TORINO SPIRITUALITÀ (SITO)
Ossola: leggere san Francesco contro la logica del «balconing»
Gratis. La risposta alla crisi
Il critico: «Oggi dilaga la cultura del rischio come ’beau geste’, però è dispendio di sé e non generosità»
DI PAOLO LAMBRUSCHI (Avvenire, 21.09.2010)
La letteratura pare viaggiare su rotte assolutamente slegate dalla gratuità. A «Torino Spiritualità» sarà Carlo Ossola, uno dei massimi critici letterari e filologi italiani, autore del recente saggio Il continente interiore, a indicare i percorsi per ritrovare la virtù del dono attraverso la parola scritta. Che non deve essere necessariamente merce, perché a volte non ha prezzo.
Professore, che senso attribuisce a gratuità e dono in questi tempi?
«Un senso molto ristretto: la ’gratuità’ oggi dilaga come beau geste pericolosamente esibito, sino alla tragica novità del balconing, che ha fatto molte vittime quest’estate a Ibiza; la ’gratuità’ non è la dépense, il dispendio di sé, bensì - all’opposto - il riconoscere che ciò che ci è più prezioso (la vita, in primis) l’abbiamo ricevuto gratis. La gratuità ’la si vede dopo’ averla riconosciuta (da ciò la riconoscenza), tanto essa passa naturalmente silente, discreta, impercettibile. Come a Emmaus».
È possibile incontrare tali valori in questa società e nella letteratura che esprime?
«La letteratura è della stessa natura dell’acqua: serve ’a scavar pietre, a nutrire arcobaleni. /... Quanto è leggero tutto questo in una goccia di pioggia. / Con che delicatezza il mondo mi tocca» dicono i versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel nel 1996. Il gratuito non è un dono, ma quello sguardo che fa del mondo una goccia di rugiada, si lascia contemplare «in piccole eternità», sempre Szymborska, La gioia di scrivere. Il gratuito, come la poesia, non conosce la parola ’cosa’».
Ma allora quali autori e letture suggerisce per accompagnare la ricerca della gratuità?
«Per la luminosa profondità della testimonianza, il diario del segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld (1905-1961), Tracce di cammino: è il continuo ricercare, nella rettitudine dell’agire, la comunione con l’offerta. Porrei accanto la raccolta dei Fioretti di san Francesco, perché non c’è gratuità senza povertà: in essa dono e contro-dono cessano, perché non c’è nulla da dare: si è ’a mani vuote’. Infine Tarabas di Joseph Roth: una lezione e una parabola verso l’abbandono. E anche, per chi volesse vederne applicazioni nel viver quotidiano, il Comment vivre ensemble di Roland Barthes, un piccolo trattato di delicatezza contro l’arroganza. Poiché non c’è gratuità senza effacement, senza il ’non lasciar traccia’, nell’anonimato».
La lettura di un testo letterario è senz’altro un gesto che arricchisce l’anima. Può restare slegato oggi dall’aspetto commerciale?
«La domanda comincia a prender forma quando il libro diventa merce. Ciò che ci ha formati sono i versi che abbiamo imparato a memoria, quelli che abbiamo cantato, i libri presi a prestito in biblioteca, i racconti d’infanzia che ci hanno accompagnato, la sera, verso il sonno (uno su tutti: Il piccolo principe ). I libri che abbiamo regalato perché parlassero, all’altra, all’altro, a nome nostro. Questa memoria non avrà mai prezzo. I veri libri sono ’impagabili’».
Come proporre la gratuità ai più giovani?
«’Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento’ (Mt 10, 8-10). La grazia è un dono, ma la giustizia nella sobrietà è un esercizio che va insegnato, praticato, va ogni giorno riappreso, perché questa società chiede, anzi impone l’oblio della giustizia. La gratuità non mira a un equilibrio tra dato e avuto, ma alla remissione nella pace. Insegnare la pace pacificando, il perdono perdonando, la gratuità rendendo grazie».
PERSONAGGIO
Un mistico all’Onu
Svedese di nascita e di religione evangelica, Dag Hammarskjöld (1905-1961) è stato segretario generale delle Nazioni Unite per due mandati consecutivi, dal 1953 alla morte, avvenuta in un oscuro incidente aereo nell’Africa del sud.
Economista di formazione (fu anche presidente della Banca di Svezia), Hammarskjöld era uomo di profonda religiosità: dopo la scomparsa, tra le sue carte venne ritrovato un diario non destinato alla pubblicazione nel quale l’uomo politico indicava le sue «Tracce di cammino», ispirate a varie figure della mistica medievale.
