Intervista ad Elmar Salmann
LA GLOBALIZZAZIONE TRA TEOLOGIA ECONOMICA E ‘XENOLOGIA”
In seguito all’intervista a Giorgio Agamben sulla teologia economica [1] e alla sua conclusione che invitava direttamente i teologi a non rimuovere più dal loro ambito di studio e discussione il singolare intreccio tra l’oikonomia aristotelica e il concetto di trinità, ci siamo rivolti ad un teologo ed un filosofo che ha approfondito le questioni della trinità nella tradizione dei padri della chiesa e da anni è attento e aperto al dialogo con altre discipline e alle implicazioni del cristianesimo nella nostra cultura, Elmar Salmann [2]. Lo abbiamo intervistato su queste tematiche e sull’argomento di questi due numeri della Rivista, in particolare sul rapporto tra globalizzazione e teologia.
Domanda
Nell’intervista sulla ‘teologia economica’ che pubblichiamo su questo numero Giorgio Agamben rileva una singolare assenza nel dibattito e nella letteratura teologica dell’ oikonomia, un concetto che i padri della chiesa avrebbero preso in prestito da Aristotele per risolvere dal punto di vista teorico l’articolazione del concetto di trinità, un problema a dir poco centrale nell’impianto teologico del cristianesimo cattolico romano e, a suo avviso, addirittura, della concezione politica ed economica dell’occidente. Prof. Salmann, da teologo e filosofo, cosa pensa di questa originale quanto sorprendente ricostruzione?
Risposta
Come sempre le tesi di Agamben sono più che suggestive e sfoltiscono un bosco di argomenti che solitamente restano nella penombra anche se rimangono parziali, con qualcosa di ardito e di un pò arbitrario. Nell’insieme Agamben tocca un punto molto importante, perché, quasi mi vergogno a dirlo, manca effettivamente uno studio teologico che metta insieme i concetti di trinità, oikonomia ed economia, inquadrandoli in una cornice politica. Questi concetti costituiscono un’idea fondamentale che naturalmente trapela dappertutto ed è onnipresente in teologia ma raramente viene evidenziata come tale. D’altra parte, però, non vedo come presso i Padri il concetto di economia si leghi o possa legarsi al mondo aristotelico. Questa,secondo me, è un’ipotesi di per sé fuorviante, perché il concetto di economia si lega sia ad una trasposizione di molte idee archetipali della polis anche in senso platonico, sia ad una trasposizione sul piano ecclesiale e sacramentale del mistero. Quest’ultimo, che proviene direttamente ed originariamente dai padri greci, in cui il concetto di economia gioca un ruolo fondamentale, oltre che presso i padri latini, è presente sotto il nome di dispensatio. A questo proposito, vi segnalo il libro appena uscito di Cristina Ricci Mysterium Dispensationis. Tracce di una teologia della storia in Gregorio Magno [3].
D Quindi, a suo avviso, la teologia è sempre stata consapevole di questo intreccio tra economia ed oikonomia nell’accezione aristotelica?
R. Si, ma senza la chiarezza evidenziata da Agamben perchè i padri hanno vissuto una koiné aristotelica-platonica con una certa enfatizzazione cosmo-simbolica sulla scia del platonismo. L’oikonomia assumeva il valore di ‘manifestazione’ della trinità nella presenza cristologica e sacramentale della chiesa, ne costituiva la manifestazione salvifica e la rappresentazione simbolica. Certo questa, nell’ambito della chiesa e dei rapporti fra chiesa e Stato, riguardava gli aspetti politici, dell’ordine della polis, intendo, ma il pathos è sempre più platonico che aristotelico.
In Origene e in Clemente, come è ben evidenziato da Ugo Rahner [4], si ritrova una visione d’insieme del Mysterium e dell’oikonomia, della presenza manifestativa e salvifica del Dio trinitario che si rappresenta simbolicamente e efficacemente nella figura di Cristo, nella chiesa e nei sacramenti. Questa, secondo me, è l’idea centrale su cui gravita il termine oikonomia, una sorta di ‘economia della vita’, senza le specificazioni che gli attribuisce Agamben.
