La comunità immaginata del popolo senza stato
Un saggio ammirevole per l’onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso
«Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia» di Idith Zertal per Einaudi
di Enzo Traverso *
Esiste una vasta letteratura sull’uso politico che Israele ha fatto, nel corso degli anni, della memoria della Shoah. La storica israeliana Idith Zertal vi dedica ora un importante saggio, ammirevole per la chiarezza, la lucidità e l’onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso (Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, pp. 253, euro 22). In fondo, sostiene Zertal, Israele e la Shoah sono indissociabili. Non soltanto perché lo Stato ebraico è nato, nel 1948, in virtù di un accordo fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale teso a «risarcire» gli ebrei per lo sterminio subito ad opera del nazismo. Non soltanto, quindi, perché la Shoah costituisce la premessa e il retroterra storico di Israele, ma anche e soprattutto perché ne ha accompagnato la vicenda, durante sessant’anni, come sottofondo costante, più o meno esplicitamente riconosciuto, di tutte le scelte dei suoi dirigenti. Israele, spiega Zertal, è l’erede della Shoah, non foss’altro per il fatto di aver offerto un rifugio ad alcune centinaia di migliaia di superstiti del genocidio nazista.
Nel corso degli anni, tuttavia, esso ha ridefinito la sua identità facendosi di volta in volta rappresentante, difensore e, in ultima istanza, redentore delle vittime dell’Olocausto. L’evento tragico che ne ha permesso la nascita è diventato la sua principale giustificazione storica e, una volta inscritto nel disegno provvidenziale del suo messianismo, il pretesto inattaccabile costantemente invocato per legittimarne gli atti sia politici che militari. L’Olocausto, in altre parole, è stato oggetto di una costruzione della memoria che ne ha fatto la matrice di una religione politica: il nazionalismo israeliano.
Il cemento della nazione
La memoria della Shoah è il cemento di una nazione ebraica in costruzione permanente, formata da gruppi diversi, provenienti sia dall’Europa che dall’Africa del Nord e dal Medio Oriente, e circondata da un mondo arabo ostile. Non la memoria incarnata dai superstiti dei campi della morte, fatta di ricordi individuali e singolari, ma una narrativa nazionale, elaborata dai vari governi che si sono succeduti alle redini dello Stato nel corso degli anni, sia quelli laburisti che quelli diretti dal Likud: questa memoria, sostiene Zertal evocando Benedict Anderson, è stata e continua ad essere il fulcro di una «comunità immaginata» la quale riesce in tal modo a trascendere la brevità della propria esistenza e l’eterogeneità della propria composizione.
L’incorporazione di questo passato in seno alla memoria israeliana non è stata, a dire il vero, immediata. Durante gli anni Cinquanta, quando il trauma del genocidio era ancora recente e i sopravvissuti costituivano una parte cospicua della società israeliana, la Shoah era assente dal discorso ufficiale. Un’elaborazione del lutto silenziosa coesisteva con la rimozione pubblica. Riaffermando uno stereotipo dell’ideologia sionista, Ben-Gurion dichiarava allora che la storia ebraica si era interrotta nel 135 d.C., quando i romani avevano sedato la rivolta di Bar Kochba, ed era ripresa soltanto con la fondazione di Israele.
Popolo senza Stato, gli ebrei diventavano così, hegelianamente, «popolo senza storia». La palingenesi sionista restituiva agli ebrei la loro dignità nazionale perduta nei secoli. Israele sorgeva in rottura radicale con la diaspora, luogo di umiliazione, persecuzione e svilimento dei caratteri nazionali ebraici; si presentava come alternativa necessaria all’«esilio», il Galut, vera e propria malattia ebraica.
L’israeliano, l’«ebreo nuovo», era un colono, un agricoltore e un combattente, non più un perseguitato. Il nuovo Stato non voleva apparire come rappresentante di un popolo di vittime e non si riconosceva nelle figure scheletriche dei sopravvissuti.
In sintonia con gli stereotipi nazionalisti del tempo, i suoi figli dovevano essere fieri, sportivi, muscolosi. Occorreva quindi «inventare» una tradizione che, salvando alcuni momenti salienti della storia ebraica, potesse espungerli dalla diaspora per annetterli al panteon di un’epopea nazionale incarnata dal sionismo.
