in generale, poi, riflettere sui caratteri fondamentali della professione accademica e sulla necessità di una verifica continua della loro soddisfazione potrebbe far bene al sistema universitario nel suo complesso. Se i meccanismi di valutazione dell’idoneità professionale e della qualità della ricerca e della didattica si concentrassero, piuttosto che su astratti livelli di “eccellenza” spesso concepiti in senso puramente quantitativo, su come individuare più prontamente casi di palese inadeguatezza come questo, si sarebbe fatto un passo avanti per offrire un ambiente universitario più vivibile. Allo stesso modo, se i codici etici delle università venissero concepiti non tanto come manuali di buone maniere per non offendere il potente di turno e non mettere in cattiva luce i propri vertici impegnati nella competizione per i finanziamenti ministeriali, quanto per tracciare un insieme di comportamenti da cui risultino le qualità professionali richieste ai docenti per la loro funzione, le possibilità di produttiva interazione tra alta cultura e società sarebbero decisamente più significative.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Nel ghetto la Storia la scrivono i vinti
La vicenda vera di un gruppo di studiosi di Varsavia che cercò di contrastare la supremazia della memoria nazista
Nel 1999 l’Unesco ha incluso l’archivio “Oyneg Shabes” (nome della compagnia dei 60 studiosi) nella “Memoria del Mondo”
di Federico Pontiggia (Il Fatto, 15.01.2019)
“Saranno i tedeschi a scrivere la nostra storia, o saremo noi ebrei?”. Lo studioso Samuel D. Kassow ha disseppellito la risposta e l’ha affidata a un libro, Chi scriverà la nostra Storia? L’archivio ritrovato nel ghetto di Varsavia (Mondadori), che poi è diventato il docufilm Chi scriverà la nostra Storia (Who Will Write Our History).
Sceneggiato e diretto da Roberta Grossman, prodotto dalla sorella di Steven Spielberg, Nancy, con Kassow consulente scientifico, è stato presentato in anteprima al San Francisco Jewish Film Festival lo scorso luglio, quindi è meritoriamente ma nascostamente transitato alla Festa di Roma e il 27 gennaio arriverà in sala con Wanted e Feltrinelli Real Cinema per la Giornata della Memoria. Non dovete perderlo, ha una qualità cinematografica importante, un valore storico preminente, un lascito esistenziale incommensurabile.
Narrato da Adrien Brody e Joan Allen, propala una, forse la, storia non raccontata della Shoah: quando nel novembre del 1940 i nazisti rinchiudono oltre 450mila ebrei nel ghetto di Varsavia, c’è chi s’oppone, non con le armi bensì con carta e penna. Perché se è vero che la storia la scrivono i vincitori, si può accostarne un’altra, che non si consegni alla prospettiva dei vinti: “I tedeschi mandano troupe cinematografiche nel ghetto - dice Kassow nel film - per mostrare quanto siamo sporchi e disgustosi. Stanno dicendo al mondo che siamo la feccia della terra, e a meno che non assembliamo la nostra documentazione i posteri ci ricorderanno sulla base delle fonti tedesche e non di quelle ebraiche”.
Denominata Oyneg Shabes, “La gioia del Sabato” in yiddish, una compagnia segreta guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e formata da sessanta tra ricercatori e giornalisti, rabbini e sionisti cerca di contrastare la supremazia della memoria nazista, raccogliendo decine di migliaia di documenti e artefatti, diari, interviste e ritratti per dare contezza della vita e della morte nel ghetto. E non solo, basti pensare ai primi report dello sterminio provenienti da Chelmo e fatti rimbalzare sulle onde corte della Bbc Radio. Un’impresa rischiosa e vieppiù coraggiosa, nata quale forma di resistenza non convenzionale e cresciuta, quando i destini personali volgono al termine, quale trasmissione di sapere, non dei filosofi e dei rabbini ma della gente comune, secondo le coordinate apprese dal sionista di sinistra Ringelblum all’Istituto per la Ricerca Ebraica.
Dei sessanta della Oyneg Shabes, con proporzioni estendibili all’intero ghetto dato alle fiamme nel ‘43, non sopravvivranno che tre membri, di cui solo uno, Hersch Wasser, conosce la localizzazione dell’archivio. Assistito da un’altra compagna, Rachel Auerbach, Wasser porta all’individuazione di scatole metalliche seppellite sotto una scuola: è il settembre del 1946. Nel dicembre del ’50 alcuni muratori porteranno casualmente alla luce una seconda porzione del “tesoro”, custodita in due contenitori d’alluminio per il latte.
Regista solida ed esperta, la Grossman lega estratti degli archivi e interviste inedite, raro materiale di repertorio e drammatizzazioni storicamente accurate e ben recitate. Brividi e occhi lucidi accompagnano ineludibilmente la visione, che nel ghetto ritrova un bivio atroce - “Che cosa significa passare davanti a persone che muoiono per strada. Per alcuni mostra quanto siamo diventati insensibili, altri hanno detto di no, invece. Mostra quanto siamo diventati forti” - e un “tragico dilemma: dobbiamo servire la zuppa col contagocce a tutti? O dobbiamo darne una porzione intera ad alcuni così che pochi abbiano abbastanza per sopravvivere?”. Scriveva la Auerbach, che vi fu addetta, “le mense pubbliche ebraiche non hanno mai salvato nessuno dalla fame”, tra impotenza diffusa e crepuscolo degli uomini ci si chiede solo se “morirà prima la mia o la tua famiglia” e a quel punto “si può parlare di etica?”.
Chi scriverà la nostra Storia non elude nulla, nemmeno i membri della polizia ebraica che si trasformavano “in segugi per salvare la pelle” e, prima di finire nell’omissis post-bellico, facevano interrogare su “chi ha cresciuto queste mele marce tra noi?”, ma non abdica alla speranza: è “il trionfo dell’umano sull’inumano” di Ringelblum e soci, “ché la nostra volontà di vivere è più forte della volontà di distruggere”.
Nel 1999 il programma Memoria del Mondo dell’Unesco ha incluso tre collezioni polacche: le composizioni di Frédéric Chopin, i lavori scientifici di Copernico, e l’archivio Oyneg Shabes.
Se il potere vuole scrivere la Storia
di Giovanni Sabbatucci (La Stampa, 02.02.2018)
La memoria storica di un popolo è di per sé un’entità impalpabile e difficile da maneggiare, fatta com’è della somma di infinite memorie individuali non sempre riducibili a un’unica sintesi. Diventa materia pesante e scivolosa quando il potere politico pretende di ricostruirla ex novo, di depurarla d’autorità dalle pagine oscure o addirittura di imporne una versione ufficiale. È quanto purtroppo rischia di accadere, anzi sta già accadendo, nella Polonia di oggi: dove il Senato ha approvato a larga maggioranza una legge che, se definitivamente approvata, vieterebbe a chiunque, pena la reclusione fino a tre anni, di stabilire qualsiasi collegamento tra la nazione polacca e la tragedia della Shoah che si consumò, in parte rilevante, nel suo attuale territorio.
Ora è vero che la Polonia ha combattuto dall’inizio alla fine la guerra dalla parte giusta, e in quella guerra ha subito, in rapporto alla popolazione, più perdite di qualsiasi altro Paese (sei milioni circa, di cui la metà ebrei); che fra il ’39 e il ’45 è stata cancellata come Stato e soggetta a una doppia e crudelissima occupazione (tedesca e sovietica); che visse queste tragedie dopo quasi due secoli di eroismi e di tragedie, di spartizioni, aggressioni e oppressioni di ogni genere (che sarebbero state il preludio a un altro e mezzo secolo di servitù). E hanno ragione coloro che si offendono quando sentono parlare di Auschwitz come di «un campo di sterminio polacco».
Ma l’orrore di queste vicende non può giustificare la cancellazione di una parte della storia: una storia che pure esiste e pesa e che riguarda proprio le colpe dei polacchi. Non mi riferisco solo all’antisemitismo diffuso e radicato, ma anche e soprattutto all’attiva partecipazione a pogrom e massacri avvenuti nel corso dell’occupazione tedesca (a Jedwabne, nel luglio del 1941, a invasione dell’Urss appena iniziata, furono centinaia gli ebrei massacrati da «volonterosi carnefici» polacchi) e, quel che è più grave, anche dopo: era il luglio del 1946, la guerra era finita da più di un anno quando, a Kielce, circa quaranta ebrei furono uccisi con armi rudimentali dai loro vicini e conoscenti sulla base della falsa notizia di un infanticidio. Né si può dimenticare che, fra i regimi comunisti dell’Europa dell’Est, quello polacco fu, negli Anni 60, l’unico ad annoverare nei suoi vertici una corrente organizzata - i «partigiani» del generale Moczar - in cui l’antisemitismo aveva libero corso.
Certo, queste e altre analoghe sono vicende «minori», per quanto orribili, rispetto al contesto generale entro cui si consumarono. Ma anch’esse contribuiscono a formare quel quadro: occultandole o censurandole non si rende un buon servizio alla conoscenza storica e si fa ancora una volta torto alle vittime della Shoah, sottraendo arbitrariamente a un metaforico banco degli imputati una parte, seppur minoritaria, dei loro carnefici: in questo senso, parlare di negazionismo dall’alto non è per nulla fuori luogo.
Qualcuno potrebbe poi obiettare che un certo grado di manipolazione, o di reinvenzione della memoria, è tipico di tutti i processi di costruzione nazionale. Ovunque le autorità politiche e gli apparati pedagogici tendono a valorizzare i momenti alti della storia della loro nazione, a coltivarne le glorie e a custodirne i miti fondativi. Vero, ma c’è una differenza sostanziale.
Nei Paesi liberi questi temi sono oggetto di continuo, e spesso aspro, dibattito. Anzi, la messa in discussione dei miti e la rivisitazione delle pagine buie costituiscono, quali che siano i loro esiti, una premessa e un passaggio necessario della riflessione storiografica e poi della costruzione di una memoria condivisa (che non significa imposta da una legge).
Per fare solo qualche esempio, gli storici francesi hanno studiato i massacri in Vandea e, sia pur con ritardo, il regime di Vichy, gli americani gli orrori della guerra di secessione; i tedeschi hanno avviato negli Anni 80 la discussione sui crimini nazisti e sul «passato che non passa», gli inglesi hanno affrontato senza reticenze la storia del colonialismo; gli italiani non hanno mai smesso di discutere sulla «conquista regia» e sui limiti e le colpe del movimento risorgimentale nemmeno quando celebravano il 150° anniversario dell’unità; e infine - è storia di questi giorni - hanno fatto solennemente ammenda, per bocca del capo dello Stato, del contributo fornito dal regime fascista alla persecuzione degli ebrei fra il 1938 e il 1945. Viene allora da pensare che anche la capacità di accettare il proprio passato, e di discuterne in libertà senza eludere i temi scabrosi, rappresenti un discrimine significativo per misurare la qualità di una democrazia.
È di Stato il revisionismo storico polacco
di Moni Ovadia (il manifesto, 02.02.2018
Il senato della Polonia ha approvato con larga maggioranza la legge 104 che, qualora firmata dal presidente della repubblica, Andrzej Duda, punirebbe penalmente, fino a tre anni di carcere chiunque sostenga complicità polacche nello sterminio nazista o neghi i crimini dei nazionalisti ucraini di Bandera contro i polacchi.
Il senato della repubblica polacca è dominato dal partito ultraconservatore Diritto e Giustizia (Pis) del leader Jaroslaw Kaczynski. La legge è evidentemente improntata ad una sorta di delirio revisionista storico. Che da sempre, ma in particolare dall’89, dal crollo del «socialismo reale» in avanti si è sviluppato con crescente virulenza nei paesi dell’ex blocco sovietico orientale, ma non solo.
Ora, al di là della fattispecie della legge approvata in Polonia sarebbe interessante capire cosa il fenomeno culturale e politico rappresenti, quali ne siano le caratteristiche e cosa esso significhi nel contesto di un’Europa unita.
Questo revisionismo appartiene chiaramente alla sottocultura delle destre estreme, ultra nazionaliste e fascistoidi e, non di rado conseguentemente antisemite ma non necessariamente anti-israeliane. Si origina nel concetto fondamentale di ontologica innocenza della propria gente. I colpevoli sono sempre gli altri (in questo caso gli ucraini, che vengono accusati di essere stati collaborazionisti dei nazisti. E i polacchi invece no?).
Ne consegue l’ assunto che i nostri morti sono santi, quelli degli altri no. In Italia, per esempio, questo sentiment ha preso la nota e frusta forma del «italiani brava gente».
Il revisionismo revanscista si caratterizza per un furioso anticomunismo viscerale per il quale chiunque sia di sinistra o supposto tale è come se fosse Lenin in persona.
Il fascismo, in forma di nostalgia per i bei tempi andati o per vocazione mai estinta è sempre presente almeno sottotraccia. Ma appaiono sotto forme e maschere «nuove», come ha denunciato l’Appello presentato ieri al Museo della Liberazione di Roma.
I «mai morti» della passione nera riemergono in questa temperie sia per la crisi sociale profonda che rischia di non trovare risposte a sinistra, sia perché il processo di defascistizzazione dell’Europa non è mai stato realmente e autenticamente voluto. In primis anche per volontà dei governi degli Stati uniti di cui l’Europa occidentale è sempre stata fedele e servile alleata.
E dopo il crollo del muro di Berlino anche quella orientale si è più che allineata e ben prima di entrare nell’Ue, è passata con entusiasmo da neofita sotto l’ombrello della Nato che irresponsabilmente si allarga sempre più ad Est.
