[...] RITRATTO DI UN PAESE DIFFICILE.
I nostri figli ci chiedono dell’Olocausto e non è facile parlarne: è il motivo per cui non ci sentiamo a casa nostra nel mondo e ora, anche qui dove viviamo, la terra si muove sotto i nostri piedi.
Negli ultimi anni i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco e ha prevalso la percezione della minaccia.
In questi ultimi sessant’anni non è trascorso un giorno senza che i confini del nostro paese mutassero generando incertezza. C’è stato un breve periodo in cui incominciammo a conoscere il gusto inebriante di essere accettati.
Oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite può trattarci come una piaga esistenziale che deve essere eliminata. [...]
Se Israele potesse pensare il futuro
di DAVID GROSSMAN (la Repubblica, 02.03.2007, pp. 1/52-53)
Faccio parte della generazione del primo decennio dopo la Shoah (uso il termine ebraico, piuttosto che quello di Olocausto). Sono nato nel 1954; e come i miei compagni, ho conosciuto i superstiti.
Li abbiamo visti, i sopravvissuti della Shoah, li abbiamo sentiti a volte urlare di notte nei loro incubi. Quando trovavamo il coraggio di chiedere ai nostri genitori di raccontarci quelle esperienze, spesso rifiutavano di parlarne. Siamo cresciuti in questo silenzio. Una ventina d’anni dopo, il mio primogenito, che aveva appena tre anni, è tornato dall’asilo sconvolto e mi ha chiesto cos’era la Shoah, chi erano i nazisti, cosa ci avevano fatto e perché lo avevano fatto. E ho scoperto all’improvviso la mia riluttanza a parlarne a mio figlio. Perché mi rendevo conto che una volta esposto alla nozione di quelle atrocità, al paesaggio della crudeltà del genere umano, quel bambino ancora così candido e ingenuo sarebbe stato in qualche modo contaminato, cambiato. Non sarebbe stato mai più lo stesso. E pensavo che mentre altrove, in altre culture, i genitori sono imbarazzati quando devono esporre ai loro figli i fatti della vita, noi qui dobbiamo incominciare dai fatti della morte, così strettamente intrecciati con la nostra vita qui.
Farò una brevissima «visita guidata» in quest’area sconvolta da una catastrofe, dove i fatti della vita e i fatti della morte sono legati a doppio filo nella nostra psiche, nel nostro essere ebrei e israeliani.
Ricorderò un episodio che mi è stato raccontato una volta da due fratelli nati a Vilnius, in Lituania. Erano bambini durante la Seconda guerra mondiale, e un pomeriggio stavano giocando a calcio con alcuni amici nel cortile della loro scuola, quando improvvisamente ci fu una retata in città, e vennero catturati.
Un’ora dopo erano già rinchiusi nel treno che li portava al campo di sterminio. E guardando fuori, attraverso le fessure del vagone videro i loro amici che continuavano a giocare a pallone nel cortile della scuola. Per loro fu l’esperienza cruciale, della quale vollero dare testimonianza, dopo i lunghi anni di sofferenze della Shoah: quest’insulto profondo, e la nozione di quanto fosse facile strapparli al tessuto della vita, alla loro realtà quotidiana. Per me questa storia ha un’eco più vasta.
RITRATTO DI UN PAESE DIFFICILE.
I nostri figli ci chiedono dell’Olocausto e non è facile parlarne: è il motivo per cui non ci sentiamo a casa nostra nel mondo e ora, anche qui dove viviamo, la terra si muove sotto i nostri piedi.
Negli ultimi anni i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco e ha prevalso la percezione della minaccia.
In questi ultimi sessant’anni non è trascorso un giorno senza che i confini del nostro paese mutassero generando incertezza C’è stato un breve periodo in cui incominciammo a conoscere il gusto inebriante di essere accettati.
Oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite può trattarci come una piaga esistenziale che deve essere eliminata.
È quasi una parabola della facilità con cui tuttora gli ebrei possono essere sradicati dalle società, dai paesi, dagli Stati in cui sono vissuti, a volte per generazioni. In quei paesi e in quelle società, anche quando riescono ad assimilarsi, in un certo senso rimarranno sempre stranieri, si muoveranno come se fossero perennemente circondati da una linea punteggiata.