Hammarskjöld - unico caso nella storia finora - ha ricevuto il Nobel per la pace postumo, nel 1961.
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Il critico letterario Carlo Ossola e il regista Gabriele Vacis partecipano domani alle 21 presso il Circolo dei Lettori a un incontro di «Torino Spiritualità», il dialogo su «Gratuità, la sola moneta dell’arte»; li intervistiamo in questa pagina. La manifestazione torinese, intitolata quest’anno «Gratis. Il fascino delle nostre mani vuote, prosegue poi fino a domenica 26 settembre. Tra gli altri ospiti: il monaco buddhista francese Matthieu Ricard, ex biologo molecolare, e padre Stefano Roze dell’Abbazia di Sant’Antimo, assistente spirituale del movimento «Goum».
NOTA*
LA GRATUITÀ, L’AMORE GRATUITO ("CHARITAS"), E "L’AVVENIRE" DEI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA - SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA FUTURO.
CHIESA CATTOLICA. PENA DI MORTE NEL CATECHISMO E UN DIO SENZA AMORE ("CHARITAS") NEL CUORE!!!
L’AMORE GRATUITO ("CHARITAS") DI SUOR EMMANUELLE.
PROBLEMI DI ESTETICA (E NON SOLO). I VOLTI DELLA GRAZIA.
* Federico La Sala
L’INCIDENZA SULLA CULTURA
Concilio, scacco al ’68
di Carlo Ossola (Avvenire, 11.06.2012)
«La Cina è vicina», proclamò il Sessantotto e molti (anche giovani credenti impegnati) s’invaghirono di maoismo: il mondo era già globale, nell’attenzione che dal 1960 venne prestata alla guerra americana in Vietnam, mentre i paradigmi culturali delle Università in cui ci formavamo erano - lasciando da parte residui puramente nazionali di molta letteratura - al più europei: si salutarono dunque come un’innovazione libri quali Tristes tropiques (1955, tradotto nel 1960) di Claude Lévi-Strauss; ma quella prima "globalizzazione" degli anni Sessanta fu dolorosa e dilacerante; dappertutto si veniva a conoscenza di disuguaglianze che la decolonizzazione rendeva più vistose (vi perse la vita il Segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld), il mondo veniva «a portata di mano», ma le mani erano spesso insanguinate.
Il valore prezioso che il Concilio Vaticano II portò in quello scenario fu, innanzi tutto, quello di un’universale fraternità senza frontiere e - un domani - senza più divisioni. Basti ricordare alcuni paragrafi dell’Unitatis Redintegratio ove si auspicava che «tutti i cristiani, in un’unica celebrazione dell’Eucarestia, si riuniscano in quella unità dell’una e unica chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua chiesa».
Al monolitismo cruento, in maniera definitiva svelato dai fatti di Ungheria, del marxismo storico si opponeva, retaggio di secoli e primizia, un nuovo anelito di concordia, quella di un cristianesimo non più assetato di primati, ma pronto al servizio, al dialogo, al riconoscimento del patrimonio prezioso dell’alterità: «È necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati [...] perché Dio è sempre stupendo e sorprendente nelle sue opere» (Unitatis Redintegratio).
Nel bel latino dei Padri conciliari quel «Deus semper mirabilis et mirandus» apriva alla letizia della Gaudium et spes, ai «bona humanae dignitatis, communionis fraternae et libertatis»; dava la consolazione di aderire a ciò che di più genuino il pensiero umano (da Agostino a Pascal) aveva espresso del cuore umano: «La chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia [concordat] con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la causa della dignità della vocazione umana». Dignitas vocationis humanae: chiamati, infine, a essere uomini, degni di accogliere l’Incarnazione. Nessun’altra vocazione che un agire vissuto nella fratellanza, poiché l’uomo di Nazareth «pienamente manifesta l’uomo all’uomo», non solo e non tanto nella non imitabile predicazione degli ultimi tre anni di vita, ma soprattutto nella «vita ordinaria» e nascosta dei primi trent’anni, nel lavoro silente che tanto era stato messo in luce da Charles de Foucauld. Un cristianesimo infine «au cœur des masses», lievito operoso, anonimo, fecondo di unità.