D. Nella sua ricostruzione del paradigma teologico-economico Agamben, in una fase intermedia, vede come probabile la fusione del concetto di oikonomia con quello di pronoia, di ‘provvidenza’, un termine centrale per comprendere sia la nascita della stessa economia politica, si pensi all’’importanza che gli tribuiranno i fisiocrati, sia la concezione lineare della storia. In questa fase, il concetto di oikonomia legato alla trinità scompare e mentre quest’ultima sarebbe soltanto discussa su un piano metafisico, la prima permane nella concezione di mistero, di mistero dell’economia, diventando, in altri termini l’anima, lo spirito della storia che Hegel e Marx tenteranno di decifrare. In altri termini, saremmo di fronte ad una stuttura teologico-economica che regge l’impalcatura della storia attraverso una dialettica trinitaria?
R. Su questo Agamben è certamente un osservatore acuto, anche se la teologia ha discusso questi problemi sotto diversi aspetti, per esempio nella separazione dell’impianto metafisico trinitario da quello storico. Ma è ovvio che quando la trinita’ viene vista non più come ‘manifestazione’ ma piuttosto come problema metafisico, come una realtà metastorica, l’anello di congiunzione fra Dio, storia ed economia della salvezza si sposta o verso concetti trascendentali, metafisici (vedi la provvidenza) o sulla amministrazione giuridica dei sacramenti, e diventa un concetto pratico quasi politico. Di fatto quando questi piani si separano, la chiesa, pur considerandosi come amministratrice dell’economia di salvezza ma astraendosi dal sottofondo manifestativo-platonico, si gestisce e si propone come giocatore nel campo politico. Questo, a mio avviso, è quello che è avvenuto.
D. Ma anche nei concili?
R. Questo potrebbe essere un altro motivo, infatti già con Costantino le sottili discussioni metafisiche hanno subito un influsso politico e per questo ne hanno rivestito anche il significato. Questo avrà contribuito sicuramente nella teologia occidentale della chiesa romana ad una separazione del piano metafisico dell’oikonomia della salvezza e della amministrazione della ‘salute’ pubblica da parte della chiesa e ha sganciato il modulo trinitario da quello di una visione integrale della teologia del mondo.
D. La teologia ha più avuto occasione di riacquistare questa visione integrale sul mondo?
R. Si, questo è avvenuto su diversi livelli della storia. Per esempio, ‘liberandosi’ dallo Stato pontificio la teologia ha riguadagnato una visione molto più universale, globale, morale ed economica nel senso di Agamben e di un significato della rappresentazione del Cristianesimo in senso vasto. La visione si è allargata, per esempio, anche con il Concilio Vaticano II e con la Gaudium et Spes, dove secondo me per la prima volta abbiamo una tale visione globale, sacramentale, intercorporea della salvezza che Agamben vorrebbe ridare.
D. Quindi possiamo dire che la teologia grazie alla sua tradizione può essere forse il primo strumento, la prima griglia per interpretare fenomeni e problemi globali?
R. Si, forse potremo dirlo ancora più in modo critico e diverso. Per esempio l’idea dei diritti dell’uomo si deve ad alcune visioni dell’’economia’ cristiana ma si sono affermati nella storia occidentale in modo parziale, contro le aspirazioni delle chiese istituzionalizzate. Da quaranta anni, invece, si è creata una confluenza di visioni e la chiesa stessa ha potuto adottare questa convergenza sino a farsi oggi prodromo, profetico di una proposta dei diritti umani, universale ma non soffocante. Si potrebbe parlare, per certi versi di una ‘riappropriazione’ o potremo anche dire che i diritti degli uomini sono tornati a casa e adesso li difendiamo persino contro molte istanze occidentali che vogliono imporli in modo violento.
D. Lei faceva certamente riferimento a Francisco de Vitoria [5] e a Bartolmè de Las Casas, a quei teologi che intorno al 1500 andarono contro il potere costituito per affermare dei principi universali che sono alla base del diritto internazionale odierno; ma a suo avviso prima nel tessuto e nella tradizione occidentale mancava una aspirazione giuridica così universale, o, detto in altri termini, solo la teologia poteva e ha potuto per la prima volta concettualizzare il tema dei diritti universali della persona?