Per me, la mancanza di fiducia esistenziale è uno dei sintomi tipici della condizione ebraica, da generazioni e forse da millenni; il fatto che noi ebrei non ci sentiamo a casa nostra nel mondo - una sensazione giunta alla sua manifestazione più orrenda al tempo della Shoah.
A cinquantanove anni dalla nascita dello Stato di Israele ci rendiamo conto di aver portato anche qui questo senso di incertezza. Benché viviamo da quasi sei decenni nel nostro Stato sovrano, la terra continua a muoversi sotto i nostri piedi. La nostra esistenza non ci è garantita. Lo Stato di Israele è stato fondato per dare una casa e un rifugio al popolo ebraico, ma chiaramente questo non è il miglior rifugio per gli ebrei, non è un luogo ove possano stare al sicuro. Al contrario, spesso vediamo che gli ebrei sono il bersaglio di una violenza incessante, e la nostra esistenza qui è in gioco, forse più che in molti altri luoghi del mondo. Sfortunatamente, Israele non è ancora per noi ciò che avremmo voluto, il luogo in cui ogni ebreo possa sentirsi assolutamente a casa sua, come si sente ciascuno di voi nel proprio paese. Agli israeliani manca tuttora questo senso di tranquillità e di fiducia che dovrebbe poter avere chiunque si trovi veramente a casa propria.
Ma prima di parlare di questa casa vorrei soffermarmi sui suoi muri, sui confini del nostro paese. Come sapete, in questi ultimi sessant’anni, dal giorno della nascita dello Stato di Israele, non è mai trascorso un decennio senza che i suoi confini mutassero.
Non passerò in rassegna tutte le turbolenze, le guerre e i cambiamenti delle linee di confine tra noi e i nostri vicini; basti dire che questi cambiamenti sono stati incessanti, ovviamente a nord e ad est, dove le frontiere sono più ambigue, ma anche a sud, tra noi e i nostri vicini egiziani. Nella mente degli israeliani, il solo confine stabile è quello occidentale: il mare. E mi colpisce il fatto che per noi, intuitivamente, proprio l’elemento più fluido, più labile e mutevole del paesaggio rappresenti la linea di confine più solida e stabile. Gli israeliani non hanno una nozione inerente, chiara e reale dei loro confini. Vivere così è un po’ come stare in una casa dalle pareti mobili, che vengono spostate continuamente; e non sapere mai di preciso dove finisca il proprio spazio e dove incominci quello altrui. Se uno vive in uno stato d’animo del genere, gli altri hanno sempre la tentazione di invaderlo, e per istinto tenderà all’eccesso di difesa, cioè alle reazioni aggressive. I suoi comportamenti saranno sempre caratterizzati da qualcosa di estremo, di virulento. E sarà incapace di rispondere a una situazione in maniera articolata, di percepirne le sfumature. In un certo senso, Israele sta riproducendo, ricostruendo qui una delle più tenaci anomalie che hanno caratterizzato il popolo ebraico nella diaspora, e la tragedia della sua esistenza negli ultimi duemila anni. L’anomalia di un popolo che vive presso altri popoli, il più delle volte ostili e sospettosi. Le linee di demarcazione tra gli ebrei e gli altri popoli sono state il più delle volte problematiche o non del tutto chiare; e ogni contatto rischiava sempre di essere percepito dagli uni e dagli altri come una minaccia, un pericolo di penetrazione in aree di identità sensibili e potenzialmente esplosive.
Io sogno il giorno in cui lo Stato di Israele avrà finalmente frontiere stabili, fisse e difendibili, riconosciute dalle Nazioni Unite e dal mondo intero, compresi i paesi arabi, gli Stati Uniti e ovviamente l’Europa. Frontiere fissate con un processo non unilaterale, attraverso negoziati con gli ex nemici e accordi reciproci, e non come sta facendo oggi Israele, con l’imposizione del muro di cui si sta circondando. Il senso di questa nuova frontiera concordata sarà quello della sicurezza e dell’identità, che consentirà al popolo di Israele di sentirsi per la prima volta a casa propria. E di poter dirimere infine interiormente, per la prima volta, il dilemma che ha segnato tutta la sua esistenza.
