Guerra, sempre assurda

SHOAH. PENSARE IL FUTURO E COSTRUIRE LA PACE. IL DISCORSO - APPELLO di David Grossman, in occasione della GIORNATA EUROPEA DELLA MEMORIA, ai diplomatici accreditati in Israele - a cura di pfls

venerdì 2 marzo 2007.
 

[...] RITRATTO DI UN PAESE DIFFICILE.

I nostri figli ci chiedono dell’Olocausto e non è facile parlarne: è il motivo per cui non ci sentiamo a casa nostra nel mondo e ora, anche qui dove viviamo, la terra si muove sotto i nostri piedi.

Negli ultimi anni i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco e ha prevalso la percezione della minaccia.

In questi ultimi sessant’anni non è trascorso un giorno senza che i confini del nostro paese mutassero generando incertezza. C’è stato un breve periodo in cui incominciammo a conoscere il gusto inebriante di essere accettati.

Oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite può trattarci come una piaga esistenziale che deve essere eliminata. [...]


Se Israele potesse pensare il futuro

di DAVID GROSSMAN (la Repubblica, 02.03.2007, pp. 1/52-53)

Faccio parte della generazione del primo decennio dopo la Shoah (uso il termine ebraico, piuttosto che quello di Olocausto). Sono nato nel 1954; e come i miei compagni, ho conosciuto i superstiti.

Li abbiamo visti, i sopravvissuti della Shoah, li abbiamo sentiti a volte urlare di notte nei loro incubi. Quando trovavamo il coraggio di chiedere ai nostri genitori di raccontarci quelle esperienze, spesso rifiutavano di parlarne. Siamo cresciuti in questo silenzio. Una ventina d’anni dopo, il mio primogenito, che aveva appena tre anni, è tornato dall’asilo sconvolto e mi ha chiesto cos’era la Shoah, chi erano i nazisti, cosa ci avevano fatto e perché lo avevano fatto. E ho scoperto all’improvviso la mia riluttanza a parlarne a mio figlio. Perché mi rendevo conto che una volta esposto alla nozione di quelle atrocità, al paesaggio della crudeltà del genere umano, quel bambino ancora così candido e ingenuo sarebbe stato in qualche modo contaminato, cambiato. Non sarebbe stato mai più lo stesso. E pensavo che mentre altrove, in altre culture, i genitori sono imbarazzati quando devono esporre ai loro figli i fatti della vita, noi qui dobbiamo incominciare dai fatti della morte, così strettamente intrecciati con la nostra vita qui.

Farò una brevissima «visita guidata» in quest’area sconvolta da una catastrofe, dove i fatti della vita e i fatti della morte sono legati a doppio filo nella nostra psiche, nel nostro essere ebrei e israeliani.

Ricorderò un episodio che mi è stato raccontato una volta da due fratelli nati a Vilnius, in Lituania. Erano bambini durante la Seconda guerra mondiale, e un pomeriggio stavano giocando a calcio con alcuni amici nel cortile della loro scuola, quando improvvisamente ci fu una retata in città, e vennero catturati.

Un’ora dopo erano già rinchiusi nel treno che li portava al campo di sterminio. E guardando fuori, attraverso le fessure del vagone videro i loro amici che continuavano a giocare a pallone nel cortile della scuola. Per loro fu l’esperienza cruciale, della quale vollero dare testimonianza, dopo i lunghi anni di sofferenze della Shoah: quest’insulto profondo, e la nozione di quanto fosse facile strapparli al tessuto della vita, alla loro realtà quotidiana. Per me questa storia ha un’eco più vasta.

RITRATTO DI UN PAESE DIFFICILE.

I nostri figli ci chiedono dell’Olocausto e non è facile parlarne: è il motivo per cui non ci sentiamo a casa nostra nel mondo e ora, anche qui dove viviamo, la terra si muove sotto i nostri piedi.

Negli ultimi anni i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco e ha prevalso la percezione della minaccia.

In questi ultimi sessant’anni non è trascorso un giorno senza che i confini del nostro paese mutassero generando incertezza C’è stato un breve periodo in cui incominciammo a conoscere il gusto inebriante di essere accettati.

Oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite può trattarci come una piaga esistenziale che deve essere eliminata.

È quasi una parabola della facilità con cui tuttora gli ebrei possono essere sradicati dalle società, dai paesi, dagli Stati in cui sono vissuti, a volte per generazioni. In quei paesi e in quelle società, anche quando riescono ad assimilarsi, in un certo senso rimarranno sempre stranieri, si muoveranno come se fossero perennemente circondati da una linea punteggiata.

Per me, la mancanza di fiducia esistenziale è uno dei sintomi tipici della condizione ebraica, da generazioni e forse da millenni; il fatto che noi ebrei non ci sentiamo a casa nostra nel mondo - una sensazione giunta alla sua manifestazione più orrenda al tempo della Shoah.

A cinquantanove anni dalla nascita dello Stato di Israele ci rendiamo conto di aver portato anche qui questo senso di incertezza. Benché viviamo da quasi sei decenni nel nostro Stato sovrano, la terra continua a muoversi sotto i nostri piedi. La nostra esistenza non ci è garantita. Lo Stato di Israele è stato fondato per dare una casa e un rifugio al popolo ebraico, ma chiaramente questo non è il miglior rifugio per gli ebrei, non è un luogo ove possano stare al sicuro. Al contrario, spesso vediamo che gli ebrei sono il bersaglio di una violenza incessante, e la nostra esistenza qui è in gioco, forse più che in molti altri luoghi del mondo. Sfortunatamente, Israele non è ancora per noi ciò che avremmo voluto, il luogo in cui ogni ebreo possa sentirsi assolutamente a casa sua, come si sente ciascuno di voi nel proprio paese. Agli israeliani manca tuttora questo senso di tranquillità e di fiducia che dovrebbe poter avere chiunque si trovi veramente a casa propria.

Ma prima di parlare di questa casa vorrei soffermarmi sui suoi muri, sui confini del nostro paese. Come sapete, in questi ultimi sessant’anni, dal giorno della nascita dello Stato di Israele, non è mai trascorso un decennio senza che i suoi confini mutassero.

Non passerò in rassegna tutte le turbolenze, le guerre e i cambiamenti delle linee di confine tra noi e i nostri vicini; basti dire che questi cambiamenti sono stati incessanti, ovviamente a nord e ad est, dove le frontiere sono più ambigue, ma anche a sud, tra noi e i nostri vicini egiziani. Nella mente degli israeliani, il solo confine stabile è quello occidentale: il mare. E mi colpisce il fatto che per noi, intuitivamente, proprio l’elemento più fluido, più labile e mutevole del paesaggio rappresenti la linea di confine più solida e stabile. Gli israeliani non hanno una nozione inerente, chiara e reale dei loro confini. Vivere così è un po’ come stare in una casa dalle pareti mobili, che vengono spostate continuamente; e non sapere mai di preciso dove finisca il proprio spazio e dove incominci quello altrui. Se uno vive in uno stato d’animo del genere, gli altri hanno sempre la tentazione di invaderlo, e per istinto tenderà all’eccesso di difesa, cioè alle reazioni aggressive. I suoi comportamenti saranno sempre caratterizzati da qualcosa di estremo, di virulento. E sarà incapace di rispondere a una situazione in maniera articolata, di percepirne le sfumature. In un certo senso, Israele sta riproducendo, ricostruendo qui una delle più tenaci anomalie che hanno caratterizzato il popolo ebraico nella diaspora, e la tragedia della sua esistenza negli ultimi duemila anni. L’anomalia di un popolo che vive presso altri popoli, il più delle volte ostili e sospettosi. Le linee di demarcazione tra gli ebrei e gli altri popoli sono state il più delle volte problematiche o non del tutto chiare; e ogni contatto rischiava sempre di essere percepito dagli uni e dagli altri come una minaccia, un pericolo di penetrazione in aree di identità sensibili e potenzialmente esplosive.