Questa alleanza militare - si illudeva qualcuno - avrebbe via via perso funzione con la fine della Guerra fredda, invece si è rinforzata e attizza nuovi conflitti (Georgia, Ucraina ecc...) perché la guerra fredda è stata sempre più un pretesto per affermare l’egemonia assoluta di un unica superpotenza occidental-atlantica.
I paesi dell’Est-Europa del blocco di Vysegrad, i più entusiasti e partecipi di questo assetto geopolitico, rappresentano ormai una nuova frattura, tra le tante, dell’Unione europea, erigendo muri e srotolando nuove matasse di fili spinati contro la disperazione dei migranti, ma anche contro lo stato di diritto, sul controllo delle libertà interne, della stampa e perfino della magistratura.
E l’Unione europea che fa?
Nano politico, privo di un orizzonte unico nel campo della politica estera, incapace di difendere i propri principi è stato a guardare mentre morso a morso, proprio gli ultimi arrivati nell’Unione, sbranavano l’idea democratica e inclusiva fondativa, e insieme il senso stesso di Europa Unita: la ripulsa di ogni nazionalismo, che per sua natura cerca nemici da dare in pasto ai propri sostenitori e così si alimenta dell’odio per l’altro e per le minoranze interne sempre sospettate di essere quinta colonna dello straniero.
Ovviamente per dare autorevolezza alla propria chiamata alle armi la destra nazional-revisionista deve attaccare anche i propri omologhi ultranazionalisti di altri paesi e questo spiega l’altro articolo di legge, punitivo dei nostalgici di Bandera, il filo-nazista ucraino durante la Seconda guerra mondiale.
In tutto ciò la posizione più ambigua e debole mi pare purtroppo quella che viene da Israele. Basta ascoltare il premier israeliano Netanyahu, il quale essendo ultranazionalista, revisionista - è arrivato ad incolpare i palestinesi per la Shoah - reazionario, razzista e segregazionista (vedi il suo governo in carica), accusa ora di negazionismo la Polonia, che in realtà è stata finora ed è la sua migliore alleata, come il suo interlocutore Kaczynski e come del resto il fraterno sodale ungherese Viktor Orbán.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti (il manifesto 27.1.2018)
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
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FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
COSTITUZIONE E INSEGNAMENTO....
Censurare Céline non ferma il razzismo
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 25.01.2018)
La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi.
Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia. I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.
È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai... insomma... la manovalanza... No! Ma tutti quelli che ordinano... che decidono... che intascano... affaristi, direttori, tutti giudei... completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto). La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”.
Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere?
Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?
Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.
Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?
Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).
Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.
La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza.
La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
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FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
‘La morte nera’ e il fascista che è in noi
di Iside Gjergji *
Il recente libro di Fabrizio Denunzio, La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin (Ombre Corte 2016) è uno dei testi più interessanti pubblicati in Italia nel 2016. L’opera prosegue e, forse, conclude una elegante e seducente lettura di Walter Benjamin, già avviata da Denunzio con L’uomo nella radio. Organizzazione e produzione della cultura in Walter Benjamin (Giulio Perrone 2012) e, prima ancora, con Quando il cinema si fa politica. Saggi su “L’opera d’arte” di Walter Benjamin (Ombre Corte 2010).
Il libro tratta un tema attuale - il fascismo - e lo fa attraverso le parole e i silenzi del filosofo berlinese. La morte nera non è solo un testo di critica e, senza dubbio, non è uno di quei lavori che - come va di moda - si accaniscono sul “corpo” di un autore, nella speranza di ricavarne un lembo, al fine di assicurarsi un posto nella koinè culturale che conta.
Al contrario, il testo ha un obiettivo ambizioso: vuole realizzare uno schizzo multidimensionale del fascismo, vuole mostrare il suo cuore segreto, ancora palpitante, per farci sentire anche nella vigna dei testi il suono inquietante del “duro metallo della violenza” (Baudelaire). Obiettivo riuscito.
Inoltre, come si può intuire già dal titolo (per gli amanti di Guerre stellari, la Morte Nera è l’arma potente e segreta dell’Impero, che, da sola, può annientare interi pianeti, cosi come “Morte Nera” è l’espressione con la quale si definisce la peste che sterminò più di un terzo della popolazione europea nel XIV secolo), il lavoro ha un carattere ibrido. Vi si trova la critica più rigorosa attraversata da intuizioni, collegamenti storici e biografici, rimandi a frammenti letterari, epistolari, trasmissioni radiofoniche e film.
Nella prima parte si svolge come una sceneggiatura in tre atti (fasi), denominata “Il fascismo”, il cui prequel, nella seconda parte, è dedicato a “Il fascista”.
Ma andiamo con ordine. Denunzio, come anticipato, individua tre fasi nello sviluppo del pensiero benjaminiano sul fascismo. Nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, Benjamin pensa a un modello di fascismo a partire da una analisi “giornalistico-informativa”, anche come diretta conseguenza del suo girovagare in Europa.
La sua attenzione è catturata pressoché interamente dalla figura del “duce”. L’autore coglie in questa fase lo sguardo critico di Benjamin sull’Illuminismo e la sua conseguente spiegazione della legittimazione popolare del “duce” attraverso il conflitto tra ragione e religione. Il collegamento è da ricercare nel “vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”, creando spazio a “personaggi che, contrabbandando un soprannaturale di scarto, [...] vengono investiti di un potere che sicuramente useranno contro quanti gliel’hanno conferito” (p. 34).
La soggettività a cui Benjamin pensa in questo periodo non coincide con l’uomo razionale, ma con l’uomo religioso, capace di esperire la trascendenza.
La seconda fase, secondo l’autore, coincide con gli anni 1934-36 e si caratterizza per l’approccio “politico-combattente” del filosofo. Benjamin perviene, infatti, a un modello di fascismo fondato su elementi strutturali, tenendo conto della composizione delle classi e delle strategie di dominazione del capitalismo. È in questo passaggio che il filosofo tedesco accantona la coppia concettuale “ragione-religione” e abbraccia un’altra, anch’essa oppositiva, ovvero “natura-tecnica”.
La riflessione più matura sull’Illuminismo e sulla modernità spinge Benjamin a pensare un rapporto inedito tra natura e tecnica, in quanto egli riesce a immaginare la tecnica “liberata dal fine strumentale di dominare la natura e finalmente impiegata per fare giocare e divertire gli uomini” (p. 63).
La soggettività dominante nel pensiero benjaminiano di questa fase non è l’individuo, ma la classe lavoratrice. È il lavoro a mediare le relazioni e, di conseguenza, la trascendenza finisce in secondo piano (senza però scomparire del tutto) per lasciare maggiore spazio alla Ragione.
L’ultimo e terzo atto della sceneggiatura denunziana sulla teoria del fascismo di Benjamin si consuma nel 1940, che è anche l’ultimo anno di vita del filosofo, ormai esule e solitario nelle strade d’Europa, nelle quali imperversa la “follia”. Il modello di fascismo delineato in questa fase conserva il nesso struttura/sovrastruttura sviluppato nelle fasi precedenti, ma questa volta l’elemento (strutturale) economico trova un perfetto rispecchiamento nella sovrastruttura ideologica del fascismo: “La conservazione millenaria della prima si rispecchia fedelmente nell’eternità della seconda” (pp. 72-73). Benjamin perviene così a una riflessione sul tempo nella modernità, sui momenti temporali dell’eternità e dell’istante.
La chiave di lettura dell’intera sceneggiatura è, però, nascosta nel prequel, ovvero nella seconda parte del libro, laddove Denunzio, in modo raffinato, sviluppa un’analisi sociologica e psicoanalitica, setacciando il tempo, la vita e le parole del filosofo tedesco, a caccia di lapsus, di non detti e del rimosso. È nella seconda parte, infatti, che le parole e i silenzi abitano corpi che ci consentono di interpretare e comprendere comportamenti, testi, dottrine ed eventi narrati nella prima parte. E nondimeno ci consegnano un ritratto completo di Benjamin, con le sue luci e le sue (non poche) ombre nere. Qui il fascismo diventa una silhouette autoritaria e tirannica, una presenza che si produce in fasi storiche e passaggi biografici caratterizzati da “vuoti” di autorità e che si manifesta sotto molteplici sembianze: padri sostituivi con simpatie naziste, personaggi letterari che evocano tiranni, poeti vicini alle SS.
L’autore sottolinea, dunque, quanto già evidenziato dalla migliore tradizione della Scuola di Francoforte, ovvero l’imprescindibilità della teoria freudiana nella comprensione del fascismo come fenomeno sociale, in quanto pone l’urgenza di comprendere, accanto a tutto il resto, anche i condizionamenti e le tirannie interne (IL fascista interno) al soggetto. Curiosamente, però, Fabrizio Denunzio attribuisce l’ulteriore sviluppo di tale riflessione, nella seconda metà del Novecento, ad alcuni illustri autori francesi, quali Foucault, Deleuze, Guattari, i quali notoriamente si sono ispirati a pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e Heidegger, tutti, almeno a parere di chi scrive, reazionari, anti-dialettici e immersi nel tunnel dell’irrazionale. La lotta contro i residui del “fascista” (morte nera) dentro di noi, a quanto pare, non può mai dirsi conclusa. Che la Forza sia con noi!
*
IL FATTO QUOTIDIANO, di Iside Gjergji | 23 dicembre 2016
Walter Benjamin, l’inquilino in nero
di Massimo Palma (alfapiù, 11 gennaio 2017)
A Fabrizio Denunzio la taccia di eresia non importa. Collocarsi al di fuori di ogni corrente degli studi su Benjamin è in sé un merito, dati i successi di questo loser nelle mode filosofiche, editoriali e culturali di questi anni.
L’angolatura è originale - evidente sin da Quando il cinema si fa politica (2010). Ancor più nella Morte nera. Lo stile è assertorio, didascalico, deduttivo. Denunzio avvicina testi notissimi come fosse la prima volta, li incrocia con frammenti poco visitati e propone un mash up che costringe immancabilmente a leggerlo due volte: quando affianca al celebre saggio su Kraus la poco nota recensione di Haecker, la chiosa è cristallina: «non volendo essere affatto raffinati, anzi, volendo peccare di rozzezza». Lo stesso accade quando impiega concetti inventati con indubbia capacità plastica (l’Illuminismo «compresso»), quasi fossero concetti benjaminiani. In più, Denunzio incrocia temi forti: l’arte politica, l’uso della radio.
Brillante, oggi, la scelta di affrontare una variante della Germania segreta, lemma che Benjamin mutua da Stefan George (chissà perché assente nel libro), e delle tante letture dell’intima affinità tra l’Intelligenz tedesca e le idee naziste, che da Kantorowicz e Lukács a Jesi e Lacoue-Labarthe, hanno attraversato l’incompiuta seduta di autocoscienza europea.
Qui si tocca un capitolo inedito: Benjamin e il fascismo. Fascismo che, ben mostra Denunzio, Benjamin ha visto di persona - nel 1924, nel mitico viaggio a Capri, vede Mussolini, restando colpito da una fisicità goffa e inarticolata -, ha intervistato nella sua versione francese (Georges Valois), ha recensito nella sua variante tedesca prenazionalsocialista (il libro di Ernst Jünger e soci, stroncato nel 1930), per poi farne un oggetto teorico, sicuramente avversario, ma - questa la tesi dirompente - altresì abitante nel corpo biografico e nell’armamentario teorico benjaminiano.
Non solo, quindi, Benjamin studia, avversa e teorizza il fascismo, ma Benjamin ha un fascista dentro di sé: nel senso pasoliniano, deleuziano, che è sempre il caso di riattivare. E Denunzio si cimenta con zelo sull’ipotesi di un Benjamin abitato. Lo mostrerebbero ricordi infantili sedimentati nella Cronaca berlinese, il rapporto negli anni Dieci con Gustav Wyneken, «guida» autoritaria e guerrafondaia del Movimento giovanile, ma anche il ruolo del tiranno nello studio sul barocco tedesco, la cui coincidenza con la «visione» di Capri viene usata come detonatore onniesplicativo, la lettura di Kafka e dei suoi funzionari sadici.
Che i due punti biografici (il padre e Wyneken) ricorrano teoricamente in chiave psicanalitica in due dei suoi scritti maggiori è assunto problematico, ma va a sostanziare la tesi di un inquilino imprevisto nel Benjamin teoreta del fascismo: Benjamin fascista.
Esattamente questo afferma Denunzio: «la coerenza sistemica della teoria del fascismo benjaminiana può essere assicurata solo postulando che il suo autore si sia profondamente identificato con esso. Dal momento che non si può dare fascismo senza l’uomo fascista, allora, la validità di questa teoria di Benjamin sta nel fatto che ad averla pensata è il fascista che lo abitava, ma che, per fortuna, non lo possedeva».
Questo postulato d’inizio libro resta tale. Tutto lo studio ne consegue. Questa premessa-conclusione - «il fascismo intrapsichico di Benjamin», il «padre compensativo interiorizzato da Benjamin per rispondere alla crisi d’autorità paterna: guerrafondaio, criminale e sadico» - si dirama, serpe in seno al lettore, in parallelo alla formula dell’«ebreo comunista esule e perseguitato» che, assieme all’intellettuale antifascista precario declassato non-accademico, classifica WB nel casellario vittimario. Paria come tanti.