R. In questi termini si. Certo anche nella Summa teologica di San Tommaso, il cui impianto rispecchia una visione ecumenica ed economica del tutto, c’è una struttura formale che riprende l’idea integrale di una economia della salvezza per tutti. Ma tutto questo viene esplicitato con un linguaggio specificatamente teologico, mentre soltanto con l’emergenza dell’era moderna le cose sono separate, ricongiunte e configurate in modo polare e riscoperte come implicazioni del cristianesimo.
D. Un cristianesimo che si rivela profetico, dunque e determinante per il presente ed in quanto tale è parte della globalizzazione. Ma fino a che punto può giungere questra profezia? Se per Max Weber, tra le doti del politico oltre alla ‘passione’ ci deve essere la ‘lungimiranza’ [6], il saper vedere in anticipo e il sapere guardare lontanto, la capacità profetica della teologia è anch’essa politica? E d’altra parte, nella prospettiva di Agamben, se la politica è sospesa e trattenuta dall’oikonomia, dalla gestione dell’oikos, del privato e dell’esteporaneo, senza alcun vero progetto, non può forse la teologia contribuire a liberarla da questo fatale abbraccio, lei che forse per prima ve l’ha spinta attraverso l’utilizzo e la rimozione del paradigma economico-rinitario?
R. Dipende molto dalla definizione di politica. Messa in questi termini direi di sì. Cioè, se all’uomo non è dato altro che poter amministrare l’oikos, la casa, se all’uomo politico nel senso banale della parola non è data la possibilità di agire oltre ciò che si può gestire al momento per il momento, e se politica è invece la visione globale, profetica ed escatologica e allo stesso momento la coltivazione di una memoria di esperienze che si sono sedimentate lungo i secoli, se questo è politica, ovviamente la teologia sarebbe una delle istanze privilegiate per un ricordo politico con pungolo, arricchimento e correzione fraterna della oikonomia.
La politica attuale, quella pragmatica, intendo, è quasi del tutto condizionata dalla economia nel senso banale della parola, dimentica della oikonomia o si trova in uno stato di perplessità permanente nei confronti di essa come lo vediamo nella gestione della politica dell’unione europea dove, in fondo, circa il 90-98% della politica si perde nei meandri di combattimento attorno a cose secondarie se non terziarie e manca ogni fiato visionario del vero peso ma anche della relatività della visione europea e lì l’istanza teologica nel senso largo avrebbe parecchio da dire.
D. Tornando all’intervista, all’inizio Agamben ci rivela che proprio studiando il dibattito sulla teologia politica [7] intercorso tra Peterson [8] e Schmitt [9], si rende conto che sotto questa discussione coscientemente celato o rimosso c’è un paradigma teologico-economico. Questa ‘scoperta’ metterebbe in crisi la ricostruzione teologico-politica schmittiana, che fa riferimento alla trascendenza, alla visione monocratica e quindi alla chiesa come modello di forma politica. A questo punto soccorrono due domande da fare ad un teologo. La prima è: questo modello è un modello cristiano a tutti gli effetti? Cioè, l’interpretazione data da Schmitt della chiesa cattolica romana come forma politica ideale è la chiesa?
R. Ovviamente no. Ma questo è dovuto alla separazione denunciata da Agamben. Ovvero si deve già ad una rappresentazione ecclesiale che ha perso in tutto l’idea dell’oikonomia, a questa visione quasi strumentale della chiesa, anche se sotto alcuni titoli appetibili e solo apparentemente cristiani come lo ‘stato di eccezione’. Peterson, quindi, aveva ragione quando accusava Schmitt di prolungare una visione della politica che astrae da tutto l’impianto della rivelazione della trinità sub contrario dell’economia della storia e per questo è l’opposto dell’oikonomia cristiana e si deve a un retroterra che legge già tutto questo in modo restrittivo.