Io sogno il giorno in cui lo Stato di Israele avrà finalmente frontiere stabili, fisse e difendibili, riconosciute dalle Nazioni Unite e dal mondo intero, compresi i paesi arabi, gli Stati Uniti e ovviamente l’Europa. Frontiere fissate con un processo non unilaterale, attraverso negoziati con gli ex nemici e accordi reciproci, e non come sta facendo oggi Israele, con l’imposizione del muro di cui si sta circondando. Il senso di questa nuova frontiera concordata sarà quello della sicurezza e dell’identità, che consentirà al popolo di Israele di sentirsi per la prima volta a casa propria. E di poter dirimere infine interiormente, per la prima volta, il dilemma che ha segnato tutta la sua esistenza.

Decidere se siamo popolo dello spazio o del tempo. Siamo il popolo dell’eternità, am leolam, come diciamo in ebraico? Seimila anni di coscienza - dice il filosofo George Steiner - sono una patria.

Dunque, siamo un popolo sei volte millenario, un popolo dell’eternità, con la nostalgia per questo luogo - Eretz Israel - ma senza fretta di stabilirci qui, anche se ci si offre questa possibilità, perché possiamo esistere anche nella sfera più universale, più astratta della religione e della cultura, della pura e semplice nostalgia. Oppure oggi siamo maturi, preparati a dare inizio a una nuova fase - una fase che sarà quella della realizzazione piena del processo iniziato nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele.

Ho parlato di spazio, ma vorrei parlare un po’ anche del tempo. A sessant’anni dalla creazione dello Stato di Israele, molti israeliani non hanno certezze sul suo futuro, e si chiedono se nei prossimi cinquanta o sessant’anni questo Stato potrà continuare a sussistere. Ovviamente ognuno di noi lo vuole fortemente, è talmente importante per il nostro stesso essere.

Ma c’è sempre una certa paura che trema nei cuori. Gli israeliani non possono essere certi di avere un futuro in Israele come può esserlo, credo, ognuno di voi nel proprio paese. Penso che probabilmente un dubbio di questo genere non sia mai venuto in mente a un cittadino egiziano, cinese, italiano, tedesco o americano. Mentre per noi è un’ombra perenne sopra le nostre teste. E’ del tutto naturale ad esempio che un giornale americano pubblichi le proiezioni sui raccolti di grano previsti negli Usa nel 2025. Ma nessun israeliano sano di mente farà mai previsioni per un futuro così lontano. E’ forse proprio per questo che spesso la politica di piano del nostro governo lascia molto a desiderare. Quanto a me, posso testimoniare che quando penso a Israele nel 2025 sento immediatamente nel mio intimo una specie di click - come se avessi violato un tabù concedendomi una dose troppo abbondante di futuro.

Il mio auspicio, la mia speranza è che se si arriverà a fissare linee di confine stabili e a risolvere i problemi tra Israele e i suoi vicini, si potrà anche incominciare a curare alcuni mali, a superare quel senso di non accettazione degli israeliani e degli ebrei. E a riconquistare una normalità politica universale che nei secoli passati è stata preclusa a noi ebrei - anche se da ormai cinquantanove anni abbiamo uno Stato. Perché questa è forse la più grande tragedia del popolo ebraico: il fatto che nel corso della storia gli altri popoli, le altre religioni, e in particolare la cristianità e l’islam, abbiano visto gli ebrei come simbolo o metafora di qualcosa d’altro - come una parabola, una lezione religiosa su un qualche peccato originale. Non lo hanno considerato mai per quello che è in sé: un popolo tra gli altri popoli - esseri umani tra gli altri esseri umani.

Sto parlando di qualcosa di molto sottile, di un senso di estraneità profonda rispetto al resto del mondo. Questo senso di alienazione esistenziale del popolo ebraico nei rapporti con gli altri popoli può forse essere veramente compreso solo dagli stessi ebrei.