Non solo: studiavo allora la storia e la filosofia medievale, il poema di Dante, gli universalia tantum; e il Concilio - di fronte alle riduzioni pietiste cui si era ristretto in molti decenni di mera devozione il cristianesimo delle parrocchie - proclamava nuovamente, con titoli antichi e vigorosi, il De dignitate intellectus, de veritate et de sapientia (Gaudium et spes, §15). Fede e studio si riconciliavano, nel rispetto profondo della coscienza: «Conscientia est nucleus secretissimus atque sacrarium hominis» (Gaudium et spes, § 16).
Si è detto, allora e più tardi, che il Concilio avesse troppo incautamente innovato (ricorderò, per tutti, il manifesto anticonciliare, colto e serrato, di Romano Amerio, Iota unum, 1985); a me pare invece che nei suoi documenti fondanti il Vaticano II non abbia fatto altro che riportare alla luce il grande afflato universale della tradizione patristica e medievale di sant’Agostino, san Francesco, san Bonaventura, san Tommaso, san Bernardo, prima delle divisioni più gravi della cristianità europea e dei nazionalismi che si sono impadroniti di un messaggio che non ha alcun confine, se non quello della creazione stessa (Teilhard de Chardin). Vorrei aggiungere: una sintesi tra l’universalismo medievale e la dignitas hominis umanistica: la «altissima vocatio» dell’uomo che ancora attende di «attingere fastigium», di toccare il proprio vertice.
Proprio per questo il Concilio non è chiuso: chi l’abbia vissuto allora (attraversò tutto il mio liceo e l’inizio dell’Università) e ne abbia oggi coscienza storica, sa bene che momenti così alti di convocazione e dono distendono poi le loro acque e frutti per decenni e generazioni, mentre forme più improvvise - rivoli di qualche debordare - rinsecchiscono e altre maschere già morte, fellinianamente rimuoiono. Non tanto conta che la chiesa sia impari al proprio compito (lo è sempre stata dal tradimento di San Pietro in poi), ma che non abbia più - o molto meno - lo slancio di offrire alle «generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et spes, 31).
Oggi la secolarizzazione compiuta, il disfacimento etico dell’Occidente, il trionfo di un nuovo universalismo più subdolo - e già nei documenti conciliari denunciato - e cioè quello della pura rendita finanziaria di capitali mobili e irresponsabili, rendono l’eredità del Concilio più impegnativa e urgente.
Concludendo il mio seminario al Collège de France, questo marzo 2012, Jean Delumeau, una delle figure-faro del cristianesimo post-conciliare, ha osservato che, sebbene le varie forme di paradiso che l’umanità ha agognato si siano l’una dopo l’altra dissolte, pure rimane un compito sempre nuovo e sempre immane: realizzare le Beatitudini. E, in questo, il cristianesimo non è che a un balbuziente inizio, poiché -insegna ancora la Gaudium et Spes - «tutte queste [ingiustizie] sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor corrompono più coloro che così si comportano che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l’onore del Creatore». Ecco, non siamo che un semen Gloriae e molto ci dovrà passare sopra...
Carlo Ossola
Dedicati al dono i «Dialoghi sull’uomo» di Pistoia
di Redazione (il manifesto, 3 maggio 2012)
«In un momento di crisi gravissima come quella che sta attraversando il nostro paese, e più in generale il cosiddetto “sistema occidentale”, sembra utile porsi da un’angolatura antropologica per analizzare il perché del primato dei rapporti economici nella nostra società. Diviene dunque importante ed urgente parlare del “dono” in una società in cui l’immaginario è totalmente condizionato dall’ideologia del mercato e in cui sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti, dove i rapporti fra esseri umani sono subordinati ai rapporti fra uomini e cose, e dove i valori che orientano l’agire non sono più basati su legami sociali ed etici».
Così Giulia Cogoli, ideatrice e direttrice di «Dialoghi sull’uomo» (www.dialoghisulluomo.com) ha presentato il tema della terza edizione del festival di antropologia del contemporaneo, che si terrà dal 25 al 27 maggio a Pistoia. In programma tre giornate con una ventina di appuntamenti - incontri, dialoghi e letture - nel centro storico della città toscana.
Tra gli ospiti della manifestazione, gli antropologi Marco Aime, Mark Anspach, Fabio Dei e Marino Niola; il sociologo Zygmunt Bauman; Alessandro Bergonzoni; Padre Enzo Bianchi; la filosofa Laura Boella con Gherardo Colombo; Anna Bonaiuto con Stefano Bartezzaghi; gli economisti Luigino Bruni e Stefano Zamagni; i filosofi Maurizio Ferraris, Salvatore Natoli ed Elena Pulcini; la medievalista Chiara Frugoni; gli scrittori Daniel Pennac e Stefano Benni; lo storico dell’arte Salvatore Settis.