Così i profughi dell’Exodus, la nave carica di superstiti dei campi nazisti, sballottata per mesi tra mare e terra prima di raggiungere la Palestina, dopo aver vinto l’opposizione britannica allo sbarco, furono trasformati in combattenti ed eroi che, a prezzo d’innumerevoli sacrifici, avevano mostrato la via di una rinascita nazionale. Così la rivolta del ghetto di Varsavia, nella primavera del 1943, fu rivisitata come eroico atto patriottico e «gesto sionista». Per questo il resoconto dell’insurrezione scritto da Marek Edelman, uno dei suoi dirigenti - allora rappresentante del Bund, un partito socialista ebraico antisionista - che decise dopo la guerra di rimanere in Polonia, fu tradotto in ebraico tardivamente, da un piccolo editore. «Nell’ambito della fiorente industria della commemorazione sviluppatasi in Israele intorno alla rivolta e ai suoi eroi - scrive Zertal -, non c’era posto per Edelman e la sua storia».
La svolta al processo Eichmann
La svolta decisiva, il momento a partire dal quale Israele cessò di considerare la Shoah come espressione di un vergognoso passato diasporico e iniziò a rivendicarne esplicitamente la memoria come fonte legittimante della propria politica, fu il processo Eichmann, che si svolse a Gerusalemme nel 1961.
Ben-Gurion voleva farne «un’esperienza sacra», un monito al mondo e un atto pedagogico nei confronti della nazione. Ai suoi occhi, questo processo trascendeva ampiamente le responsabilità individuali di uno degli architetti della Soluzione finale. Ben-Gurion lo definiva allora «il processo del popolo ebraico all’eterno antisemitismo presente in tutte le nazioni e attraverso tutte le generazioni». Una volta comprovata la sua capacità di fare giustizia in nome del popolo ebraico, Israele non aveva più bisogno di nascondere la Shoah. Poteva anzi mobilitarne il ricordo per trasformare la sua politica in atto riparatore. Diventerà così una consuetudine, per ministri e ufficiali israeliani, assimilare il rifiuto arabo alla storia secolare dell’antisemitismo europeo e designare i dirigenti arabi, da Nasser ad Arafat, come reincarnazioni di Hitler.
Molti intellettuali si presteranno a questa campagna di «nazificazione» del nemico. Lo scrittore Eli Wiesel, percepito nel mondo occidentale come una sorta di figura cristica dell’Olocausto, celebrava nel 1967 la vittoria israeliana durante la Guerra dei sei giorni con un pathos nazionalista degno del primo Ernst Jünger.
Zertal cita qualche passo eloquente di un suo testo dell’epoca: «Duemila anni di sofferenze, attese e speranze si mobilitarono per la battaglia, al pari di milioni di vittime della Shoah. Come nubi di fuoco giunsero a proteggere i loro eredi. E nessun nemico potrà mai sconfiggerli». La vittoria fu così sacralizzata e l’occupazione dei territori palestinesi ratificata come protezione necessaria contro la minaccia rappresentata dall’insormontabile ostilità del mondo dei gentili. L’occupazione diventò e rimane ancora oggi legittima difesa. Le vittime della Shoah saranno evocate come testimoni silenziosi dell’innocenza israeliana.
Questa politica della memoria tesa ad alimentare il nazionalismo più ottuso e intransigente, sembra concludere Zertal, ha contribuito ad armare l’assassino di Yitzhak Rabin, vittima, come Jean Jaurès e Walther Rathenau prima di lui, in altra epoca e altri contesti, di una campagna di odio nazionalista.
Un capitolo di questo libro è dedicato al carteggio tra Hannah Arendt e Gershom Scholem, poche ma profondissime lettere scambiate in occasione del processo Eichmann e delle feroci polemiche suscitate dal saggio dell’esule ebrea sulla «banalità del male». Dopo averne riassunto i termini generali, Zertal si schiera chiaramente dalla parte della Arendt, facendo proprio il postulato dell’autonomia di pensiero, il Selbstdenken di matrice illuminista ch’essa rivendicava, contro le ortodossie, i vincoli intellettuali e spesso i pregiudizi in cui rimpane inevitabilmente invischiato chi vuole anteporre un’appartenenza nazionale alla libertà della critica.