D. Venendo alla seconda domanda, alcuni, in alternativa al paradigma teologico-politico schmittiano, parlano dell’esodo [10] come un paradigma teologico-politico che, pur fondando il potere sovrano sulla trascendenza del Dio unico, ne pone l’accento sul momento demitizzante e desacralizzante della sovranità, identificata e impersonificata dal Faraone-Dio, minando al centro il concetto di rappresentanza politica. Anche gli stessi M.Hardt e T.Negri, autori del fortunato Impero [11], accennano all’esodo come ad una formula politica ‘rivoluzionaria’ che parte dalla moltitudine e vede in San Francesco una figura esemplare di rivoluzionario esodale, un esempio efficace di fare politica anche se non soprattutto in un epoca globalizzata. Come vede questo modello teologico politico oggi, le appare un’alternativa credibile, o anch’essa corrisponderebbe ad una visione ‘riduttiva’ del cristianesimo?
R. Si, io lo leggo in un piano del tutto diverso. Riprendendo il punto di partenza potremmo dire che l’idea dell’esodo o della povertà in San Francesco o della teologia della liberazione e perfino ciò che si spaccia per teologia-politica come quella di Metz [12] sono secondo me più visioni della oikonomia che non proposte politiche alternative.
D. Cioè, a suo dire, la situazione esodale è impraticabile a livello globale, non sarebbe un efficace risposta alla globalizzazione?
R. No, secondo me non è una risposta alla globalizzazione.
D. Ma se uno volesse andare alla radice del termine esodale incontrerebbe, ovviamente, la tradizione giudaica. In questo contesto l’esodo si presenta come un paradigma diverso, quasi opposto a quello hobbesiano-schmittiano, perché si riferisce al racconto biblico del patto stretto sul monte Sinai tra ‘Jahve’ e il popolo ebraico, un patto eccezionale nella sua forma in quanto senza rappresentanza, perché ogni singolo ebreo è direttamente vincolato con Dio. Quest’ipotesi si basa su una concezione etica della politica, fondata sulla fratellanza e la coappartenenza e non sull’identità e la coercizione, ovvero sulla categoria schmittiana dell’amico-nemico.
R. Direi che questa, per certi versi, è un’alternativa, o meglio un invito a passare ad un’altra dimensione, a vedere il mondo sotto un’altra luce, come la teologia federale nel protestantesimo in cui vedo già un’altra traccia del pensiero economico di Agamben. Ma potremmo forse introdurre anche un altro concetto affianco a quelli di alleanza ed esodo: la ‘xenologia’, ovvero, l’ospitalità vulnerabile, ferita, sofferta e gaia nei confronti dell’estraneo. Un’idea che sotto la spinta di una certa rigiudaizzazione del cristianesimo oggi viene riscoperta; l’alieno, l’estraneo come istanza simbolica o meglio come metafora aperta del regno di Dio. Questo appare sempre più oggi come una struttura di interferenza fra estranei che riescono a ospitarsi. Già riscoperta da Kant, dall’illuminismo e dalla teologia federale della vita, la categoria del regno di Dio è una visione della oikonomia della salvezza dentro, contro e oltre la politica nel senso stretto della parola.
D. Fra gli interventi sulla globalizzaione che abbiamo ospitato nel numero precedente compare un contributo di Giacomo Marramao [13] che tra l’altro riprende alcune tesi del suo ultimo libro Passaggio a occidente, in cui in qualche modo invita l’occidente a diventare se stesso, cioè a riscoprire la sua tradizione filosofica, dialettica, e dialogica come capacità di superare le identità e a stare nella differenza, nell’apertura all’altro. E’ in questa prospettiva il suo suggerimento?
R. Si, io non avrei difficoltà a collocarmi, seppur in un altro linguaggio e con un altro retroterra, dentro una tale prospettiva e così non dovremmo più imporre i nostri ideali politici a tutto il mondo ma essere presente come fermento dentro una società globale che si trasforma .
Per questo ho introdotto la parola ’xenologia’, ovvero, una reciprocità che è sempre vulnerabile, non debole ma umile e, quindi, forte; questa sarebbe la linfa vitale della oikonomia cristiana.