Eppure, tale premessa-conclusione per esser presa sul serio deve celare una sottaciuta rilettura del concetto di immedesimazione o empatia, che Benjamin individua come una dannazione operativa della storiografia e della «tecnica» artistica in generale e che legge in questi termini sin dall’Origine del dramma barocco tedesco, per demolirlo nella tesi VII Sul concetto di storia come funzione «fascista» della scrittura.
Ma il libro sul barocco viene ignorato da Denunzio fin quasi alla fine: non lo menziona riguardo alla ricostruzione iper-cattolica, à la Schmitt, della «filosofia» del primo Benjamin (schiacciato sul Programma della filosofia futura e definito «non rassegnato a vivere in un mondo senza dei e trascendenza»), ma solo per affrontare il tiranno. E certo, nel momento in cui si affronta la teoria della storia di Benjamin, la decostruzione dell’Einfühlung deve emergere, perché è una decostruzione politica che modula il concetto anti-fascista di storia che Benjamin lascia ai posteri.
Dobbiamo quindi supporre che Denunzio la dia per scontata, nel momento in cui la sua tesi verte sul consentire col fascismo e sull’identificazione di Benjamin nel capo fascista («Benjamin si trova ad aver interiorizzato proprio una figura di Capo di questo tipo»). Un’immedesimazione il cui precipitato, nel critico che usa fonti tedesche già compromesse col regime, è esposto senza infingimenti: «li si disponga tutti assieme in un’unica immagine, i Kommerell, gli Obenauer e gli Schmitt, a mo’ di foto dell’epoca, semmai con tanto di divise e di fasce al braccio, e si vedrà in tutta la sua crudezza una costante dell’atteggiamento di Benjamin nei confronti di questi gerarchi del sapere fascista idealmente fotografati: la complicità».
Crudo, insinuante, il libro di Denunzio usa una bibliografia parca ed equilibrata (undici titoli di Benjamin, undici di Denunzio, articoli di giornale inclusi, poi altri diciotto testi, poi basta), ed è pieno di intuizioni. Eppure, il tessuto argomentativo rapido, apodittico, oltre al fuoco del libro, lascia colare anche omissioni (dov’è Georges Sorel, menzionato di corsa in un libro sul fascismo e Benjamin?, dove Bachofen?), inutili parafrasi di Habermas (utilizzato a piene mani in un excursus per un riassuntino di storia della filosofia), slalom speciali su temi-chiave: dell’empatia si è detto, ma si pensi al concetto fascista di natura, sfiorato e mai analizzato, ma centralissimo proprio nelle Teorie del fascismo tedesco e possibile volano per sfuggire alla rilettura proposta, iper-francofortese, del bivalente illuminismo benjaminiano; si pensi infine a come, figlio dell’alta borghesia ebraica assimilata, Benjamin della borghesia ha marxianamente mostrato l’ambigua, contraddittoria grandezza.
Restano gli affondo, la profondità abissale del tema, la libertà di ricerca esibita, ma anche l’incedere di un libro pesantissimo che vola da un fiore all’altro dell’orto benjaminiano, decontestualizzando un singolo riferimento epistolare del 1924, un passo di diario del 1938 e passaggi di opere complesse (decenni di ricezione non solo «idealista» né «teologico-politica» sarebbero lì a testimoniarlo), per attribuire all’autore l’inconscia «richiesta di uno Stato forte» e un «desiderio» di fascismo», senza dialogare con alcuno se non i suoi testi.
In questa sua singolare forma anti-scientifica, l’intenzione davvero profonda che abita il saggio, e forse lo possiede, risulta difficilmente comprensibile al di fuori del moto d’identificazione spiegato nelle Memorie di famiglia dell’Introduzione (il lignaggio fascista dell’autore, naturalmente ripudiato). Un tratto, questo, che rende sì il testo una ricerca di antidoti, ma anche una requisitoria senza contraddittorio, perché in sostanza autoaccusa. Raccolta di intuizioni talora lancinanti, La morte nera è un libro da integrare, argomentare, arredare, senz’altro abitare col rigore necessario. Per poi magari espropriarlo di ogni immedesimazione.
NOTA *:
LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE. La teoria del fascismo di Walter Benjamin ...
Benché segnata da timore e tremore, l’autore della recensione ("Alfabeta2", 11 gennaio 2017) non ha potuto non riconoscere il coraggio dell’Autore e del suo lavoro sulla “morte nera” ... e superate le resistenze ha saputo accogliere anche dentro di sè “l’inquilino in nero”!!!
Trovata la “cosa” di grande interesse teoretico e storico (sul tema, ad ampio ‘spettro’, si cfr.: “Le due metà del cervello”, “Alfabeta”, n. 17, settembre 1980, p. 11), l’ho ripresa qui: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5556#forum3119697, in collegamento e in riferimento a un mio ‘vecchio’ lavoro (“La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Roma 1991).
*
Federico La Sala
Se l’orrore di Auschwitz finisce in tribunale
Alla Festa di Roma «La verità negata», il film di Mick Jackson che racconta la storia vera del processo intentato nel 1996 dal negazionista inglese David Irving contro la studiosa americana Deborah E. Lipstad
di Mazzino Montinari (il manifesto, 18.10.2016)
ROMA Nel 1996 il negazionista inglese David Irving intentò una causa contro la casa editrice Penguin Books e la professoressa statunitense Deborah E. Lipstadt, rea di averlo diffamato nel libro Denying the Holocaust. Per la docente di Studi ebraici moderni e dell’Olocausto dell’Università di Atlanta, Irving era un apologeta del nazismo che nei suoi scritti aveva falsificato i fatti, negando non solo il coinvolgimento di Hitler con la questione ebraica ma lo sterminio stesso.
Lo scontro giuridico tra due persone si trasformò rapidamente in una questione di ben altra portata, anche per la natura specifica del diritto britannico che affida alla difesa, quindi al presunto diffamatore, l’onere di dimostrare la propria innocenza. In altre parole, il processo, che si sarebbe tenuto quattro anni dopo, metteva Lipstadt nella scomoda posizione di dover dimostrare che lo sterminio degli ebrei fosse realmente accaduto.
Questa è la premessa de La verità negata (Denial) di Mick Jackson, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita nelle sale il 17 novembre. Un lavoro sul negazionismo che resta distante, in termini di coraggio e linguaggio cinematografico, da opere come ad esempio Il signor morte di Erroll Morris, che raccontava la storia di Fred Leuchter, l’ingegnere che progettava sedie elettriche e che in qualità di esperto nel «dare morte» stilò un rapporto farneticante, ritenuto credibile da Irving, nel quale si escludeva la possibilità che gli ebrei fossero stati uccisi in massa dentro le camere a gas. Tratto dal libro della stessa Lipstadt, Denial: Holocaust History on Trial, il film si limita a riportare i fatti accaduti in quei quattro anni, concentrandosi sul punto di vista della professoressa di Atlanta e sulla squadra di avvocati che affrontò Irving in aula.
Dando spazio, in questo modo, anche a un confronto, talvolta ironico, tra due approcci sostanzialmente diversi: da un lato, la docente statunitense in tuta da ginnastica che la sera fa jogging e, però, prende molto sul serio se stessa e il valore delle testimonianze dei sopravvissuti; dall’altro gli avvocati inglesi, amanti del buon vino, cerimoniosi nel loro indossare la parrucca durante i dibattimenti e freddi calcolatori nell’affrontare un processo dove l’unica cosa che conta è vincere, anche a costo di costringere le ragioni delle vittime al silenzio.
La verità negata, in realtà, più che essere un film sullo sterminio degli ebrei sembra un thriller giudiziario ben interpretato da un cast di primissimo livello, con tanto di epilogo finale nel quale si aspetta spasmodicamente il verdetto, quasi si trattasse di un episodio di Law and Order. Tutto viene giocato intorno alla scelta degli avvocati di non chiamare a deporre né Lipstadt né i sopravvissuti di Auschwitz, per impedire a Irving di umiliarli con le sue tesi insulse e dar luogo a uno spettacolo nefando.
Auschzitz diventa allora non il laboratorio del totalitarismo e il buco nero dell’umanità, ma un semplice luogo del crimine, dove rintracciare le prove di un delitto avvenuto tanti anni prima. Come morirono gli ebrei nei campi di concentramento? Quale funzione avevano le camere a gas? Le risposte le conosciamo molto bene, ma non per questo la verità e l’autenticità dei fatti possono dirsi al sicuro.
Irving-Lipstadt, è un film il duello legale che ha sconfessato il negazionismo
di Fulvia Caprara (La Stampa, 18.10.2016)
La prima conversazione tra la scrittrice e docente Deborah E. Lipstadt e l’attrice premio Oscar Rachel Weisz, che la interpreta nella Verità negata, il film di Mick Jackson ieri in anteprima alla Festa del cinema, è durata 45 minuti e ha dato il via a un lungo processo di avvicinamento e conoscenza: «Mi sono accorta che Rachel ha cercato di comprendere a fondo come sono fatta, studiando l’intonazione della mia voce, facendo di tutto per mettersi nei miei panni... Ho saputo anche che poi, in un’intervista, per far capire bene che tipo sono, mi ha definito una “vera rompiballe”». Alla confessione segue immediato sorriso, perché Lipstadt, 69 anni, newyorkese, volata nella capitale per presentare il film (nei cinema il 17 novembre, stesso giorno in cui uscirà il libro omonimo, edito da Mondadori) è particolarmente soddisfatta della trasposizione cinematografica della sua storia: «Il pericolo del negazionismo è sempre dietro l’angolo e può riguardare tutti i campi. È avvenuto con l’Olocausto, si è ripetuto con il genocidio degli armeni, con le stragi in Ruanda, nel ’94 e in tanti altri casi. Si dice sempre “mai più” e invece tutto continua a succedere di nuovo».
Sceneggiato da David Hare (candidato all’Oscar per The reader - A voce alta») il film segue fedelmente le tappe della vicenda. In seguito alla pubblicazione nel Regno Unito di Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory, la professoressa Lipstadt è citata in giudizio per diffamazione da David Irving, lo studioso specializzato sul tema Hitler e Seconda guerra mondiale, che negava l’esistenza dell’Olocausto.
Secondo la legislazione britannica il compito di dimostrare la propria innocenza tocca alla presunta colpevole, il paradosso, quindi, è che Lipstadt deve difendere se stessa dimostrando, attraverso prove inconfutabili, che l’Olocausto non è un’invenzione. Tocca all’avvocato Richard Rampton (Tom Wilkinson), che si occupa del caso insieme a una squadra di collaboratori motivati e appassionati, ricostruire, nei minimi particolari, il funzionamento delle camere a gas, l’utilizzo delle capsule di cianuro, il fatto che, a differenza di quanto sosteneva Irving (Timothy Spall), i veleni usati nei lager non servivano a sterminare pidocchi, ma esseri umani. All’inizio, il rapporto con l’assistita Lipstadt non è affatto idilliaco, durante la visita ad Auschwitz, che risulterà fondamentale per la costruzione dell’arringa finale, l’avvocato appare poco rispettoso della sacralità del luogo.
In più, durante i 32 giorni di udienze in tribunale, la scrittrice è obbligata a non aprire bocca e le richieste dei sopravvissuti ai campi, che vogliono offrire le loro deposizioni, vengono totalmente ignorate: «Il processo ha segnato una svolta importante - dichiara la scrittrice -, così come è accaduto per quello di Norimberga. Il negazionismo è una forma di antisemitismo. Come si vede bene nel film, Irving è un razzista e il razzismo, basta ascoltare certe uscite di Donald Trump, non è affatto morto».
L’arrivo sugli schermi della Verità negata ha sollecitato sgradevoli reazioni da parte dello storico inglese: «Sul suo sito web - racconta il regista - ha provato a fare ironie usando, al posto del titolo “Denial”, la parola “Dental”, ma la verità è che, dal processo in poi, la figura di Irving è stata fortemente ridimensionata».
Il premio Nobel, ebreo sopravvissuto alla Shoah, aveva 87 anni
Morto Elie Wiesel, la memoria che vince i fantasmi dell’odio
Il suo libro di ricordi «La notte» è basato sulla esperienza nei lager. Dopo la guerra profuse un grande impegno a difesa dei diritti umani contro ingiustizie e violenze
di DAVIDE FRATTINI (Corriere della Sera, 3 luglio 2016)
«Con precisione quasi maniacale il militare dettagliava tutti i poveri averi che avrebbe saccheggiato a quella vecchina indifesa: una scatola di caffè, due candele, una manciata di farina. Era l’unica della nostra famiglia ad aver intuito il futuro: prima di salire sul treno indossò l’abito dei funerali. E infatti fu selezionata al suo arrivo ad Auschwitz». Un paio di anni fa Elie Wiesel aveva potuto visionare il documento originale redatto dall’ufficiale ungherese che aveva organizzato l’irruzione in casa di sua nonna prima della deportazione.
La stessa burocrazia macabra che avrebbe ritrovato ad Auschwitz, il primo incontro con la morte dello scrittore, scomparso ieri a 87 anni, che non ha mai smesso di lottare perché la memoria sopravvivesse. Da sopravvissuto: ai lager nazisti e ormai anziano ai cinque bypass per sostenere il cuore. «Non ho paura della morte - aveva detto in un’intervista ad Alessandra Farkas pubblicata dal “Corriere della Sera” dopo l’intervento chirurgico - temo però che, quando i testimoni saranno tutti scomparsi, i negazionisti avranno la meglio».