Zertal ha probabilmente ragione di spiegare il tono ben poco conciliante delle risposte arendtiane con il suo rifiuto del sottile paternalismo di Scholem. E anche di sottolineare la discrepanza di fondo che separa la Arendt, cosciente di appartenere alla tradizione dell’ebraismo paria, dal sionismo di Scholem, finalmente ricaduto, forse in virtù di un’identificazione mimetica con l’oggetto delle sue ricerche, in una visione della storia ebraica come una sorta di «entità mistica» i cui tratti «trascendono la nostra comprensione».
Zertal si limita tuttavia a un’attenta lettura di questo appassionante carteggio. Una più approfondita contestualizzazione le avrebbe probabilmente permesso di spiegare i toni accesi della polemica alla luce di un’altra netta divaricazione: il Selbstdenken della Arendt entrava in collisione, in quel preciso momento storico, con la percezione ebraica della Shoah, di cui Scholem si faceva allora portavoce.
Arendt aveva preso la misura dell’evento - aveva avuto la sensazione che il pavimento le stesse crollando sotto i piedi, dirà in una famosa intervista - fin dagli anni della guerra. Il mondo prendeva invece coscienza di cosa fu il genocidio degli ebrei soltanto dopo il processo Eichmann. Fu durante quel processo che, per la prima volta, i superstiti dei campi nazisti poterono esprimersi di fronte al mondo intero avendo la sensazione di essere ascoltati.
Il saggio arendtiano approfondiva una riflessione iniziata almeno vent’anni prima, ma non aveva riguardi per un’opinione pubblica internazionale che iniziava appena a rendersi conto di cosa fosse stato l’Olocausto, per una diaspora ebraica che l’aveva largamente rimosso e per uno Stato israeliano che si trovava ora messo di fronte al trauma da cui era nato.
I tempi dell’elaborazione di un pensiero critico e i tempi della costruzione di una memoria collettiva in seno allo spazio pubblico non sempre coincidono. Non stupisce quindi che Scholem le rimproverasse la sua mancanza di «sensibilità del cuore» (Herzenstakt).
La profezia di Hannah Arendt
Collaboratrice della casa editrice Shocken, creata negli anni Trenta da ebrei tedeschi esuli a New York, Arendt aveva contribuito alla pubblicazione in America dell’opera di Scholem. Fino al 1946, entrambi avevano condiviso la prospettiva di una Palestina binazionale, nella quale ebrei ed arabi avrebbero potuto convivere entro frontiere comuni. Ma Scholem aveva accettato la fondazione di uno Stato ebraico e adattato il suo sionismo culturale ai vincoli fatali del sionismo politico. Arendt non lo seguì su questa strada. La loro rottura risale al 1947.
In quegli anni, l’esule ebrea pubblicava un testo che, come sottolinea Zertal, appare oggi straordinariamente premonitore. Anche in caso di una vittoria militare, scriveva Arendt, gli ebrei «vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività. Il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini».
Idith Zertal fa proprio questo ammonimento. Il suo libro non è soltanto un brillante saggio storico. È un invito pressante a cambiare rotta.
SCHEDA, SULLO SCAFFALE
La memoria di un genocidio che continua a dividere *
Uno dei testi che hanno affrontato il ruolo della Shoah nella costruzione dell’identità nazionale israeliana è certamente «La banalità del male» di Hannah Arendt (Feltrinelli). Scritto sopratutto come attenta analisi delle deposizioni di Adolf Eichmann nel processo che lo condennerà a morte, il volume della studiosa affronta anche come la memoria del genocidio degli ebrei cominciasse a pesare nella costruzione di una «narrazione nazionale» attorno alla nscita dello stato isrealiano.
Argomento affrontato anche da Zygmunt Bauman nel suo «Modernità e Olocausto» (Il Mulino). Sulla storia invece della Shoah vanno invece ricordati i cinque volumi e i tre Dvd, coordinati da Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam e Enzo Traverso, pubblicati dalla casa editrice Utet.