Decidere se siamo popolo dello spazio o del tempo. Siamo il popolo dell’eternità, am leolam, come diciamo in ebraico? Seimila anni di coscienza - dice il filosofo George Steiner - sono una patria.
Dunque, siamo un popolo sei volte millenario, un popolo dell’eternità, con la nostalgia per questo luogo - Eretz Israel - ma senza fretta di stabilirci qui, anche se ci si offre questa possibilità, perché possiamo esistere anche nella sfera più universale, più astratta della religione e della cultura, della pura e semplice nostalgia. Oppure oggi siamo maturi, preparati a dare inizio a una nuova fase - una fase che sarà quella della realizzazione piena del processo iniziato nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele.
Ho parlato di spazio, ma vorrei parlare un po’ anche del tempo. A sessant’anni dalla creazione dello Stato di Israele, molti israeliani non hanno certezze sul suo futuro, e si chiedono se nei prossimi cinquanta o sessant’anni questo Stato potrà continuare a sussistere. Ovviamente ognuno di noi lo vuole fortemente, è talmente importante per il nostro stesso essere.
Ma c’è sempre una certa paura che trema nei cuori. Gli israeliani non possono essere certi di avere un futuro in Israele come può esserlo, credo, ognuno di voi nel proprio paese. Penso che probabilmente un dubbio di questo genere non sia mai venuto in mente a un cittadino egiziano, cinese, italiano, tedesco o americano. Mentre per noi è un’ombra perenne sopra le nostre teste. E’ del tutto naturale ad esempio che un giornale americano pubblichi le proiezioni sui raccolti di grano previsti negli Usa nel 2025. Ma nessun israeliano sano di mente farà mai previsioni per un futuro così lontano. E’ forse proprio per questo che spesso la politica di piano del nostro governo lascia molto a desiderare. Quanto a me, posso testimoniare che quando penso a Israele nel 2025 sento immediatamente nel mio intimo una specie di click - come se avessi violato un tabù concedendomi una dose troppo abbondante di futuro.
Il mio auspicio, la mia speranza è che se si arriverà a fissare linee di confine stabili e a risolvere i problemi tra Israele e i suoi vicini, si potrà anche incominciare a curare alcuni mali, a superare quel senso di non accettazione degli israeliani e degli ebrei. E a riconquistare una normalità politica universale che nei secoli passati è stata preclusa a noi ebrei - anche se da ormai cinquantanove anni abbiamo uno Stato. Perché questa è forse la più grande tragedia del popolo ebraico: il fatto che nel corso della storia gli altri popoli, le altre religioni, e in particolare la cristianità e l’islam, abbiano visto gli ebrei come simbolo o metafora di qualcosa d’altro - come una parabola, una lezione religiosa su un qualche peccato originale. Non lo hanno considerato mai per quello che è in sé: un popolo tra gli altri popoli - esseri umani tra gli altri esseri umani.
Sto parlando di qualcosa di molto sottile, di un senso di estraneità profonda rispetto al resto del mondo. Questo senso di alienazione esistenziale del popolo ebraico nei rapporti con gli altri popoli può forse essere veramente compreso solo dagli stessi ebrei.
Sto parlando di quell’aura di mistero, di enigma che ha avvolto il popolo ebraico nel corso delle generazioni. Un enigma che sempre di nuovo ha spinto altri popoli a cercarne la soluzione in tanti modi, attribuendo agli ebrei definizioni biologiche e razziste, o rinchiudendoli nei ghetti, dietro a steccati, confinando la loro esistenza in determinate aree, in professioni specifiche, fino all’ultimo, orrendo tentativo di dare all’enigma ebraico una «soluzione finale». Per duemila anni gli ebrei sono stati espulsi ed esiliati in tanti modi diversi, aperti o sapientemente mascherati, dalla realtà politica, dalla normalità, dalla realtà pratica di quella che viene chiamata la famiglia dei popoli, la famiglia umana. Sono stati spogliati della loro umanità, con misure a volte molto sofisticate e sapienti di demonizzazione, e a volte anche di idealizzazione. Ma demonizzare e idealizzare di fatto vuol dire la stessa cosa: sono le due facce di una stessa medaglia, la disumanizzazione. L’ebreo è stato trattato come un’entità eccezionale, misteriosa, metafisica, metaforica, dotata di un sistema di regolazione interno, di una costituzione diversa dal comune, con poteri soprannaturali o anche di natura inferiore - come nella definizione di Untermensch coniata dai nazisti.