I negazionisti come quello che l’aveva assalito nel 2007, per annichilire il corpo, se le idee che Wiesel continuava a diffondere non si potevano fermare. Fin dal 1958, quando aveva deciso di pubblicare La notte. Aveva aspettato oltre un decennio per scrivere i suoi ricordi dell’orrore, ci era riuscito dopo un incontro con il romanziere francese François Mauriac, Nobel per la letteratura. Che l’aveva convinto: la prima versione era lunga ottocento pagine, scritta in yiddish con il titolo E il mondo rimase in silenzio. Quella pubblicata in Francia e poi negli Stati Uniti era molto più breve e all’inizio vendette in America solo duemila copie, sarebbero diventate sei milioni, tradotte in trenta lingue, e sarebbe stata la prima parte di una trilogia: La notte seguita da L’alba e Il giorno. Come la vita che va avanti: nel caso di Wiesel spesa perché le nuove generazioni sapessero della Shoah.
Un impegno che nel 1986 gli era stato riconosciuto con il Nobel per la pace, il premio assegnato a «un messaggero per l’umanità», alla sua idea «di dignità ed espiazione». O come lo ricorda Benjamin Netanyahu: «Ha dato espressione alla vittoria dello spirito umano sulla crudeltà e il diavolo, attraverso la sua straordinaria personalità e i suoi affascinanti libri». Il primo ministro israeliano, come il suo predecessore, aveva pensato di farne il presidente dello Stato, di chiedergli di onorare la carica che in quel Paese è solo onorifica. Era già successo con Albert Eistein, che aveva declinato la proposta come Wiesel. Anche lui non era cittadino israeliano, rispetto allo scienziato che elaborò la teoria della relatività almeno conosceva l’ebraico. Dopo la guerra si era trasferito a Parigi e aveva lavorato come corrispondente per il quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth».
Dalla Francia era approdato negli Stati Uniti, dove aveva anche insegnato all’università (l’ultima quella di Boston) e dove Hillary Clinton gli aveva appuntato la medaglia Theodor Herzl, l’ideologo del sionismo, del Congresso ebraico mondiale. Allora aveva dimostrato la capacità di ridere nella tragedia: «Nell’Europa di quell’epoca vivevano due gradi uomini, Theodor Herzl e Sigmund Freud. Per fortuna non si sono mai incontrati: pensate se Herzl avesse bussato alla porta di Sigmund per dirgli: “Ho un sogno”; e quello gli rispondeva: “Siediti, parlami di tua madre”».
Un decina di anni fa La notte era stato ripubblicato negli Stati Uniti e Wiesel aveva accompagnato Oprah Winfrey in un viaggio ad Auschwitz perché sapeva che attraverso la televisione e la popolarità della conduttrice il suo messaggio sarebbe passato. «Nessun’altra tragedia della storia è stata documentata più dell’Olocausto, con decine di migliaia di testimonianze scritte e orali. Un giorno spetterà a chi ha ascoltato la testimonianza di sopravvissuti come me diventare a sua volta testimone».
Addio a Elie Wiesel, mai in silenzio di fronte al male
Nobel per la pace, sopravvisse alla Shoah e ne raccontò l’orrore
di Redazione ANSA *
E’ morto Elie Wiesel. Nobel per la pace e sopravvissuto alla Shoah, aveva 87 anni. Lo ha annunciato Yad Vashem da Gerusalemme.
Eliezer "Elie" Wiesel era nato il 30 settembre del 1928 in Romania a Sighet. Autore prolifico (57 libri) e attivista dei diritti umani, Wiesel è stato conosciuto in tutto il mondo per la promozione dell’educazione e del memoria della Shoah. Il suo libro di memorie ’Notte’ basato sulla sua esperienza da ragazzo nel campo di sterminio di Auschwitz è uno dei racconti più importanti sull’Olocausto.
Quando gli fu assegnato il Nobel fu definito "messaggero per l’umanità" e il suo lavoro per la causa della pace un potente messaggio di "pace, di espiazione e di dignità umana" alla stessa umanità. Educato in una famiglia religiosa su di lui ha avuto grande influenza il nonno materno Dodye Feig come ha ricordato in molti libri lo stesso Wiesel.
Dopo la guerra Wiesel si trasferì in Francia dove cominciò a collaborare con diversi giornali israeliani tra cui Yediot Ahronot. Per oltre 10 dieci non volle scrivere della sua esperienza nella Shoah, ma fu decisivo l’incontro con Francois Mauriac e nacque ’Notte’. Nel 1955 Wiesel si trasferì negli Usa e prese la cittadinanza Usa. Nel 1986 il Nobel per la Pace per il suo impegno contro il razzismo e la violenza.
di Angelo d’Orsi (il manifesto, 12.06.2016)
Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione.
Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò nella breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro...
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose.
Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute...); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’ azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi.
Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler?
Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro.
Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.
Benjamin Netanyahu non è un negazionista, ma un politico che manipola la storia
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 23.10.2015)
La storia si manipola quando si strumentalizzano intenzionalmente momenti, aspetti, passaggi problematici della vicenda storica - a fini politici.
In questo caso, il premier israeliano ha attribuito al Gran Muftì di Gerusalemme Amin al Husseini la responsabilità d’aver convinto Hitler a sterminare gli ebrei anziché procedere al loro trasferimento fuori dalla Germania.
Netanyahu fa questa affermazione in un momento di estrema conflittualità tra ebrei e palestinesi, mettendo insieme tre elementi: l’esistenza negli ambienti nazisti di una alternativa allo sterminio; la presunta indecisione di Hitler su come intendere e attuare la «soluzione finale» e il filonazismo e l’antisemitismo radicale del Muftì.
E’ opportuno fare chiarezza su questi punti per ristabilire la verità nella sua complessità, anche a beneficio di una politica che deve agire oggi con memoria vigile in un contesto molto diverso.
Un punto però è fuori discussione. Lo ha espresso con chiarezza il portavoce della cancelliera Angela Merkel: «Noi tedeschi conosciamo molto bene la storia della pazzia razzista criminale dei nazionasocialisti che ha condotto alla catastrofe di civiltà della Shoah. Non vedo alcuna ragione per cambiare in qualche modo il quadro storico. Conosciamo la responsabilità originaria tedesca per questo crimine contro l’umanità».
Anche Netanyahu la pensa così, ma nel suo discorso dà rilievo ad un dettaglio che implicitamente modifica il quadro storico: l’esistenza di un progetto diverso per colpire gli ebrei. Un progetto che sarebbe stato scartato per intervento del Muftì di Gerusalemme.
Qui Netanyahu fa confusione. Esisteva in effetti un’ipotesi alternativa allo sterminio con il trasferimento degli ebrei in Madagascar. Al ministero degli Esteri e anche in alcuni uffici d’emigrazione delle Ss si parlava di trasportare milioni di ebrei in quell’isola. Ma non c’era alcun progetto di fattibilità. Non si può escludere che fosse un’opera di disinformazione. Ma ottenne successo, dal momento che molti tedeschi ne erano convinti - anche quando vedevano intere famiglie ebree caricate sui vagoni ferroviari.
Ma è altrettanto certo che il colloquio tra il Muftì e Hitler cui si riferisce Netanyahu ha avuto luogo - 28 novembre 1941 - quando l’operazione che aveva di mira lo sterminio era già iniziata. Abbiamo testimonianze dirette di gerarchi e ufficiali in contatto con Hitler. Il 31 luglio 1941 Goering diede esplicitamente ordine al capo del Servizio di Sicurezza Reinhard Heydrich di «procedere alla soluzione finale del problema ebraico».
L’espressione «soluzione finale» è diventata per noi un termine-chiave inequivoco, ma non possiamo ignorare la sua ambiguità letterale. Qui si apre il capitolo del linguaggio dissimulatore e ingannatore che è parte essenziale della comunicazione nazista. Sono innumerevoli le parole apparentemente tecniche o neutre (emigrazione, pulizia, trattamento speciale, cambiamento di residenza) che nascondevano brutali realtà criminali.
Tornando all’incontro tra Hitler e il Muftì, questi (secondo Netanyahu ) avrebbe detto «Se cacciate via gli ebrei, verranno tutti in Palestina». «Allora che cosa devo fare di loro?» - avrebbe chiesto Hitler. «Bruciateli» - fu la risposta. Secondo il premier israeliano, il Muftì avrebbe anche accusato gli ebrei di voler distruggere la moschea sul Monte del Tempio.
Inutile dire come quest’ultima osservazione da parte del premier israeliano accentui ancora più esplicitamente il nesso che vuole proporre come autoevidente tra quegli eventi passati e il presente. Innescando un corto-circuito inaccettabile e pericoloso. La drammatica situazione di oggi in Israele richiede una intelligenza storica e politica ben più matura.
Netanyahu non ha capito il significato di Auschwitz
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 23.10.2015)
In un momento così grave per il proprio Paese un leader politico dovrebbe anzitutto pesare le parole. E dovrebbe guardarsi dal fare un uso strumentale della storia a fini politici. Non solo Israele, ma tutto il mondo ebraico della diaspora, è oggi costernato e non potrà facilmente dimenticare l’intervento di Netanyahu che parlando al XXXVI Congresso sionista di Gerusalemme ha di fatto ridotto e sminuito le responsabilità di Adolf Hitler, fin quasi alla negazione.
Non si tratta solo di un falso storico. Al-Husseini, il Gran Muftì, è stato un seguace, non certo l’ispiratore del Führer - come emerge con chiarezza dall’intervista sul Corriere della Sera di Dino Messina allo storico Mauro Canali.
Agghiaccianti sono le parole di Netanyahu per almeno due motivi. Il primo riguarda il crimine della Shoah. Le ricerche condotte negli ultimi anni mostrano che sin dall’inizio i nazisti non pensavano a una espulsione miravano invece allo sterminio degli ebrei d’Europa. Temevano la «nazione ebraica». Basterebbe leggere Mein Kampf. Ma c’è di più: ormai è sempre più chiaro che il nazismo hitleriano è stato il primo rimodellamento biopolitico del pianeta. Sta qui la sua peculiarità - anche rispetto ad altri genocidi. In questo progetto politico non era previsto più nessun luogo per gli ebrei. Con le sue parole Netanyahu mostra di non aver compreso, o di non voler comprendere, che cosa ha significato Auschwitz. E non basterà chiedere scusa ai sopravvissuti, ai parenti delle vittime, e a tutti gli ebrei costernati oggi dopo questa patetica, importuna e deplorevole boutade del premier.
Il secondo motivo riguarda l’abuso della Shoah in un discorso pubblico per acquisire consensi. È forse proprio questo che offende e irrita di più. Perché ci si poteva attendere da altri un disinvolto e bieco cinismo, che pure ogni giorno si tenta di contrastare. Non certo dal primo ministro dello Stato di Israele.
Il premio Nobel Elie Wiesel:
“Nessuno può permettersi licenze speciali davanti al Male assoluto”
“I politici pensano di poter dire quello che vogliono sull’onda delle emozioni del momento”
“Storia e Memoria sono ancora un dovere per i potenti di oggi”
intervista di Andrea Tarquini (la Repubblica, 22.10.2015)
VARSAVIA «Davvero non ho idea di come quelle parole abbiano potuto essere pronunciate, lungi da me ogni intenzione di criticare Netanyahu, ma a volte i politici dovrebbero pensare a lungo e inghiottire parole anziché pronunciarle ». Ecco il commento a caldo per Repubblica del professor Elie Wiesel, Nobel per la pace, sopravvissuto ad Auschwitz.
Professor Wiesel, che effetto le fa la gaffe di Netanyahu?
«Purtroppo ne ho sentite tante di cose simili, in decine di conferenze. È molto triste che tanti talenti, e tante persone pubbliche, spendano la loro immagine con simili frasi. Anziché dire le verità più semplici: che l’antisemitismo è stupido quanto criminale».
Ieri non parlava uno storico negazionista, bensì il primo ministro israeliano...
«Che posso dire davanti a tali parole? Io non ho nessuna intenzione di criticare Netanyahu, però avrebbe fatto meglio a non pronunciare quelle parole, a risparmiarsi questo incidente. In ogni occasione pubblica, ogni personalità pubblica dovrebbe pensare mille volte prima di pronunciare qualsiasi frase, e inghiottire mille parole anziché pronunciarne una sola. Figuriamoci su un tema come l’origine dell’Olocausto. Per fortuna, ecco la bella notizia della giornata, Angela Merkel ha subito dichiarato che la Germania di oggi ci tiene a ricordare che furono i nazisti, i tedeschi di allora, i colpevoli dell’Olocausto. E con bellissime parole il suo portavoce ha sottolineato che giustamente questo è quanto si insegna in ogni scuola ai bimbi e ragazzi tedeschi».
Non è un paradosso che il governo tedesco contesti il premier israeliano per ricordare le colpe tedesche?
«Storicamente può sembrare un paradosso. Però tra i miei molti studenti i più bravi e coscienti nella Memoria della Shoah sono sempre stati i giovani tedeschi. Sanno tutto e vogliono sapere sempre di più, con una volontà commovente. Tutti dovrebbero saperlo: loro coltivano la Memoria della Colpa. E sanno bene, perché glielo insegnano a scuola nella Germania unita, che la “Soluzione finale” fu decisa prima dei contatti col Gran Muftì. Il Gran Muftì certo era antisemita, voleva partecipare alla “Soluzione finale”, ma i tedeschi sanno che fu made in Germany».
E infatti gli storici israeliani hanno subito smentito Netanyahu. Non poteva risparmiarsi questa figuraccia?