Sto parlando di quell’aura di mistero, di enigma che ha avvolto il popolo ebraico nel corso delle generazioni. Un enigma che sempre di nuovo ha spinto altri popoli a cercarne la soluzione in tanti modi, attribuendo agli ebrei definizioni biologiche e razziste, o rinchiudendoli nei ghetti, dietro a steccati, confinando la loro esistenza in determinate aree, in professioni specifiche, fino all’ultimo, orrendo tentativo di dare all’enigma ebraico una «soluzione finale». Per duemila anni gli ebrei sono stati espulsi ed esiliati in tanti modi diversi, aperti o sapientemente mascherati, dalla realtà politica, dalla normalità, dalla realtà pratica di quella che viene chiamata la famiglia dei popoli, la famiglia umana. Sono stati spogliati della loro umanità, con misure a volte molto sofisticate e sapienti di demonizzazione, e a volte anche di idealizzazione. Ma demonizzare e idealizzare di fatto vuol dire la stessa cosa: sono le due facce di una stessa medaglia, la disumanizzazione. L’ebreo è stato trattato come un’entità eccezionale, misteriosa, metafisica, metaforica, dotata di un sistema di regolazione interno, di una costituzione diversa dal comune, con poteri soprannaturali o anche di natura inferiore - come nella definizione di Untermensch coniata dai nazisti.

Giuda, il deicida, l’Anticristo, l’ebreo errante, l’eterno ebreo, l’ebreo avvelenatore di pozzi e generatore di piaghe, e naturalmente i Savi di Sion che cospirano per prendere il dominio del mondo, e tante altre figure sataniche e grottesche come quella di Shylock o altre consimili, che costellano il folklore, la religione, la cultura e persino la scienza. Forse per questo gli ebrei hanno trovato un certo conforto nell’auto-idealizzazione, nel considerarsi come il popolo eletto - una percezione che a mio parere è pure molto problematica.

Anche oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite, l’Iran, può dichiarare apertamente che Israele deve essere sradicato perché è la causa dei mali del mondo. Ai suoi occhi Israele è qualcosa come un male, una piaga esistenziale. E il suo appello trova un’accoglienza entusiastica presso molti nel mondo, provenienti da diverse religioni e culture.

Se guardiamo a un passato molto recente - gli anni 1993-1994, all’inizio del processo di Oslo - possiamo ricordare un cambiamento straordinario della percezione che gli israeliani avevano del mondo e di se stessi. In quel breve periodo gli israeliani incominciarono a conoscere il gusto inebriante di far parte di un mondo nuovo e moderno, di essere accettati in un’universalità più progressista, civile, liberale e laica, in una sorta di normalità: quella di un popolo tra i popoli. Si era delineata una nuova opportunità di creare tra Israele e il resto del mondo un sistema di relazioni diverso, meno convulso, più egualitario e basato sulla reciprocità. Ma fu un momento breve, troppo breve. Chiaramente, in questi ultimi anni, dopo che i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco, si sono perse le speranze e ha prevalso la percezione della minaccia, anche per l’animosità crescente del mondo nei confronti di quanto accade in Israele e a volte della sua stessa esistenza. Con il rafforzamento dell’antisemitismo, la demonizzazione di Israele, gli appelli a cancellare lo Stato ebraico. Tutto questo ha risucchiato di nuovo gli israeliani nella tragica ferita ebraica, ravvivando le cicatrici più dolorose, le memorie più paralizzanti. Tanto che anche gli israeliani da sempre più aperti alle opportunità, alle speranze, alla possibilità di rigenerarsi, quella parte di Israele che per noi è stata una sorta di permanente promessa, in questi ultimi anni, si va riducendo sempre più, viene spazzata via, ricacciata nei vecchi canali traumatici e dolorosi della storia e della memoria del popolo ebraico.

L’ansia ebraica, l’esperienza della persecuzione, il passato di vittime, il senso di isolamento e di solitudine nel mondo sono profondamente incisi in noi, nella nostra psiche collettiva. Perché per noi la paura esiste tuttora. A volte è deprimente constatare fino a che punto è sempre presente. Quando mi trovo all’estero, soprattutto in Europa, mi capita spesso di notare che quando si parla della Shoah si fa riferimento a ciò che accadde allora, in un tempo passato - mentre quando ne parliamo noi, in ebraico o in qualunque altra lingua, ci riferiamo in cui quei fatti sono accaduti là: c’è una differenza enorme, gigantesca, tra il concetto del «quando» e quello del «dove». Chi parla degli eventi collocandoli nel tempo si riferisce a un passato che non si ripeterà mai. Chiuso. Mentre se li riferiamo a un luogo, ciò significa che nell’ambito delle potenzialità dei comportamenti umani, da qualche altra parte, in parallelo con la nostra esistenza qui, quel pericolo può sempre ripresentarsi. A questo gli israeliani non sfuggono. Come se fossero condannati a questo modo di percepire la realtà dall’intensità e dall’unicità del trauma subito, ma anche dalla reiterazione delle minacce che incombono su Israele.