Recentemente, in Israele e Palestina è ripresa invece la discussione attono alla possibilità di dare vita a uno stato bi-nazionale come soluzione politica al conflitto tra israeliani e palestinesi. Una parola d’ordine minoritaria, ma che ha una lunga storia, visto che è stata spesso portata avanti da intellettuali ebrei, tra cui Hannah Arendt, e intellettuali palestinesi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una indicazione (1930) di Freud
Decostruito il mito di Israele
Guerra dei sei giorni. Sulla base di inedite fonti d’archivio ancora sotto segreto, Ahron Bregman mostra le tappe successive dell’occupazione, nei suoi effetti sui popoli dei Territori: «La vittoria maledetta», da Einaudi
di Massimiliano De Villa (il manifesto, 02.07.2017)
Il mattino del 14 maggio 1967, il primo ministro israeliano Levi Eshkol sta osservando, dalla terrazza del suo ufficio, la sfilata del Giorno dell’Indipendenza quando il generale Yitzhak Rabin gli riporta movimenti sospetti di reparti egiziani che, attraversato il Canale di Suez, sono sbarcati nel Sinai. È solo l’inizio: nel giro di tre settimane, l’Egitto ordina ai caschi blu delle Nazioni Unite di ritirarsi dalla penisola sinaitica, schiera sette divisioni militari lungo il confine con Israele, chiude gli stretti di Tiran, importantissimo passaggio per le navi israeliane, e sigla un accordo di difesa con la Giordania.
Lo schieramento di forze egiziane turba un equilibrio già assai fragile: dalla crisi di Suez del 1956, del resto, il presidente egiziano Nasser, leader popolare di un panarabismo montante, non ha mai smesso di parlare della distruzione di Israele e, nei mesi precedenti il giugno 1967, la sua propaganda anti-israeliana si è fatta più virulenta. I nemici sionisti - va ripetendo Nasser con retorica pettoruta, mentre gli altri capi di stato arabi gli fanno variamente eco - devono essere cancellati e ributtati in mare. Per gli israeliani, spaventati dal riproporsi di recenti spettri, la chiusura degli stretti è il casus belli: di qui l’attacco, improvviso e rapidissimo.
Nel giro di sei giorni, dal 5 al 10 giugno 1967, le Forze di difesa israeliane sbaragliano tre fronti, l’egiziano, il giordano e il siriano, irrompendo nei territori arabi e occupando il deserto del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, compresa la parte orientale della città di Gerusalemme. Per Israele, questa guerra che, con la velocità del fulmine, ne triplica il territorio è una vittoria straordinaria. Un’ondata di fervore messianico dilaga nel paese, gli osservanti parlano di miracolo, i laici non nascondono l’emozione. La terra di Israele è stata restituita ai suoi antichi abitanti, questa è la voce che corre dal deserto del Negev al Mare di Galilea, mentre il mondo sbalordisce alla rapidità e alla potenza dell’apparato militare israeliano. Le operazioni belliche si chiudono in pochi giorni e si apre, in parallelo, la questione, insieme spinosa e delicatissima, dei Territori occupati e degli insediamenti israeliani. Un’occupazione - dicono gli osservatori esterni - che durerà poco e che invece, tolto il Sinai e, solo da qualche anno, la Striscia di Gaza, entra oggi nel suo cinquantesimo anno.
Sono molti i libri che, negli anni e nei mesi scorsi, hanno ripercorso, interpretato, indagato la Guerra dei Sei Giorni nel suo cinquantesimo anniversario. Tra le analisi più acute, quella di Ahron Bregman, inS La vittoria maledetta, Storia di Israele e dei Territori occupati (Einaudi, traduzione di Maria Lorenza Chiesara, pp. 340, euro 33,00).
Già il titolo rivela il taglio del saggio: quella che da Israele era stata vissuta come una benedizione, il compiersi dell’antica promessa fatta da Dio ai padri e il suggello trionfale dell’impresa sionista, mostrerà, nel giro di poco, il suo vero volto, mutando in modo definitivo la fisionomia medio-orientale e trasformando Israele, agli occhi dell’Occidente, da vittima della storia a paese occupante.