«I politici al potere troppo spesso pensano di poter dire quello che vogliono sull’onda di emozioni del momento. Sembrano pensare che il potere dia loro licenza speciale, anche davanti all’igiene delle parole richiesta da temi come il Male Assoluto. Non è la prima volta che egli dice cose discutibili, ma mai dal 1948 a oggi un premier israeliano ha pronunciato frasi così gravi. I suoi predecessori d’ogni colore avevano idee ben precise sulla verità storica».
Il potere di Netanyahu entrerà in crisi?
«Sono uno storico, non un commentatore, e mi è difficile rispondere. Ma credo di no. Oggi si dice una cosa, domani viene dimenticata. Forse voleva solo dire che l’antisemitismo è precedente a Hitler, resta la verità storica che la Shoah è il crimine unico e assoluto, impone doveri di Memoria. Meglio avrebbe fatto a parlare di problemi ben più minacciosi, dalla nuova intifada dei coltelli ai piani atomici iraniani, anziché del mufti di Gerusalemme immaginario ispiratore di Hitler».
Sono ebreo, ho perso dieci familiari ad Auschwitz,
ma trovo avvilente che per affermare una verità debba occorrere una legge
di Roberto Della Seta (il Fatto, 17.10.2015)
IN ITALIA il primo a lanciare l’idea fu nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Mastella. Moltissimi approvarono, altri sollevarono dubbi. Stefano Rodotà scrisse che la norma proposta era “una di quelle misure che si rivelano al tempo stesso inefficaci e pericolose”. Alcuni autorevoli storici italiani - da Carlo Ginzburg a Giovanni De Luna, da Sergio Luzzatto a Bruno Bongiovanni - promossero un appello pubblico in cui sostenevano che “ogni verità imposta dall’autorità statale non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale”. Punti di vista analoghi espressero nell’occasione intellettuali europei come Paul Ginsborg e Thimoty Garton Ash.
Rispetto alla proposta originaria di Mastella, che sul momento cadde nel vuoto, il disegno di legge appena approvato dalla Camera presenta una differenza: non si colpisce il negazionismo quale reato a sé, ma lo si qualifica come aggravante di reati già esistenti. Il punto però non cambia e io trovo che le obiezioni portate a suo tempo da Rodotà, da Ginzburg, da Luzzatto restino totalmente valide. Lo Stato non può e non deve intervenire in tema di libertà del pensiero, della parola, della ricerca storica; non può e non deve nemmeno di fronte ad affermazioni aberranti come la negazione o la minimizzazione di un fatto - lo sterminio pianificato e sistematico di milioni ebrei da parte del nazismo e dei suoi alleati - che solo persone in malafede o incapaci d’intendere possono mettere in discussione.
Peraltro va anche osservato che nei Paesi europei dove il negazionismo è reato da anni - Francia, Germania, Austria, Liuania, Romania, Slovacchia... - questo non ha impedito il progressivo emergere di forze apertamente xenofobe e in più di un caso esplicitamente antisemite. Così, per esempio, il negazionista sedicente storico David Irving è considerato una grottesca macchietta a casa sua, in Inghilterra, dove il reato di negazionismo non esiste ma dove conta, e conta molto, la reputazione pubblica, mentre in Austria, dove è stato processato e condannato per le sue tesi deliranti, può atteggiarsi a vittima ottenendo larga e gratuita pubblicità.
IO SONO EBREO, la mia famiglia ha lasciato dieci corpi nei forni di Auschwitz. Ebbene io trovo avvilente che per affermare una verità di assoluta evidenza quale è il carattere raccapricciante e "unico" della Shoah, si pensi di dover ricorrere a una norma di legge. L’idea di una verità storica di Stato non solo è di per sé inaccettabile, ma in questo caso rischia di offrire un alibi all’incapacità che abbiamo tutti come corpo sociale - nella scuola, nella famiglia - di contrastare il negazionismo sull’unico terreno appropriato: il terreno dell’educazione, dell’informazione, della cultura, il terreno della conservazione e della trasmissione della memoria della Shoah. Insomma della società.
Shoah e genocidio armeno: negare può essere un reato
di Giuseppe Laras (Corriere della Sera, 15.10.2015)
Caro direttore,
personalmente dissento con vibrante energia contro le censure e il fatto che alcuni «pensieri», effettivamente falsi, pericolosi ed osceni, vengano in qualche modo sanzionati per legge. Ovviamente mi riferisco al negazionismo in relazione alla Shoah.
Dovrebbero essere lo studio, la ricerca e l’evidenza storica, assieme a criteri e sentimenti di verità e di dignità, a espungere tutto ciò, arginando i negazionismi, svelandone le falsità e, infine, dissolvendone gli inquieti spettri.
Viviamo, tuttavia, in un’epoca di mediocrità e di diffusa ignoranza, di arbitrio deresponsabilizzato e di coscienze erose e spesso dissolute. Viviamo in un’epoca in cui l’antisemitismo sta raggiungendo i suoi massimi livelli di floridità e di pervasività dai giorni del nazismo. E so bene di che cosa si tratta perché li ho vissuti.
Anche in relazione ai rapidi e non governati cambiamenti delle demografie religiose in Occidente, tutto ciò non andrà che peggiorando ineluttabilmente. In siffatto scenario un qualche provvedimento legale, inteso a voler tutelare una «verità storica» scomoda, drammatica e luttuosa, forse non è peregrino.
Resta il fatto che si tratta, almeno secondo me, di un clamoroso fallimento culturale, sociale e normativo. E bisognerebbe molto riflettere sui fallimenti. Tuttavia, visto che ormai l’iter parlamentare è avviato, (ne ha scritto sul Corriere del 14 ottobre Donatella Di Cesare) sarebbe assai nocivo e pernicioso che fallisse.
La questione, allora, è come rendere il più possibile «efficace» e «sensato» un tale provvedimento, sì che non alimenti in maniera polverosa - e schizofrenica rispetto al reale - un rapporto feticistico con la Shoah e la sua storia e non riduca, falsamente e odiosamente, l’ebraismo a «shoaismo», con le sue stantie - ed inutili- liturgie e i suoi sacerdoti, siano essi ebrei o meno.
Come fare? Come salvare la storia e il senso di realtà? Ad esempio, pur riconoscendo con chiarezza l’unicità della Shoah, chiedendo a gran voce che la norma legale insista sia sulla condanna del negazionismo della Shoah sia sulla condanna del negazionismo del Genocidio Armeno.
Il Genocidio Armeno, assieme alla Shoah, costituisce per la coscienza occidentale una dolorosa e scomoda spina nel fianco. Esso rappresenta emblematicamente l’irenica cattiva coscienza di non pochi cristiani di Occidente, «distratti», impassibili o persino conniventi con il massacro dei loro fratelli di Oriente, spesso - come in epoche recenti o contemporanee - ritenuti «parenti poveri» o «sacrificabili» da parte di una maggioranza (oggi tanto sofisticata quanto debilitata) - mai abituata a vivere e a pensare da minoranza che deve e vuole sopravvivere - che si relazionava e si relaziona con un’altra maggioranza oggi probabilmente destinata a divenire maggioritaria (l’Islam). Forse è anche per questo motivo che per decenni ci siamo trovati di fronte a una colossale «rimozione» in Occidente del Genocidio Armeno.
E chi nega il Genocidio Armeno, come buona parte di chi nega la Shoah - fatte salve le loro distanze e le loro irriducibili differenze - , spesso appartiene precisamente a quest’ultima maggioranza, che non ha fatto i conti con i propri spettri e i propri incubi, né tantomeno questo le viene richiesto dalla politica e dalla cultura occidentale per malinteso senso di inclusione e di tolleranza. Ed è un dramma! Ed è qui precisamente che si saldano - come infatti accadde all’epoca - jihadismo e nazismo.
Se si vuole promulgare un qualche provvedimento legislativo contro il negazionismo, dovrebbe necessariamente comparire, assieme alla Shoah, il Genocidio Armeno; pena uno strumento nuovo ma già «spuntato». La «buona coscienza» di certi occidentali, sia come singoli sia come istituzioni, risulterà comunque credibile non per tali provvedimenti legislativi, bensì quando ci si schiererà con convinzione e chiarezza nei confronti di un’Armenia libera, sicura e sovrana, come pure di uno Stato di Israele altrettanto libero di esistere in sicurezza e pace.
* Giuseppe Laras
Presidente del Tribunale Rabbinico Centro Nord Italia
Alla Camera è da tempo in discussione una legge che punisce chi non ammette l’esistenza della Shoah.
La libertà d’espressione è un diritto fondamentale ma non bisogna fare sconti a chi incita all’odio
negazionismo
Un reato contro la democrazia
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 14.10.2015)
«Negare l’esistenza delle camere a gas è un reato o una opinione?». Gli studenti e i ricercatori del Cest (Centro per l’eccellenza e gli studi transdisciplinari) hanno discusso a lungo, lo scorso anno accademico, intorno alla questione complessa che solleva il fenomeno, sempre più diffuso, del negazionismo.
Gli iscritti all’associazione, soprattutto storici e studiosi di filosofia provenienti da diverse università - da Alberto Martinengo a Tommaso Portaluri - hanno deciso di promuovere il primo di una serie di dibattiti, che si terrà a Milano presso la Fondazione Corriere della Sera (con la partecipazione dell’Università Statale e di Judaica), domani, 15 ottobre, alle 17. L’intento è duplice: per un verso presentare i risultati della loro riflessione, per l’altro coinvolgere l’opinione pubblica in un confronto aperto su un tema che tocca direttamente sia la ricerca che la formazione.
In Italia il negazionismo non è ancora riconosciuto come reato. La legge è stata approvata al Senato lo scorso 11 febbraio 2015 ed è in discussione alla Camera.
Con una Decisione Quadro del 28 novembre 2008 l’Unione Europea ha chiesto agli Stati membri di contrastare penalmente la negazione. Il negazionismo è già reato in Austria, Belgio, Germania, Portogallo, Francia, Spagna, Svezia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Ungheria, Liechtenstein, Lussemburgo e Svizzera. I Paesi Bassi hanno incluso il negazionismo nella categoria dei crimini di odio.
La libertà di espressione, protetta dall’articolo 21 della Costituzione, è indispensabile in una società democratica. Ma altrettanto indispensabile è la difesa della dignità umana e la lotta contro ogni discriminazione. Si tratta, dunque, di trovare il giusto equilibrio fra diritti fondamentali che finiscono talvolta per collidere.
Non sembra più accettabile invocare la libertà di espressione, come valore assoluto, per difendere chi nega che la Shoah abbia avuto luogo, chi accusa addirittura le vittime di aver «inventato» il «mito» delle «camere a gas», chi vuole diffondere l’idea che gli ebrei siano «falsari». I negazionisti non possono essere legittimati come ricercatori, perché, al contrario, il loro fine ultimo è destabilizzare la società democratica.
In una sentenza, molto significativa, emessa nel 2003 contro Roger Garaudy, autore francese che ha inaugurato il negazionismo islamico, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato: «Contestare la veridicità di fatti storici accertati, quali l’Olocausto, che non sono oggetto di dispute tra gli storici, non può essere in nessun modo ritenuto un lavoro assimilabile alla ricerca della verità storica. I negazionisti perseguono un evidente obiettivo razzista, xenofobo, antisemita: riabilitare il regime nazionalsocialista e accusare le vittime di falsificare la storia. Questo crimine contro l’umanità è una delle forme più sottili di diffamazione razzista e incitazione all’odio».
Il fenomeno assume aspetti tanto più inquietanti nell’ambito della formazione. Non si tratta dei casi, relativamente esigui, di docenti che negano la Shoah, quanto della enorme circolazione di propaganda negazionista nel Web, lo spazio pubblico più frequentato dalle giovani generazioni. Qui i problemi si moltiplicano.
La novità del negazionismo più recente sta non già nei contenuti, bensì nelle modalità di diffusione. Mentre sfugge a ogni criterio di dibattito scientifico e democratico, e oltrepassa i confini nazionali, il nuovo negazionismo spaccia per reale ciò che è virtuale, contrabbanda per verità nascosta la più turpe falsificazione.
Qual è allora il confine tra opinione e comportamento, dove termina l’esposizione di un’idea e comincia invece l’incitamento concreto all’odio? Su questi interrogativi, ancora inesplorati, occorre una riflessione più approfondita.
Un’idea falsa non va vietata
di Massimo L. Salvadori (la Repubblica, 15.02.2015)
INVOCANDOLO come adempimento tardivo di un atto vincolante dell’Unione Europea, il Senato della Repubblica ha approvato con 234 sì, 3 no e 8 astenuti il disegno di legge - che ora passa alla Camera dei deputati - il quale punisce il negazionismo della Shoah e di altri genocidi comminando ai colpevoli fino a tre anni di carcere.
La questione non è nuova. Ha già tutta una storia ormai ricca di capitoli in vari Paesi europei, il cui inizio risale al momento in cui un numero via via più largo di Stati hanno affidato ai tribunali il compito di punire i negazionisti, che sarebbe stato e sarebbe più saggio e più coerente con gli osannati principi di libertà lasciare alla miseria delle loro idee.
Anche le idee più nefaste, se pericolose, lo diventano maggiormente quando si offrono loro le aule dei tribunali. Bisogna ammettere che questo gli americani lo hanno capito molto meglio degli europei. Numerosi storici e studiosi hanno cercato senza esito di spiegarlo ai legislatori, i quali si sono sentiti investiti della missione di servire una nobile causa di cui hanno mostrato di non cogliere le implicazioni.