Etica e libertà
Il perdono è rivoluzionario
Un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero
È un «dono» difficile da interpretare: si perdona la malvagità o l’incoscienza? L’azione o l’agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere o per dimenticare?
di Laura Boella, Docente di Filosofia morale alla Statale di Milano (l’Unità, 22.05.2012)
Il perdono oggi non viene evocato solo in relazione a offese, torti, malvagità individuali e private, ma spesso in relazione al male commesso in nome di un’idea di civiltà, di un’ideologia totalitaria, di una fede religiosa, di un progetto politico, e anche in sede legale e processuale, ogni volta che la trasgressione della norma ha un effetto destabilizzante sulla convivenza. Sappiamo quanto le azioni umane e i loro “errori” mettano direttamente in questione la storia, la politica, la sopravvivenza e l’identità di individui e gruppi, la lacerazione e la ricomposizione del legame sociale.
Non bisogna poi dimenticare che la questione del perdono si è posta con particolare forza dopo la Shoah, collegandosi strettamente all’ imprescrittibilità del male. Dopo gli eventi che hanno segnato la storia del ‘900 non è pertanto più possibile pensare il perdono senza il concetto di imperdonabile.
L’autentico significato del perdono deve in effetti districarsi dalle implicazioni molteplici e a tratti contraddittorie di una nozione drammaticamente intrappolata nelle maglie del rancore e dell’oblio, della brama di vendetta e della facile liquidazione o della rinuncia ai propri diritti. Una nozione che, oltretutto, appare difficilmente isolabile da altri nuclei tematici, legati a concetti di ordine spirituale e religioso, quali l’espiazione, la redenzione, la remissione dei peccati, l’assoluzione, la pietà, l’amore del prossimo.
Per fare qualche esempio: si perdona l’incoscienza (non sapeva quello che faceva) o la malvagità? L’azione o l’agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere, convertire o semplicemente per dimenticare? Il perdono presuppone una relazione con un altro oppure è l’affermazione della propria superiorità? Chi viene perdonato può anche non sentirsi destinatario di un atto di amore, bensì oggetto di invadenza, di intrusione nella sua coscienza, nel suo mondo affettivo.
Nell’idea di perdono può essere infatti contenuto un giudizio di valore: colui che perdona si colloca dalla parte del bene, quindi al di sopra di colui che viene perdonato. Da questo punto di vista, il perdono può apparire un atto unilaterale, una concessione che annulla ogni scambio e comunicazione tra due soggetti. A complicare le cose contribuisce l’urgenza dell’appello che il male morale continua a rivolgere all’azione: cosa fare per impedire altre sofferenze causate dalla malvagità? Qual è l’imperativo prioritario: la carità cristiana o la resistenza contro il male? Porgere l’altra guancia o ristabilire la giustizia violata?
Il perdono è sicuramente un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero, il cui autentico significato deve essere riappreso. Ciò significa riprendere l’eredità della tradizione ebraico-cristiana, che ne costituisce la fonte, e riscoprirlo in condizioni nuove, quelle del mondo attuale che ne ha un gran bisogno.
Non è certo un caso che i (rari) pensatori che nel ‘900 si sono occupati del perdono siano quelli a cui tutti riconoscono una spiccata sensibilità per i problemi del nostro tempo, e insieme il coraggio di affrontare le zone più rischiose dell’etica, senza cedere a nessuna scorciatoia moralistica. Penso in particolare a Hannah Arendt, a Vladimir Jankélévitch , a Emanuel Lévinas, a Paul Ricoeur, a Jacques Derrida. La loro vitale inquietudine ha accompagnato la consapevolezza che il perdono sia un tessuto fittissimo di conflitti e di paradossi che chiama radicalmente in causa la coscienza di ognuno e ne sconvolge le convinzioni più solide.
Fin dalla sua etimologia il perdono è attraversato dal contrasto tra la logica della pena e della riparazione propria della giustizia, e la logica della gratuità, dell’amore. Perdonare rimanda alla “rinuncia” (a un diritto o a un credito), allo scusare, e al tempo stesso si associa al dono un dono in eccesso, il dono d’amore disinteressato delle chansons dei troubadours (ti amerò en perdos, in perdita, gratuitamente).