Ancora una volta dobbiamo constatare che anche l’ultima generazione di israeliani - i «nuovi ebrei», che pure credevamo ormai liberati dalle ansie dei loro genitori - si è confrontata ogni giorno con la memoria della Shoah, quasi condannata a tornare continuamente su quel passato, a tutti i livelli della vita, nelle associazioni, nei codici di comportamento, nella visione del mondo, nelle decisioni etiche e politiche, e fin nelle più piccole cose, nei problemi minuti della vita quotidiana. Sempre di nuovo ci rendiamo conto che anche se non lo vogliamo, siamo sempre sotto la greve ombra di quanto è accaduto , in quel paese. Siamo sempre i piccioni viaggiatori della Shoah. Sarà molto difficile per gli israeliani liberarsi dalle loro ansie, dalle distorsioni causate dal loro passato, dalla guerra, dalla violenza che sperimentano ogni giorno, così come è difficile a volte per una persona liberarsi da un difetto, da una tara fisica o mentale attorno al quale si è costruita tutta la sua personalità. A volte mi sembra che la nostra tragica storia, insieme alla tragica situazione che viviamo qui in Medio Oriente, ci ricada addosso proprio come una tara, personale e nazionale. Molti di noi si sono ormai assuefatti alla distorsione della nostra situazione, tanto che rifiutano di credere alla possibilità di alternative. C’è chi si costruisce tutta un’ideologia politica e religiosa per garantire la continuità di questa deformazione. Sono questi i pericoli reali che Israele deve superare al più presto.

Questo paese ha bisogno di vivere l’esperienza della pace, e non solo perché la pace è fondamentale per la sua sicurezza, la sua economia eccetera, ma anche per essere in grado, in un certo senso, di conoscere se stesso, prendendo coscienza di quanto è ancora incapsulato, come in letargo nel suo essere. Per scoprire i percorsi della sua identità e del suo carattere, le opzioni esistenziali che sono state volontariamente sospese in attesa che la guerra finisca, in attesa che sia consentito e legittimo vivere pienamente la vita, esplorarne tutte le dimensioni, e non soltanto quella ristretta della sopravvivenza ad ogni costo. E’ questa la capziosa trappola che per generazioni si è chiusa su noi ebrei e israeliani. Siamo un popolo che in tutta la sua storia è sopravvissuto per vivere la sua vita; ma ora viviamo solo per sopravvivere. E questo è nulla. La vita è molto più della mera sopravvivenza - soprattutto quando si può disporre di una potenza militare capace di garantire, o di sostenere nella realtà, qualche passo più coraggioso e razionale. A volte, quando sento gli israeliani - a volte anche giovanissimi - parlare di se stessi, delle loro ansie, del fatto che non osano neppure aspirare a un futuro migliore, quando mi si rivela, in me stesso o in chi mi è vicino, l’intensità dell’ansia esistenziale, il peso della memoria storica, misuro tutta la profondità di questo danno, della cicatrice che la storia ha inciso su di noi. In un clima di pace durevole e stabile potremo forse guarire da queste tare, da queste ansie.