D. La ‘xenologia’ quindi si presenterebbe come una categoria politica della e per la convivenza e il riconoscimento, un invito in un certo senso weberiamo a tentare l’impossibile e ad anticipare l’imprevedibile, un adattarsi e prepararsi ad essere ospitali. Da questo punto la tradizione biblica si rivelerebbe un prezioso repertorio di testi e di esperienze del difficile incontro con il nemico da partire da ‘Caino ed Abele’, l’occasione di uno studio che ponga le condizioni di possibilità per ribaltare la concezione amico-nemico, un’antropologia negativa che rimane alla base della concezione hobbesiana e schmittiana e, quindi, degli stati moderni e delle loro rapporti di forza.
R. Questo corrisponde alla trasformazione della chiesa da una rappresentazione maggioritaria a una chiesa che è minoranza e non può non vedersi come tale in una società che di per sè segue altre piste e io mi auspico che questa trasformazione avvenga in modo sempre più consapevole nei prossimi decenni.
D. Lei invita la chiesa a farsi minoranza, è questa la direzione che ha preso anche il suo massimo rappresentante, sua santità Giovanni Paolo II? Qual’è l’idea del Papa di fronte alla globalizzazione?
R. Il Papa segue forse due binari che sono anche contraddittori e sembrano escludersi: da un lato la globalizzazione si presenterebbe come una grande occasione di evangelizzazione, una nuova missione ma con molti gesti con i quali cerca ancora di imporsi, seguendo un modello ‘integrista’, in cui il cristianesimo si mostra come vincitore della storia, come istanza maggioritaria, onnipotente e onnipresente; dall’altro il Papa medesimo ha suggerito tanti gesti profetici, solo apparentemente deboli; la preghiera comune con le altre religioni ad Assisi, la sua resistenza alla guerra dell’Iraq e a qualsiasi forma di supremazia dell’occidente e infine il suo forte criticismo nei confronti di modelli politici dell’est e dell’ovest e adesso del capitalismo vigente.
D. Cos’è questa contraddizione, un modo di ‘gestire’ la globalizzazione oppure un inevitabile e drammatico realismo politico?
R. Ma io penso che ci troviamo in un passaggio sofferto di trasformazione. Il Papa, come tutti noi del resto, proviene dal ‘piccolo mondo antico’ di una chiesa trionfale che sa rappresentare lo splendore di Dio e non soltanto nei sacramenti ma anche nella presenza politica. Oggi, ci tocca di vivere una presenza umile e forte, con una vis profetica che oscilla fra resa e resistenza. E’ dunque una visione della oikonomia del mondo e del cristianesimo come fermento dentro questo contesto.
D. Per concludere, in tutta questa intervista Lei sottolinea e rivendica, direi, con una certa fierezza il forte legame tra il concetto di ’oikonomia’ e la missione salvifica della chiesa cristiana nel mondo, un agente storico che ha preso su di sé questo ruolo economico, rappresentandolo oggi con un piglio politico ancora più evidente. Questa ’oikonomia’ della salvezza conferirebbe oggi alla chiesa una dignità universale che, rispondendo direttamente alla provocazione di Agamben, afferma con orgoglio il consapevole intreccio con la politica almeno quando quest’ultima le viene incontro sul suo terreno. In altri termini, lei sosterrebbe che potremmo salutare questo incontro tra teologia ed oikonomia come uno dei paradigmi che reggono l’urto destabilizzante della globalizzazione?
R. Si, si potrebbe dire così. Oggi sicuramente rivediamo anche la nostra storia alla luce delle osservazioni di Agamben e delle tracce di questa presenza globalizzante, nel senso positivo della parola della oikonomia, la rivediamo in modo diverso e per questo ci proponiamo anche con maggiore fierezza o, piuttosto, disinvoltura nel contesto attuale, anche se appunto il vecchio potere europeo del maschio cristiano viene a sfaldarsi.