Il saggio di Bregman, israeliano emigrato a Londra durante la prima intifada per esplicito dissenso politico e ora professore di storia militare al King’s College, ha inizio inquadrando il problema da un punto di vista giuridico: quella di Israele nei confronti dei territori conquistati nel 1967 è de iure un’occupazione, condotta in aperta violazione della Convenzione dell’Aja, stipulata a inizio Novecento, e della più tarda e più famosa Convenzione di Ginevra del 1949.
Sulla base di inedite fonti d’archivio israeliane, in parte ancora coperte dal segreto, Bregman dimostra, con coerenza aristotelica e senza mai rinunciare a una narrazione brillante, le tappe successive dell’occupazione nei suoi effetti sulla popolazione dei Territori: la creazione di governi militari israeliani, l’uso dell’esercito per soggiogare gli occupati, la raffica di decreti d’urgenza e di ordinanze militari, l’avvio di una vertiginosa macchina burocratica che disciplinerà, di lì in avanti, ogni centimetro di vita pubblica, dall’accesso agli impieghi all’accesso alla rete idrica e all’elettricità, con estenuanti trafile per ottenere, nel migliore dei casi, un permesso o una licenza. Poi le restrizioni sugli spostamenti, i lunghissimi controlli alle frontiere, gli espropri coatti, la pulizia etnica dei territori conquistati, la distruzione di antichissimi villaggi arabi con i trasferimenti forzati dei loro abitanti in Giordania o in Siria, la costruzione, sul medesimo terreno, di basi militari e insediamenti ebraici, e l’invio di coloni israeliani, spesso ebrei ortodossi, a ripopolarli.
Nella ricostruzione storica, il resoconto cede spesso il passo alle memorie e alle testimonianze di prima mano degli occupati, facendo vibrare la corda del vissuto personale senza inficiare la sobrietà dell’analisi e rivelando anzi alcuni angoli ciechi sui quali non era stata fatta sufficiente luce.
Saldamente ancorato a un criterio cronologico, Bregman passa in rassegna le pratiche e i metodi dell’occupazione israeliana, suddividendo l’esposizione in tre parti: il primo decennio di occupazione - con una sezione per ogni territorio occupato a stagliare, di ognuno, la particolare fisionomia - il secondo decennio che culmina con la prima intifada e, infine, gli ultimi vent’anni con il procedere a singhiozzo degli accordi di pace, l’assassinio di Yitzhak Rabin, la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee e l’innesco della seconda intifada fino alla roadmap della pace e al disimpegno israeliano dalla Striscia di Gaza.
Il fuoco principale della ricostruzione storica, l’occupazione israeliana dei Territori, non impedisce all’autore di seguire altri fili, dalla resistenza palestinese alla guerriglia armata, agli attacchi terroristici contro Israele, dalla leadership di Arafat ai successi elettorali di Hamas.
Di decennio in decennio, con i passi accorti e precisi dell’indagine storiografica, Bregman decostruisce, nelle sue pagine, il mito, diffuso dagli israeliani all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, dell’occupazione illuminata. Mai - sostennero infatti fin da subito gli israeliani - un popolo che, come il loro, aveva vissuto sulla pelle la spaventosa esperienza della persecuzione avrebbe replicato il trattamento su altri. Eppure - Bregman lo sottolinea fin dalle prime pagine traendo conclusioni amare - «un’occupazione illuminata è una contraddizione in termini, come quella di un triangolo quadrilatero. Nessuna occupazione può essere illuminata.
I rapporti tra occupante e occupato sono sempre basati su paura e violenza, umiliazione e dolore, sofferenza e oppressione; in quanto sistema di padroni e schiavi, l’occupazione non può che essere un’esperienza negativa per l’occupato. Che Israele - una nazione piena di vita e istruita, terribilmente consapevole dei mali della storia - abbia imboccato la strada dell’occupazione militare è di per sé abbastanza stupefacente».