L’autentico significato del perdono può essere oggi affermato considerandolo una potenzialità dell’azione: esso rappresenta infatti l’altra faccia del rischio dell’agire, che salva la libertà umana in nome di una nuova forma di responsabilità. È impossibile revocare la storia, fare in modo che le azioni non siano accadute, ma si può continuare ad agire andando in un’altra direzione. L’essenza del perdono consiste nel restituire la capacità di agire a un soggetto che resterebbe inchiodato all’azione compiuta, se non gli si offrisse la possibilità di diventare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto.
Il perdono è dunque un dono, un dono di libertà, il dono del potere di ricominciare e insieme il tentativo di ricostruzione di una relazione interrotta in seguito a un’offesa. Come se si richiamasse in vita la possibilità di una libertà autenticamente umana, anche per chi ha sbagliato. È innegabile che si tratti di passaggi difficili tra agire, sentire e pensare, ma dotati di una grande forza etica: quella di assumersi il rischio, o meglio, di immaginare un futuro diverso da quello imposto dal passato.
50 ANNI FA
Dag Hammarskjöld il Marc’Aurelio del ’900
di Carlo Ossola (Avvenire, 12 settembre 2011)
«Il viaggio più lungo / è il viaggio verso l’interno»: non esiste politica senza coscienza; e queste sono le parole di Dag Hammarskjöld (1905-1961), segretario generale dell’Onu per due mandati (1953-1961), svedese, morto in una missione in Katanga e premio Nobel per la Pace, conferito in memoria, nel 1961. Il suo diario, Linea della vita, è una testimonianza di impegno, di dignità, di speranza sui destini dell’essere umano: «esistere attraverso il futuro degli altri». E di coscienza della plenitudine divina in noi: «Io sono il recipiente. La bevanda è di Dio. E Dio è l’assetato». Fu descritto come un mistico; fu piuttosto fedele al silenzio della responsabilità: «L’“esperienza mistica”. Sempre: qui e ora, nella libertà che si accompagna al distacco, nel silenzio che nasce dalla quiete. Ma questa libertà è una libertà nell’agire, questa quiete è una quiete in mezzo agli uomini, [...] nell’attenzione ricettiva del dire di sì».
Sono passati cinquant’anni da allora: il suo diario è tradotto in moltissime lingue, ma circola oggi quasi in clandestinità: rispetto agli editori che lo pubblicarono negli anni Sessanta (Random, Plon, Rizzoli, etc.) dimora oggi ai margini dell’editoria e della lettura (Qiqajon, Éditions du Félin, Trotta); eppure venne definito - ed è - «il Marc’Aurelio del XX secolo» per l’intensità della meditazione e la raffinata cultura che innerva il libro.
Pochi mesi dopo, moriva Franz Fanon, il cui libro, appena edito, I dannati della terra (tradotto da Einaudi nel 1962 con prefazione di Jean-Paul Sartre) non solo toccava al vivo il problema - di cui era stato vittima lo stesso Hammarskjöld - della decolonizzazione, da lui vissuta in Algeria, ma guardava ai compiti di una nuova società mondialmente meno iniqua. Fu un libro che Giovanni Giudici poneva ad extra sul piano ch’egli viveva ad intra meditando Gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.
E dunque ricordo anch’io insieme Hammarskjöld e Fanon, perché ciò che è in questione, non è la memoria ma il presente: il nostro presente non è più in grado di contenere (e perciò di “comprendere”) quell’ordine di grandezze. Non si tratta tanto di imbarbarimento - che pure è vistoso e doloroso - della vita politica, ma del suo rimpicciolimento. Eugenio Montale fu profetico, applicando a sé le misure del proprio tempo: «Lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose» (Per finire, poesia che suggella il Diario del 1971 e del 1972). Al “massimalismo” ideologico è seguito, nella politica e negli ideali, il “minimalismo” del farsi continuamente lo sconto, sicché il “vivere al cinque per cento” è, oggi, già un traguardo.
L’errore sarebbe perdere il poco tempo che rimane cercando le colpe, inseguendo le tracce della corruzione, della disgregazione; il gesto dev’essere più risoluto, quale troviamo in testa al diario di Hammarskjöld: «solo la mano che cancella, può scrivere ciò che è giusto». Cancellare senza esitazioni lo sgorbio d’oggi, cancellare non correggere, invischiandosi così nei cunicoli del miasma; ma per scrivere che cosa, nella vita, nei costumi, nella politica? Una delle risposte è nell’aula silenziosa che vi accoglie al Palazzo di Vetro, a New York, e che Dag Hammarskjöld volle progettare. Inaugurandola ne additò la finalità: «Ciascuno di noi si porta dentro un nocciolo di quiete, circondato di silenzio.
Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera. Qui si incontreranno persone di fedi diverse, e per questo motivo non si potrà usare nessuno dei simboli cui siamo abituati nella nostra meditazione. Esistono però cose semplici, che parlano a tutti noi nella stessa lingua. Abbiamo cercato questo tipo di cose, e crediamo di averle trovate nel raggio di luce che colpisce la superficie scintillante della roccia massiccia.[...] La luce del cielo dà la vita alla terra su cui tutti ci troviamo: un simbolo, per molti di noi, di come la luce dello spirito dà vita alla materia».
Occorre riprendere alla lettera, per i nostri figli e per i nostri nipoti, l’allenamento a misurarsi con ciò che è grande: «Nel tuo vento. Nella tua luce. / Quanto è piccolo tutto il resto, quanto siamo piccoli noi; e felici in ciò che solo è grande» (nota del 24 dicembre 1957). Ma in quel “grande” non dobbiamo “installarci”, men che mai pensare di “esserci”: riprendendo un’immagine del Salmo CXXVII: «Sicut sagittae in manu bellatoris, Hammarskjöld annoterà: «Mi hai afferrato una volta, o Lanciatore. Ora nella tua tempesta. Ora verso la tua meta» (nota del 26 settembre 1957); questo rimane, anche per noi, il punto: limare in noi il peso, acuminare l’attenzione al mondo, pronti a essere scagliati.
Carlo Ossola
Sesta edizione della rassegna «Torino Spiritualità»
Il fascino delle nostre mani vuote
Tema delle iniziative in programma, che hanno richiamato numerosi partecipanti, è stato il dono, inteso come circolo virtuoso capace di squadernare egoismi e atteggiamenti ipocriti
Torino Spiritualità è giunta ormai alla sua sesta edizione.
Questo allegro e partecipato ensemble di incontri e conferenze,
capaci di coniugare la ricerca di senso dei singoli con l’interrogarsi
sui modi di pensare la comunità e lo stare insieme dei
molti, mantiene intatta la sua vitalità e la sua forza propulsiva.
Molte cose sono cambiate dagli esordi: non più una manifestazione
di nicchia, patria di studiosi delle religioni orientali e di
«preti illuminati», ma una rassegna ben inserita in quel settembre
culturale torinese che è un fiore all’occhiello del capoluogo
subalpino (dal MiTo ai Portici di Carta, alle prime avvisaglie
dei festeggiamenti per l’Unità nazionale).
di SIMONE MAGHENZANI ("Riforma - L’eco delle Valli valdesi", n. 38, 08.10.2010)
NON è Torino spiritualità, però, un’abitudine per un pubblico che si dimostra partecipe e volenterosamente si mette in coda per ascoltare intellettuali, giornalisti e predicatori. Sempre di più la spiritualità viene declinata in una grande varietà di modi: dal monaco buddista a Shel Shapiro, da Moni Ovadia a Gustavo Zagrebelsky, da Massimo Gramellini a Vito Mancuso, da Enzo Bianchi a Gherardo Colombo.
Non è però rituale dire che - specialmente negli incontri meno alla moda, con i personaggi meno conosciuti - sia possibile per ciascuno trovare un proprio percorso, uno spazio di confronto e arricchimento morale e culturale, al di là dei tempi concitati non solo del quotidiano ma anche della comunicazione intellettuale. In genere è meglio rifuggire i ragionamenti su «dove stia un’Italia migliore », eppure, viene da chiedersi perché questo popolo - sì, popolo - che ricerca il ragionamento complesso, la razionalità dialogante (al netto del fascino dell’«esserci»), non riesca a coagularsi in una spinta etica e civile critica, attenta alle domande dell’altro e alle ragioni non solo del contingente.
In ogni caso, Torino Spiritualità sa cogliere questa istanza, proponendo una sfida che va rintracciata non solo in incontri di sicuro successo, ma in quegli eventi laterali che magari raccolgono un minor numero di persone, ma da cui tornarsene a casa arricchiti e grati (si pensi alla lezione di Giampiero Comolli, di cui si parla in questa pagina).
Tanto più, in questo quadro, sfugge al contingente il tema dominante di quest’anno, il dono. Gratis. Il fascino delle nostre mani vuote è infatti il titolo onnipresente al Circolo dei Lettori (sede organizzativa e humus morale del festival). Una parola che gode di cattiva stampa, in tempi d’ogni genere di mercanteggio pubblico e di poca retribuzione per il giusto lavoro.