Nel presentare al Senato il disegno di legge la senatrice Amati del Pd, prima firmataria, ha espresso la sua soddisfazione per il fatto che venga finalmente impedito a chiunque di falsificare la storia; e il ministro della Giustizia Orlando ha sentenziato che «è molto importante che nessuno possa più rimuovere la verità storica ». Bene, così si delega allo Stato il compito di stabilire quale sia e quale no la verità storica e di distribuire manette ai contravventori.
Vien da domandarsi come ciò possa conciliarsi con l’articolo 21 della Costituzione - dettato da uomini da poco usciti da un regime che aveva assunto come proprio dovere di imporre con la forza della legge la verità - il quale recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ». Tra i costituenti vi erano persone di spirito autenticamente liberale, che, forti delle esperienze loro trasmesse dai regimi autoritari, avevano capito la lezione intellettuale, morale e politica di un testo che dovrebbe essere regalato a spese del Senato a quanti oggi seggono negli scranni di quella augusta sede da cui sentenziano intorno a materie che richiederebbero le opportune cautele.
Si tratta del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, che risale al 1858. Qui Mill spiega ai suoi lettori che le posizioni stupide e le idee menzognere non possono e non devono essere combattute con la repressione per tre motivi principali: perché la libertà di pensiero non finisce là dove incomincia l’errore; perché solo il libero confronto tra le opinioni consente di far emergere che cosa sia vero e cosa falso; perché la repressione non indebolisce ma rafforza l’errore.
Scrive Mill: «Non possiamo mai essere certi che l’opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla sarebbe un male. Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Per vera che essa sia, se non la si discute a fondo, spesso e senza timore», un’opinione «finirà per essere creduta un freddo dogma, non una verità effettiva».
Ancora una pregnante citazione dal saggio di Mill, attinente alle “sole sanzioni” che giustamente occorre dare ai diffusori di false teorie: esse «sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui». È chiaro il significato delle parole del grande pensatore liberale inglese; ed è triste che persone investite di una suprema responsabilità quale è quella di legiferare dimostrino di non comprenderne il significato e il messaggio.
Dove possa condurre l’approccio esaltato dal nostro ministro della Giustizia abbiamo avuto modo di constatarlo nel caso clamoroso occorso a Bernard Lewis, uno dei maggiori islamisti del mondo. Il quale è stato condannato in passato da un tribunale francese, seppure alla pena meramente simbolica di un franco, per avere sostenuto che, secondo la sua opinione, gli armeni durante la prima guerra mondiale erano stati vittime da parte dei turchi di “massacri” anziché di un disegno organico di “genocidio”. Faccenda umiliante per i giudici che hanno emesso la sentenza.
Non occorre continuare. Ma vi è però qualcosa da aggiungere, e cioè un grazie alla senatrice Elena Cattaneo, la quale al Senato ha negato la sua approvazione al disegno di legge, con le parole di una degna seguace di Mill: «Credo che vietare il negazionismo per legge sia sbagliato. Non è ammissibile imporre limiti alla ricerca e allo studio di una teoria. Trovo ignobili le tesi dei negazionisti ma non credo che minino una disciplina. Nessuno storico prende sul serio queste teorie».
La storia non si fa in Parlamento
Negare il negazionismo?
Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.02.2015)
Talvolta ragione e sentimento sembrano andare in direzioni opposte. Questo richiamo a una ottocentesca romanziera inglese emerge quando capita di affrontare gli interrogativi più scabrosi in materia di libertà di espressione. In altri termini, al sentimento che tende ad allontanare da sé (fino a proibire) i messaggi odiosi, ribatte la ragione che impone di tollerare anche le falsità, anche le tesi più ripugnanti.
E così, come ognuno deve consentire che le proprie credenze religiose siano dissacrate, anche in modo ritenuto irrispettoso, poiché ogni forma di potere può essere messa alla berlina, allo stesso modo a chiunque deve essere garantita la possibilità di affermare le più urticanti menzogne.
Quella più odiosa di tutte, per la nostra cultura, è la negazione della Shoah. E lo è perché si respira forte il puzzo dell’antisemitismo e perché le moderne società democratiche si sono rifondate anche sul ripudio del nazismo. Ciò è tanto vero che una buona parte dei Paesi europei ha introdotto una legislazione che proibisce il discorso negazionista, anche quando non si traduce in un’istigazione alla violenza e all’odio. Si va da Germania, Austria e Belgio che puniscono soltanto la «menzogna di Auschwitz», agli Stati dell’Est che estendono il divieto agli orrori del comunismo, alla Francia che reprime il disconoscimento dei crimini contro l’umanità sanciti da una Corte internazionale.
Almeno finora l’Italia si è posta, insieme al Regno Unito e ai Paesi scandinavi, tra gli Stati che non prevedono una legislazione repressiva specifica e, per una volta, l’atteggiamento del nostro Paese non ci pare sbagliato. Di recente, però, il Parlamento sembra orientarsi in modo diverso. È di mercoledì scorso ’approvazione al Senato di un disegno di legge che introduce un’aggravante qualora i reati di propaganda razzista o di istigazione alla discriminazione si fondino sulla negazione della Shoah o di crimini contro l’umanità. Non siamo certo davanti al reato di negazionismo in senso stretto, poiché da un lato si tratta di un’aggravante, dall’altro la parola è punita solo se vi è un’istigazione pubblica all’odio. Tuttavia, in tal modo il legislatore sanzionerebbe più severamente il discorso razzista, quando ciò comporta la negazione di fatti storici non controversi e particolarmente gravi.
Restano quindi molti i motivi che sconsigliano di imboccare anche questa strada. In primo luogo, affidare al diritto, specie a quello penale, il ruolo di custode della verità storica, della versione “ufficiale” del passato, significa consentire un’incursione dei pubblici poteri negli spazi riservati alle scienze e alla ricerca storica.
Inoltre, l’introduzione di tale aggravante contrasterebbe con il principio secondo cui in uno Stato liberale non esistono verità assolute. La verità - relativa, parziale, effimera, convenzionale - deve nascere dalla discussione e non dalla decisione politica o giudiziaria, anche con riguardo alle tragedie della storia. Ciò è connesso al principio di laicità e a quello di separazione tra Stato e società, ed è alla base della tutela rafforzata della libertà di ricerca storico-scientifica sancita dall’articolo 33 della Costituzione italiana.
Questa tesi ci pare in sintonia con le radici più profonde della Repubblica. Infatti, già in Assemblea costituente era prevalsa l’idea di lasciare aperta ogni via alla ricerca della verità. Dunque, anche ai «nemici della democrazia» fu garantito il diritto di sostenere nel freemarket of ideas finanche il falso. Sembra di intravedere nella trama della Costituzione una tale fiducia nella “forza” della democrazia da ritenere di non doverla proteggere con l’esclusione per via giuridica di chi ne nega il fondamento. In tale prospettiva ragione e sentimento sembrano riconciliarsi nel ricordare al legislatore i principi liberali in materia penale: tra essi, campeggia la raccomandazione di evitare un eccesso di criminalizzazione. E dunque evitare altresì di allungare la lista di proclamazioni ad alto valore simbolico, lista che viceversa andrebbe sfoltita in modo robusto, specie in materia di reati d’opinione.
La malattia negazionista
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 25 giugno 2012)
L’attentato alla scuola ebraica di Tolosa del marzo scorso ha fatto seguito ad altri segni della sopravvivenza e del riaffiorare carsico di una maledizione antica. Come il bacillo della peste che minacciò di estinguere la popolazione europea nel 1348, l’anno della Peste Nera, quello dell’antisemitismo ha devastato l’Europa e il mondo nella nera notte di Auschwitz. Da allora sopravvive, indebolito ma ancora attivo. Ci si chiede se ci siano e quali siano le misure capaci di impedirlo.
Fermo restando che il delitto consumato con la morte di innocenti dovrebbe - avrebbe dovuto - essere punito con tutta la severità delle leggi, resta aperta la questione se non si debba punire anche chi facendo professione di negazionismo vuole cancellare o stravolgere la memoria della Shoah.
È un problema che investe la cultura civile, una domanda a cui sono state date risposte diverse. Ne parla una esperta di leggi e di storia, Daniela Bifulco, in una seria e sofferta indagine che ha il merito di scavare con attenzione su quello che accade nei territori confinanti del diritto, della politica e della ricerca storica: Negare l’evidenza. Diritto e storia di fronte alla “menzogna di Auschwitz” (Franco Angeli).
La questione ha un’attualità indiscutibile, in un’Europa che sta scoprendo a sue spese quanto poco l’euro sia capace di tenerla insieme. Si è visto ai nostri giorni quali ombre si levino se la gretta attenzione ai conti di casa da parte di un cancelliere tedesco minaccia di cancellare la Grecia dalla costruzione europea. Joschka Fischer ha detto che per questa via la Germania riuscirà a spezzare l’Europa per la terza volta. E allora non sarà forse necessario rendere obbligatori per legge il rispetto dei morti e la memoria stessa colpendo come un reato la negazione della storia? Si eviterebbe così l’offesa estrema ai morti, il delitto con cui gli assassini della memoria (come li ha definiti Pierre Vidal-Naquet) tentano di portare a compimento il disegno nazista.
Diversi paesi hanno introdotto norme penali specifiche in materia. Daniela Bifulco, nel proporne un esame ragionato, fa notare che l’Italia non è fra questi. E si chiede perché. Non ha una risposta certa, ma ritiene che non se ne sia discusso come si doveva: una constatazione innegabile.
Di fatto, quando la questione è stata sollevata per episodi di negazionismo o indagando sul contesto dov’è maturato il disegno stragista di Gianluca Casseri, il ragioniere neonazista di Pistoia, la tesi che non si possa colpire un’opinione come un delitto ha avuto partita vinta forse fin troppo facilmente. Non che ne mancassero le ragioni: com’è stato fatto notare, una condanna penale oltre a essere difficilmente formulabile offrirebbe a chi ne venisse colpito un’occasione di pubblicità e un’aureola di martire della libertà d’opinione.
Ma il nobile argomento della difesa della libertà non basta forse a spiegare le reazioni italiane. Daniela Bifulco fa notare tra l’altro l’urgenza sospetta con cui il defunto governo Berlusconi ha decretato nel 2010 la sospensione dell’efficacia delle sentenze che imponevano alla Germania il risarcimento dei danni per le stragi del 26 giugno 1944 a Civitella della Chiana: l’argomento allora usato fu che si dovevano evitare “tensioni nei rapporti internazionali”.
Qualcosa del genere era accaduto anche nell’immediato dopoguerra, quando si poteva e si doveva perseguire davvero i colpevoli. Ma stavolta ha pesato forse anche il timore che quella sentenza aprisse la strada a istanze risarcitorie contro l’Italia per la sua non piccola parte di responsabilità analoghe.
Si discute su come si possa, in generale, chiudere i conti con il passato: un tema a cui Pier Paolo Portinaro ha dedicato di recente una dotta analisi. Ma non si possono confondere terreni diversi: da una parte ci sono conti che la politica e la giustizia devono saper chiudere: il che significa riconoscere i torti e risarcirli da parte degli Stati e condannare i responsabili se ancora in vita. Dall’altra c’è la ricerca storica come alimento della conoscenza e sostanza di una cultura civile.
Oggi da noi il virus dell’antisemitismo non è certo debellato: lo tengono desto le iniezioni di razzismo quotidiano inoculato dal diffuso populismo xenofobo della destra e stimolato dalla realtà di violenza e di sfruttamento di masse di immigrati senza diritti. Ne affiorano spesso i segnali.
Sarà dunque il caso di introdurre leggi antinegazionismo? Daniela Bifulco non dice questo. Anzi, mostra come la legislazione penale esistente in altri paesi sia per sua natura entrata in un percorso di distinzioni, estensioni e generalizzazioni, includendo la Shoah in una tipologia più ampia e relativizzandola: un risultato che il revisionismo ha invano inseguito.
La cronaca recente della minacciata introduzione in Francia della definizione di genocidio per gli armeni con le connesse sanzioni per chi lo nega ha mostrato la deriva inerziale della tendenza a generalizzare e dunque a ridurre la Shoah a una delle tante pagine nere della storia, passata presente e futura. Forse questo è inevitabile.
Anni fa Barbara Spinelli in un bel libro appassionato (Il sonno della memoria) sottolineò i rischi del chiudere un evento per quanto immensamente mostruoso nella gabbia di una monumentalità sovrumana: la categoria del Male assoluto proietta l’ombra di una sacralità capace di incombere negativamente sulle menti malate.
Ma, se la comparazione storica è da accogliere e praticare come strumento di conoscenza, bisogna invece opporsi alla relativizzazione come riduzione banalizzante della dimensione autentica dei fenomeni storici.
La realtà di Auschwitz è una di quelle vette o di quegli abissi da cui si deve prendere la misura per guardare all’intero paesaggio. La ricerca storica sta ancora esplorando il dipanarsi dei percorsi che portano fino lì e che da lì si dipartono.
Non con le pene della legge ma con l’investimento nella conoscenza e nella tutela delle memorie si può fare fronte al negazionismo. Esso ha come alleati l’ignoranza e la perdita di memoria e cresce nelle zone buie dell’intolleranza e del razzismo diffuso là dove i diritti umani sono disprezzati e offesi.