Muro erotico
Verità nascoste
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 30.01.2016)
Il presidente della Repubblica ha detto che i settanta anni di pace e di sviluppo in Europa sono fondati anche «nel sangue e nella terra fredda, mista a cenere» dei campi di concentramento tedeschi. L’affermazione del presidente è involontariamente ironica: a minare oggi la credibilità dell’Europa e dell’Occidente, è proprio la soluzione data alla catastrofe etica di cui sono stati espressione i campi di annientamento degli ebrei.
Addossando l’intera responsabilità all’eccezionalità del mostro nazista, come se questo mostro fosse nato dal nulla, senza il fallimento di tutti, ci siamo affidati, di fatto, alla logica della colpa di un popolo, quello tedesco.
Espiata la colpa (nel tempo necessario di una lunga sofferenza), siamo al punto di partenza. L’occidente non ha voluto vedere nello sterminio il risultato di una sua grave difficoltà a costruire un senso d’identità eccentrico al suo centro di gravità, aperto senza possibilità di ritorno alle trasformazioni. È un’impasse storica delle civiltà il misconoscimento della loro co-costituzione con il barbaro, lo straniero.
L’ebraismo è stato storicamente una componente fondante della civiltà occidentale (insieme alla cultura greco-romana, il cristianesimo e l’illuminismo ateo), ma anche la parte che più l’ha estroversa, l’ha spinta verso il decentramento, l’esilio da se stessa. Ha posto un problema -la capacità di desiderare il diverso nel punto in cui più destabilizza la nostra autoreferenzialità - che l’occidente, nel momento più decisivo della sua storia, ha rimosso. Nelle rimozioni trovare una meta appropriata al desiderio è l’ultima delle preoccupazioni. Piuttosto che estrovertirci, riaprendosi all’alterità, abbiamo usato la parte estrovertente di noi per occupare la terra di altri.
Gli ebrei riaccolti nella nostra civiltà sono stati usati come nostra enclave nel mondo musulmano. Mandarli via dalla loro casa (l’Europa), perché tornassero a casa loro, che loro non era (Palestina), è stata la forma paradossale con cui si è estrinsecato il nostro rifiuto di lasciarci attrarre, prendere da un altro luogo/modo di essere e la scelta di trattare la casa altrui come estensione della nostra.
Recentemente, il libro premiato di una scrittrice israeliana, che racconta l’amore tra un’ebrea e un palestinese, è stato escluso dalla lista dei libri adottati dai licei. Secondo il ministero d’istruzione israeliano le relazioni intime tra ebrei e non ebrei potrebbero rappresentare una «minaccia alle identità separate»: «Gli adolescenti tendono a romanticheggiare e non includono nel loro punto di vista considerazioni sulla preservazione dell’identità nazionale e sul significato dell’assimilazione».
Nella censura dell’incontro erotico tra ebrei e palestinesi, ciò che preoccupa le autorità israeliane -per loro stessa ammissione - non è tanto una relazione sessuale di per sé, quanto la sua trasformazione in matrimonio, in una compenetrazione stabile che porti a una mescolanza profonda di identità che devono restare separate. Questa censura getta luce sulla vera linea di demarcazione tra il mondo occidentale e il mondo islamico.
Il muro materiale che separa Israele dai territori arabi è la rappresentazione simbolica di una divisione erotica che congela la nostra esistenza.
Lo scambio tra culture diverse e la loro integrazione in uno spazio più ampio, che le trascende, è impossibile senza il desiderio erotico che fa attraversare i confini: l’interdizione dei matrimoni misti è l’indicatore più sicuro della loro incapacità di comunicare.
Chi porta nelle vene tracce di «sangue impuro» (simbolo di amori proibiti) non dorma tranquillo.
Giornata della Shoah: Israele in raccoglimento *
L’ondata di sdegno per le parole del presidente iraniano Ahmadinejad si è sovrapposta alla commemorazione della Giornata annuale della Shoah. Per ricordare i sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti l’intero paese stamani si è fermato per due minuti di raccoglimento mentre in tutto il territorio risuonavano le sirene. «Israele è forte, e una seconda Shoah non avverrà » ha assicurato il premier Benyamin Netanyahu.