Giuda, il deicida, l’Anticristo, l’ebreo errante, l’eterno ebreo, l’ebreo avvelenatore di pozzi e generatore di piaghe, e naturalmente i Savi di Sion che cospirano per prendere il dominio del mondo, e tante altre figure sataniche e grottesche come quella di Shylock o altre consimili, che costellano il folklore, la religione, la cultura e persino la scienza. Forse per questo gli ebrei hanno trovato un certo conforto nell’auto-idealizzazione, nel considerarsi come il popolo eletto - una percezione che a mio parere è pure molto problematica.
Anche oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite, l’Iran, può dichiarare apertamente che Israele deve essere sradicato perché è la causa dei mali del mondo. Ai suoi occhi Israele è qualcosa come un male, una piaga esistenziale. E il suo appello trova un’accoglienza entusiastica presso molti nel mondo, provenienti da diverse religioni e culture.
Se guardiamo a un passato molto recente - gli anni 1993-1994, all’inizio del processo di Oslo - possiamo ricordare un cambiamento straordinario della percezione che gli israeliani avevano del mondo e di se stessi. In quel breve periodo gli israeliani incominciarono a conoscere il gusto inebriante di far parte di un mondo nuovo e moderno, di essere accettati in un’universalità più progressista, civile, liberale e laica, in una sorta di normalità: quella di un popolo tra i popoli. Si era delineata una nuova opportunità di creare tra Israele e il resto del mondo un sistema di relazioni diverso, meno convulso, più egualitario e basato sulla reciprocità. Ma fu un momento breve, troppo breve. Chiaramente, in questi ultimi anni, dopo che i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco, si sono perse le speranze e ha prevalso la percezione della minaccia, anche per l’animosità crescente del mondo nei confronti di quanto accade in Israele e a volte della sua stessa esistenza. Con il rafforzamento dell’antisemitismo, la demonizzazione di Israele, gli appelli a cancellare lo Stato ebraico. Tutto questo ha risucchiato di nuovo gli israeliani nella tragica ferita ebraica, ravvivando le cicatrici più dolorose, le memorie più paralizzanti. Tanto che anche gli israeliani da sempre più aperti alle opportunità, alle speranze, alla possibilità di rigenerarsi, quella parte di Israele che per noi è stata una sorta di permanente promessa, in questi ultimi anni, si va riducendo sempre più, viene spazzata via, ricacciata nei vecchi canali traumatici e dolorosi della storia e della memoria del popolo ebraico.
L’ansia ebraica, l’esperienza della persecuzione, il passato di vittime, il senso di isolamento e di solitudine nel mondo sono profondamente incisi in noi, nella nostra psiche collettiva. Perché per noi la paura esiste tuttora. A volte è deprimente constatare fino a che punto è sempre presente. Quando mi trovo all’estero, soprattutto in Europa, mi capita spesso di notare che quando si parla della Shoah si fa riferimento a ciò che accadde allora, in un tempo passato - mentre quando ne parliamo noi, in ebraico o in qualunque altra lingua, ci riferiamo in cui quei fatti sono accaduti là: c’è una differenza enorme, gigantesca, tra il concetto del «quando» e quello del «dove». Chi parla degli eventi collocandoli nel tempo si riferisce a un passato che non si ripeterà mai. Chiuso. Mentre se li riferiamo a un luogo, ciò significa che nell’ambito delle potenzialità dei comportamenti umani, da qualche altra parte, in parallelo con la nostra esistenza qui, quel pericolo può sempre ripresentarsi. A questo gli israeliani non sfuggono. Come se fossero condannati a questo modo di percepire la realtà dall’intensità e dall’unicità del trauma subito, ma anche dalla reiterazione delle minacce che incombono su Israele.