L’Italia non ha certo le carte in regola a questo proposito. Nemmeno sul terreno del rapporto col suo recente passato. Il libro di Daniela Bifulco ha il merito di affrontare un tema non per caso piuttosto desueto in un paese - il nostro - incline a un distratto e superficiale perdono, abile nell’evitare domande inquietanti. Dopo la seconda guerra mondiale si è preferito immaginare gli italiani come vittime piuttosto che come carnefici: e l’intero paese ha preferito vedersi in veste di vincitore piuttosto che di vinto. Da noi il ricordo della legislazione razziale antisemita è appena baluginante.
Mesi fa in una città universitaria italiana è stata posta una lapide in memoria di studenti e docenti allontanati nel 1938 perché ebrei: un rito distratto e tardivo, disertato dalla generalità del corpo accademico, rettore in testa.
Lo stesso silenzio del 1938, quando gli illustri membri ecclesiastici e laici delle mille accademie italiane furono assai solerti nell’attestare l’assenza di macchie nella loro tradizione familiare tutta ariana e cattolica. Qualche monsignore poté svicolare dall’obbligo di rispondere grazie alla cittadinanza vaticana, come ha scoperto di recente Annalisa Capristo.
Ma tutti gli altri si gloriarono dell’indefettibile loro arianità e di un cattolicesimo come immemoriale patrimonio di famiglia. L’unico a rispondere con lo sdegno che ci voleva fu Benedetto Croce. Troppo poco, davvero.
Riporto qui un post che ho scritto (Sono post di qualche tempo fa):
IL VERO HITLER Nelle scuole, in televisione e nei libri, ci viene raccontato di un Hitler crudele e spietato, senza alcuno scrupolo, motivato dall’odio e dalla follia, desideroso di uccidere tutti eccetto i suoi tedeschi. Vi siete mai chiesti qual’è il motivo per cui non vi fanno mai vedere un suo discorso? Vi siete mai chiesti perché non vogliono che le sue parole arrivino alle vostre orecchie? Ebbene, sarò io a rispondere a queste domande. E lo farò mostrando i video in cui lui parla al suo popolo e al suo parlamento.
Discorso per la Palestina, che rispecchia pienamente la situazione attuale: http://www.youtube.com/watch?v=wLuc5Qg9mH0&feature=share
Discorso sui campi di concentramento. Capirete quante menzogne sono state dette sul nazismo e sulla shoah, che ora viene usata come strumento per muovere guerre razziste contro chiunque non vada a genio ad Israele:
http://www.youtube.com/watch?v=ddYdLlWXn9k&lc=nDwyYHvWswJlpSLp_jVtwbxK791OUENr8ZlnHopxaws&feature
GLI EBREI SIONISTI E IL LORO ESTREMO RAZZISMO Chiunque parli di razze nel mondo viene automaticamente accusato da tutti di essere razzista. Eppure gli ebrei sono i primi a riconoscersi come una razza, come dimostrato dalla loro pagina facebook "Ebrei", dalla associazione Birtright Israel (Vi darò le prove in fondo) e dalle dichiarazioni di moltissimi ebrei. Ma gli ebrei cosa rappresentano? Una religione o, come si definiscono loro, una razza? Parlando di religione. Esistono ebrei atei, ebrei cristiani, ebrei musulmani, ebrei che abbracciano l’ebraismo e varie altre religioni. Ma chi sono gli ebrei? Israele definisce come ebreo "colui che non appartiene ad alcuna religione ma ha entrambi i genitori ebrei o almeno madre ebrea". Questo cosa vuol dire? Che c’è un discorso di razza e genetica, che loro difendono con forza e molta aggressività. L’Israel Post, uno dei giornali più famosi di Israele, cita: "Nuovo studio, risultato: un popolo! Gli ebrei di tutto il mondo hanno in comune legami genetici antichissimi!" Sono orgogliosi di essere un unico popolo a livello genetico. Il giornale riporta anche quanto detto dagli studiosi: Abbiamo scoperto che gli ebrei provenienti da tutto il mondo hanno in comune tratti che sono distinti dagli altri gruppi e che risalgono a tempi molto antichi. Kobiliansky e Lipschitz esaminarono 25 caratteristiche morfologiche concludendo che gli ebrei in Russia erano almeno 6 volte più diversi dai russi di quanto i russi non lo fossero con i tedeschi. I geni non mentono, le persone sono diverse, e lo stato di Israele basa i suoi fondamenti sulla genetica. Nahum Goldmann, ex presidente wzo (world zionism organization) disse testuali parole: "Gli ebrei sono divisi in due: Chi ammette di appartenere alla razza ebraica e chi no. Chi non lo ammette è predisposto alla disonestà." Stephen Wisc, presidente del wjc (world jewish congress), disse durante un congresso: "Io non sono un cittadino americano, sono un ebreo (Pur avendo cittadinanza americana). Hitler aveva ragione su una cosa, definiva gli ebrei come una razza, e infatti noi siamo una razza". Queste furono le sue parole! E allora perché criticano tanto le leggi razziali naziste? Sembra che siano stati gli ebrei stessi a volerle! E ora tocco proprio questo argomento. Israele è uno stato puramente razzista, e ciò è anche dimostrato dalle leggi che lo caratterizzano: gli ebrei non possono sposarsi con non ebrei e c’è il divieto assoluto per gli ebrei purosangue di sposarsi con mezzi ebrei. Fanno di tutto per preservare la loro razza. I kohanim sono il clero ebraico. Non vengono criticati mai da nessuno. Eppure sapete come vestono? Proprio come i terribili e criticatissimi membri estremisti del Ku Klux Klan. Israele ha bloccato vari matrimoni tra ebrei puri ed ebrei che avevano anche solo un nonno non ebreo o perfino mezzo ebreo! Obama dice che gli Stati Uniti devono impegnarsi incessantemente per preservare Israele come, cito: "uno stato ebraico". Gli ebrei per loro definizione sono una razza distinta, così Obama, gli U.S.A. e l’Unione Europea appoggiano uno stato razzista con leggi razziali estremiste. Charles Bronfman, ebreo, ha fondato il Birtright Israel, ossia un’associazione con scopo di impedire tutti i matrimoni tra ebrei e non ebrei e di valorizzare la razza ebraica. Bronfman disse, cito: "State perdendo molto, state perdendo quella brutta sensazione che avete quando sapete che nel mondo ci sono persone di altri popoli con un DNA uguale al vostro". Provate ad immaginare cosa dovesse succedere se qualche politico dicesse a noi italiani: "siate felici di essere bianchi, è meraviglioso, non mischiatevi con gente di altre razze!" Provate ad immaginare come verrebbe assalito. Pensate che quando il governo Berlusconi tentò di impedire l’arrivo dei clandestini (che spesso sono delinquenti e pretendono di comandare a casa nostra, l’Unione Europea osò dire: "Noi dobbiamo assolutamente fermare il razzismo dell’Italia". Lo fecero vedere perfino nei telegiornali, ovviamente. Ridicolo! Ci sono delle statistiche che dicono che entro il 2025 i bianchi saranno una minoranza sia in Europa che negli Stati Uniti. Noi non abbiamo il diritto di preservare ciò che siamo? Sapete perché questi ebrei la fanno sempre franca? Perché controllano i media degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Keith Bardwel, un gudice di pace della Louisiana, disse che i matrimoni tra bianchi e neri erano contro i suoi principi morali personali: venne immediatamente marchiato come razzista estremista in articoli intitolati anche: "Giudice di pace... o giudice di odio." Il fatto venne riportato Ovunque negli Stati Uniti e perfino in alcuni luoghi in Europa come una cattiveria raccapricciante. Israele dichiara illegali i matrimoni di ebrei con non ebrei, ma nessuno li critica. Eppure mettono in croce un uomo che ha detto che per suoi principi personali non supporta i matrimoni tra bianchi e neri. E gli ebrei si preservano il diritto di fare una pulizia etnica di palestinesi e di tutte le altre persone al mondo (lo stanno facendo con estrema furbizia e giocando sulla psicologia, lo dico chiaro e tondo). Israele nacque nella violenza, nel 1948, massacrando e strappando i Palestinesi dalle proprie case. Non contenti andarono in Palestina, e ci sono ancora, rendendola come uno stato/campo di sterminio. E pensa che criticano Hamas. Ma cosa fa Hamas? Pensate a delle persone che entrano in casa vostra e si stabiliscono li, cacciando via voi e le vostre famiglie. Voi e i vostri familiari vi trovate in mezzo alla strada, e questi non contenti vengono e tentano di ammazzarvi. Voi cosa faresti? Sapete bene che vi difendereste, ed è lo stesso che tentano di fare i "terroristi di Hamas". Guarda i video in cui Israele usa il fosforo bianco sulla Palestina o bombarda. Civili su civili che vengono ammazzati ogni giorno, uomini, donne e bimbi disarmati. Chi è il terrorista? Gli ebrei vogliono distruggere tutti gli altri popoli, eccetto il loro. Il rabbino Stephen Wise appoggiò la creazione di uno stato razziale ebreo in Palestina e supportò l’immigrazione ebrea di massa nel medesimo stato proprio per conquistarlo, violando le stesse leggi internazionali appoggiate (sulla carta) da Stati Uniti ed Europa. Era anche forte sostenitore dell’immigrazione di persone non bianche in america ed in Europa. Voleva sostituire i leaders statunitensi con ebrei, e c’è riuscito. Ok, Obama e qualche altro non sono ebrei, ma dipendono da loro, sono come dei burattini, come dimostrano le stesse parole di Obama in merito ad Israele, parole che puoi ascoltare in video. Jared Diamond, antropologo, dice ai non ebrei che la razza è solo un mito, che non esiste. Se i popoli pensano di essere tutti uguali, perché dovrebbero voler lottare per preservare ciò che sono? E ciò vale per Europei, Americani, Africani e tutti gli altri popoli. Vale per tutti, eccetto per quello ebraico. Gli ebrei sionisti dicono che la palestina e i palestinesi nemmeno esistono! Loro li chiamano palestinesi solo quando devono accusarli per il fatto che si ribellano alle oppresioni e torture... ops, per il fatto che fanno del terrorismo, così che le persone di tutto il mondo li vedano (come per tutti gli altri musulmani), come dei terroristi spietati. Eppure Jared Diamond, di cui ti ho parlato, pur sostenendo che non esistano razze (per i non ebrei), dice: "ci sono delle motivazioni pratiche per interessarsi ai geni ebraici. Lo stato di Israele ha speso molto per sostenere e favorire l’immigrazione degli ebrei dai paesi europei in Israele, perché nei paesi europei rappresentano minoranze perseguitate". Minoranze perseguitate? In Italia ci sono sinagoghe ebree sparse ovunque, per legge se osi dubitare dell’olocausto rischi l’arresto, anche 3 anni di carcere, come se avessi ucciso qualcuno. Ti obbligano a ricordare che nell’olocausto morirono 6 milioni di ebrei (cosa assolutamente non comprovata) e ti mettono in croce se preferisci o vuoi ricordare che morirono anche più di 48 milioni di civili non ebrei (quante volte vi dicono questa cosa?). Morirono 22 milioni di soldati circa, quindi 48 milioni di civili se muoiono è perché qualcuno lo ha deciso. Quello fu il vero genocidio. Gli ebrei sionisti hanno inventato l’11 settembre. Il giorno della caduta delle torri oltre 4000 ebrei presero il giorno libero. E degli ebrei invece dicono che morirono dai 400 ai 500 ebrei. Tutte balle. Come dimostra addirittura la CNN e altri canali statunitensi: E’ vero che sono controllati dagli ebrei, ma ci lavorano anche degli statunitensi che amano il proprio paese, e il giorno della caduta delle torri non riuscirono a non mandare in onda un’intervista ad un agente FBI che dichiarò che alcuni agenti di polizia arrestarono 5 persone che filmavano la caduta delle torri, danzando e festeggiando. 5 ebrei! Come se fossero stati al corrente di ciò che sarebbe accaduto. Riguardo l’olocausto (solo una piccola curiosità): Fino al 1990 ad Auschwitz era esposta una targa con scritto che li furono uccisi 4 dei 6 milioni di ebrei sterminati dai nazisti. Dal 1990, dopo alcune ricerche, la targa venne sostituita con una che dichiarava che li morirono 1 milione e mezzo di ebrei, eppure il totale rimase di 6 milioni! L’ebreo Fritjof Meier, capo redattore del "Der Spiegel", dopo accurate ricerche ridusse ulteriormente e vertiginosamente il numero dei morti di Auschwitz, fino a dichiarare che i morti in quel campo di concentramento furono 350.000! Eppure il totale rimane sempre di 6 milioni. Capire il passato per capire il presente... è per questo che fanno di tutto per non farcelo capire. Ora Israele vuole fare la guerra ad altri stati innocenti come l’Iran, e con U.S.A. ed Europa prepara un attacco. L’Unione Europea ha addirittura imposto un blocco economico sia all’Iran che all’Islanda (perché uscita dall’Unione Europea ed è diventata autonoma). Stesso blocco che gli U.S.A. imposero a Cuba (per la stessa ragione, ossia per contrastare l’autonomia e la sovranità interna dei paesi), impoverendo la gente in modo vertiginoso. Io non disprezzo nessuno e sono convinto che tutti debbano avere il diritto di preservare la propria cultura e la propria esistenza... Ma non possiamo tacere davanti all’estremo razzismo di queste persone. Inserisco il link di un’immagine che si trova sul mio profilo facebook: mostra i cambiamenti della Palestina (Parte verde: luoghi ancora in mano ai Palestinesi, parte rossa: luoghi in mano agli ebrei).
http://www.facebook.com/photo.php?fbid=430386000355676&set=a.424443154283294.95757.100001528395642&type=1&theater
Qui invece inserisco i link al sito ufficiale "Birtright Israel". Leggete bene tutto e chiedetevi: cosa succederebbe se un europeo creasse un sito del genere per gli europei? O un italiano per gli italiani? Non verrebbe forse criticato ed accusato di razzismo? Non verrebbe forse denunciato e condannato? Dite se ciò che troverete qui sotto non rientra nella descrizione perfetta che i libri di storia danno della Germania nazista. Ecco i link: http://www.birthrightisrael.com/Pages/Default.aspx
http://www.birthrightisrael.com/TaglitBirthrightIsraelStory/Pages/About-Taglit-Birthright-Israel.aspx
http://www.birthrightisrael.com/TaglitBirthrightIsraelStory/Pages/Our-Achievements.aspx
http://www.birthrightisrael.com/TaglitBirthrightIsraelStory/Pages/Education.aspx
http://www.birthrightisrael.com/TaglitBirthrightIsraelStory/Partners/Pages/The-Government-of-Israel.aspx
Ecco il burattino Obama che difende Israele: http://www.youtube.com/watch?v=I9kJyW9CSJE
Fate attenzione: 1.05: "Because Israel must always have the ability to defend itself against any threat" "Perché Israele deve sempre avere la capacità di difendersi da ogni minaccia" Questa sarebbe difesa personale? Difesa della propria patria? http://www.facebook.com/photo.php?fbid=430386000355676&set=a.424443154283294.95757.100001528395642&type=1&theater Non mettetemi in croce, ma io la definisco conquista ed espansionismo. Esattamente, quale sarebbe la minaccia che incombe su Israele? Hamas? Un gruppo di ribelli che non vuole farsi rubare le ultime terre che sono rimaste alla Palestina? (Ricordando che le prime sono finite nelle mani di Israele). Questa sarebbe una minaccia?