[1] “Intervista a Giorgio Agamben: dalla teologia politica alla teologia economica”, a cura di G. Sacco, in questo numero della Rivista, indirizzo internet http://rivista.ssef.it/site.php?page=20040308184630627
[2] Elmar Salmann è monaco benedettino e professore di filosofia e dogmatica presso il Pontificio Istituto Sant’Anselmo e l’Università Gregoriana di Roma. Tra le sue opere più recenti attinenti a questi temi segnaliamo in italiano: Presenza di spirito, Messaggero, Padova, 2000 e ed in tedesco Zwischenzeit. Postmoderne Gedanken zum Christsein heute, Schnell, Warendorf, 2004
[3] Cristina Ricci Mysterium Dispensationis. Tracce di una teologia della storia in Gregorio Magno. Studia Anselmiana, Centro Studi S. Anselmo, Roma 2002
[4] Hugo Rahner Simboli della Chiesa: L’ecclesiologia dei Padri, Edizioni San Paolo Cinisello Balsamo (MI) 1995, 2 ed. 1995
[5] Si veda l’articolo di Armido Rizzi “Immagine di Dio e diritti degli ‘Indios’. Francisco de Vitoria”, in questa Rivista, n. 3, 2004, p. 33 o all’indirizzo internet http://rivista.ssef.it/site.php?page=20040302152523668
[6] M.WEBER Il lavoro intellettuale come professione - La politica come professione, Torino, 1966, pagg.101 e 120
Sul tema, in rete, si cfr.:
DALLA TEOLOGIA POLITICA ALLA TEOLOGIA ECONOMICA. Un’intervista a Giorgio Agamben
LA CHIESA IN ROVINA E IL TEMPO DEL MESSIA. Un’analisi di Giorgio Agamben
STORIA #ANTROPOLOGIA #CATTOLICESIMO E "#DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. #FREUD, 1929): #DANTE2021.
DIVINA COMMEDIA. #Remi Brague - ricorda #Elmar #Salmann (nella sua intervista*) «ne "Il futuro dell’Occidente" auspica un ritorno alla #Romanitas» .... ma della sollecitazione di #Dante Alighieri (e di Immanuel #Kant) di aprire il discorso su "quella #Roma onde #Cristo è romano" (Pd., XXXII, 102) ancora non se ne parla. Forse, è bene #ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della figura di "#CarloV" (1935), rievoca (con queste parole) la figura del "gran cancelliere #Mercurino di #Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di #Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità"; e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante".
RISUS PASCHALIS - VERSO LA PENTECOSTE CON LA GIOIA DELLA RESURREZIONE
L’allegria della vita e della mente
di Elmar Salman (L’Osservatore Romano. 19 aprile 2021
«La mente si nutre soltanto di ciò che la rallegra», scrive Agostino. La mente può essere tante cose: acuta, tagliente, speculativa, vispa, teorica o pratica, empatica o analitica, stupida ed intelligente. Ma di cosa si nutre? Cosa la fa intuire, comprendere, accogliere la realtà di sé, dell’altro, di un pezzo di questo mondo? Forse solo ciò che la convince, conforta, che allarga i suoi orizzonti, che la fa respirare. In un tale clima rinascono e risorgono sia il soggetto che quella briciola del cosmo che viene illuminata da esso. È un momento di gioia, che può creare un habitus, un’allegria o letizia o serenità nell’intimo dell’uomo.
L’allegria è il titolo della prima raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti, di quella catena aurea, di quel rosario doloroso e gioioso di opere che marca le stagioni della Vita di un uomo: Il porto sepolto, Sentimento del tempo, Il Dolore (Giorno per giorno), Il taccuino del vecchio, La terra Promessa - col cantico di una piccola e potente risurrezione: Per sempre. Vi si conserva e rinnova il tono fresco, immediato, laconico e coinvolgente dei suoi esordi, di quelle splendide poesie che si devono alla illuminazione di un attimo e che da parte loro fanno brillare la sorte degli uomini, perfino nella stagione della Prima guerra mondiale. Una letizia malgrado tutto.
E Gesù, conosceva lui l’allegria della mente, il sorriso raggiante, ironico, irenico, confortante? La sua vita è impensabile senza la gioia dei pranzi condivisi, dell’ospitalità, della vicinanza sorprendente ai malati e depressi per via della sua gratia elevans, senza l’umorismo nascosto, leggiadro e leggero del Discorso sulla Montagna, dove fa passare in rassegna gli uccelli, i gigli, i capelli, i passeri, i pagani, la regina di Saba, solo per stuzzicare l’esperienza della libertà vangelica, per allargare i suoi spazi di manovra e di letizia. O prendiamo la domanda di Giovanni 8: «Chi di voi è senza peccato...»: non lo dice con tono perentorio, smascherante, cinico, ma forse con un lieve sorriso, sapiente, triste e confortante che rispecchia la verità della condizione umana, condividendola.