Ancora una volta dobbiamo constatare che anche l’ultima generazione di israeliani - i «nuovi ebrei», che pure credevamo ormai liberati dalle ansie dei loro genitori - si è confrontata ogni giorno con la memoria della Shoah, quasi condannata a tornare continuamente su quel passato, a tutti i livelli della vita, nelle associazioni, nei codici di comportamento, nella visione del mondo, nelle decisioni etiche e politiche, e fin nelle più piccole cose, nei problemi minuti della vita quotidiana. Sempre di nuovo ci rendiamo conto che anche se non lo vogliamo, siamo sempre sotto la greve ombra di quanto è accaduto là, in quel paese. Siamo sempre i piccioni viaggiatori della Shoah. Sarà molto difficile per gli israeliani liberarsi dalle loro ansie, dalle distorsioni causate dal loro passato, dalla guerra, dalla violenza che sperimentano ogni giorno, così come è difficile a volte per una persona liberarsi da un difetto, da una tara fisica o mentale attorno al quale si è costruita tutta la sua personalità. A volte mi sembra che la nostra tragica storia, insieme alla tragica situazione che viviamo qui in Medio Oriente, ci ricada addosso proprio come una tara, personale e nazionale. Molti di noi si sono ormai assuefatti alla distorsione della nostra situazione, tanto che rifiutano di credere alla possibilità di alternative. C’è chi si costruisce tutta un’ideologia politica e religiosa per garantire la continuità di questa deformazione. Sono questi i pericoli reali che Israele deve superare al più presto.
Questo paese ha bisogno di vivere l’esperienza della pace, e non solo perché la pace è fondamentale per la sua sicurezza, la sua economia eccetera, ma anche per essere in grado, in un certo senso, di conoscere se stesso, prendendo coscienza di quanto è ancora incapsulato, come in letargo nel suo essere. Per scoprire i percorsi della sua identità e del suo carattere, le opzioni esistenziali che sono state volontariamente sospese in attesa che la guerra finisca, in attesa che sia consentito e legittimo vivere pienamente la vita, esplorarne tutte le dimensioni, e non soltanto quella ristretta della sopravvivenza ad ogni costo. E’ questa la capziosa trappola che per generazioni si è chiusa su noi ebrei e israeliani. Siamo un popolo che in tutta la sua storia è sopravvissuto per vivere la sua vita; ma ora viviamo solo per sopravvivere. E questo è nulla. La vita è molto più della mera sopravvivenza - soprattutto quando si può disporre di una potenza militare capace di garantire, o di sostenere nella realtà, qualche passo più coraggioso e razionale. A volte, quando sento gli israeliani - a volte anche giovanissimi - parlare di se stessi, delle loro ansie, del fatto che non osano neppure aspirare a un futuro migliore, quando mi si rivela, in me stesso o in chi mi è vicino, l’intensità dell’ansia esistenziale, il peso della memoria storica, misuro tutta la profondità di questo danno, della cicatrice che la storia ha inciso su di noi. In un clima di pace durevole e stabile potremo forse guarire da queste tare, da queste ansie.
Se Israele sarà in pace coi suoi vicini, potrà avere l’opportunità di esplorare e di esprimere tutti i suoi talenti, la sua unicità, e di sperimentare in condizioni normali quanto è capace di realizzare in quanto popolo, in quanto società. Si vedrà se nello Stato di Israele si saprà creare una realtà a un tempo spirituale e pratica, piena di vita e di ispirazione e di spirito di solidarietà; se noi, cittadini israeliani, sapremo liberarci da quella metafora distruttiva che altre nazioni hanno proiettato su di noi, vedendo in noi gli eterni stranieri, gli scomunicati, in perenne nomadismo tra altri popoli, se sapremo tornare ad essere un popolo di carne e di sangue, e non solo un simbolo, non solo un’idea astratta o una favola o uno stereotipo. Né idealizzati né demoni, ma un popolo sulla sua propria terra, un popolo il cui paese sia circondato da confini internazionalmente e pacificamente convenuti e difendibili. Un popolo che possa godere non solo di un senso di continuità e di sicurezza, ma anche di una rara esperienza di realtà, di concretezza, di essere infine parte della vita e non di una storia più grande della vita, come nel nostro passato. Forse allora gli israeliani saranno capaci di sperimentare e di gustare qualcosa che dopo sei decenni di indipendenza ancora non conoscono realmente: un profondo senso di sicurezza, di sicurezza esistenziale, qualcosa che vorrei chiamare una solidità dell’esistenza, così come la esprimiamo in maniera commovente nella nostra preghiera del sabato sera, la preghiera di Mussaf: «Che tu possa piantarci entro i nostri confini».