E gli altri non hanno il diritto di difendersi dalla minaccia di Israele? I palestinesi devono subire il razzismo di Israele che non contento di aver rubato le case e le terre ai palestinesi massacrandoli ha colonizzato la palestina e la sta eliminando dalla carta geografica insieme ai suoi abitanti?
1.40: "We will always reject the motion that zionism is racism" "Rifiuteremo sempre il motto secondo il quale il sionismo è razzismo". Sionismo non è razzismo? E le leggi sul matrimonio di Israele? "Gli ebrei non possono sposarsi con non ebrei, gli ebrei puri non possono sposarsi con mezzi ebrei" Sbaglio o sono le medesime leggi "razziali" della Germania nazista? Ricapitolando, se il sionismo non è razzismo, ma condivide le stesse leggi della Germania nazista, e quelle leggi non sono caratteristiche di uno stato razzista, allora perché le leggi dei nazisti venivano definite leggi razziali? Perché i nazisti vengono definiti razzisti? Celo spieghi, signor Obama! Sarò tonto, ma non riesco a capirlo! Figuriamoci se qualcuno oserebbe porre al signor presidente questa domanda. Non serve che vada oltre. Vedete l’ipocrisia degli ebrei sionisti e di Obama? Ah, sperare che Obama perda le elezioni non serve a nulla. Gli altri sono venduti quanto e forse più di lui.
No al reato di negazionismo
di Massimo Fini (il Fatto, 26.01.2011)
Si è svolto ieri a Roma un importante Convegno dal titolo “La Shoah e la sua negazione. Il futuro della memoria in Italia” cui hanno partecipato, oltre ai più importanti esponenti della comunità ebraica italiana, il ministro Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini, Benedetto Della Vedova e altri politici.
DURANTE il Convegno è rispuntata fuori una ricorrente proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici: rendere il negazionismo un reato. Cioè chi, a parole o negli scritti, nega o ridimensiona l’Olocausto va in galera. Argomenta Pacifici: “Distinguiamo fra diritto di opinione e negazionismo. Affermare in una casa privata che l’Olocausto non sia mai avvenuto può essere un gesto stupido, immensamente riprovevole e simile a chi sostiene che la Terra è piatta. Ma credo non si possa più concedere il diritto di alzarsi in piedi in un’aula parlamentare, in un’università, in un luogo pubblico in cui si formano le coscienze e dire che la Shoah è stata un’invenzione. La legge riguarderebbe questo ambito”.
Ringraziamo Pacifici perché ci concede almeno di dire in casa nostra quel che pensiamo. Ancora un passo e si arriverebbe al reato di "puro pensiero" ipotizzato da Orwell nel suo 1984: certe cose non solo non si possono dire, ma nemmeno pensare . Non capisco come Pacifici e coloro che seguono la sua linea non si rendano conto che la legge che propongono è una norma liberticida, totalitaria, in tutto e per tutto degna proprio di quello Stato fascista che emanò le ripugnanti leggi razziali. In una democrazia, se vuole esser tale, tutte le opinioni, anche quelle che paiono più aberranti al senso comune, devono avere diritto di cittadinanza. È il prezzo che la democrazia paga a se stessa. Ciò che la distingue da uno Stato totalitario o quantomeno autoritario.
Intaccare, anche con le migliori intenzioni, un principio come quello della libertà di espressione oltre che ingiusto è estremamente pericoloso . Perché si sa da dove si inizia, ma non si sa mai dove si può andare a finire. Si comincia con cose apparentemente indiscutibili, perché condivise ampiamente dalla communis opinio, e si finisce col mandare gli ebrei nelle camere a gas. Inoltre - ma questo è solo un argomento a latere - una legge come quella proposta da Riccardo Pacifici sarebbe controproducente, perché finirebbe per fare dei "negazionisti" dei martiri e dare loro una rilevanza e un’importanza che attualmente non hanno.
DI QUESTI pericoli sembra rendersi conto Tobia Zevi, il nipote di Tullia, che propone una soluzione diversa. “Forse sarebbe più utile immaginare sanzioni amministrative che vietino di assumere posizioni negazioniste nell’esercizio dell’insegnamento nelle scuole o nelle università”. Insomma agli storici che hanno idee negazioniste dovrebbe essere impedito di insegnare e quelli che già lo fanno, come il professor Claudio Moffa dell’Università di Teramo, dovrebbero essere esulati come lo furono i tredici docenti che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Al giovane Tobia Zevi sfugge, credo in totale buona fede, che i "provvedimenti amministrativi" da lui proposti ledono un altro diritto fondamentale: quello alla ricerca. Premesso che, per quel che mi riguarda, non ha nessuna importanza se gli ebrei sterminati furono quattro milioni invece che sei, uno studioso ha diritto di fare anche, e forse soprattutto, ricerche che vadano contro la communis opinio per gli stessi motivi per cui ogni cittadino ha diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero come recita la Costituzione all’articolo 21.
PACIFICI quando dice che le posizioni negazioniste sono simili a quelle di “chi sostiene che la Terra è piatta”, non si rende conto che Galileo, ai tempi suoi, era un "negazionista", perché negava ciò in cui allora tutti, o quasi, credevano: che la Terra fosse piatta e che fosse il sole a girarle attorno. Non voglio, con ciò, paragonare un genio come Galileo ai cialtroni negazionisti. Ma il principio è lo stesso. E la memoria dovrebbe servire non solo a ricordare lo sterminio degli ebrei, ma a evitare di ripetere, in un contesto diverso e mutato, oltre agli orrori, anche gli stessi errori del passato.
NO ALLA LEGGE CONTRO IL NEGAZIONISMO, UNA LEGGE AD PERSONAM
“Se il mio nemico usa il mio stesso slogan, vuol dire che il mio slogan è sbagliato” (Mao Tse Tung)
Data: 2010-10-21
Autore: Gherush92
La proposta per una legge contro il negazionismo della Shoah è demagogica e giustizialista e proviene da una Comunità Ebraica che sembra sempre più incapace di fornire risposte appropriate, consapevoli, dianoetiche, documentate. E’ una proposta tanto demagogica da essere sottoscritta dall’intero mondo politico, destra, sinistra, cattolici, persino da coloro che, in parlamento e fuori, raccontano storielle che deridono la Shoah.
Se è vero che il negazionismo della Shoah esiste, è anche vero che si tratta di un fenomeno circoscritto e minoritario che richiede una risposta documentata ed articolata, ma non certo una legge specifica che non serve ad inibire qualche poveraccio o qualche “illustre” accademico ma solo a far demagogia a proprio uso e consumo.
Una legge contro l’antisemitismo è doverosa, purché l’obiettivo non sia quello di colpire unicamente qualche decina di esponenti negazionisti, ma il sistema culturale che propugna negazionismo e antisemitismo. Gherush92 ha già proposto nelle sedi opportune le linee guida per una Convenzione Europea contro l’Antisemitismo.
I negazionismi sono mille: esiste chi nega la Shoah e lo sterminio degli Ebrei, chi nega il massacro degli Indiani d’America, chi nega la deportazione e il massacro degli Africani, il genocidio dei Curdi, degli Armeni, dei Rom, lo sterminio dei Tutsi, etc. etc. etc. Esiste chi nega i pogrom, le crociate, i ghetti, persino l’Inquisizione, o attribuisce a questi fatti storici un significato parziale e li giustifica riducendone la portata distruttiva in termine di vite umane e di devastazione culturale e ambientale. I negazionismi sono mille, la gran parte sono la negazione di stermini avvenuti per opera di cristiani.
Anche le forme del negazionismo sono mille: esiste Williamson, il negazionista recentemente riabilitato dal papa (per il quale non è stata richiesta alcuna legge); esiste il papa che con la preghiera del venerdì nega l’identità ebraica utile solo per la conversione al cristianesimo:
“Preghiamo per gli ebrei. Affinché Dio nostro Signore illumini il loro cuore, affinché conoscano Gesù Cristo, il salvatore di tutti gli uomini. Preghiamo. Pieghiamo le ginocchia. Alziamoci. O Dio onnipotente e sempiterno, che vuoi che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che - con l’ingresso di tutte le genti nella Tua Chiesa - tutto Israele sia salvato per Cristo nostro Signore. Amen.”.
Esiste chi nega le implicazioni di Pio XII nella Shoah e intercede per la sua beatificazione e chi rinuncia a ribadire che quelle implicazioni sono esistite ed hanno concorso a provocare la deportazione degli Ebrei. Esiste chi appoggia e sostiene la beatificazione di Isabella di Castiglia e manipola fatti, nasconde leggi, bolle papali, tutte prove delle sue responsabilità nelle persecuzioni di Ebrei, Mori, Rom. Esiste chi celebra il 20 settembre insieme a preti e cardinali difensori di Pio IX e chi conferma che è vero che gli Ebrei fanno i sacrifici rituali con il sangue dei bambini cristiani. Anche questo è negazionismo.
Esiste chi nega la pedofilia nella chiesa o la nasconde con omertà. Esiste chi, a bella posta, confonde nazismo con comunismo. Esiste chi sostiene, anche fra gli Ebrei, che l’Europa ha origini giudaico-cristiane. Esiste chi giustifica la deportazione dei Rom. Anche questo è negazionismo.
Esiste chi fa del dialogo interreligioso con i cristiani un percorso strategico ed è costretto a negare le fondamenta sempre vive dell’antisemitismo. Esiste, poi, chi nega le responsabilità della chiesa e del cristianesimo nelle persecuzioni degli Ebrei e nella Shoah, interpretazione questa, a differenza di chi nega lo sterminio, niente affatto minoritaria. Esiste chi nega che la Shoah, avvenuta nell’Europa cristiana, è il frutto di secoli di persecuzioni cristiane. Anche questo è negazionismo, negare che la Shoah, organizzata ed eseguita dai nazi-fascisti, è l’apice e la chiara conclusione di un processo discriminatorio e persecutorio verso gli Ebrei in Europa per opera di cristiani.
Negazionismo è anche lasciare che la Comunità di Sant’Egidio organizzi la Giornata del 16 ottobre, anniversario della deportazione degli Ebrei dal ghetto di Roma, almeno fino al giorno in cui non saranno chiarite e condivise le responsabilità di cattolici e cristiani nell’antisemitismo e nella persecuzione ebraica, fino alla Shoah.
Allearsi con i potenti e nascondere le loro responsabilità, anche questa è una forma di negazionismo. Individuare alcuni responsabili del negazionismo della Shoah per escludere i veri responsabili della Shoah, anche questa è opera di negazionismo.
Il peso della negazione di storia, metastoria e memoria non può, d’altra parte, essere occultato da un dibattito a bassa intensità, freddo, asettico ed astratto nel nome di un libero pensiero che non esiste e che esclude impunemente vittime e carnefici. Il vero problema, invece, è che esistono storici, metastorici e popoli che subiscono minacce e intimidazioni perché si battono contro negazioni, revisionismi e falsificazioni quando dimostrano le precise, documentate e millenarie radici cristiane del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia, dell’islamofobia.
Ecco la morale: il razzismo è vivo e vegeto e si serve di ogni forma di manipolazione della storia, negazione, riduzione, giustificazione, impostura e calunnia. Servono risposte culturali e dianoetiche (e anche qualche sano scappellotto !) per mantenere ben salda la memoria.
Non stringere accordi con i potenti ma alleati con le vittime del razzismo che difendono la tua stessa storia: Rom, Africani, Indiani d’America, Islamici, omosessuali, donne, bambini. Non cercare il successo personale ma lotta contro il razzismo e in ogni situazione sappi riconoscere da che parte stare, perché tutto ciò che è bipartisan è sbagliato. Questo è il destino e il ruolo anche degli Ebrei.