Alle solenni cerimonie nazionali (a cui ieri hanno partecipato le massime cariche istituzionali) si è sovrapposto lo sdegno per l’intervento ieri alla Conferenza dell’Onu sul razzismo del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.
Le consuete cerimonie del ’Yom ha-Shoah’ (la giornata dell’ Olocausto) si svolgono dunque in un clima di particolare indignazione. Nelle scuole le lezioni odierne sono dedicate allo sterminio del popolo in ebraico in Europa, mentre alla Knesset (parlamento) saranno letti per diverse ore i nomi di ebrei uccisi dai nazisti. Da ieri nell’intero Paese viene osservato il lutto nazionale.
In Israele la Giornata della Shoah viene celebrata otto giorni prima della Giornata dell’Indipendenza: un modo di sottolineare le vicissitudini del popolo ebraico nel secolo scorso, dal baratro delle persecuzioni alla vetta della conquistata libertà.
* l’Unità, 21 aprile 2009
Israele non fischia l’inizio
Stop alle calciatrici di Gaza
Dovevano arrivare a Roma venerdì, le ragazze della squadra di calcio dell’Università Al Aqsa di Gaza invitata a partecipare alla manifestazione Sport sotto assedio. Ma da due giorni, le calciatrici sono bloccate al valico di Erez: Israele non concede il permesso di uscire dal paese.
Una piccola storia che racconta perfettamente le condizioni di vita nella Striscia di Gaza, dove, tra l’altro, da cinque giorni il governo israeliano ha tagliato l’elettricità. Le ragazze dovrebbero prendere parte alla carovana che dal 3 al 28 novembre toccherà numerose città italiane, tra cui Bergamo, Milano, Brescia, Pisa, Reggio Calabria e Roma. Sport sotto l’assedio è una manifestazione giunta ormai alla sua quarta edizione che si propone di sostenere l’attività sportiva in Palestina e soprattutto di raccontare in Italia le condizioni del popolo palestinese, proprio a partire dalle storie delle sportive che hanno affrontato scelte di vita coraggiose.
È andata meglio alle colleghe della squadra di basket, l’IBDAA Cultural Center del campo profughi di Deheishe, vicino Betlemme, che invece sono già riuscite a raggiungere la Giordania e sono in volo per l’Italia. Le ragazze incontreranno i rappresentanti ministeriali e delle istituzioni locali, gli studenti e le studentesse delle scuole superiori e delle università e si confronteranno in incontri sportivi con squadre italiane.
Sembra incomprensibile il divieto di oltrepassare la frontiera imposto da Israele: le ragazze di Gaza hanno tutti i documenti in regola, oltre all’invito ufficiale del Ministero degli Affari Esteri italiano. Restano ventiquattrore di tempo per dare il loro contributo ai «percorsi di educazione allo sport come strumento di dialogo e di convivenza».
Intanto, si è giocata a Roma, in piazza del Campidoglio una partita simbolica per protestare contro le autorità israeliane. E per chiedere al sindaco Veltroni di «concedere alle atlete la cittadinanza onoraria perché loro sono le vere ambasciatrici di pace e libertà».
* l’Unità, Pubblicato il: 02.11.07, Modificato il: 02.11.07 alle ore 15.07
Presentato al Nuovo Sacher "Meduse" di Etgar Keret e Shira Geffen, distribuito nel nostro Paese
dal regista del "Caimano". Che in conferenza stampa si improvvisa intervistatore...
Sorpresa, in Israele non c’è solo guerra
In Italia il film-cult amato da Moretti
Un’opera corale, intimista, su temi come l’abbandono, la solitudine e i legami familiari
Gli autori: "A Tel Aviv non solo morti e bombe, ma anche la vita vera"
di CLAUDIA MORGOGLIONE *
ROMA - Sono due i motivi di interesse di Meduse, film israeliano, grande successo in patria e in Francia, che sbarca nelle nostre sale il 16 novembre. Primo: è una storia ambientata a Tel Aviv, ma non ha nulla a che fare con la guerra, col terrorismo, con l’infinita questione palestinese. Visto che si concentra sui drammi interiori, sulle ferite familiari e sentimentali dei personaggi. Secondo: qui in Italia il film ha uno sponsor eccellente, Nanni Moretti. Che lo distribuisce, con la sua Sacher; fa da padrone di casa all’anteprima e conferenza stampa di oggi; e nell’occasione si improvvisa pure moderatore e giornalista, ponendo lui le domande alla coppia di registi, Etgar Keret e Shira Geffen (marito e moglie, nella vita).