Nel vangelo come messaggio lieto ritroviamo il clima che Ungaretti sa cogliere nella poesia “Senza più peso”: «Per un Iddio che rida come un bimbo,/ Tanti gridi di passeri,/ Tante danze nei rami,/ Un’anima si fa senza più peso,/ I prati hanno una tale tenerezza,/ Tale pudore negli occhi rivive,/ La mani come foglie/ s’incantano nell’aria.../ Chi teme più, chi giudica?».
Un piccolo canto della risurrezione, che, forse, invera la promessa che Italo Calvino esprime all’inizio delle sue Lezioni americane: l’opera della poesia sarebbe quello di togliere i falsi pesi alla realtà.
E se questo fosse anche l’operazione più intima e “graziosa” della religione?
ALL’EPOCA DI BENEDETTO XVI
FORZA “Deus caritas est”?! Altro che la Chiesa di Maria... e Giuseppe!!!
Questa è la Chiesa ... del “latinorum”!!!
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare alle scomuniche)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?! *
Federico La Sala
*
E ri-mediti sulla ’sollecitazione’ ( Un "Goj", Novelle per un anno) di Pirandello ... a Benedetto XV.
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE
di Federico La Sala (www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006)
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è amore, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”(L’Unità, 26.01.2006 - cfr. www.ildialogo.org/filosofia)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala, 26.01.2006).
Uno studio di Andrea Zhok denuncia: «La pratica monetaria erode pilastri come individualità,comunità e ambiente»
Denaro, tarlo della società
«I soldi non sono bene o male in sé, ma solo il frutto di processi storici. Alla base degli scambi resta però la logica del dono»
di Iacopo Guerriero (Avvenire, 07.04.2007)
Il progetto è ambizioso, è il tentativo di una nuova critica allo "spirito del denaro". Una speculazione che va oltre i termini di liberismo, capitalismo, mercato. Questo è il problema, perché «a prescindere dal gioco dell’idolatria o demonizzazione di Marx, il punto è che ad un secolo e mezzo di distanza il primo resoconto del significato storico del capitalismo rimanga quello più comprensivo. La mia ambizione iniziale era innanzitutto quella di collocare l’oggetto di quell’analisi in una cornice storica ed antropologica più ampia».
Andrea Zhok, docente di Filosofia della storia all’Università di Milano, ha scritto un saggio, Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo, diviso in tre parti: analisi della logica della mediazione in denaro, ragioni della nascita della pratica monetaria, studio dell’infrazione delle diverse identità determinate dalla pratica stessa.
Professore, lei utilizza antropologia, storia economica e sociale per approfondire nascita ed evoluzione dello "spirito del denaro". Ripercorriamo le tappe dello sviluppo.
«Innanzitutto si tratta di vedere se e come lo scambio sia una dimensione essenziale nella natura umana. Lo scambio, nel senso di una transazione che mira ad ottenere un vantaggio oggettivo individuale, si mostra come un prodotto tardo e secondario. Esso presuppone una dimensione diversa, che non mira ad un vantaggio oggettivo individuale, bensì ad un riconoscimento intersoggettivo. Questa seconda dimensione la richiamo con l’espressione di ‘‘economia di dono’’. Le transazioni di dono sono e rimangono il basamento senza cui gli scambi in senso stretto non possono sussistere. Parlando di ‘‘dono’’ non si intende qualcosa di sublime o altruistico: il dono è ad esempio la dimensione tipica in cui avvengono le transazioni nella società omerica, dove certo non mancano ambizione o violenza».
E poi?