Se Israele sarà in pace coi suoi vicini, potrà avere l’opportunità di esplorare e di esprimere tutti i suoi talenti, la sua unicità, e di sperimentare in condizioni normali quanto è capace di realizzare in quanto popolo, in quanto società. Si vedrà se nello Stato di Israele si saprà creare una realtà a un tempo spirituale e pratica, piena di vita e di ispirazione e di spirito di solidarietà; se noi, cittadini israeliani, sapremo liberarci da quella metafora distruttiva che altre nazioni hanno proiettato su di noi, vedendo in noi gli eterni stranieri, gli scomunicati, in perenne nomadismo tra altri popoli, se sapremo tornare ad essere un popolo di carne e di sangue, e non solo un simbolo, non solo un’idea astratta o una favola o uno stereotipo. Né idealizzati né demoni, ma un popolo sulla sua propria terra, un popolo il cui paese sia circondato da confini internazionalmente e pacificamente convenuti e difendibili. Un popolo che possa godere non solo di un senso di continuità e di sicurezza, ma anche di una rara esperienza di realtà, di concretezza, di essere infine parte della vita e non di una storia più grande della vita, come nel nostro passato. Forse allora gli israeliani saranno capaci di sperimentare e di gustare qualcosa che dopo sei decenni di indipendenza ancora non conoscono realmente: un profondo senso di sicurezza, di sicurezza esistenziale, qualcosa che vorrei chiamare una solidità dell’esistenza, così come la esprimiamo in maniera commovente nella nostra preghiera del sabato sera, la preghiera di Mussaf: «Che tu possa piantarci entro i nostri confini».

Voi delegati, che risiedete qui in rappresentanza dei vostri rispettivi paesi, avete un ruolo importantissimo da svolgere per venire incontro a queste speranze e aspirazioni. Per molti versi, Israele non è uno Stato come gli altri coi quali intrattenete le vostre relazioni. Se volete svolgere un ruolo positivo in quest’area, aiutando Israele a risolvere i conflitti con i suoi vicini e i suoi nemici, dovrete essere attenti non solo come diplomatici ma come esseri umani, non solo nel vostro ruolo formale di rappresentanti di uno Stato estero, ma quasi come psicologi, per poter cogliere tutte le sfumature, tutti i moti, anche i più sottili, che attraversano l’anima, la psiche degli israeliani. Essere attenti alle loro ansie, alla loro esperienza di vita, che è veramente unica. E aiutarli a distinguere tra le paure immaginarie, risultanti dai traumi passati, dagli echi della loro storia, e i pericoli reali e concreti che devono affrontare nella loro vita d’ogni giorno. La vostra responsabilità, il vostro impegno per il bene di Israele e la sua stessa esistenza nasce anche al fatto che una parte non piccola delle infermità e delle debolezze di questo paese è il risultato, la conseguenza di quello che è stato l’atteggiamento dell’Europa, l’atteggiamento del mondo intero verso gli ebrei.

Certo, Israele non è al disopra di ogni critica. Credo sia vostro dovere criticare Israele quando lo merita, ma al tempo stesso aiutare questo paese a non ricadere sempre di nuovo nelle trappole che gli sono tese dalle sue stesse debolezze. E far sentire agli israeliani ciò che nel loro intimo ancora non riescono a credere: che possono avere un posto sicuro e legittimo nel mondo. Che il mondo può essere la casa, la patria degli ebrei. Dovete ricordare loro che esistono alternative a una vita di violenza, di odio e di paura. E fare di tutto per rendere possibile un clima che dia a Israele la possibilità di comunicare coi suoi vicini, per poter essere in grado di realizzare lo straordinario potenziale umano che abbiamo qui. Potete fare molto più di quanto state facendo oggi. Non lasciate nelle sole mani degli americani tutta la responsabilità di quest’opera di mediazione per arrivare alla pace tra Israele e i suoi vicini. Perché gli americani - sono spiacente di dirlo - in questi ultimi anni non stanno facendo quasi nulla, e a volte fanno anzi di tutto per precludere ogni possibilità di dialogo tra Israele e i suoi vicini. Come stanno facendo proprio in questi giorni, con riguardo ai negoziati, possibili e auspicabili, con la Siria. Non esitate. E tenete presente che in periodi come quello attuale, quando si è in presenza di un vuoto d’azione, un vuoto di visione, di leadership a livello mondiale, è assai più facile agire per il cambiamento. La storia non vi perdonerà se continuerete a rimanere in disparte, permettendo a Israele e ai suoi vicini di lasciar passare invano gli ultimi margini di tempo utili, quando è ancora possibile risolvere questo conflitto. (Traduzione di Elisabetta Horvat)


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