Voi delegati, che risiedete qui in rappresentanza dei vostri rispettivi paesi, avete un ruolo importantissimo da svolgere per venire incontro a queste speranze e aspirazioni. Per molti versi, Israele non è uno Stato come gli altri coi quali intrattenete le vostre relazioni. Se volete svolgere un ruolo positivo in quest’area, aiutando Israele a risolvere i conflitti con i suoi vicini e i suoi nemici, dovrete essere attenti non solo come diplomatici ma come esseri umani, non solo nel vostro ruolo formale di rappresentanti di uno Stato estero, ma quasi come psicologi, per poter cogliere tutte le sfumature, tutti i moti, anche i più sottili, che attraversano l’anima, la psiche degli israeliani. Essere attenti alle loro ansie, alla loro esperienza di vita, che è veramente unica. E aiutarli a distinguere tra le paure immaginarie, risultanti dai traumi passati, dagli echi della loro storia, e i pericoli reali e concreti che devono affrontare nella loro vita d’ogni giorno. La vostra responsabilità, il vostro impegno per il bene di Israele e la sua stessa esistenza nasce anche al fatto che una parte non piccola delle infermità e delle debolezze di questo paese è il risultato, la conseguenza di quello che è stato l’atteggiamento dell’Europa, l’atteggiamento del mondo intero verso gli ebrei.
Certo, Israele non è al disopra di ogni critica. Credo sia vostro dovere criticare Israele quando lo merita, ma al tempo stesso aiutare questo paese a non ricadere sempre di nuovo nelle trappole che gli sono tese dalle sue stesse debolezze. E far sentire agli israeliani ciò che nel loro intimo ancora non riescono a credere: che possono avere un posto sicuro e legittimo nel mondo. Che il mondo può essere la casa, la patria degli ebrei. Dovete ricordare loro che esistono alternative a una vita di violenza, di odio e di paura. E fare di tutto per rendere possibile un clima che dia a Israele la possibilità di comunicare coi suoi vicini, per poter essere in grado di realizzare lo straordinario potenziale umano che abbiamo qui. Potete fare molto più di quanto state facendo oggi. Non lasciate nelle sole mani degli americani tutta la responsabilità di quest’opera di mediazione per arrivare alla pace tra Israele e i suoi vicini. Perché gli americani - sono spiacente di dirlo - in questi ultimi anni non stanno facendo quasi nulla, e a volte fanno anzi di tutto per precludere ogni possibilità di dialogo tra Israele e i suoi vicini. Come stanno facendo proprio in questi giorni, con riguardo ai negoziati, possibili e auspicabili, con la Siria. Non esitate. E tenete presente che in periodi come quello attuale, quando si è in presenza di un vuoto d’azione, un vuoto di visione, di leadership a livello mondiale, è assai più facile agire per il cambiamento. La storia non vi perdonerà se continuerete a rimanere in disparte, permettendo a Israele e ai suoi vicini di lasciar passare invano gli ultimi margini di tempo utili, quando è ancora possibile risolvere questo conflitto. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
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Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un’unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l’un l’altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi � il nostro doppio, la nostra tragedia � e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all’esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest’ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.
Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all’occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell’operazione non ha risolto le cause che l’hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all’occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l’esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L’offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un’altra generazione di palestinesi crescerà nell’odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l’operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c’è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.
Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un’esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l’opinione pubblica israeliana all’arroganza e al compiacimento nell’uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest’ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un’alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.
Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un’opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti.
Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.
Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall’esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati. Traduzione di A. Shomroni
Oggi e domani incontro internazionale a Mauthausen nel 63 esimo
anniversario della liberazione del campo di concentramento austriaco
Lettera di Napolitano ai giovani
"Ricordare la Shoah è un dovere"
Lungo messaggio scritto ai giovani italiani in pellegrinaggio
"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario"
ROMA - "Cari giovani, trasmettere da una generazione all’altra la memoria del nostro passato non è un rito che si tramanda. E’ un dovere che si ha il dovere di adempiere...". E’ un dovere, quindi, ricordare sempre e comunque e possibilmente con la stessa intensità e indignazione che la Shoah ha sterminato sei milioni di ebrei. Le centinaia di giovani italiani che oggi e domani partecipano nel campo di prigionia nazista di Mauthausen alla giornata del ricordo delle vittime del nazismo saranno "accompagnati" in questo viaggio da una lettera-messaggio del presidente Giorgio Napolitano.