«L’analisi storica cerca di vedere l’emergere del meccanismo dello scambio ed il suo impatto. Protagonista di questo passaggio è il dena ro, o meglio, visto che il denaro non è una ‘‘cosa’’ ma un modo di operare, è la ‘‘pratica monetaria’’. Ho scelto esempi storici per esporre al meglio alcuni passaggi fondamentali nella storia del denaro: la sua nascita (Mesopotamia), la nascita della sua dimensione sovranazionale (Atene), la prima grande prova storica della sua capacità di dissolvimento della cultura di dono (Roma tardo repubblicana e tardo imperiale) ed infine la sua trasformazione in ‘‘capitale’’ (Rivoluzione industriale in Inghilterra). In ciascuno di questi momenti assistiamo ad alcune costanti nella pratica monetaria, come la capacità di conferire potere e di logorare le radici, ma vediamo anche di volta in volta un rinascere della pratica monetaria in forme differenti».
Perché definisce «frutto alla lunga velenoso» la mancanza di limiti per le transazioni monetarie?
«Ne parlo come di un frutto naturale ed al tempo stesso velenoso. Naturale, nel senso che non è il prodotto né di un errore, né di una cospirazione: il denaro nasce dall’interazione di esigenze operative e tendenze assiologiche ineludibili nell’uomo. È un’illusione (spesso percorsa nella storia) quella di pensare di poter senz’altro abolire il denaro: esso riemerge sempre dalle sue ceneri, non appena viene meno l’esplicita volontà di sopprimerlo. E tuttavia è un frutto che lasciato alla sua maturazione spontanea diviene velenoso, in quanto è mosso da una logica (quella dello scambio concorrenziale) che tende ad estendersi indefinitamente, e che quanto più si estende tanto più acquista potere per estendersi ulteriormente».
Quali sono gli orientamenti pericolosi per il nostro contesto sociale e privato?
«Ciò che opera la distruzione non è il denaro in senso generale, ma una variabile di cui tento una determinazione tecnica, e cioè il potere del denaro all’interno di una certa società. Per effettuare scelte razionali un soggetto deve avere un’identità stabile, relazioni comunitarie ed istituzionali prevedibili e deve operare le scelte in un ambiente circostante relativamente stabile nel tempo. La pratica monetaria, per ragioni costitutive, erode sistematicamente tutti e tre questi pilastri: rende fragili le identità personali, crea le condizioni per una crescente inaffidabilità della cornice comunitaria ed istituzionale, produce una sistematica erosione dell’ambiente circostante (ecologico, ed urbanistico). Ergo, tende a rendere insensata la funzione di scelta razionale su cui pretende di basarsi».
La secolarizzazione e il relativismo possono essere anche come un collante ideologico per le tensioni macroeconomiche che lei critica?
«Il relativismo non è un ‘‘errore morale’’ ma innanzitutto una pratica di vita (o di sopravvivenza) in un contesto storico informato dalla pratica monetaria. L’impatto sul relativismo del razionalismo scientifico sarebbe insignificante se non s’incardinasse, attraverso la tecnologia, nella dimensione di mercato. C’è un senso in cui il relativismo (insieme agli altri fattori di ‘‘liquidazione’’) non è solo effetto del potere del denaro, ma lo nutre a sua volta, ed è in quanto fattore che accresce l’insicurezza (in tutti i sensi del termine). La crescita del potere del denaro dissolve comunità, ambienti; tale dissoluzione genera insicurezza e in un sistema di scambio concorrenziale all’insicurezza si fa fronte cercando di aumentare il cuscinetto monetario tra sé e ciò che genera insicurezza. Ciascuno cerca di collocarsi in una posizione abbastanza alta da non dover temere lo tsunami, se e quando dovesse avvenire».
Esistono rimedi?
«Questo libro ha l’ambizione di produrre una nuova diagnosi, in parte una prognosi, non ancora una terapia. Anche se il tempo è maturo per tentare di proporre un modello transattivo alternativo, esso va pensato fino in fondo e nei dettagli. Il problema di fronte a cui si trova il nostro tempo non è quello di un attacco proditorio del male, ma quello della placidità un po’ lamentosa, ma sostanzialmente imbelle, con cui ci stiamo dirig endo ad occhi aperti verso un baratro».
Andrea Zhok
Lo spirito del denaro
e la liquidazione
del mondo
Jaca Book. Pagine 377. Euro 26,00