Il dono come negazione dell’utilitarismo più brutale, come spazio di libertà del dare e del darsi, ambito creativo in cui incontrarsi e in cui non ridurre l’altro a merce e oggetto di scambio. E così il dono non è solo quella pratica rassicurante del pacchetto ben infiocchettato, con cui magari suggelliamo relazioni sociali confortanti o simboleggiamo pur sinceri affetti, ma circolo virtuoso innescato da fuori di noi capace di squadernare egoismi e atteggiamenti farisei.
Insomma, un argomento molto protestante, anzi, occasione per giungere al cuore della proposta cristiana: ed è forse mancata in questa interessante rassegna una voce forte ed evangelica che parlasse di grazia e perdono, e di quella riconciliazione con Dio in Cristo che genera riconciliazione col prossimo. Forse, un’autocritica e un pungolo per il variegato protestantesimo torinese, affinché assieme possiamo darci da fare per l’avvenire anche su questo fronte. E un modo per interrogarci su come sappiamo rispondere alla domanda di fede e all’attesa di risposte di chi sta attorno a noi, certo senza proporre piatti preconfezionati cucinati in salsa legalista, ma scegliendo di confrontarsi con quella ricerca di senso, speranza e autenticità delle relazioni (con Dio e con gli uomini) che ci circonda.
La manifestazione, comunque, ha conseguito ottimi risultati, tanto nella partecipazione di pubblico quanto nella qualità degli eventi: incontrare oltre un centinaio di persone che ascoltano, in un piovoso e anonimo venerdì pomeriggio, una lezione sull’amore nel ritratto doppio del Rinascimento italiano a partire dagli Asolani di Pietro Bembo rappresenta, almeno per me, una indubbia ragione di ottimismo.
Le attese non sono certo state smentite, e così riscopri il piacere di uscire da una conferenza pensando: forse non stiamo proprio andando del tutto a rotoli in questo benedetto paese.
Infine, un cenno a un’ultima iniziativa: la cena collettiva che si è realizzata in collaborazione con «Terra Madre » e «Slow Food». Oltre mille persone hanno potuto condividere un pasto con cibi in prossimità di scadenza o che sarebbero stati altrimenti destinati alle discariche. Un atto di accusa forte rispetto alla quantità di alimenti commestibili che vengono quotidianamente sprecati in Italia e nel mondo, davanti a un’umanità sofferente che muore di fame.
Una spiritualità tutt’altro
che disincarnata, quindi:
tornare a riflettere teologicamente
e quanto ne abbiamo
oggi bisogno - vuol anche
dire saper pronunciare
una parola di critica verso
noi stessi e di grazia.
Il sacrificio di sé fra cristianesimo e buddismo
Giampiero Comolli è oratore
abile, e sa accompagnare
l’uditorio in una conferenza -
che, in verità, sembra un seminario
per quasi tre ore e
mezza. Un tempo enorme,
che gli è stato affidato, e che
gestisce con cura e competenza.
Tanto che il pubblico
pagante non si disperde progressivamente
(il suo è uno
degli incontri non gratuiti di
Torino Spiritualità), ma resta
a far domande, a interrogare
un giornalista un po’ fuori
dagli schemi che ha la passione
e la cura di chi vuole spiegare
e porre questioni, problematizzare
teologie e prassi
religiose, e non soltanto ricondurle
a luoghi comuni e
slogan. Insomma, certo non
lo stereotipo del divulgatore.
A suo agio con i testi sacri fondativi del cristianesimo e del buddismo, Comolli si confronta sul tema del dono estremo, il sacrificio di sé, nelle due tradizioni, anzi, «vie di salvezza», come lui preferisce dire.
L’approccio è prima di tutto esegetico, nel confronto tra le vite del Buddha precedenti il raggiungimento della beatitudine e i «discorsi di commiato» di Gesù. Il nocciolo è evidentemente l’amore, il saper donare se stessi all’altro, e il come confrontarsi con il dolore umano. Ovviamente, non si tratta di uno di quei dibattiti interreligiosi a cui un po’ ormai ci siamo abituati, un po’ rituali e alla «tarallucci e vino », ma di un confronto tematico di dottrine ed esperienze di fede: si parte dal dono come pratica sociale, dalla dialettica di libertà e gratuità a esso sottesa, per interrogarsi sul vissuto delle relazioni.