L’incontro internazionale avviene nel 63 esimo anniversario della liberazione dei prigionieri del lager e, simbolicamente, nel luogo dove del campo dove è custodita l’urna con le ceneri trovate il 5 maggio 1945 all’interno dei forni di Mauthausen. Nel campo di concentramento austriaco, costruito nel 1938, e in quelli adiacenti, furono uccise oltre 100.000 persone. Il 5 maggio 1945 venne raggiunto da una truppa di carri armati americani: la data viene da allora ricordata come Giornata della liberazione. La due giorni ha carattere ecumenico. Sono previsti gli interventi del vescovo della diocesi di Linz, monsignor Ludwig Schwarz, dal metropolita greco-ortodosso Michael Staikos e dal vescovo evangelico Michael Bünker. La commemorazione proseguirà con un discorso del cancelliere federale Alfred Gusenbauer e gli interventi di Hans Marsalek, ex-prigioniero del lager e del presidente del "Comité International de Mauthausen", Walter Beck di Praga. Poi mostre, libri e altri interventi.
La lettera del presidente Napolitano sarà letta ai ragazzi italiani nel momento del raccoglimento. Una tempistica che farà risaltare ancora di più il contenuto del messaggio profondo e importante che il Presidente ha voluto scrivere a questi ragazzi.
"La Shoah tragedia immane". "Cari giovani, la vostra partecipazione all’incontro internazionale di Mauthausen vi porta molto lontano dalla realtà odierna dell’Europa unita, dell’Europa di pace e armonia fra i popoli, in cui voi avete la fortuna di vivere. Eppure, non è molto il tempo trascorso da quando questo era un luogo di sterminio di moltitudini di esseri umani: donne e uomini che venivano trasportati da ogni parte d’Europa in questo e in altri lager nazisti per trovarvi la morte, come animali condotti al macello. La Shoah, l’eliminazione di tutti gli Ebrei, decisa e realizzata dalla Germania nazista con l’appoggio dei regimi suoi alleati, fu una tragedia immane - si legge ancora nella lettera di Napolitano- che non ha precedenti nella storia d’Europa. Le vittime furono 6 milioni".
Non si può accettare ciò che è stato. "Non e’ facile per voi accettare ciò che è stato - scrive ancora il presidente della Repubblica - trovare una risposta alle domande che in questo luogo e in questo momento vi ponete. Sappiamo bene ciò che voi oggi vi chiedete, perchè, prima di voi, noi ci siamo posti le stesse domande. Come ciò è potuto accadere? Come è potuta scaturire, dall’interno della nostra antica civiltà, e come può essersi imposta a popoli di grandi tradizioni culturali, una tale dottrina di morte?". Ed ancora, "come puo’ essere stata organizzata una tale gigantesca macchina operativa per l’annientamento preordinato di milioni e milioni di persone, private della loro identità umana ancor prima che della loro vita?".
Levi e Wiesel. Napolitano sottolinea che "sia Primo Levi che Elie Wiesel hanno detto: comprendere è impossibile; conoscere è necessario. Questo- osserva il presidente della Repubblica- è il compito amaro, angoscioso, che voi oggi affrontate. Vi è stato proposto, e voi avete accettato di compiere, questo pellegrinaggio, nella convinzione che occorre conoscere il passato, affinchè esso non possa ripetersi".
Il dovere della memoria. Secondo il capo dello Stato, "trasmettere da una generazione all’altra la memoria del nostro passato non è un rito che si tramanda. E’ un dovere che si ha il dovere di adempiere. Non dimenticate- si legge ancora- che fu la scoperta dei campi di concentramento e di sterminio, insieme con lo spettacolo delle immani distruzioni belliche, e il ricordo delle decine di milioni di morti provocate dai conflitti del secolo, che spinse i sopravvissuti, di tutte le nazioni, a dire: mai piu’ guerre tra noi".