GUARDA LE FOTO - - GUARDA IL VIDEO
Insomma, un Moretti più che mai deciso ad appoggiare l’uscita della pellicola. Proprio qualche giorno prima della presentazione ufficiale della sua nuova avventura, quel Festival di Torino di cui è diventato direttore artistico. Ma se pensate che, viste le esigenze promozionali di Meduse, il regista del Caimano cambi il suo modo di porsi verso la stampa, sbagliate di grosso: è sì generoso nel porre i quesiti ai due autori, ma poi, alla prima domanda di un cronista a lui, scompare. Proprio nel momento in cui i due cineasti ospiti fanno un elogio al suo modo di fare cinema: "Per noi Moretti è un eroe, siamo fan di tutti i suoi film - raccontano - per noi è un punto di riferimento, che la libertà e il coraggio di esprimersi nella maniera che ritiene giusta".
Intanto, però, lui ha ormai lasciato la sala. E per fortuna che Meduse - storia corale centrata su alcuni personaggi, soprattutto donne, che si incontrano o si sfiorano, in una Tel Aviv malinconica ma assolutamente pacifica - è piaciuto, a una buona fetta della platea di critici. Come dimostra l’applauso a fine proiezione.
E, come inevitavile, la curiosità dei presenti è tutta per la scelta dei due registi di abbandonare completamente il cliché del Paese in guerra. "Qui non parliamo del conflitto esterno, ma di quello interno dei protagonisti", spiega Shira Geffen, il cui prozio è il leggendario generale israeliano Moshe Dayan. E suo marito aggiunge: "E’ vero che il problema mediorientale per noi è importante; e quindi è naturale che tanti autori girino film su questo argomento. Ciò che non è naturale, invece, è che vengano fatti film solo su questo tema: noi lì non è che viviamo dentro la Cnn, dentro un notiziario h24, ma dentro la vita vera. In cui non ci sono solo uccisioni, esplosioni, tensioni, ma anche altro. E comunque bisogna ricordare che anche nelle situazioni di guerra le cose che contano sono sempre le stesse: i problemi familiari, il partner che ci lascia...".
Tutte situazioni su cui è, appunto, centrato il film. Costruito su una serie di personaggi tra loro diversi. Come Batya (Sarah Adler), di famiglia benestante ma lacerata, che lavora come cameriera ai matrimoni, e che in spiaggia incontra una bambina (Nikol Leidman) che le cambia la vita. Come Keren (Noa Knoller), che si rompe una gamba il giorno delle nozze, e che nella sua improvvisata luna di miele in un albergo di Tel Aviv viene in contatto con una donna affascinante e misteriosa. O come Joy, filippina immigrata che ha lasciato a casa il figlio di cinque anni, badante di un’anziana con un rapporto difficile con la figlia attrice. Storie parallele, unite da un filo sottilissimo, che affrontano temi seri, come l’abbandono, la solitudine, il suicidio. E in cui la speranza appare come qualcosa di pallido, di tenue.
Il tutto in un’atmosfera lieve, dolente, come sospesa. "E’ vero - confermano i registi - abbiamo scelto di evitare un tono iperrealista, preferendo un approccio più da fiaba". Un’operazione che, almeno a giudicare dalle reazioni dei paesi in cui il film è stato distribuito, al pubblico piace: "Credo che sia perché gli spettatori si sentono in sintonia con i temi centrali della storia, e cioè il passato e l’infanzia", spiega Shira Geffen. "Ma credo ci sia anche dell’altro - aggiunge Etgar Keret - come dimostra il sollievo che hanno provato i nostri produttori francesi, quando gli abbiamo parlato di Meduse: ’E’ il primo film israeliano’, ci hanno detto, ’in cui la gente non uccide, non urla, non tira bombe!’".
* la Repubblica, 31 ottobre 2007.