Emerge una profonda similitudine etica tra le due confessioni, eppure è nelle ragioni (verrebbe da dire, nella predicazione) che si rintracciano sfumature e differenze profonde.
La vera libertà consiste nel separarsi dal male e dalle motivazioni di attaccamento alla realtà, in una ideale «atarassia» che conduca a una pace autentica, oppure nella sfida dei rapporti umani, nell’irriducibilità dei soggetti a fonte di universale ed eguale sofferenza, e soprattutto nell’incontro con un Dio che dona se stesso non per una compassione strumento di autoliberazione ma per volontà di riconciliarsi con l’umanità, con la quale dichiara ora di poter simpatizzare?
Il confronto proposto da Comolli è stimolante, e consente quello straniamento di chi, attraverso l’impiego di un’altra pratica religiosa, riesce a riflettere sulla propria fede.
Appare chiara la sua preparazione, una solida teologia riformata di cui è in tutta evidenza nutrito, però sottoposta a vaglio critico, a riletture non di maniera o alla moda, ma allo scambio arricchente.
Sfoglio ora un suo bel libro pubblicato dall’editrice Claudiana, Pregare, viaggiare, meditare, un testo da leggere, e un modo per continuare una conversazione colta, attenta, piena di autentica spiritualità e non di manie chic di chi non sa più dove andare a salvarsi l’anima, come forse sono stati in anni ancor recenti certi approdi alle tradizioni orientali.
Non è una fuga dall’Occidente, ma una strada per costruirne la modernità nelle sue connessioni con realtà sociali e religiose che si sono fatte più prossime, da conoscere e con cui poter forse costruire il vecchio sogno - illuminista - di interazione tra universalismo e cosmopolitismo. (s.m.)
Bagnasco batte cassa
"Preti stendete la mano"
L’appello rivolto al Consiglio presbiteriale: "Prendete coscienza che il vostro sostentamento deriva dalla carità. Per cui impegnatevi personalmente nella raccolta di fondi". I soldi che la Conferenza episcopale - di cui il cardinale è presidente - ha distribuito alla Curia genovese sono calati, segno che l’8 per mille dei fedeli si è ridotto. "Bisogna quindi incentivare le offerte dei fedeli e il gettito fiscale a favore della Chiesa"
di BRUNO PERSANO *
I sacerdoti si rimbocchino le maniche: servono più soldi per la chiesa. "Impegnatevi personalmente nella raccolta di fondi". Il "capo" dei sacerdoti genovesi batte cassa. In un messaggio letto durante il Consiglio presbiterale e dei vicari foranei in occasione del nuovo anno pastorale, l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, lancia un appello ai suoi sacerdoti: "Devono prendere coscienza che il loro sostentamento deriva dalla carità e quindi inizino ad impegnarsi personalmente nella raccolta di fondi per il sostentamento del clero incentivando le offerte dei fedeli e il gettito fiscale a favore della Chiesa Cattolica".
Il Vicario per gli affari economici, monsignor Mario Capurro, è preoccupato: "Finora la maggior parte del sostegno economico dei preti deriva dall’8 per mille. Ma le quote volontarie non sono un’acquisizione consolidata". Per l’anno 2009, la Cei - di cui Bagnasco è presidente - ha distribuito alla diocesi genovese, oltre agli stipendi per i religiosi, quasi tre milioni di euro provenienti dall’8 per mille. Soldi per la manutenzione delle chiese e la carità ai poveri. Per l’anno successivo, i fondi indirizzati da Roma a Genova, sono scesi di quasi 300.000 euro, segno che la quota di reddito che gli italiani hanno riservato alla chiesa cattolica è calata, forse perché sono meno i fedeli che versano soldi alla tesoreria vaticana oppure perché la crisi economica ha ridotto i redditi e l’8 per mille è calato in proporzione.
L’economo della Chiesa genovese allarmato profetizza che l’8 per mille potrebbe "diminuire ancora nel futuro, anche in seguito a campagne diffamatorie contro la Chiesa", precisa e suggerisce a rispolverare l’iniziativa diocesana ’Un euro al mese’ per il sostegno dei sacerdoti. Monsignor Capurro sembra prendersela con certe analisi sociali pubblicate dopo le notizie di abusi sessuali compiuti da religiosi sui minori. Resta comunque l’appello del cardinale che invita i sacerdoti a rimboccarsi le maniche: "Il prete vive di carità e quindi deve ritornare a stendere la mano personalmente tra i suoi fedeli".