Un’opera che va completata. Subito dopo la scoperta dei campi, appena mezzo secolo fa, continua il Presidente, "ebbe inizio l’opera non facile di costruzione di nuove istituzioni di pace, ancora incompiute, ma oramai estese a quasi tutti i popoli del nostro continente. Toccherà a voi - e’ l’esortazione finale ai giovani in visita a Mauthausen - nel corso della vostra vita, il compito di completare l’opera; e quello, forse ancora piu’ difficile, di portare, con impegni ed azioni concrete, in un mondo ancora insanguinato da troppi conflitti, il nostro messaggio di pace".
* la Repubblica, 17 maggio 2008
Comunicato dell’Associazione del 10.01.2007
L’Associazione dei Giuristi Democratici Italiani
ESPRIME VIVA PREOCCUPAZIONE
per il drammatico evolversi della situazione palestinese,
RIAFFERMA
il valore essenziale dei principi della pace, della salvaguardia del diritto internazionale, dei diritti umani e del diritto di autodeterminazione dei popoli, e quindi
CONDANNA
il persistere dell’illecita occupazione, da parte dell’esercito israeliano, dei territori assegnati dalle risoluzioni dell’ONU, al popolo palestinese, e le continue incursioni militari israeliane su detti territori, che hanno causato centinaia di vittime innocenti nel corso dell’anno appena terminato;
il lancio di missili sul territorio israeliano, anch’esso causa di vittime innocenti, e ogni atto di terrorismo contro le popolazioni civili;
ESPRIME LA PROPRIA INQUIETUDINE
su alcuni recenti sviluppi dell’ordinamento interno israeliano che ne vedono la tendenziale trasformazione in un regime di apartheid, con inaccettabili discriminazioni a danno dei suoi stessi cittadini di origine palestinese;
CHIEDE
che Israele osservi il diritto internazionale, dando attuazione immediata alle risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ed al Parere della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2004 che ha dichiarato l’illegalità del muro in Palestina, prescrivendo che ne cessi la costruzione e venga subito smantellata la parte già eretta;
che Israele si ritiri dai territori occupati, e che, nel rispetto della risoluzione 194 dell’ONU, e non si opponga al ritorno dei profughi palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre;
che Israele cessi immediatamente le restrizioni all’afflusso di risorse al popolo palestinese ed alla libera circolazione delle persone, nonchè il versamento al governo democraticamente eletto dai palestinesi dei proventi dei tributi che Israele ha illegalmente trattenuto privando la Palestina di una vitale risorsa economica;
che Israele proceda alla liberazione immediata degli oltre diecimila palestinesi imprigionati in violazione del diritto internazionale, primo fra tutti Marwan Barghouti, ed alcuni membri dell’attuale governo;
che cessi ogni discriminazione e trattamento persecutorio contro i cittadini di origine palestinese all’interno dello Stato di Israele;
che i palestinesi rilascino il soldato israeliano da essi tenuti prigioniero;
che cessi altresì l’embargo economico degli USA e dell’ Europa nei confronti del popolo palestinese;
che gli stati dell’Unione Europea e la comunità internazionale pretendano l’osservanza da parte di Israele del diritto internazionale ed il rispetto dei diritti umani dei palestinesi, procedendo in caso contrario alla sospensione degli accordi di cooperazione commerciale in atto;
che il governo italiano sospenda immediatamente la cooperazione militare con lo Stato di Israele;
che venga convocata a breve termine una conferenza internazionale di pace che veda la proclamazione di uno Stato palestinese indipendente entro confini certi e dotato sovranità internazionalmente riconosciuta.
SOLLECITA
tutte le parti politiche palestinesi a porre fine agli insensati scontri fratricidi in atto, dando vita a colloqui per l’istituzione di un governo di unità nazionale, che possa interloquire autorevolmente sul piano internazionale;
SI IMPEGNA INFINE
ad operare per la persecuzione e la punizione dei crimini di guerra e contro l’umanità da chiunque commessi nell’area medio-orientale.
Roma, 11 gennaio 2007
Associazione Nazionale Giuristi Democratici